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direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica:
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utili consigli:
Giulio Mozzi
progetto grafico: Alessandro Simonato
in copertina: Silvia Rastelli, Frammento di donna, 2010
ISBN 978-88-96999-08-0
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2011 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 – 20124 Milano
www.laurana.it – [email protected]
Isabella Marchiolo
10 grandi donne
dietro 10 grandi uomini
prefazione di Alessandra Casella
Un passo dietro
di Alessandra Casella
Era una questione di sicurezza, è diventata una questione di potere.
Un tempo le donne dovevano camminare un passo
dietro all’uomo, che avrebbe così potuto difenderle
meglio. Da allora siamo sempre rimaste un passo dietro. Anche quando, come nella frase che dà il titolo
all’emozionante raccolta di racconti di Isabella Marchiolo, l’intento parrebbe essere elogiativo. A me invece questo proverbio è sempre parso carente di una
seconda parte, colpevolmente taciuta. Dietro a un
grande uomo c’è sempre una grande donna. Che non
ha avuto modo di emergere.
Marchiolo dà spazio e voce alle donne dei grandi
uomini, che diventano, nella sua scrittura densa ed
emotiva, simbolo di tutte le donne “dietro”: madri,
mogli, sorelle, amiche – sempre un ruolo, quasi mai un
nome.
Spesso si tratta di donne che la tragedia, o la fama,
hanno catapultato loro malgrado in prima linea.
Donne che forse non avrebbero agito, adagiate nel silenzio dell’accoglienza e del rifugio che da sempre ci
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contraddistingue, ma che sicuramente hanno reagito.
Nel mare di omertà che convenientemente affoga
tutte le morti scomode, ecco il fastidio di una piccola
voce che non tace. E continuerà a non tacere, perché
anche la perseveranza è femmina.
Ogni anno a Milano, sotto casa mia, molta gente si
riunisce davanti a un’aiuola dedicata a Falcone e Borsellino. Leggendo il racconto di Marchiolo dedicato a
Rita Borsellino, vorrei farle sapere che anche qui, a
migliaia di chilometri da Palermo, si alzano le agende
rosse. E vorrei farlo anche perché Isabella Marchiolo
è riuscita a farmi incontrare Rita Borsellino senza
averla mai conosciuta.
Quelli che erroneamente ho chiamato “racconti” in
realtà sono pezzi di vita dal sapore quasi osmotico: Marchiolo ha saputo fondersi con la donna di cui parla, e
ha permesso anche a noi di entrare con l’anima in un’altra anima, un’altra vita che diventa così in qualche modo
anche nostra. Diventa il nostro amore, diventa le nostre
parole non dette, la nostra rabbia, il nostro dolore. Diventa quell’unicum femminile che riesce a trasformare
un incontro in un reale scambio.
Così entriamo nell’amore “nonostante” di Hillary Clinton, che guarda con occhi antichi la figlia
che si sposa e già teme. O l’amore totale dello splendido brano dedicato a Pilar Saramago, un amore di
testa e pelle. O nell’amore impotente di Anna Vespia e Tahereh Panahi, solo davanti all’arroganza del
potere.
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Particolarmente emblematica mi sembra la storia
di Harper Lee, l’autrice di un unico romanzo, Il buio
oltre la siepe, che però le meritò il Pulitzer.
Lei e Truman Capote, nati nella stessa cittadina
dell’Alabama, “l’uno l’inizio dell’altro”: amici da
sempre, da sempre diversi da tutti gli altri. È lei a stimolare l’amore per la scrittura in Capote, è lei a fargli da assistente nelle lunghe ricerche che lo
porteranno a scrivere A sangue freddo – eppure Capote non le riconoscerà mai il lavoro fatto. Se fosse
successo il contrario, probabilmente il nome di Capote sarebbe apparso accanto a quello di Lee Harper
sopra il titolo. Ma il grande scrittore è lui: Harper e
il suo Pulitzer gli hanno rubato la scena, e lui non la
perdonerà. Ecco: laddove per Harper Lee la condivisione è una ricchezza, per Capote è una minaccia,
un’invasione di campo. Alle donne non si perdona il
successo.
La scrittura di Marchiolo fluisce attraverso i pensieri.
Spesso dico che se esiste qualcosa come uno sguardo
femminile nella scrittura, questo si identifica nel punto
di partenza: generalizzando, gli uomini partono dai fatti
per arrivare ai sentimenti, mentre le donne partono dai
sentimenti per arrivare ai fatti. Se così fosse, Isabella
Marchiolo ne è un esempio perfetto.
La forma narrativa è erratica, come se le parole
corressero dietro ai ricordi, e si fissassero sul foglio
solo per l’attimo della lettura, per poi correre via, e al
tempo stesso restare per sempre.
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I suoi sono flussi e riflussi di memoria; non ricordi,
ma parte integrante della vita, del qui e adesso: nella
grammatica emotiva dell’animo femminile, il passato
è un tempo presente.
E attorno e dentro ai ricordi, la “partecipazione ottusa delle cose alle vicende umane”, come scrive l’autrice, che con penna felice racconta di campi, di
soprammobili, di cibi, di case vecchie che “digradano,
come una processione materica di pietra e mattoni”.
Tutto partecipa, anche quando sta a guardare.
E così, donna dopo donna, emozione dopo emozione, si arriva all’ultimo racconto.
Non a caso il ritratto di donna che chiude il libro
è quello di Yoko Ono, la “donna dietro” meno dietro
di tutte, artista e donna d’affari mentre il suo grande
uomo sogna di essere a casa ad accudire il figlio e fare
il pane. Un ribaltamento totale di ruoli che porta in
sé la possibilità di un riequilibrio che potrebbe davvero avere il sapore della parità.
Ecco perché, più di ogni altra, Yoko Ono è stata
vista come la strega: infernale persino nel look, ha diviso i Beatles, ha fagocitato un idolo e lo ha trasformato in un uomo che riscopre i valori della
condivisione, in cui maschile e femminile non hanno
più proprietà esclusive né senso. Ono è il pericolo che
prende forma, il sovversivo inaccettabile. Forse per
questo l’ho sempre amata: give women a chance.
