Agatha arrivò all`aeroporto di Heathrow abbronzata fuori e rossa per

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Agatha arrivò all`aeroporto di Heathrow abbronzata fuori e rossa per
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Estratto da
M.C. Beaton, Agatha Raisin e il veterinario crudele
Titolo dell’opera originale
Agatha Raisin and the Vicious Vet
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
©1993 by M.C. Beaton
© 2011 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: giugno 2011
ISBN 978-88-96919-06-4
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Agatha arrivò all’aeroporto di Heathrow abbronzata fuori
e rossa per la vergogna dentro. Spinse i bagagli verso l’uscita,
sentendosi un’idiota totale.
Aveva appena trascorso due settimane alle Bahamas sulle tracce del suo bel vicino, James Lacey, che aveva buttato
lì un vago accenno al fatto di essere in partenza per una vacanza presso l’hotel Nassau Beach. Quando Agatha dava
la caccia a un uomo era implacabile come lo era stata negli affari. Aveva speso un mucchio di denaro per farsi un
guardaroba fascinoso, era dimagrita furiosamente in modo
da poter tornare a esibire in bikini il suo corpo da ringiovanita signora di mezza età, ma di James Lacey non si era
vista neppure l’ombra. Aveva noleggiato un’auto e fatto il
giro degli altri alberghi dell’isola senza cavare un ragno dal
buco. Si era perfino rivolta alla British High Commission
nella speranza che avessero avuto sue notizie. Pochi giorni
prima del previsto rientro, aveva fatto una telefonata intercontinentale a Carsely, il villaggio dei Cotswolds in cui viveva, per parlare con la moglie del pastore, la signora Bloxby,
e finalmente si era decisa a chiedere dove fosse James Lacey.
Ricordava ancora la voce della signora Bloxby, che an1
dava e veniva a causa dei disturbi sulla linea, come se a portarla ad Agatha fosse la marea. “Il signor Lacey ha cambiato i suoi piani all’ultimo momento. Ha deciso di passare le
vacanze al Cairo con un amico. Ricordo che aveva detto
di essere in partenza per le Bahamas e la signora Mason
se n’era uscita con ‘Ma che coincidenza! Anche la nostra
signora Raisin sta andando lì’. E poi invece abbiamo saputo
che questo suo amico lo aveva invitato in Egitto.”
Agatha si era sentita morire dall’imbarazzo e anche ora
continuava a sentirsi a disagio. Lui evidentemente aveva cambiato programma proprio per non correre il rischio di incontrarla. A posteriori il suo inseguimento le appariva spudorato.
C’era anche un altro motivo che le aveva impedito di
godersi la vacanza. Aveva piazzato il suo gatto Hodge, un
dono del sergente di polizia Bill Wong, in una pensione per
gatti e ora si trovava a temere che il gatto fosse morto.
Arrivata al parcheggio per le permanenze lunghe mise il
bagaglio in macchina e partì per Carsely, chiedendosi ancora
una volta chi gliel’avesse fatto fare di andare in pensione così
giovane – ebbene sì, al giorno d’oggi una cinquantenne era giovane – e di vendere l’azienda per seppellirsi in campagna.
Il gattile era fuori Cirencester. Arrivò alla casa e fu accolta con poco garbo dalla proprietaria, una donna magra e
slanciata. “Signora Raisin, si dà il caso che io stia uscendo,”
disse, “sarebbe stata più gentile a chiamare, prima.”
“Vada a prendere il mio animale… lo voglio ora,” disse
Agatha, con sguardo minaccioso, “e faccia alla svelta, anche.”
La donna girò i tacchi, con l’indignazione che trapelava
da ogni sua mossa. Tornò quasi subito con Hodge che miagolava nel suo trasportino. Totalmente sorda a recriminazioni ulteriori, Agatha pagò il dovuto.
Essere di nuovo insieme al mio gatto è di grande confor-
to, stabilì, e poi si chiese se per caso non stesse diventando
anche lei una di quelle dame di campagna ridotte a sbavare
su un animale.
