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1 direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica: Daniele Ceccherini utili consigli: Giulio Mozzi progetto grafico: Alessandro Simonato in copertina: Silvia Rastelli, Frammento di donna, 2010 ISBN 978-88-96999-08-0 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2011 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milano www.laurana.it – [email protected] Isabella Marchiolo 10 grandi donne dietro 10 grandi uomini prefazione di Alessandra Casella Un passo dietro di Alessandra Casella Era una questione di sicurezza, è diventata una questione di potere. Un tempo le donne dovevano camminare un passo dietro all’uomo, che avrebbe così potuto difenderle meglio. Da allora siamo sempre rimaste un passo dietro. Anche quando, come nella frase che dà il titolo all’emozionante raccolta di racconti di Isabella Marchiolo, l’intento parrebbe essere elogiativo. A me invece questo proverbio è sempre parso carente di una seconda parte, colpevolmente taciuta. Dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Che non ha avuto modo di emergere. Marchiolo dà spazio e voce alle donne dei grandi uomini, che diventano, nella sua scrittura densa ed emotiva, simbolo di tutte le donne “dietro”: madri, mogli, sorelle, amiche – sempre un ruolo, quasi mai un nome. Spesso si tratta di donne che la tragedia, o la fama, hanno catapultato loro malgrado in prima linea. Donne che forse non avrebbero agito, adagiate nel silenzio dell’accoglienza e del rifugio che da sempre ci 5 contraddistingue, ma che sicuramente hanno reagito. Nel mare di omertà che convenientemente affoga tutte le morti scomode, ecco il fastidio di una piccola voce che non tace. E continuerà a non tacere, perché anche la perseveranza è femmina. Ogni anno a Milano, sotto casa mia, molta gente si riunisce davanti a un’aiuola dedicata a Falcone e Borsellino. Leggendo il racconto di Marchiolo dedicato a Rita Borsellino, vorrei farle sapere che anche qui, a migliaia di chilometri da Palermo, si alzano le agende rosse. E vorrei farlo anche perché Isabella Marchiolo è riuscita a farmi incontrare Rita Borsellino senza averla mai conosciuta. Quelli che erroneamente ho chiamato “racconti” in realtà sono pezzi di vita dal sapore quasi osmotico: Marchiolo ha saputo fondersi con la donna di cui parla, e ha permesso anche a noi di entrare con l’anima in un’altra anima, un’altra vita che diventa così in qualche modo anche nostra. Diventa il nostro amore, diventa le nostre parole non dette, la nostra rabbia, il nostro dolore. Diventa quell’unicum femminile che riesce a trasformare un incontro in un reale scambio. Così entriamo nell’amore “nonostante” di Hillary Clinton, che guarda con occhi antichi la figlia che si sposa e già teme. O l’amore totale dello splendido brano dedicato a Pilar Saramago, un amore di testa e pelle. O nell’amore impotente di Anna Vespia e Tahereh Panahi, solo davanti all’arroganza del potere. 6 Particolarmente emblematica mi sembra la storia di Harper Lee, l’autrice di un unico romanzo, Il buio oltre la siepe, che però le meritò il Pulitzer. Lei e Truman Capote, nati nella stessa cittadina dell’Alabama, “l’uno l’inizio dell’altro”: amici da sempre, da sempre diversi da tutti gli altri. È lei a stimolare l’amore per la scrittura in Capote, è lei a fargli da assistente nelle lunghe ricerche che lo porteranno a scrivere A sangue freddo – eppure Capote non le riconoscerà mai il lavoro fatto. Se fosse successo il contrario, probabilmente il nome di Capote sarebbe apparso accanto a quello di Lee Harper sopra il titolo. Ma il grande scrittore è lui: Harper e il suo Pulitzer gli hanno rubato la scena, e lui non la perdonerà. Ecco: laddove per Harper Lee la condivisione è una ricchezza, per Capote è una minaccia, un’invasione di campo. Alle donne non si perdona il successo. La scrittura di Marchiolo fluisce attraverso i pensieri. Spesso dico che se esiste qualcosa come uno sguardo femminile nella scrittura, questo si identifica nel punto di partenza: generalizzando, gli uomini partono dai fatti per arrivare ai sentimenti, mentre le donne partono dai sentimenti per arrivare ai fatti. Se così fosse, Isabella Marchiolo ne è un esempio perfetto. La forma narrativa è erratica, come se le parole corressero dietro ai ricordi, e si fissassero sul foglio solo per l’attimo della lettura, per poi correre via, e al tempo stesso restare per sempre. 7 I suoi sono flussi e riflussi di memoria; non ricordi, ma parte integrante della vita, del qui e adesso: nella grammatica emotiva dell’animo femminile, il passato è un tempo presente. E attorno e dentro ai ricordi, la “partecipazione ottusa delle cose alle vicende umane”, come scrive l’autrice, che con penna felice racconta di campi, di soprammobili, di cibi, di case vecchie che “digradano, come una processione materica di pietra e mattoni”. Tutto partecipa, anche quando sta a guardare. E così, donna dopo donna, emozione dopo emozione, si arriva all’ultimo racconto. Non a caso il ritratto di donna che chiude il libro è quello di Yoko Ono, la “donna dietro” meno dietro di tutte, artista e donna d’affari mentre il suo grande uomo sogna di essere a casa ad accudire il figlio e fare il pane. Un ribaltamento totale di ruoli che porta in sé la possibilità di un riequilibrio che potrebbe davvero avere il sapore della parità. Ecco perché, più di ogni altra, Yoko Ono è stata vista come la strega: infernale persino nel look, ha diviso i Beatles, ha fagocitato un idolo e lo ha trasformato in un uomo che riscopre i valori della condivisione, in cui maschile e femminile non hanno più proprietà esclusive né senso. Ono è il pericolo che prende forma, il sovversivo inaccettabile. Forse per questo l’ho sempre amata: give women a chance. Anche Isabella Marchiolo, in questo senso, è un po’ una strega: i suoi ritratti ci trascinano nel mondo 8 interiore, immaginato ma quanto mai verosimile, delle donne del nostro tempo. E quando sostiene che “leggere, come scrivere, non è un’azione innocente” ha assolutamente ragione. Io, dopo aver letto il suo libro, sono un po’ più ricca, un po’ più orgogliosa, un po’ più consapevole. Sicuramente, sono un po’ più in là. E la ringrazio di cuore, da donna a donna. 