Anche Isabella Marchiolo, in questo senso, è un
po’ una strega: i suoi ritratti ci trascinano nel mondo
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interiore, immaginato ma quanto mai verosimile, delle
donne del nostro tempo. E quando sostiene che “leggere, come scrivere, non è un’azione innocente” ha
assolutamente ragione.
Io, dopo aver letto il suo libro, sono un po’ più
ricca, un po’ più orgogliosa, un po’ più consapevole.
Sicuramente, sono un po’ più in là. E la ringrazio di
cuore, da donna a donna.
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10 grandi donne dietro 10 grandi uomini
Dieci comuni donne straordinarie
Se mi chiedessero di stilare un decalogo di cose, persone o categorie da salvare, un ipotetico bagaglio utile
del mondo di oggi da portare con noi nel futuro, io
non potrei fare a meno di pensare alle donne.
E non è per una sorellanza di genere, perché anch’io sono una donna. No, questa sarebbe semplicemente un’associazione logica: le donne generano vita,
e senza di loro a un certo punto dell’umanità non rimarrebbe comunque nient’altro da salvare. Insomma,
questo significa che non è possibile estinguerci o decidere di cancellarci da un elenco ideale delle cose importanti. E siccome credo poco alle probabilità della
scienza di procreare al di fuori di un grembo femminile, almeno nel futuro che fino ad adesso riusciamo
a immaginare, siamo ancora indispensabili.
Ma in questo libro non ci sono soltanto donne.
Con una locuzione ormai abusata si dice da sempre
che dietro un grande uomo ci sia una grande donna.
Il binomio non mi dispiace. I campanilismi sessuali
sono dannosi da qualunque risvolto li si osservi, e
pure un pianeta privo di uomini diventerebbe territorio impoverito. Per correggere i difetti ed esaltare le
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virtù della generazione umana c’è bisogno di entrambi
i sessi. E se superassimo l’apparente banalità dell’assunto, potremmo accorgerci che, tolte le differenze
fisiche (e certi retaggi genetico-sociali che maschi e
femmine continuano a tramandare e sono come irrinunciabili elementi di un’identità consuetudinaria),
cuore e cervello sono organi asessuati.
Però in questo caso proviamo a ribaltare il detto proverbiale, quello in cui le donne dietro gli uomini sembrano nascoste, quasi messe in punizione, come se
l’idea di grandezza per noi potesse manifestarsi soltanto nel riverbero di qualcun altro nato con una diversa disposizione di tessuti corporei.
Dunque questa volta spostiamo i signori nelle retrovie, e non per galanteria. Piuttosto, facciamo questo scambio partendo da una considerazione. Nella
storia dell’umanità per secoli le donne sono state “dietro” quando non potevano avere un altro ruolo possibile. Esistevamo ma soltanto come compagne, spose
e madri. Il vitale governo della casa e della famiglia, il
parto e la nutrizione dei figli, la cura dei mariti e persino il lavoro nei campi, nell’artigianato o nel commercio diretto erano incarichi secondari rispetto a
politica, affari e guerra, i domini sociali negati al sesso
femminile.
Oggi però lasciare una donna dietro le quinte pare
un anacronismo. Senza impelagarsi nel dibattito su
femminismo, diritti o parità materiale, è indubbio che
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in questi due millenni di esistenza umana abbiamo per
lo meno scavalcato una fila. Non siamo più obbligate
a stare dietro. Così in questo libro continuiamo a essere in due, ma stavolta sono gli uomini a guardarci le
spalle.
Potrebbero essere molte di più queste grandi
donne legate a grandi uomini, ma il numero dieci, rotondo e basilare, è un parametro indicativo. Uno strumento di misurazione che rispecchia dieci modi
diversi di esprimere un concetto di grandezza. Si può
essere grandi facendo politica, ma pure testimoniando
contro criminalità e ingiustizie, o crescendo i figli. Si
può essere grandi scrivendo un libro o cambiando la
propria vita d’impulso e con assoluta certezza per
amore di un uomo. Si può essere grandi ammettendo
timori e fragilità e imparando a travalicarli.
La maggior parte di queste donne – e degli uomini
che stanno “dietro” – sono nomi molto noti, e non è
questa la prima volta che qualcuno racconta le loro
storie. Ecco perché evitando la reiterazione di biografie ho scelto un episodio delle singole vite che intrecci entrambi i personaggi – le donne e i loro uomini
– provando a raccontarlo.
E proprio come in un racconto qui oltre alla fotografia dei nostri tempi ci sono sentimenti e parole,
gesti e luoghi. Troverete episodi reali insieme a immagini narrative. Frasi intatte nell’esattezza di come
sono state pronunciate, che si fondono in dialoghi da
romanzo. Fatti realmente accaduti, e minime paren15
tesi d’immedesimazione. Immedesimazione femminile, ovviamente. Perché, mentre scrivevo, la notorietà
di queste donne si è stemperata in una forte empatia.
Pensavo: queste donne sono davvero grandi, ma nello
stesso tempo, dentro lo spazio emotivo di questo momento della loro vita che sto provando a interpretare,
sono un po’ come me. Semplicemente donne. E per
questo straordinarie.
Per esempio, Michelle Obama. Certamente – e la sua
storia personale lo dimostra – non è una ragazza della
porta accanto, la sanguigna first lady statunitense che
con il suo intuito ha accompagnato l’elezione del
primo presidente afroamericano. Ma anche lei, come
tante donne in ogni angolo del globo terrestre, è una
mamma che deve conciliare la carriera con la famiglia,
e per di più, nel suo caso, far entrare tutto questo nella
speranza di cambiamento di Barack Obama. Ed è così
che io l’ho raccontata: una madre che prende un bidone dalla tata e deve presentarsi a una selezione di lavoro con la figlia di un anno che scalcia dentro il
passeggino.
Per Michelle quel giorno è una prova del fuoco.
Siamo a Chicago, è vero. Non so come sarebbe andata in Italia, se io avessi portato la mia bambina a un
colloquio. Ma Michelle non si sentiva sfavorita dalle
circostanze. Era convinta di quello che faceva – ribadirsi professionista e madre, senza inganni – e riuscì
a ottenere il posto. Da allora la sua organizzazione
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materna diventa una stella polare che non si sposta
neppure quando gli Obama arrivano a Washington
come coppia presidenziale.
