Ricomincio da - Cinematografo
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Ricomincio da - Cinematografo
ANTEPRIMA Ricomincio da Rocky Sylvester Stallone sul ring per la sesta volta. Per prendere a pugni la nostalgia e i 60 anni, in attesa di Rambo IV DI GIADA GRISTINA “IL NEGRO AVEVA MANDATO AL TAPPETO IL RAGAZZO Da Bogart a De Niro e Kirk Douglas: a Hollywood il ruolo del pugile è un passaggio quasi obbligato del posto. Il negro alzò il guantone… poi il bianco del posto lo colpì. Poi lui mise fuori combattimento il bianco. Poi presero tutti a lanciarsi sedie (...). Fu una grande serata di sport”. Parola di Hemingway. Dal ritmo secco di queste poche righe si capisce che la boxe è una cronaca. Una messa in fila di immagini ad alto contenuto spettacolare. Aggiungi musica, romanzo e poesia, mescola il tutto e la ricetta di genere è pronta. Chissà perché menti raffinate come quelle di Ezra Pound, Fitzgerald e lo stesso Hemingway amarono tanto uno sport che di intellettuale ha ben poco. Il fatto è che la boxe, l’anima nobile degli sport, ha in sé una fortissima componente epica e celebrativa. Il fatto è che la boxe è essenziale: una roba di uomini che si prendono a pugni fino alla resa, quasi a stabilire un antico diritto di forza, con poche concessioni al gentil sesso. Poi, naturalmente, c’è la borsa, il vile denaro. Il pugilato è tanto semplice nelle sue regole quanto povero nei suoi protagonisti. Solo oggi, in questi tempi bui, spuntano come funghi palestre di pugilato ad uso e consumo borghese. Ma, storicamente, la boxe è una questione di sangue e fame e il pugile è come una bestia virtuosa che si esibisce e lotta contro l’avversario per ragioni di prosaica sopravvivenza, vivendo ossessionato da due cose, il cibo e il peso: il cibo che non deve mancare e il peso che non deve salire. Una vita da bestia, peggio di una modella. Parecchie sequenze vengono dedicate al gravoso binomio, una su tutte le cinque uova crude che Rocky ingurgita ogni mattina, prima di allenarsi, ma anche l’atavica fame di De Niro in Toro scatenato, metafora di una fame esistenziale di rivalsa che alla fine – trenta chili dopo - lo metterà in ginocchio. E quell’ultimo sguardo nello specchio, prima dell’amara ribalta, sembra capovolgere il senso di tutto, restituendo l’immagine della sconfitta, del peggior knock out di tutta una carriera. Il ruolo del pugile sembra essere una tappa fissa per ogni attore che si rispetti: Kirk Douglas nel Grande campione, Paul Newman in Lassù qualcuno mi ama, Humphrey Bogart nel Colosso d’argilla e il già citato De Niro in Toro scatenato. Ma nessuno, come Sylvester Stallone, sembra vestire i panni del boxeur con tanto zelo e convinzione. Nel 1976 Sly fa bingo, scrivendo ed interpretando lo straordinario Rocky: lo stallone italiano che dal nulla arriva a combattere per il titolo mondiale, celebrando così uno dei punti fermi della cultura stelle e strisce, la retorica favoletta del sogno americano. Rocky diventa un mito tale da giustificare cinque sequel. Ma il vero capolavoro resta il primo capitolo, firmato da John Avildsen, che non ha più fatto un film così bello in vita sua. Del resto anche Stallone, se si esclude Rambo e poco altro, non esce dal seminato dell’action movie di super genere. E, ultimamente, neanche quello. Ad ogni modo, che sia per fame o nostalgia, Sly ritenta la carta della fortuna. E’ in arrivo il sesto episodio della saga, Rocky Balboa, che in Italia uscirà a gennaio 2007. Ma questa volta Stallone sembra voler prendere le dovute distanze dagli altri episodi, conferendo alla sua ultima fatica una sorta di dignitosa individualità, a garanzia della qualità del prodotto seriale, ma non troppo. Così, a copertura delle sue buone intenzioni, fa precipitare il suo eroe in un abisso di depressione, povertà e rimpianti. Morta l’amata Adriana, Rocky si ritrova cinquantenne a fare i conti con la vita e