9 10 grandi donne dietro 10 grandi uomini Dieci comuni donne straordinarie Se mi chiedessero di stilare un decalogo di cose, persone o categorie da salvare, un ipotetico bagaglio utile del mondo di oggi da portare con noi nel futuro, io non potrei fare a meno di pensare alle donne. E non è per una sorellanza di genere, perché anch’io sono una donna. No, questa sarebbe semplicemente un’associazione logica: le donne generano vita, e senza di loro a un certo punto dell’umanità non rimarrebbe comunque nient’altro da salvare. Insomma, questo significa che non è possibile estinguerci o decidere di cancellarci da un elenco ideale delle cose importanti. E siccome credo poco alle probabilità della scienza di procreare al di fuori di un grembo femminile, almeno nel futuro che fino ad adesso riusciamo a immaginare, siamo ancora indispensabili. Ma in questo libro non ci sono soltanto donne. Con una locuzione ormai abusata si dice da sempre che dietro un grande uomo ci sia una grande donna. Il binomio non mi dispiace. I campanilismi sessuali sono dannosi da qualunque risvolto li si osservi, e pure un pianeta privo di uomini diventerebbe territorio impoverito. Per correggere i difetti ed esaltare le 13 virtù della generazione umana c’è bisogno di entrambi i sessi. E se superassimo l’apparente banalità dell’assunto, potremmo accorgerci che, tolte le differenze fisiche (e certi retaggi genetico-sociali che maschi e femmine continuano a tramandare e sono come irrinunciabili elementi di un’identità consuetudinaria), cuore e cervello sono organi asessuati. Però in questo caso proviamo a ribaltare il detto proverbiale, quello in cui le donne dietro gli uomini sembrano nascoste, quasi messe in punizione, come se l’idea di grandezza per noi potesse manifestarsi soltanto nel riverbero di qualcun altro nato con una diversa disposizione di tessuti corporei. Dunque questa volta spostiamo i signori nelle retrovie, e non per galanteria. Piuttosto, facciamo questo scambio partendo da una considerazione. Nella storia dell’umanità per secoli le donne sono state “dietro” quando non potevano avere un altro ruolo possibile. Esistevamo ma soltanto come compagne, spose e madri. Il vitale governo della casa e della famiglia, il parto e la nutrizione dei figli, la cura dei mariti e persino il lavoro nei campi, nell’artigianato o nel commercio diretto erano incarichi secondari rispetto a politica, affari e guerra, i domini sociali negati al sesso femminile. Oggi però lasciare una donna dietro le quinte pare un anacronismo. Senza impelagarsi nel dibattito su femminismo, diritti o parità materiale, è indubbio che 14 in questi due millenni di esistenza umana abbiamo per lo meno scavalcato una fila. Non siamo più obbligate a stare dietro. Così in questo libro continuiamo a essere in due, ma stavolta sono gli uomini a guardarci le spalle. Potrebbero essere molte di più queste grandi donne legate a grandi uomini, ma il numero dieci, rotondo e basilare, è un parametro indicativo. Uno strumento di misurazione che rispecchia dieci modi diversi di esprimere un concetto di grandezza. Si può essere grandi facendo politica, ma pure testimoniando contro criminalità e ingiustizie, o crescendo i figli. Si può essere grandi scrivendo un libro o cambiando la propria vita d’impulso e con assoluta certezza per amore di un uomo. Si può essere grandi ammettendo timori e fragilità e imparando a travalicarli. La maggior parte di queste donne – e degli uomini che stanno “dietro” – sono nomi molto noti, e non è questa la prima volta che qualcuno racconta le loro storie. Ecco perché evitando la reiterazione di biografie ho scelto un episodio delle singole vite che intrecci entrambi i personaggi – le donne e i loro uomini – provando a raccontarlo. E proprio come in un racconto qui oltre alla fotografia dei nostri tempi ci sono sentimenti e parole, gesti e luoghi. Troverete episodi reali insieme a immagini narrative. Frasi intatte nell’esattezza di come sono state pronunciate, che si fondono in dialoghi da romanzo. Fatti realmente accaduti, e minime paren15 tesi d’immedesimazione. Immedesimazione femminile, ovviamente. Perché, mentre scrivevo, la notorietà di queste donne si è stemperata in una forte empatia. Pensavo: queste donne sono davvero grandi, ma nello stesso tempo, dentro lo spazio emotivo di questo momento della loro vita che sto provando a interpretare, sono un po’ come me. Semplicemente donne. E per questo straordinarie. Per esempio, Michelle Obama. Certamente – e la sua storia personale lo dimostra – non è una ragazza della porta accanto, la sanguigna first lady statunitense che con il suo intuito ha accompagnato l’elezione del primo presidente afroamericano. Ma anche lei, come tante donne in ogni angolo del globo terrestre, è una mamma che deve conciliare la carriera con la famiglia, e per di più, nel suo caso, far entrare tutto questo nella speranza di cambiamento di Barack Obama. Ed è così che io l’ho raccontata: una madre che prende un bidone dalla tata e deve presentarsi a una selezione di lavoro con la figlia di un anno che scalcia dentro il passeggino. Per Michelle quel giorno è una prova del fuoco. Siamo a Chicago, è vero. Non so come sarebbe andata in Italia, se io avessi portato