Facendo un salto nel futuro il mio racconto si
ferma alla vittoria elettorale. Non sono andata oltre
perché addentrarmi nell’attività di Barack Obama sarebbe stato un esercizio nozionistico. E anche per scaramanzia di sognatrice: quello che è accaduto dopo lo
stiamo ancora vivendo, e sperando, insieme al presidente Nobel per la pace.
Poi c’è Hillary Clinton, che di solito ispira emozioni
contrastanti. A molti riesce antipatica, lei e la parodistica crasi “Billary” che più d’uno ha letto come un
sodalizio senza scrupoli morali in nome del potere.
Secondo me, invece, l’aver perdonato un tradimento
umiliante finito nel trogolo del gossip è stato un eccezionale atto di forza. È probabile che in tutto questo oltre all’amore ci sia stato un po’ di calcolo, certo:
la politica non è uno spazio ingenuo. Ma Hillary e Bill,
coppia frantumata e rimasticata dagli scandali, sono
sopravvissuti. Lui si è spostato “dietro” per sostenere
l’ambizione di lei: essere la prima donna presidente
degli Stati Uniti. Hillary non ce l’ha fatta, ma – altra
prova di grandezza – ha capito che una diversa potente utopia stava per diventare realtà nel suo paese.
Ha sostenuto Obama e oggi lavora nel governo.
La “mia” Hillary è un’intersezione di età femminili. La racconto nel giorno delle nozze della figlia
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Chelsea, un evento che la riporta indietro, alla storia
del proprio matrimonio, e al contempo la proietta in
un sereno avvenire di sessantenne. Non più nell’agone
politico, ma dentro un’altrettanto piena identità di avvocato e di nonna.
Un’altra donna generalmente ispida all’opinione
pubblica è Yoko Ono. L’eccentrica artista giapponese vedova di John Lennon è considerata la responsabile dello scioglimento dei Beatles. L’hanno
accusata di aver iniziato Lennon alle droghe e della
deriva surreale della sua produzione musicale. Pochi
però ricordano che l’attività pacifista di Yoko, precedente alle nozze con l’ex Beatles, nasce dalla diretta esperienza della guerra, subìta nell’infanzia e
impressa traumaticamente nella coscienza di questa
signora. Credo che Imagine sia una delle più belle canzoni di tutti i tempi, ma quelle stesse parole, vent’anni prima, Yoko Ono le componeva nei versi dei
suoi happening artistici. Un rimedio alla portata di
tutti: immaginare.
Ho scelto di raccontare la storia di questa coppia
rivivendo la sera in cui John Lennon venne ucciso
dallo squilibrato Mark Chapman, ma concentrandomi
su un dettaglio intimo, una piccola conca privata nella
spettacolarità mediatica di quella morte. Yoko è la depositaria delle ultime ore di John: prima di girarsi al
richiamo del suo assassino lui le confida che vuole vedere il figlio di cinque anni prima che s’addormenti.
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Mi sembra che questo bambino, arrivato dopo tante
gravidanze fallite di Yoko, il racconto della sua nascita
e di quello che significò per i Lennon, offra una chiave
di lettura inedita di tutte le vicende della coppia.
Riflettendo sui contorni della “grandezza”, mi è venuto in mente anche il nome di Pilar Saramago, seconda moglie del romanziere portoghese premio
Nobel per la letteratura. Forse sarò stata di parte, poiché adoro i libri di Saramago e tutto ciò che questo illuminato scrittore ha saputo dire e pensare.
Ho provato a immaginare il primo incontro tra
Pilar e José, tanto perfetto da somigliare a una preziosa verifica di quanto la vita possa somigliare a un
romanzo. Una giovane giornalista legge un libro e,
folgorata dal personaggio femminile di quella storia,
decide di conoscere l’autore, venticinque anni più
anziano di lei. Se ne innamora, lo sposa e si trasferisce con lui dal suo paese, la Spagna, a Lisbona. Pochi
anni dopo accetta di lasciare l’Europa continentale
per seguire suo marito, accusato di blasfemia, in un
testardo esilio volontario alle Canarie.
Ho provato a raccontare sprazzi di questo solidissimo matrimonio e da subito, a differenza delle altre
storie narrate nel libro, la scrittura si è dispiegata in
un monologo in prima persona. Pilar, per come l’ho
vista io, aveva bisogno di un’interiorità più forte perché parlava d’amore.
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Uso l’io narrante per un altro personaggio che mi è
apparso molto introspettivo, quello della scrittrice
Harper Lee, la riservata signora dell’Alabama che ha
firmato un unico romanzo, intitolato in italiano Il buio
oltre la siepe e conosciuto di riflesso per il bel film del
’62 di Robert Mulligan, interpretato da Gregory Peck.
È la storia di un processo a carico di un bracciante
nero accusato di uno stupro mai commesso, e dell’avvocato Atticus Finch, che tenta di salvare l’uomo
dall’impiccagione. Accade negli anni Trenta nel sud
americano più coriaceo ad abbandonare la segregazione razziale. In quegli stessi anni e nella stessa indolente metà d’America, Harper Lee viveva con il
padre avvocato ed era una bambina, come la voce narrante del romanzo (la ragazzina-maschiaccio Scout,
figlia di Atticus). Vestiva sformate salopette pantaloni
e giocava con un coetaneo di nome Truman Persons,
suo vicino di casa che, adottato dal marito della
madre, diventerà Truman Capote.
Sono due gli episodi che mi hanno affascinato della
vita di Harper Lee (poco nota a causa della scontrosità
dell’autrice). Il primo è l’impeto di rabbia che la spinge
a gettare dalla finestra l’ennesimo manoscritto, più volte
rifiutato dagli editori. Subito dopo, costretta dalla sua
agente, Harper recupererà i fogli dal cortile umido di
neve. E sarà proprio quella stesura a diventare la versione definitiva del romanzo vincitore del Pulitzer.