Il cottage, accucciato sotto il peso del tetto di paglia, sembrava un vecchio cane pronto a farle le feste. Una volta acceso il camino, nutrito il gatto e cacciato giù un whisky non
allungato, Agatha sentì che sarebbe sopravvissuta. “Fanculo
James Lacey e gli uomini tutti!”
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La mattina dopo andò da Harvey, l’emporio locale, per
fare un po’ di spesa ed esibire la tintarella. Si imbatté nella signora Bloxby. Agatha era a disagio per quella faccenda
della telefonata ma la signora Bloxby, sempre piena di tatto, non gliela ricordò, limitandosi a comunicarle che quella sera in canonica era in programma una riunione della
Società delle Dame di Carsely. Agatha disse che avrebbe
partecipato, pur pensando che ci dovesse essere qualcosa di
meglio, come vita di società, di un tè in canonica.
Aveva una mezza idea di non andarci. Avrebbe piuttosto cenato al Leone Rosso, il pub del villaggio. D’altra parte
aveva promesso alla signora Bloxby che ci sarebbe andata e
le promesse alla signora Bloxby si mantenevano.
Quella sera, quando uscì, il villaggio era avvolto da una
nebbia fitta e gelida, che trasformava i cespugli in aggressori
acquattati e ovattava i suoni.
Le signore erano tutte lì, nel gradevole disordine del salotto della canonica. Non era cambiato nulla. La signora Mason
era ancora la presidentessa – i presidenti a Carsely non esistevano, perché, come aveva fatto notare la signora Bloxby,
una volta che ti avvii su quella china della parità tra i sessi
non sai mai dove andrai a finire, e gli ometti per appendere i
vestiti capace che ti diventano delle donnette – e la signorina
Simms, con le sue scarpe bianche e la gonnella succinta da
Minnie era ancora la segretaria. Incalzarono Agatha chiedendole i particolari della sua vacanza, e lei menò vanto del
sole e della sabbia finché non cominciò a pensare di essersi
divertita davvero.
Si lessero i verbali, si discusse della raccolta di fondi per
Save the Children, di una gita per gli anziani, e poi ancora
tè e torta.
Fu a quel punto che Agatha sentì parlare del nuovo veterinario. Finalmente a Carsely avevano un ambulatorio veterinario. L’edificio della biblioteca era stato ampliato. Un veterinario di Mircester, Paul Bladen, teneva il suo studio due
volte alla settimana, il martedì e il mercoledì pomeriggio.
“All’inizio non ci interessava più di tanto,” disse la signorina Simms, “perché di solito andiamo dal veterinario di
Moreton, ma il dottor Bladen è così bravo.”
“Ed è anche un bell’uomo,” aggiunse la signora Bloxby.
“Giovane?” s’informò Agatha, con un barlume d’interesse.
“Sulla quarantina, direi,” rispose la signorina Simms.
“Single. Divorziato. Ha questi occhi profondi, e mani bellissime.”
Agatha non era particolarmente interessata al veterinario perché i suoi pensieri erano ancora fissi su James Lacey.
Si augurava che lui tornasse, in modo da potergli dimostrare
che a lei non gliene importava un fico secco. Così quando le
signore cominciarono a tessere le lodi del nuovo veterinario,
lei nella sua testa scrisse sceneggiature su quello che avrebbe
detto lui e quello che avrebbe detto lei, immaginando quanto si sarebbe stupito lui nello scoprire di aver equivocato le
sue normali premure da vicina di casa, scambiandole per
un inseguimento.
Ma Agatha era destinata a incontrare Paul Bladen già il
giorno successivo, perché ci si mise di mezzo il fato.
Aveva deciso di andare dal macellaio e di comprare una
bistecca per sé e dei fegatini di pollo per Hodge. “’giorno,
dottor Bladen,” disse il macellaio e Agatha si girò.