la mia bambina a un colloquio. Ma Michelle non si sentiva sfavorita dalle circostanze. Era convinta di quello che faceva – ribadirsi professionista e madre, senza inganni – e riuscì a ottenere il posto. Da allora la sua organizzazione 16 materna diventa una stella polare che non si sposta neppure quando gli Obama arrivano a Washington come coppia presidenziale. Facendo un salto nel futuro il mio racconto si ferma alla vittoria elettorale. Non sono andata oltre perché addentrarmi nell’attività di Barack Obama sarebbe stato un esercizio nozionistico. E anche per scaramanzia di sognatrice: quello che è accaduto dopo lo stiamo ancora vivendo, e sperando, insieme al presidente Nobel per la pace. Poi c’è Hillary Clinton, che di solito ispira emozioni contrastanti. A molti riesce antipatica, lei e la parodistica crasi “Billary” che più d’uno ha letto come un sodalizio senza scrupoli morali in nome del potere. Secondo me, invece, l’aver perdonato un tradimento umiliante finito nel trogolo del gossip è stato un eccezionale atto di forza. È probabile che in tutto questo oltre all’amore ci sia stato un po’ di calcolo, certo: la politica non è uno spazio ingenuo. Ma Hillary e Bill, coppia frantumata e rimasticata dagli scandali, sono sopravvissuti. Lui si è spostato “dietro” per sostenere l’ambizione di lei: essere la prima donna presidente degli Stati Uniti. Hillary non ce l’ha fatta, ma – altra prova di grandezza – ha capito che una diversa potente utopia stava per diventare realtà nel suo paese. Ha sostenuto Obama e oggi lavora nel governo. La “mia” Hillary è un’intersezione di età femminili. La racconto nel giorno delle nozze della figlia 17 Chelsea, un evento che la riporta indietro, alla storia del proprio matrimonio, e al contempo la proietta in un sereno avvenire di sessantenne. Non più nell’agone politico, ma dentro un’altrettanto piena identità di avvocato e di nonna. Un’altra donna generalmente ispida all’opinione pubblica è Yoko Ono. L’eccentrica artista giapponese vedova di John Lennon è considerata la responsabile dello scioglimento dei Beatles. L’hanno accusata di aver iniziato Lennon alle droghe e della deriva surreale della sua produzione musicale. Pochi però ricordano che l’attività pacifista di Yoko, precedente alle nozze con l’ex Beatles, nasce dalla diretta esperienza della guerra, subìta nell’infanzia e impressa traumaticamente nella coscienza di questa signora. Credo che Imagine sia una delle più belle canzoni di tutti i tempi, ma quelle stesse parole, vent’anni prima, Yoko Ono le componeva nei versi dei suoi happening artistici. Un rimedio alla portata di tutti: immaginare. Ho scelto di raccontare la storia di questa coppia rivivendo la sera in cui John Lennon venne ucciso dallo squilibrato Mark Chapman, ma concentrandomi su un dettaglio intimo, una piccola conca privata nella spettacolarità mediatica di quella morte. Yoko è la depositaria delle ultime ore di John: prima di girarsi al richiamo del suo assassino lui le confida che vuole vedere il figlio di cinque anni prima che s’addormenti. 18 Mi sembra che questo bambino, arrivato dopo tante gravidanze fallite di Yoko, il racconto della sua nascita e di quello che significò per i Lennon, offra una chiave di lettura inedita di tutte le vicende della coppia. Riflettendo sui contorni della “grandezza”, mi è venuto in mente anche il nome di Pilar Saramago, seconda moglie del romanziere portoghese premio Nobel per la letteratura. Forse sarò stata di parte, poiché adoro i libri di Saramago e tutto ciò che questo illuminato scrittore ha saputo dire e pensare. Ho provato a immaginare il primo incontro tra Pilar e José, tanto perfetto da somigliare a una preziosa verifica di quanto la vita possa somigliare a un romanzo. Una giovane giornalista legge un libro e, folgorata dal personaggio femminile di quella storia, decide di conoscere l’autore, venticinque anni più anziano di lei. Se ne innamora, lo sposa e si trasferisce con lui dal suo paese, la Spagna, a Lisbona. Pochi anni dopo accetta di lasciare l’Europa continentale per seguire suo marito, accusato di blasfemia, in un testardo esilio volontario alle Canarie. Ho provato a raccontare sprazzi di questo solidissimo matrimonio e da subito, a differenza delle altre storie narrate nel libro, la scrittura si è dispiegata in un monologo in prima persona. Pilar, per come l’ho vista io, aveva bisogno di un’interiorità più forte perché parlava d’amore. 19 Uso l’io narrante per un altro personaggio che mi è apparso molto introspettivo, quello della scrittrice Harper Lee, la riservata signora dell’Alabama che ha firmato un unico romanzo, intitolato in italiano Il buio oltre la siepe e conosciuto di riflesso per il bel film del ’62 di Robert Mulligan, interpretato da Gregory Peck. È la storia di un processo a carico di un bracciante nero accusato di uno stupro mai commesso, e dell’avvocato Atticus Finch, che tenta di salvare l’uomo dall’impiccagione. Accade negli anni Trenta nel sud americano più coriaceo ad abbandonare la segregazione razziale. In quegli stessi anni e nella stessa indolente metà d’America, Harper Lee viveva con il padre avvocato ed era una bambina, come la voce narrante del romanzo (la ragazzina-maschiaccio Scout, figlia di Atticus). Vestiva sformate salopette pantaloni e giocava con un coetaneo di nome Truman Persons, suo vicino di casa che, adottato dal marito della madre, diventerà Truman Capote. Sono due gli episodi che mi hanno affascinato della vita di Harper Lee (poco nota a causa della scontrosità dell’autrice). Il primo è l’impeto di rabbia che la spinge a gettare dalla finestra l’ennesimo manoscritto, più volte rifiutato dagli editori. Subito dopo, costretta dalla sua agente, Harper recupererà i fogli dal