Ma nella storia di Harper Lee, oltre alle avventure
di Atticus e Scout, ci fu anche l’intermittente amicizia
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con Capote. Anni prima di quel volo di fogli nel cortile, entrambi avevano lasciato Monroeville per tentare la carriera letteraria a Manhattan. Lui, che si fa
notare subito per Altre voci, altre stanze e soprattutto
Colazione da Tiffany, viene turbato dalla cronaca di un
barbaro omicidio avvenuto nel Kansas. Così si mette
in testa di scrivere un romanzo-verità (allora il genere
non esisteva ancora), e chiede ad Harper di accompagnarlo nella cittadina di Holcomb per fare ricerche sul
delitto.
Il libro in questione è A sangue freddo, primo esempio di fiction incrociata al giornalismo. All’uscita del
romanzo Capote “dimentica” di citare la collaborazione dell’amica, dotata del senso pratico che invece
mancava allo scrittore per ottenere informazioni sulla
storia dei Clutter, la famiglia di agricoltori massacrata
da due ladri. Da allora le loro strade si dividono: Capote, vittima del suo stesso personaggio di romanziere
“maledetto”, si darà alle droghe e sarà stroncato dalla
cirrosi. Lee vedrà il suo libro negli annali della letteratura americana. Io sono tornata indietro, all’origine dei
destini incrociati dei due scrittori, a quel fosco viaggio
di Harper e Truman tra i campi di grano del Kansas,
alla ricerca della metà segreta dell’umanità.
La meno conosciuta tra queste dieci signore è probabilmente Tahereh Saeedi, moglie del regista iraniano
Jafar Panahi, premiato autore di film neorealisti. È
grande, questa Tahereh Saeedi, intanto perché donna
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che pensa e parla in un paese dove il sesso femminile
è una tara d’inferiorità. Un paese dove realmente le
donne restano “dietro”.
Per il loro sostegno alle proteste antigovernative
dopo la rielezione taroccata di Ahmadinejad, a Teheran i Panahi sono stati arrestati due volte, durante
azioni ritenute sovversive. La prima è stata pregare
sulla tomba di una ragazza uccisa perché rivendicava
il suo voto. La seconda è stata filmare la carica dei pasdaran per un documentario mai girato, ed è questo
l’episodio che racconto. Nel marzo del 2010 lei viene
rilasciata subito mentre lui rimane quasi tre mesi in
una cella del famigerato carcere di Evin, la disumana
prigionia riservata ai dissidenti politici. E Tahereh
emerge. Non è più dietro, anzi adesso nella fila della
coppia è rimasta soltanto lei: lui è ridotto a un fantasma e solo Tahereh può diventare la sua voce. Usa Facebook insieme al figlio, rilascia interviste, annuncia
che il regista ha intrapreso uno sciopero della fame e
rischia di morire in cella. È una donna che dice a tutti
quello che in Iran non si può dire.
Infine, le italiane di questo libro. Sono quattro, e
nelle loro storie miscelano tutte luminosi tratti di umanità e forza d’animo.
Di Mina Welby, moglie di Piergiorgio, ho amato molto
la lotta interiore tra i principi cattolici e la matura consapevolezza dell’esistenza di un’altra morale al di là
dei dogmi. Si è innamorata di un uomo malato di di22
strofia e avviato alla morte in condizioni fisiche spietate.
Come avrebbe fatto ogni donna innamorata, a lungo ha
tentato di trattenerlo. Ha imparato competenze di assistenza medica, sotterfugi di vita, invenzioni per aggirare
la reclusione fisica del marito. Ma Piergiorgio amava
troppo vivere per rassegnarsi a un surrogato. Così Mina,
lentamente, ha capito. Ha aiutato il suo uomo a lasciar
andare quella sua carne svuotata. Non è stato facile, ed
è lei stessa ad ammetterlo in varie occasioni.
Ho raccontato la grandezza di Mina negli ultimi
guizzi di ribellione alla scelta di Piero: non aprire la porta
di casa all’anestesista che avrebbe definito le modalità
dell’eutanasia, denunciarlo chiamando la polizia, concedersi l’arrendevole sincerità delle lacrime, persino richiamare la seduzione del passato – della vita –
proponendo al marito l’ascolto delle canzoni delle loro
escursioni a pesca. Istinti mai negati da Mina, che anzi
hanno rafforzato l’attimo nitidissimo della sua comprensione.
Anna Vespia è la vedova di Natale De Grazia, il capitano
di corvetta morto nel ’95, ufficialmente per infarto, durante una missione. De Grazia faceva parte, come consulente tecnico, della squadra investigativa della Procura
di Reggio Calabria sul traffico internazionale di rifiuti
tossici nel mare. De Grazia morì mentre viaggiava da
Reggio a La Spezia, dove avrebbe acquisito altre informazioni su una nave sospetta, la Jolly Rosso. Quasi quindici anni dopo nei fondali di Cetraro, sempre in Calabria,
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viene localizzato un altro relitto, e gli investigatori, affidandosi anche alle parole del pentito ’ndranghetista
Francesco Fonti, sono convinti che si tratti della Cunsky,
cargo fatto scomparire sotto il mare e imputato di trasportare materiale tossico. Ci sono intrighi di armi e
mafia, bussole che uniscono il sud d’Italia a rotte lontane
e inquietanti. Ma il ministero smentirà, identificando il
relitto in un’innocua nave abbattuta durante la prima
guerra mondiale.
Di questa storia di misteri mai chiariti ho tentato di
raccontare la metà femminile. Un uomo che muore
senza cause apparenti, di un male fulminante. La moglie di quest’uomo che intuisce subito i dubbi di quella
vicenda, non crede all’infarto del marito e ha il coraggio
di dirlo chiaramente anche in situazioni che potrebbero
apparire diplomaticamente scorrette, come l’assegnazione della medaglia d’oro al valore in memoria di Natale. La signora va a ritirare l’onorificenza ma poi, senza
giri di parole, dichiara ai giornalisti che finché non si farà
chiarezza sulla fine di De Grazia lei e i suoi figli non sapranno cosa farsene di commemorazioni e “patacche”.
E fa notare che nella motivazione della medaglia hanno
messo certe sospettose virgolette, proprio quando si cita
la morte del capitano.
Poi intitolano a Natale De Grazia il lungomare di
Amantea, e Anna allora si commuove. Ricorda l’amarezza rimasta negli ultimi mesi del marito, durante l’indagine sulle navi radioattive: che qualcuno, per giochi
d’interesse, avveleni il mare.