Paul Bladen era un bell’uomo sulla quarantina con una
chioma folta e ondulata di capelli biondi spruzzati di grigio,
occhi nocciola che strizzava come per difendersi dal sole del
deserto, una bocca ben disegnata e piuttosto dolce e il mento squadrato. Era snello, di altezza media, indossava una
giacca di tweed con le toppe e pantaloni di flanella, e, dato
che la giornata era gelida, aveva al collo una vecchia sciarpa
dell’Università di Londra. Ad Agatha tornarono in mente
i vecchi tempi in cui gli studenti universitari si vestivano da
studenti universitari, prima dell’avvento delle t-shirt e dei
jeans sfrangiati.
Dal canto suo Paul Bladen vide una donna di mezza età
ben piantata, con capelli castani lucidi e occhietti piccoli da
orso in un viso abbronzato. I vestiti, notò, erano molto costosi.
Agatha gli porse la mano e si presentò, offrendogli il benvenuto nel villaggio con il suo miglior tono da dama-delcastello. Lui sorrise guardandola negli occhi, le trattenne la
mano e mormorò qualcosa a proposito del tempaccio infame. Agatha si dimenticò del tutto di James Lacey. O quasi.
Lasciamolo marcire in Egitto. Gli augurava una diarrea fulminante, si augurava che un cammello lo mordesse.
“A dir la verità,” tubò Agatha, “stavo venendo da lei. Con
il mio gatto.”
Su quegli occhi strizzati calò per un attimo il gelo. Però
lui disse: “Questo pomeriggio tengo l’ambulatorio. Perché
non mi porta l’animale? Alle due, le va bene?”.
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“Che bello avere finalmente un nostro veterinario,” si
entusiasmò Agatha.
Lui le fece di nuovo quel suo sorriso intimo e Agatha uscì
camminando sollevata da terra. La nebbia teneva ancora in
pugno la campagna anche se in alto, molto in alto, il disco
rosso e minuscolo del sole lottava per farsi largo, gettando
una debole luce rosata sul paesaggio coperto di ghiaccio,
che ricordava ad Agatha i calendari natalizi della sua giovinezza, in cui le scene invernali erano decorate con paillettes.
Passò di fretta davanti al cottage di James Lacey senza
degnarlo neppure di uno sguardo, pensando a come vestirsi. Peccato aver comprato tutti quei capi nuovi per un clima
caldo.
Mentre il gattino tigrato, Hodge, la osservava incuriosito, lei studiò il proprio viso nello specchio del tavolino da
toeletta. L’abbronzatura era ottima, ma c’erano parecchi
argomenti a favore di un make-up coprente da applicare a
una faccia di mezza età. Sotto il mento c’era un gonfiore
molliccio che non le piaceva e le rughe ai lati della bocca
erano più marcate di quanto non lo fossero prima della sua
partenza, il che le rammentò tutti quei foschi avvertimenti
circa i danni alla pelle provocati dal sole.
Si diede una spalmata di crema nutriente e poi frugò nel
guardaroba, decidendosi alfine per un abito rosso ciliegia e
un cappotto nero di sartoria con il colletto di velluto. I capelli
ce li aveva lucidi e forti, per cui evitò di mettersi il cappello.
Era una giornata di freddo pungente e lei avrebbe dovuto indossare gli stivali, ma aveva un paio di scarpe nuove, italiane
e con il tacco alto e sapeva di avere delle belle gambe.
Solo dopo due ore di preparativi accurati si rese conto
di dover prima acchiappare il gatto, e alla fine bloccò l’animale a terra in un angolo della cucina e poi lo cacciò senza
tanti complimenti nella cesta di vimini. I pianti di Hodge
lacerarono l’aria. Ma sorda per una volta ai lamenti della
bestiola, Agatha si diresse all’ambulatorio sui suoi tacchi
alti. Quando ci arrivò aveva i piedi così gelati che le pareva
di camminare su due grumi di dolore.