cortile umido di neve. E sarà proprio quella stesura a diventare la versione definitiva del romanzo vincitore del Pulitzer. Ma nella storia di Harper Lee, oltre alle avventure di Atticus e Scout, ci fu anche l’intermittente amicizia 20 con Capote. Anni prima di quel volo di fogli nel cortile, entrambi avevano lasciato Monroeville per tentare la carriera letteraria a Manhattan. Lui, che si fa notare subito per Altre voci, altre stanze e soprattutto Colazione da Tiffany, viene turbato dalla cronaca di un barbaro omicidio avvenuto nel Kansas. Così si mette in testa di scrivere un romanzo-verità (allora il genere non esisteva ancora), e chiede ad Harper di accompagnarlo nella cittadina di Holcomb per fare ricerche sul delitto. Il libro in questione è A sangue freddo, primo esempio di fiction incrociata al giornalismo. All’uscita del romanzo Capote “dimentica” di citare la collaborazione dell’amica, dotata del senso pratico che invece mancava allo scrittore per ottenere informazioni sulla storia dei Clutter, la famiglia di agricoltori massacrata da due ladri. Da allora le loro strade si dividono: Capote, vittima del suo stesso personaggio di romanziere “maledetto”, si darà alle droghe e sarà stroncato dalla cirrosi. Lee vedrà il suo libro negli annali della letteratura americana. Io sono tornata indietro, all’origine dei destini incrociati dei due scrittori, a quel fosco viaggio di Harper e Truman tra i campi di grano del Kansas, alla ricerca della metà segreta dell’umanità. La meno conosciuta tra queste dieci signore è probabilmente Tahereh Saeedi, moglie del regista iraniano Jafar Panahi, premiato autore di film neorealisti. È grande, questa Tahereh Saeedi, intanto perché donna 21 che pensa e parla in un paese dove il sesso femminile è una tara d’inferiorità. Un paese dove realmente le donne restano “dietro”. Per il loro sostegno alle proteste antigovernative dopo la rielezione taroccata di Ahmadinejad, a Teheran i Panahi sono stati arrestati due volte, durante azioni ritenute sovversive. La prima è stata pregare sulla tomba di una ragazza uccisa perché rivendicava il suo voto. La seconda è stata filmare la carica dei pasdaran per un documentario mai girato, ed è questo l’episodio che racconto. Nel marzo del 2010 lei viene rilasciata subito mentre lui rimane quasi tre mesi in una cella del famigerato carcere di Evin, la disumana prigionia riservata ai dissidenti politici. E Tahereh emerge. Non è più dietro, anzi adesso nella fila della coppia è rimasta soltanto lei: lui è ridotto a un fantasma e solo Tahereh può diventare la sua voce. Usa Facebook insieme al figlio, rilascia interviste, annuncia che il regista ha intrapreso uno sciopero della fame e rischia di morire in cella. È una donna che dice a tutti quello che in Iran non si può dire. Infine, le italiane di questo libro. Sono quattro, e nelle loro storie miscelano tutte luminosi tratti di umanità e forza d’animo. Di Mina Welby, moglie di Piergiorgio, ho amato molto la lotta interiore tra i principi cattolici e la matura consapevolezza dell’esistenza di un’altra morale al di là dei dogmi. Si è innamorata di un uomo malato di di22 strofia e avviato alla morte in condizioni fisiche spietate. Come avrebbe fatto ogni donna innamorata, a lungo ha tentato di trattenerlo. Ha imparato competenze di assistenza medica, sotterfugi di vita, invenzioni per aggirare la reclusione fisica del marito. Ma Piergiorgio amava troppo vivere per rassegnarsi a un surrogato. Così Mina, lentamente, ha capito. Ha aiutato il suo uomo a lasciar andare quella sua carne svuotata. Non è stato facile, ed è lei stessa ad ammetterlo in varie occasioni. Ho raccontato la grandezza di Mina negli ultimi guizzi di ribellione alla scelta di Piero: non aprire la porta di casa all’anestesista che avrebbe definito le modalità dell’eutanasia, denunciarlo chiamando la polizia, concedersi l’arrendevole sincerità delle lacrime, persino richiamare la seduzione del passato – della vita – proponendo al marito l’ascolto delle canzoni delle loro escursioni a pesca. Istinti mai negati da Mina, che anzi hanno rafforzato l’attimo nitidissimo della sua comprensione. Anna Vespia è la vedova di Natale De Grazia, il capitano di corvetta morto nel ’95, ufficialmente per infarto, durante una missione. De Grazia faceva parte, come consulente tecnico, della squadra investigativa della Procura di Reggio Calabria sul traffico internazionale di rifiuti tossici nel mare. De Grazia morì mentre viaggiava da Reggio a La Spezia, dove avrebbe acquisito altre informazioni su una nave sospetta, la Jolly Rosso. Quasi quindici anni dopo nei fondali di Cetraro, sempre in Calabria, 23 viene localizzato un altro relitto, e gli investigatori, affidandosi anche alle parole del pentito ’ndranghetista Francesco Fonti, sono convinti che si tratti della Cunsky, cargo fatto scomparire sotto il mare e imputato di trasportare materiale tossico. Ci sono intrighi di armi e mafia, bussole che uniscono il sud d’Italia a rotte lontane e inquietanti. Ma il ministero smentirà, identificando il relitto in un’innocua nave abbattuta durante la prima guerra mondiale. Di questa storia di misteri mai chiariti ho tentato di raccontare la metà femminile. Un uomo che muore senza cause apparenti, di un male fulminante. La moglie di quest’uomo che intuisce subito i dubbi di quella vicenda, non crede all’infarto del marito e ha il coraggio di dirlo chiaramente anche in situazioni che potrebbero apparire diplomaticamente scorrette, come l’assegnazione della medaglia d’oro al valore in memoria di Natale. La signora va a ritirare l’onorificenza ma poi, senza giri di parole, dichiara ai giornalisti che finché non si farà chiarezza sulla fine di De Grazia lei e i suoi figli non sapranno