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Per me Rita Borsellino è, come Mina Welby, una donna
fortificata dagli eventi. L’autobomba di via D’Amelio, che
le ha ucciso il fratello e sfregiato i luoghi della loro infanzia, ha cambiato la sua vita. Lei stessa dice di aver aperto
gli occhi, che erano fino ad allora chiusi per atto di prevenzione. Non vedere fa meno paura. Ma poi Paolo, il
suo filtro dell’anima oscura di Palermo, all’improvviso
non c’era più. Da signora borghese Rita si è trasformata
in attivista antimafia, è entrata in politica ed è stata eletta
europarlamentare, seconda votata in Sicilia dopo Berlusconi.
Mi è piaciuto immaginare i suoi pensieri durante l’annuale raduno palermitano delle “agende rosse”, il simbolo della morte di Paolo Borsellino, quel quaderno
scomparso dove il magistrato annotava le analisi sul rapporto tra mafia e politica. L’ho raccontata nel nucleo caldo
della sua città perché Rita è una che non ha più paura dell’omertà di Palermo. Di ammettere che Palermo è un figliol prodigo che respinge l’amore perché non vuole far
capire che ha bisogno di essere amato. Non ha più paura
di arrabbiarsi contro una città che “puzza di rassegnazione”, e insieme di incoraggiare quei palermitani che agitano il simulacro dell’agenda rossa e stendono lenzuoli
bianchi ai balconi.
Tra le mie donne cercavo anche una madre tenace incuneata in un forte rapporto con un figlio. Così ho pensato
ad Antonietta Vendola. Una signora pugliese all’antica:
sposa giovane, impareggiabile cuoca, madre di quattro
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figli allevati prima con il latte e poi con la pasta casereccia. Una che veste i ragazzi senza togliere di dosso il grembiule, e che gli ospiti li fa entrare cameratescamente in
cucina. Una che forse, come mia madre, davvero possiede ancora un vecchio modello del “cubo” Brionvega e
ascolta la musica mentre cucina.
Donna Tonia è diventata suo malgrado un personaggio pubblico negli anni dell’exploit politico di suo figlio
Nicola, ribattezzato Nichi in onore di Nikita Kruscev. Ma
il bello è che in questa famiglia di Terlizzi riuscivano a essere comunisti e credere nel Dio dei cattolici. Anche una
che aveva letto pochi libri come Antonietta.
Nichi è un bravo bambino e diventa uno studente
esemplare. A un certo punto, ventenne, decide di rivelare una cosa importante di sé. Una cosa che negli
anni Sessanta in Puglia di solito si tiene nascosta.
Nichi è omosessuale. Mamma Antonietta e papà
Francesco non la prendono bene. Per molti anni in
famiglia i rapporti sono tesi, si soffre da entrambe le
parti. Il mio racconto inizia a Terlizzi in un pomeriggio di luglio lontano da quel coming out pionieristico,
quando Tonia e Francesco sentono alla radio la voce
di Nichi, che sta parlando al World Gay Pride di
Roma. Quando la voce del figlio si smorza, gli telefonano. Per chiedergli perdono.
Il resto che abbiamo letto in questi mesi su donna
Tonia è soprattutto folklore. Lei che frigge fiori di
zucca insieme al figlio, diventato governatore della Puglia, o il bacio di Nichi dopo la vittoria elettorale. Ma
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a me è rimasto soprattutto quel brillante esempio di
grandezza. Una donna di oltre settant’anni che non
sa nulla di orgoglio omosessuale e ricorda ancora le
bellissime fidanzate che Nichi adolescente le portava
in casa. Antonietta che associa l’orecchino soltanto all’icastica fisionomia dei carrettieri meridionali e magari immagina una nuora che a Natale impasti le mani
nella farina insieme a lei per le immense tavolate di
cavatelli e pane all’albume pugliesi. Un sogno che, a
oltre settant’anni, ha avuto il coraggio e l’intelligenza
di ribaltare insieme a suo figlio.
Queste donne, ho pensato, sono grandi personaggi –
quanto gli uomini a cui hanno legato le loro vite – ma
hanno anche qualcosa che forse è come me. E vorrei che
da queste pagine venisse fuori l’umanità femminile, il diaframma tra un’esistenza comune e lo slancio verso esperienze che sono fuori dall’ordinario. In certi passaggi le
signore forse troveranno qualche iato tra la realtà e lo spazio di libertà espressiva che connota una narrazione.
Se questo sottile dislivello c’è, è lì affinché ogni
donna, come me, leggendo queste storie decripti, oltre
la notorietà e la cronaca, quello che un racconto, meglio di ogni resoconto giornalistico, riesce a produrre:
minuscole tracce di grandiosità umana che tutti noi,
nelle nostre vite, possiamo ritrovare.
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Michelle Obama
Un passeggino nel curriculum
Quella mattina di nove anni fa la decisione le apparve
di un’assoluta limpidezza, come riflessa su una lastra
di vetro. Michelle Obama vide il fotogramma trasparente di se stessa che sistemava la bambina nel passeggino, stringeva le cinghie di sicurezza e andava al
colloquio al Medical Centre insieme alla piccola.
Sistemò Sasha nel seggiolino sul sedile posteriore,
poi ripiegò il passeggino e lo chiuse nel cofano dell’auto. Le villette a schiera di Hyde Park impigrivano
al sole, spalleggiate dalla corona di mattoni degli alloggi studenteschi.
Non pensò che apparire come una donna in carriera bidonata dalla baby sitter avrebbe potuto penalizzarla. Negli uffici dell’università lavorava già da
anni, conoscevano lei e il marito che aveva insegnato
legge. Mise in moto vigilando dallo specchietto su
Sasha, che dondolava i piedi molestando lo schienale
del sedile anteriore. La cosa non era in discussione.
Voleva quel posto di referente sanitario all’Università di Chicago, sapeva di averne pieni requisiti. Ma
era e sarebbe stata sempre una madre. C’erano in lei
due metà indivisibili.