cosa farsene di commemorazioni e “patacche”. E fa notare che nella motivazione della medaglia hanno messo certe sospettose virgolette, proprio quando si cita la morte del capitano. Poi intitolano a Natale De Grazia il lungomare di Amantea, e Anna allora si commuove. Ricorda l’amarezza rimasta negli ultimi mesi del marito, durante l’indagine sulle navi radioattive: che qualcuno, per giochi d’interesse, avveleni il mare. 24 Per me Rita Borsellino è, come Mina Welby, una donna fortificata dagli eventi. L’autobomba di via D’Amelio, che le ha ucciso il fratello e sfregiato i luoghi della loro infanzia, ha cambiato la sua vita. Lei stessa dice di aver aperto gli occhi, che erano fino ad allora chiusi per atto di prevenzione. Non vedere fa meno paura. Ma poi Paolo, il suo filtro dell’anima oscura di Palermo, all’improvviso non c’era più. Da signora borghese Rita si è trasformata in attivista antimafia, è entrata in politica ed è stata eletta europarlamentare, seconda votata in Sicilia dopo Berlusconi. Mi è piaciuto immaginare i suoi pensieri durante l’annuale raduno palermitano delle “agende rosse”, il simbolo della morte di Paolo Borsellino, quel quaderno scomparso dove il magistrato annotava le analisi sul rapporto tra mafia e politica. L’ho raccontata nel nucleo caldo della sua città perché Rita è una che non ha più paura dell’omertà di Palermo. Di ammettere che Palermo è un figliol prodigo che respinge l’amore perché non vuole far capire che ha bisogno di essere amato. Non ha più paura di arrabbiarsi contro una città che “puzza di rassegnazione”, e insieme di incoraggiare quei palermitani che agitano il simulacro dell’agenda rossa e stendono lenzuoli bianchi ai balconi. Tra le mie donne cercavo anche una madre tenace incuneata in un forte rapporto con un figlio. Così ho pensato ad Antonietta Vendola. Una signora pugliese all’antica: sposa giovane, impareggiabile cuoca, madre di quattro 25 figli allevati prima con il latte e poi con la pasta casereccia. Una che veste i ragazzi senza togliere di dosso il grembiule, e che gli ospiti li fa entrare cameratescamente in cucina. Una che forse, come mia madre, davvero possiede ancora un vecchio modello del “cubo” Brionvega e ascolta la musica mentre cucina. Donna Tonia è diventata suo malgrado un personaggio pubblico negli anni dell’exploit politico di suo figlio Nicola, ribattezzato Nichi in onore di Nikita Kruscev. Ma il bello è che in questa famiglia di Terlizzi riuscivano a essere comunisti e credere nel Dio dei cattolici. Anche una che aveva letto pochi libri come Antonietta. Nichi è un bravo bambino e diventa uno studente esemplare. A un certo punto, ventenne, decide di rivelare una cosa importante di sé. Una cosa che negli anni Sessanta in Puglia di solito si tiene nascosta. Nichi è omosessuale. Mamma Antonietta e papà Francesco non la prendono bene. Per molti anni in famiglia i rapporti sono tesi, si soffre da entrambe le parti. Il mio racconto inizia a Terlizzi in un pomeriggio di luglio lontano da quel coming out pionieristico, quando Tonia e Francesco sentono alla radio la voce di Nichi, che sta parlando al World Gay Pride di Roma. Quando la voce del figlio si smorza, gli telefonano. Per chiedergli perdono. Il resto che abbiamo letto in questi mesi su donna Tonia è soprattutto folklore. Lei che frigge fiori di zucca insieme al figlio, diventato governatore della Puglia, o il bacio di Nichi dopo la vittoria elettorale. Ma 26 a me è rimasto soprattutto quel brillante esempio di grandezza. Una donna di oltre settant’anni che non sa nulla di orgoglio omosessuale e ricorda ancora le bellissime fidanzate che Nichi adolescente le portava in casa. Antonietta che associa l’orecchino soltanto all’icastica fisionomia dei carrettieri meridionali e magari immagina una nuora che a Natale impasti le mani nella farina insieme a lei per le immense tavolate di cavatelli e pane all’albume pugliesi. Un sogno che, a oltre settant’anni, ha avuto il coraggio e l’intelligenza di ribaltare insieme a suo figlio. Queste donne, ho pensato, sono grandi personaggi – quanto gli uomini a cui hanno legato le loro vite – ma hanno anche qualcosa che forse è come me. E vorrei che da queste pagine venisse fuori l’umanità femminile, il diaframma tra un’esistenza comune e lo slancio verso esperienze che sono fuori dall’ordinario. In certi passaggi le signore forse troveranno qualche iato tra la realtà e lo spazio di libertà espressiva che connota una narrazione. Se questo sottile dislivello c’è, è lì affinché ogni donna, come me, leggendo queste storie decripti, oltre la notorietà e la cronaca, quello che un racconto, meglio di ogni resoconto giornalistico, riesce a produrre: minuscole tracce di grandiosità umana che tutti noi, nelle nostre vite, possiamo ritrovare. 27 Michelle Obama Un passeggino nel curriculum Quella mattina di nove anni fa la decisione le apparve di un’assoluta limpidezza, come riflessa su una lastra di vetro. Michelle Obama vide il fotogramma trasparente di se stessa che sistemava la bambina nel passeggino, stringeva le cinghie di sicurezza e andava al colloquio al Medical Centre insieme alla piccola. Sistemò Sasha nel seggiolino sul sedile posteriore, poi ripiegò il passeggino e lo chiuse nel cofano dell’auto. Le villette a schiera di Hyde Park impigrivano al sole, spalleggiate dalla corona di mattoni degli alloggi studenteschi. Non pensò che apparire come una donna in carriera bidonata dalla baby sitter avrebbe potuto penalizzarla. Negli uffici dell’università lavorava già da anni, conoscevano lei e il marito che aveva insegnato legge. Mise in moto vigilando dallo specchietto su Sasha, che dondolava i piedi molestando lo schienale del sedile anteriore. La cosa non era in discussione. Voleva quel posto di referente sanitario all’Università di Chicago, sapeva di averne pieni requisiti. Ma era e sarebbe stata sempre una madre. C’erano in lei due metà indivisibili. 