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Guidò fendendo la camaleontica demografia del
quartiere, la prossimità tra botteghe e abitazioni in un
condominio interetnico formato famiglia. Il centro
della South Side – i grattacieli, i capannoni delle fabbriche dismesse e i magazzini di carne in gelatina –
restavano a distanza di sicurezza, undici chilometri segati a metà dal braccio nerboruto del fiume. Sasha
gongolò succhiando un anello di plastica per massaggiare i dentini. In un istante, attraverso la membrana
nitida della coscienza, per Michelle quello divenne
anche un fatto di onestà. Il Medical Centre le avrebbe
richiesto un nuovo tipo di impegno. Ma se l’avessero
assunta, dovevano saperlo subito che esistevano dei
limiti. Come tutte le madri, lei sarebbe stata una da
cui i superiori si aspettano che sottolinei il calendario
nei giorni dei compleanni delle figlie, guardi l’orologio
per arrivare in tempo ai saggi scolastici, giustifichi
contagi esantematici e defezioni delle baby sitter. Se
volevano lei, tutto questo sarebbe potuto accadere.
Meglio che lo sapessero così, senza filtri. Con il vivace
ingombro di una bambina nel passeggino.
L’Università le si stagliava dinanzi nella sua geometria smerigliata, un reticolo di edifici comunicanti,
torri e finestre ogivali. Sorrise: non avrebbe mai potuto vivere da un’altra parte. Certo, era cambiato tutto
nella South Side di Chicago. Non era più la ferita purulenta della città, dove l’alta concentrazione di miseria e microcriminalità faceva paura anche a Martin
Luther King. Ma vivendo lì la memoria del ghetto di
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Bronzeville rimaneva ugualmente stampato nel suo
DNA: lei aveva bisogno di svegliarsi ogni mattina e
sentire le vene sotterranee della cintura nera dietro il
loro quartiere residenziale, privilegio dei dipendenti
universitari. I suoi antenati erano stati schiavi, e Michelle non voleva dimenticarlo. Adesso nella South
Side c’erano ispanici, irlandesi e cinesi. La comunità
afroamericana sconfinava nei ceti di classe superiore,
gli Obama avevano una villetta a due piani con giardino, situata al crocevia della mappa rettangolare tra la
53esima e 57esima Avenue. I loro vicini erano insegnanti, impiegati, sanitari e professionisti. Sapeva che
suo marito voleva trasferirsi a Washington, avrebbe
tentato di nuovo di entrare al Senato federale. Ma lei
se ne teneva ancora fuori. E poi le figlie non dovevano crescere disgiunte dalle loro radici, quella era una
premessa quasi morale. Così sarebbero rimasti a Chicago, dove i genitori di Michelle l’avevano cresciuta
mostrandole la cicatrice segregazionista della linea
Dan Ryan.
Il presidente del Dipartimento Affari Esterni slegò le
dita dai palmi uniti. Guardò madre e figlia dall’altra
parte del tavolo: “Ci aspettiamo molto da te, Michelle.
Con due bambine… sei sicura di poterlo fare?”
“Fino a oggi ci sono riuscita. E senza fare troppo
la rompiscatole, mi sembra”.
L’altro sorrise alla battuta, la chiostra dei denti era
ingiallita dalla nicotina. Poi fece un gesto vago con la
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mano: “Sì, ma qui avresti un ruolo direttivo. E molte
responsabilità in più”.
Anche lei sorrise: “Se sono io a decidere, posso organizzare tutto da sola, anche i miei orari”.
La bambina assisteva alla scena un po’ annoiata del
contrattempo, spettatrice in quella arena d’adulti dove
sua madre reiterava la strategia di ogni donna lavoratrice.
Uscirono fuori nello sbalzo di luce del giorno. Attraversando il parco dell’università, Michelle salutò una
collega e proseguì diretta all’auto. Gli studenti erano agglutinati in gruppi sul prato. C’erano etnie eterogenee,
e molti neri. Nel parcheggio si addentrò nel serraglio
di utilitarie, Chrysler e mastodontici SUV.
Quella mattina del 2002, ritornando a casa con la
prospettiva di un incarico dirigenziale e uno stipendio più consistente di quello del marito, Michelle si
domandò quanto l’avesse cambiata la famiglia. Una
clessidra si era capovolta. Se visualizzava la vita prima
del matrimonio si rivedeva prosciugata come uno
spremilimoni, coriacea nel cavar fuori da sé l’ultima
acre goccia di determinazione. Tutto per dissipare la
prima impressione, che era sempre quella della razza. Ricordava i rapporti formali con i professori a Princeton,
il loro enfatico incoraggiamento. C’era una tonalità diversa nel modo in cui la convocavano nei loro uffici.
La trattavano come una che doveva rimarginare un
handicap: prima soppesavano il fatto che fosse nera,
il resto veniva dopo. Aveva dovuto guadagnarsi il diritto a essere solo una studentessa, e poi solo un av31
vocato. Senza che al sostantivo seguisse l’aggettivo del
colore.
Subito dopo la specializzazione ad Harvard, nel ’90
aveva ottenuto il primo lavoro a Chicago come socia
nello studio legale Sidley Austin, e quell’estate le avevano affidato un praticante della sua stessa scuola, uno
molto bravo. Pensò che aveva un nome bizzarro, quel
Barack Obama. Ma quando lui bussò alla porta del
suo ufficio, non poté evitare a se stessa l’impatto di
una seduzione volatile. Andarono a pranzo insieme,
Michelle fu diretta come al solito: “Per mesi non
hanno fatto che parlare di te, allo studio. Sei una specie di fenomeno”.
Lui sorrise e Michelle pensò che le piaceva come
sorrideva. Le rispose con una domanda: “E tu che
idea ti sei fatta?”
Fu incerta se ammettere la verità, cioè che lo trovava attraente, poi le venne da dire che l’avevano incuriosita le sue origini hawaiane.
Lui annuì: “Alle Hawaii ci sono cresciuto, ma mio
padre viene dal Kenya, e mia madre è del Kansas, una
bianca”. “Ah”, aggiunse, “ho anche vissuto in Indonesia”.
Un mese più tardi Barack insisteva per portarla
fuori a cena. Lei eludeva gli inviti, non le andava l’ambiguità di una relazione con un collega. “Non è il caso.
Sono la tua consulente, sarebbe poco appropriato”, gli
spiegò una sera all’uscita dallo studio, mentre un vento
smilzo sembrava salire dalle losanghe del marciapiedi.
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“Ma se a noi due va, che importanza vuoi che
abbia?”, ribatté lui.
Il programma si ampliò a un’intera giornata insieme. L’Istituto d’Arte, un piccolo caffè con la musica jazz dal vivo e Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, che
non è esattamente un film d’amore. E invece fu l’inizio della loro coppia. Certo, anche perché erano neri
e non intendevano far finta che non contasse. Il suo
colore Michelle lo sentiva addosso come una febbre.
E da quando conosceva quell’ambizioso studente le
sembrava di capire meglio. Le differenze resistevano
ancora, erano un istintuale fattore di separazione
umana. Nonostante i loro successi personali, entrambi
lo sapevano: nella libertaria America veniva sempre
prima la razza.
Dopo il divorzio dei genitori, Barack era cresciuto
tra i bianchi, nella famiglia di sua madre. “In realtà”,
diceva a Michelle, “io da piccolo non me accorgevo
neanche che mio padre era nero come la pece. Lo vedevo così poco e non mi sembrava diverso dagli altri
di casa. Non è assurdo? L’ho capito dalle fotografie”.
Due anni dopo il praticantato alla Sidley Austin,
lui stava per concludere gli studi e iniziò a fare progetti. “Se due persone si amano”, le chiedeva, “che
cos’è il matrimonio per te?”
Fino ad allora lei aveva dedicato ogni energia alla
carriera, ammetteva solo storie disimpegnate. Ma ricordò sua madre e suo padre nella casa costruita negli
anni Venti al secondo piano sulla Euclide Avenue, i
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tetti verde muschio e il giardino con l’olmo frondoso.
E gli rispose: “Credo che il matrimonio e la famiglia
siano tutto”.
Allontanandosi dall’università, Michelle s’immise sulla
54esima strada. La bambina si era addormentata mordicchiando il massaggiatore dentale, che le stava scivolando dalla stretta allentata delle dita. All’orizzonte
s’indovinava la specchiera del lago Michigan, solcata
da vele e canoe. Sposarsi, mettere al mondo dei figli
aveva sparigliato le carte. Qualcosa l’aveva fermata
nello slancio, un elastico che tirava dalla parte opposta. Quella mattina tentò di localizzare la spinta perduta dell’altra direzione. Le piaceva essersi trasformata
in una mamma, i cui sentimenti avrebbero potuto
scomporsi infinite volte in quelli delle altre madri americane? Cosa ne era stato dell’ambizione? Ma quel
giorno lei aveva ottenuto il lavoro che voleva. Michelle
iniziò a credere che le donne potessero pretenderla
davvero, dalla società e dallo Stato, la loro quadratura
del cerchio.
Due anni dopo suo marito sarebbe diventato il
primo senatore federale afroamericano degli Stati
Uniti, e Michelle avrebbe dovuto cambiare i suoi programmi. Ma la mattina del colloquio al Medical Centre era ancora tutto molto pragmatico, incasellabile nel
regolare mosaico di moglie e madre. Calibrare casa e
lavoro, dare istruzioni alle tate. L’incombenza dei pannolini di tessuto per non inquinare il pianeta. L’alta34
lena di stringere e allentare le cinghie del passeggino.
Prendersi cura di un marito disordinato dettando le
regole elementari della convivenza.
La politica era un corpo estraneo. Nel 2000, mentre lei era incinta di Sasha, la sconfitta di Barack alle
primarie dei Democratici per il Congresso aveva
aperto una crepa. Alla dichiarazione di Bobby Rush,
secondo cui Obama non conosceva abbastanza il distretto congressuale per rappresentarlo, Michelle indurì la pelle. Anche perché erano neri, e quella era la
solita dimostrazione da dare. “Non lo capisci che se
davvero vuoi fare politica”, gli disse, “tu non hai
scelta? Devi vincere, altrimenti avremo fallito. E io
non starò qui a vederlo succedere un’altra volta”.
Era anche per via dei figli, quello scollamento coniugale. Una sorellanza femminile, le emozioni come
una statistica riproducibile, che è difficile non s’inneschi. Diventi mamma e sei un po’ meno moglie. Stava
per nascere un’altra bambina e Michelle non voleva
impelagarsi in beghe politiche.
“Sai una cosa?”, le disse suo marito, “Ogni notte ti
guardo accanto a me nel letto mentre dormi, e penso
che sei una persona completamente diversa da me.
Credo che sia per questo che ti amo. È per questo che
tra noi è speciale”.
Michelle ricordò che quando aveva partorito la figlia maggiore tornarono insieme dall’ospedale, in tre.
Lui guidava a passo d’uomo, con concentrazione,
spiando lei e la bimba dallo specchietto retrovisore. Mi35
chelle poteva vedergli il ventaglio di rughe all’angolo
dell’occhio destro, la tensione paterna satura di responsabilità. La città era un involucro di palazzi e linee
stradali, una mole bombata attorno all’esistenza della
loro famiglia raggomitolata nell’auto come dentro un
secondo utero. “Le darò tutto l’amore che a me è
mancato”, aveva sussurrato Barack.
Nel 2004 Obama ci avrebbe riprovato al Senato,
vincendo. D’improvviso suo marito era nuovamente
un fenomeno, come ai tempi dello stage alla Sidley
Austin. I giornalisti gli chiedevano se si sarebbe candidato alle presidenziali del 2008. Ma Michelle rimaneva pragmatica.
Si ritrovavano nei fine settimana a Chicago, andavano a comprare i libri da Powell, cenavano in famiglia come se non ci fosse nulla di nuovo. Una
domenica a colazione nella loro caffetteria sulla
57esima, davanti a un piatto di uova strapazzate e patate cotte nella cenere, lei commentò: “Credo che tu
abbia fatto molto anche qui in Illinois, per la sanità ad
esempio”. Abbassò la tazza del cappuccino: “C’è il
tuo progetto di legge per l’assicurazione sanitaria ai
residenti a basso reddito, ma nessuno se n’è accorto.
Ragionano solo sui numeri”.