28 Guidò fendendo la camaleontica demografia del quartiere, la prossimità tra botteghe e abitazioni in un condominio interetnico formato famiglia. Il centro della South Side – i grattacieli, i capannoni delle fabbriche dismesse e i magazzini di carne in gelatina – restavano a distanza di sicurezza, undici chilometri segati a metà dal braccio nerboruto del fiume. Sasha gongolò succhiando un anello di plastica per massaggiare i dentini. In un istante, attraverso la membrana nitida della coscienza, per Michelle quello divenne anche un fatto di onestà. Il Medical Centre le avrebbe richiesto un nuovo tipo di impegno. Ma se l’avessero assunta, dovevano saperlo subito che esistevano dei limiti. Come tutte le madri, lei sarebbe stata una da cui i superiori si aspettano che sottolinei il calendario nei giorni dei compleanni delle figlie, guardi l’orologio per arrivare in tempo ai saggi scolastici, giustifichi contagi esantematici e defezioni delle baby sitter. Se volevano lei, tutto questo sarebbe potuto accadere. Meglio che lo sapessero così, senza filtri. Con il vivace ingombro di una bambina nel passeggino. L’Università le si stagliava dinanzi nella sua geometria smerigliata, un reticolo di edifici comunicanti, torri e finestre ogivali. Sorrise: non avrebbe mai potuto vivere da un’altra parte. Certo, era cambiato tutto nella South Side di Chicago. Non era più la ferita purulenta della città, dove l’alta concentrazione di miseria e microcriminalità faceva paura anche a Martin Luther King. Ma vivendo lì la memoria del ghetto di 29 Bronzeville rimaneva ugualmente stampato nel suo DNA: lei aveva bisogno di svegliarsi ogni mattina e sentire le vene sotterranee della cintura nera dietro il loro quartiere residenziale, privilegio dei dipendenti universitari. I suoi antenati erano stati schiavi, e Michelle non voleva dimenticarlo. Adesso nella South Side c’erano ispanici, irlandesi e cinesi. La comunità afroamericana sconfinava nei ceti di classe superiore, gli Obama avevano una villetta a due piani con giardino, situata al crocevia della mappa rettangolare tra la 53esima e 57esima Avenue. I loro vicini erano insegnanti, impiegati, sanitari e professionisti. Sapeva che suo marito voleva trasferirsi a Washington, avrebbe tentato di nuovo di entrare al Senato federale. Ma lei se ne teneva ancora fuori. E poi le figlie non dovevano crescere disgiunte dalle loro radici, quella era una premessa quasi morale. Così sarebbero rimasti a Chicago, dove i genitori di Michelle l’avevano cresciuta mostrandole la cicatrice segregazionista della linea Dan Ryan. Il presidente del Dipartimento Affari Esterni slegò le dita dai palmi uniti. Guardò madre e figlia dall’altra parte del tavolo: “Ci aspettiamo molto da te, Michelle. Con due bambine… sei sicura di poterlo fare?” “Fino a oggi ci sono riuscita. E senza fare troppo la rompiscatole, mi sembra”. L’altro sorrise alla battuta, la chiostra dei denti era ingiallita dalla nicotina. Poi fece un gesto vago con la 30 mano: “Sì, ma qui avresti un ruolo direttivo. E molte responsabilità in più”. Anche lei sorrise: “Se sono io a decidere, posso organizzare tutto da sola, anche i miei orari”. La bambina assisteva alla scena un po’ annoiata del contrattempo, spettatrice in quella arena d’adulti dove sua madre reiterava la strategia di ogni donna lavoratrice. Uscirono fuori nello sbalzo di luce del giorno. Attraversando il parco dell’università, Michelle salutò una collega e proseguì diretta all’auto. Gli studenti erano agglutinati in gruppi sul prato. C’erano etnie eterogenee, e molti neri. Nel parcheggio si addentrò nel serraglio di utilitarie, Chrysler e mastodontici SUV. Quella mattina del 2002, ritornando a casa con la prospettiva di un incarico dirigenziale e uno stipendio più consistente di quello del marito, Michelle si domandò quanto l’avesse cambiata la famiglia. Una clessidra si era capovolta. Se visualizzava la vita prima del matrimonio si rivedeva prosciugata come uno spremilimoni, coriacea nel cavar fuori da sé l’ultima acre goccia di determinazione. Tutto per dissipare la prima impressione, che era sempre quella della razza. Ricordava i rapporti formali con i professori a Princeton, il loro enfatico incoraggiamento. C’era una tonalità diversa nel modo in cui la convocavano nei loro uffici. La trattavano come una che doveva rimarginare un handicap: prima soppesavano il fatto che fosse nera, il resto veniva dopo. Aveva dovuto guadagnarsi il diritto a essere solo una studentessa, e poi solo un av31 vocato. Senza che al sostantivo seguisse l’aggettivo del colore. Subito dopo la specializzazione ad Harvard, nel ’90 aveva ottenuto il primo lavoro a Chicago come socia nello studio legale Sidley Austin, e quell’estate le avevano affidato un praticante della sua stessa scuola, uno molto bravo. Pensò che aveva un nome bizzarro, quel Barack Obama. Ma quando lui bussò alla porta del suo ufficio, non poté evitare a se stessa l’impatto di una seduzione volatile. Andarono a pranzo insieme, Michelle fu diretta come al solito: “Per mesi non hanno fatto che parlare di te, allo studio. Sei una specie di fenomeno”. Lui sorrise e Michelle pensò che le piaceva come sorrideva. Le rispose con una domanda: “E tu che idea ti sei fatta?” Fu incerta se ammettere la verità, cioè che lo trovava attraente, poi le venne da dire che l’avevano incuriosita le sue origini hawaiane. Lui annuì: “Alle Hawaii ci sono cresciuto, ma mio padre viene dal Kenya, e mia madre è del Kansas, una bianca”. “Ah”, aggiunse, “ho anche vissuto in Indonesia”. Un mese più tardi Barack insisteva per portarla fuori a cena. Lei eludeva gli inviti, non le andava l’ambiguità di una relazione con un collega. “Non è il caso. Sono la tua consulente, sarebbe poco appropriato”, gli spiegò una sera all’uscita dallo studio, mentre un vento smilzo sembrava salire dalle losanghe del marciapiedi. 32 “Ma se a noi due va, che importanza vuoi che abbia?”, ribatté lui. Il programma si ampliò a un’intera giornata insieme. L’Istituto d’Arte, un piccolo caffè con la musica jazz dal vivo e Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, che non è esattamente un film d’amore. E invece fu l’inizio della loro coppia. Certo, anche perché erano neri e non intendevano far finta che non contasse. Il suo colore Michelle lo sentiva addosso come una febbre. E da quando conosceva quell’ambizioso studente le sembrava di capire meglio. Le differenze resistevano ancora, erano un istintuale fattore di separazione umana. Nonostante i loro successi personali, entrambi lo sapevano: nella libertaria America veniva sempre prima la razza. Dopo il divorzio dei genitori, Barack era cresciuto tra i bianchi, nella famiglia di sua madre. “In realtà”, diceva a Michelle, “io da piccolo non me accorgevo neanche che mio padre era nero come la pece. Lo vedevo così poco e non mi sembrava diverso dagli altri di casa. Non è assurdo? L’ho capito dalle fotografie”. Due anni dopo il praticantato alla Sidley Austin, lui stava per concludere gli studi e iniziò a fare progetti. “Se due persone si amano”, le chiedeva, “che cos’è il matrimonio per te?” Fino ad allora lei aveva dedicato ogni energia alla carriera, ammetteva solo storie disimpegnate. Ma ricordò sua madre e suo padre nella casa costruita negli anni Venti al secondo piano sulla Euclide Avenue, i 33 tetti verde muschio e il giardino con l’olmo frondoso. E gli rispose: “Credo che il matrimonio e la famiglia siano tutto”. Allontanandosi dall’università, Michelle s’immise sulla 54esima strada. La bambina si era addormentata mordicchiando il massaggiatore dentale, che le stava scivolando dalla stretta allentata delle dita. All’orizzonte s’indovinava la specchiera del lago Michigan, solcata da vele e canoe. Sposarsi, mettere al mondo dei figli aveva sparigliato le carte. Qualcosa l’aveva fermata nello slancio, un elastico che tirava dalla parte opposta. Quella mattina tentò di localizzare la spinta perduta dell’altra direzione. Le piaceva essersi trasformata in una mamma, i cui sentimenti avrebbero potuto scomporsi infinite volte in quelli delle altre madri americane? Cosa ne era stato dell’ambizione? Ma quel giorno lei aveva ottenuto il lavoro che voleva. Michelle iniziò a credere che le donne potessero pretenderla davvero, dalla società e dallo Stato, la loro quadratura del cerchio. Due anni dopo suo marito sarebbe diventato il primo senatore federale afroamericano degli Stati Uniti, e Michelle avrebbe dovuto cambiare i suoi programmi. Ma la mattina del colloquio al Medical Centre era ancora tutto molto pragmatico, incasellabile nel regolare mosaico di moglie e madre. Calibrare casa e lavoro, dare istruzioni alle tate. L’incombenza dei pannolini di tessuto per non inquinare il pianeta. L’alta34 lena di stringere e allentare le cinghie del passeggino. Prendersi cura di un marito disordinato dettando le regole elementari della convivenza. La politica era un corpo estraneo. Nel 2000, mentre lei era incinta di Sasha, la sconfitta di Barack alle primarie dei Democratici per il Congresso aveva aperto una crepa. Alla dichiarazione di Bobby Rush, secondo cui Obama non conosceva abbastanza il distretto congressuale per rappresentarlo, Michelle indurì la pelle. Anche perché erano neri, e quella era la solita dimostrazione da dare. “Non lo capisci che se davvero vuoi fare politica”, gli disse, “tu non hai scelta? Devi vincere, altrimenti avremo fallito. E io non starò qui a vederlo succedere un’altra volta”. Era anche per via dei figli, quello scollamento coniugale. Una sorellanza femminile, le emozioni come una statistica riproducibile, che è difficile non s’inneschi. Diventi mamma e sei un po’ meno moglie. Stava per nascere un’altra bambina e Michelle non voleva impelagarsi in beghe politiche. “Sai una cosa?”, le disse suo marito, “Ogni notte ti guardo accanto a me nel letto mentre dormi, e penso che sei una persona completamente diversa da me. Credo che sia per questo che ti amo. È per questo che tra noi è speciale”. Michelle ricordò che quando aveva partorito la figlia maggiore tornarono insieme dall’ospedale, in tre. Lui guidava a passo d’uomo, con concentrazione, spiando lei e la bimba dallo specchietto retrovisore. Mi35 chelle poteva vedergli il ventaglio di rughe all’angolo dell’occhio destro, la tensione paterna satura di responsabilità. La città era un involucro di palazzi e linee stradali, una mole bombata attorno all’esistenza della loro famiglia raggomitolata nell’auto come dentro un secondo utero. “Le darò tutto l’amore che a me è mancato”, aveva sussurrato Barack. Nel 2004 Obama ci avrebbe riprovato al Senato, vincendo. D’improvviso suo marito era nuovamente un fenomeno, come ai tempi dello stage alla Sidley Austin. I giornalisti gli chiedevano se si sarebbe candidato alle presidenziali del 2008. Ma Michelle rimaneva pragmatica. Si ritrovavano nei fine settimana a Chicago, andavano a comprare i libri da Powell, cenavano in famiglia come se non ci fosse nulla di nuovo. Una domenica a colazione nella loro caffetteria sulla 57esima, davanti a un piatto di uova strapazzate e patate cotte nella cenere, lei commentò: “Credo che tu abbia fatto molto anche qui in Illinois, per la sanità ad esempio”. Abbassò la tazza del cappuccino: “C’è il tuo progetto di legge per l’assicurazione sanitaria ai residenti a basso reddito, ma nessuno se n’è accorto. Ragionano solo sui numeri”. Barack si tamponò una salvietta sulle labbra: “Però al Senato federale adesso posso fare di più”. Michelle sollevò un sopracciglio: “Non avrai davvero intenzione di candidarti alla presidenza?” 