Barack si tamponò una salvietta sulle labbra: “Però
al Senato federale adesso posso fare di più”.
Michelle sollevò un sopracciglio: “Non avrai
davvero intenzione di candidarti alla presidenza?”
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“No, non ci penso affatto. Ma se cambio idea sarai
la prima a saperlo”.
Nel 2007, a febbraio, Obama avrebbe annunciato
ufficialmente la sua candidatura. Pochi mesi dopo Michelle, nel suo vestito industriale di Wal-Mart adornato dalla collana di perle, parlava di suo marito dietro
un podio, con alle spalle i colori della bandiera americana e lo slogan “Yes, we can”. Un giornalista le chiese
un parere sulla sua partecipazione alla campagna elettorale. Michelle rispose: “Il candidato è lui. Io sto vedendo tanti salotti e ora ho qualche idea in più per
l’arredamento di casa”. Ma lei smuoveva qualcosa
nella gente, se ne accorse subito. Un’altra lastra di
vetro come il giorno del colloquio al Medical Centre,
la smagliante radiografia della loro nuova vita.
Sulle bambine però non si lasciava imporre contratti, neanche da Barack. Aveva stabilito talismani familiari che dovevano restare intatti. Il tifo materno alle
partite studentesche pattuito con chiusure anticipate
dall’ufficio, le preghiere recitate sulla sponda dei lettini, le più profane invocazioni a Babbo Natale o alle
fatine dei denti. La figlia più piccola a letto alle 20 e 30,
la maggiore mezzora dopo. Questa rigorosa scansione
di attività domestiche le dava sicurezza. La vita doveva continuare a essere una nota sulla lavagna magnetica che registrava le mansioni quotidiane.
“Se sei con me, ti giuro che vinco”, diceva lui.
Lei incrociava le braccia: “Devi smettere di fumare,
Barack. E io lavorerò alla campagna non più di due
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giorni a settimana. Non passerò più di una notte a settimana fuori casa. Sono le mie condizioni. Prendere o
lasciare”.
Suo marito assentì: “È giusto, lo sai che anch’io ci
tengo a non scombussolare le bambine”.
“C’è un’altra cosa. Con me voglio uno staff di
donne”.
Il 18 febbraio del 2008 Michelle arrivò nel Wisconsin. Avrebbe dovuto parlare a Milwaukee e poi a
Madison. Suo marito era in vantaggio e lei stava dissipando il cinismo politico. Si affacciò sul podio: “Per
la prima volta nella mia vita adulta mi sento fiera del
mio paese. E non perché Barack abbia lavorato bene,
ma perché sento che la gente è affamata di cambiamenti”.
Scoppiò una polemica. Quella frase era antipatriottica, Michelle Obama fu definita una “nera arrabbiata”. E lei ripensò al loro sogno, suo e di Barack.
Che un giorno in America la razza smettesse di venire
prima del resto. Ma le critiche non scalfirono la sua
genuina presa sulle donne. La competizione – quella
femminile, oscena e subdola – non scattava. Lei ispirava un coinvolgimento raggiungibile. Perché in Michelle tutto filtrava dalla rocciosità dell’unione col
marito. Gli Obama lampeggiavano per comune combustione. Insieme erano calcarei, spugnosi. L’intesa
con un uomo è qualcosa alla portata di tutte. È un
connotato sessuale, un’aspirazione possibile.
Sarebbe diventata presto tutta una questione di
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sensi. Vista e tatto, soprattutto. La gente notava subito la gestualità privata. Serviva umanizzare l’utopia
di Obama con elementi tangibili. E il sesso era uno di
questi elementi. Lei che gli premeva le dita sul braccio,
la mano di lui che le percorreva la schiena.
Alla Convention democratica del 2008 tutti seguivano in silenzio il film dove Marian, la madre di Michelle, raccontava l’infanzia della signora Obama. I
sacrifici del padre, malato di distrofia muscolare, che
aveva mandato i figli a Princeton continuando ad alzarsi tutte le mattine per prendere servizio all’acquedotto pubblico. La platea del Pepsi Center di Denver
applaudiva la donna in tubino verde acqua affiancata
dalle figlie e replicata sul maxischermo. “Io e mio marito”, disse Michelle, “siamo cresciuti con gli stessi valori. Lavorare duramente per ciò che si vuole
raggiungere nella vita, mantenere la parola data, trattare le persone con dignità e rispetto, anche quando
non siamo d’accordo con loro. E sono gli stessi valori di tutti voi”.
Fece una pausa: “È grazie a uomini come mio
padre e mio marito, alla loro determinazione, se
l’America questa settimana può festeggiare 88 anni di
voto alle donne e 45 anni dal discorso di Martin Luther King, che ci ha ispirati con il suo sogno”.
Il 4 novembre 2008 Barack era diventato il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti e Michelle doveva cedere su un punto: per i prossimi anni
vivranno alla Casa Bianca.
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La mattina del colloquio all’Università di Chicago, Michelle Obama tornò a casa costeggiando il nastro
verde di Hyde Park. Più tardi avrebbe rimbrottato la
baby sitter. Avrebbe vigilato sui tagli alla televisione
per le bimbe. Avrebbe ragionato sul suo nuovo incarico.
Di una cosa era certa. Per una madre lavoratrice
ogni minuto trascorso con i figli è un benefico, assolvibile furto all’orologio del lavoro. Perché lei doveva
ancora sostenere tanti esami. Essere donna, madre,
nera. Un lato racchiudeva l’altro, pareti parallele in un
domino di banchi di prova. Ma quella mattina non
aveva fallito, l’equilibrio aveva retto. Era una dipendente rompiscatole come tutte le madri, ma avevano
scelto lei. Per le bambine avrebbe continuato a camminare sul filo. In un futuro più lontano sull’asse del
tempo, e finché fosse stato necessario, lo avrebbe fatto
davanti all’America intera.
Si morse un labbro sorridendo, al pensiero di
quando avrebbe raccontato a Barack del colloquio. E
quella sera, dopo aver messo a letto le bimbe, vegliata
dalle braci rossastre delle sigarette che punteggiavano
il parco dell’università, in giardino avrebbe sfidato suo
marito a pallacanestro.
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