36 “No, non ci penso affatto. Ma se cambio idea sarai la prima a saperlo”. Nel 2007, a febbraio, Obama avrebbe annunciato ufficialmente la sua candidatura. Pochi mesi dopo Michelle, nel suo vestito industriale di Wal-Mart adornato dalla collana di perle, parlava di suo marito dietro un podio, con alle spalle i colori della bandiera americana e lo slogan “Yes, we can”. Un giornalista le chiese un parere sulla sua partecipazione alla campagna elettorale. Michelle rispose: “Il candidato è lui. Io sto vedendo tanti salotti e ora ho qualche idea in più per l’arredamento di casa”. Ma lei smuoveva qualcosa nella gente, se ne accorse subito. Un’altra lastra di vetro come il giorno del colloquio al Medical Centre, la smagliante radiografia della loro nuova vita. Sulle bambine però non si lasciava imporre contratti, neanche da Barack. Aveva stabilito talismani familiari che dovevano restare intatti. Il tifo materno alle partite studentesche pattuito con chiusure anticipate dall’ufficio, le preghiere recitate sulla sponda dei lettini, le più profane invocazioni a Babbo Natale o alle fatine dei denti. La figlia più piccola a letto alle 20 e 30, la maggiore mezzora dopo. Questa rigorosa scansione di attività domestiche le dava sicurezza. La vita doveva continuare a essere una nota sulla lavagna magnetica che registrava le mansioni quotidiane. “Se sei con me, ti giuro che vinco”, diceva lui. Lei incrociava le braccia: “Devi smettere di fumare, Barack. E io lavorerò alla campagna non più di due 37 giorni a settimana. Non passerò più di una notte a settimana fuori casa. Sono le mie condizioni. Prendere o lasciare”. Suo marito assentì: “È giusto, lo sai che anch’io ci tengo a non scombussolare le bambine”. “C’è un’altra cosa. Con me voglio uno staff di donne”. Il 18 febbraio del 2008 Michelle arrivò nel Wisconsin. Avrebbe dovuto parlare a Milwaukee e poi a Madison. Suo marito era in vantaggio e lei stava dissipando il cinismo politico. Si affacciò sul podio: “Per la prima volta nella mia vita adulta mi sento fiera del mio paese. E non perché Barack abbia lavorato bene, ma perché sento che la gente è affamata di cambiamenti”. Scoppiò una polemica. Quella frase era antipatriottica, Michelle Obama fu definita una “nera arrabbiata”. E lei ripensò al loro sogno, suo e di Barack. Che un giorno in America la razza smettesse di venire prima del resto. Ma le critiche non scalfirono la sua genuina presa sulle donne. La competizione – quella femminile, oscena e subdola – non scattava. Lei ispirava un coinvolgimento raggiungibile. Perché in Michelle tutto filtrava dalla rocciosità dell’unione col marito. Gli Obama lampeggiavano per comune combustione. Insieme erano calcarei, spugnosi. L’intesa con un uomo è qualcosa alla portata di tutte. È un connotato sessuale, un’aspirazione possibile. Sarebbe diventata presto tutta una questione di 38 sensi. Vista e tatto, soprattutto. La gente notava subito la gestualità privata. Serviva umanizzare l’utopia di Obama con elementi tangibili. E il sesso era uno di questi elementi. Lei che gli premeva le dita sul braccio, la mano di lui che le percorreva la schiena. Alla Convention democratica del 2008 tutti seguivano in silenzio il film dove Marian, la madre di Michelle, raccontava l’infanzia della signora Obama. I sacrifici del padre, malato di distrofia muscolare, che aveva mandato i figli a Princeton continuando ad alzarsi tutte le mattine per prendere servizio all’acquedotto pubblico. La platea del Pepsi Center di Denver applaudiva la donna in tubino verde acqua affiancata dalle figlie e replicata sul maxischermo. “Io e mio marito”, disse Michelle, “siamo cresciuti con gli stessi valori. Lavorare duramente per ciò che si vuole raggiungere nella vita, mantenere la parola data, trattare le persone con dignità e rispetto, anche quando non siamo d’accordo con loro. E sono gli stessi valori di tutti voi”. Fece una pausa: “È grazie a uomini come mio padre e mio marito, alla loro determinazione, se l’America questa settimana può festeggiare 88 anni di voto alle donne e 45 anni dal discorso di Martin Luther King, che ci ha ispirati con il suo sogno”. Il 4 novembre 2008 Barack era diventato il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti e Michelle doveva cedere su un punto: per i prossimi anni vivranno alla Casa Bianca. 39 La mattina del colloquio all’Università di Chicago, Michelle Obama tornò a casa costeggiando il nastro verde di Hyde Park. Più tardi avrebbe rimbrottato la baby sitter. Avrebbe vigilato sui tagli alla televisione per le bimbe. Avrebbe ragionato sul suo nuovo incarico. Di una cosa era certa. Per una madre lavoratrice ogni minuto trascorso con i figli è un benefico, assolvibile furto all’orologio del lavoro. Perché lei doveva ancora sostenere tanti esami. Essere donna, madre, nera. Un lato racchiudeva l’altro, pareti parallele in un domino di banchi di prova. Ma quella mattina non aveva fallito, l’equilibrio aveva retto. Era una dipendente rompiscatole come tutte le madri, ma avevano scelto lei. Per le bambine avrebbe continuato a camminare sul filo. In un futuro più lontano sull’asse del tempo, e finché fosse stato necessario, lo avrebbe fatto davanti all’America intera. Si morse un labbro sorridendo, al pensiero di quando avrebbe raccontato a Barack del colloquio. E quella sera, dopo aver messo a letto le bimbe, vegliata dalle braci rossastre delle sigarette che punteggiavano il parco dell’università, in giardino avrebbe sfidato suo marito a pallacanestro. 40