Aprì la porta dell’ambulatorio ed entrò nella sala d’aspetto. Sembrava piena di gente: Doris Simpson, la donna delle
pulizie, con il suo gatto; la signorina Simms con il suo Tommy; la signora Josephs, la bibliotecaria, con un gattone spelacchiato che si chiamava Tewks; e due agricoltori, Jimmy
Page, che lei conosceva, e un uomo tozzo e muscoloso che
conosceva appena di vista, Henry Grange. C’era anche una
nuova venuta.
“Quella è la signora Huntingdon,” sussurrò Doris. “Si è
comprata il cottage del vecchio Droon. Vedova.”
Agatha adocchiò ingelosita la nuova arrivata. A dispetto della campagna di Animal Liberation contro le donne
che indossavano pellicce, la signora Huntingdon esibiva un
cappotto di visone di allevamento, abbinato a un elegante
cappello di visone. Attorno a lei un alone soave di profumo
francese. Aveva un visetto minuto e grazioso da bambola di
porcellana, grandi occhi nocciola con ciglia lunghe (finte?)
e le labbra dipinte di rosa. Aveva un minuscolo jack russell
che abbaiava come un pazzo, tirando il guinzaglio qua e
là nel tentativo di saltare addosso ai gatti. La signora Huntingdon sembrava non fare assolutamente caso al chiasso o
alle occhiate malevole che le lanciavano le proprietarie dei
gatti. Oltretutto era anche seduta in modo tale da bloccare
il tepore dell’unica stufetta.
Le pareti erano coperte da scritte “Vietato fumare” ma la
signora Huntingdon si accese una sigaretta e sbuffò in aria il
fumo. Nella sala d’attesa di un medico, dove i pazienti non
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devono preoccuparsi che per se stessi, si sarebbero levate delle
proteste. Ma la sala d’aspetto di un veterinario è un posto singolarmente disumanizzante o disdonnizzante, con la gente
resa timida dalla preoccupazione per l’animaletto di famiglia.
Lungo uno dei lati della sala d’aspetto c’era un bancone con un’infermiera-segretaria. Era una ragazza semplice,
con i capelli castani dritti e l’accento adenoideo di Birmingham. Era la signorina Mabbs.
Doris Simpson fu la prima a entrare e rimase dentro solo
cinque minuti. Agatha si sfregò furtivamente i piedi e le caviglie intirizziti. Non ci sarebbe stato tanto da aspettare.
Ma quella dopo era la signorina Simms, che rimase dentro mezz’ora, riemergendo alla fine con gli occhi che brillavano e le guance arrossate. Toccava alla signora Josephs.
Dopo un sacco di tempo uscì mormorando “Che mano ferma ha il dottor Bladen,” mentre il suo gatto decrepito giaceva supino nella cesta e pareva morto.
Agatha si avvicinò al bancone dopo che la signora Huntingdon era stata fatta accomodare e disse alla signorina
Mabbs: “Il dottor Bladen mi ha detto di passare alle due. È
un bel pezzo che aspetto”.
“L’ambulatorio comincia alle due. Questo intendeva dire,
probabilmente,” ribatté la signorina Mabbs. “Deve aspettare
il suo turno.”
Determinata a non sprecare tutta la fatica dell’essersi
messa in ghingheri, Agatha immusonita prese una copia di
“Vogue” del giugno 1997, e tornò alla sua scomoda seggiola
di plastica.
Aspettò e aspettò che la vedova allegra con cane riapparisse, ma i minuti trascorrevano ticchettando e Agatha sentì
una cascatella di risate provenire dallo studio e si chiese che
cosa stesse succedendo lì dentro.
Passarono tre quarti d’ora, durante i quali Agatha finì
di leggere la copia di “Vogue” e un esemplare ben conservato di “The Good Housekeeping” del 1990 e si immerse
nella storia, pubblicata su un vecchio annuario di “Scotch
Home”, dell’aitante proprietario terriero delle Highlands
scozzesi che aveva abbandonato il suo vero amore, Morag
delle valli, per una certa Cynthia, meretrice pittata di Londra. Alla fine la signora Huntingdon uscì, reggendo il cane.
Lanciò un sorrisetto vago ai presenti, prima di andarsene, e
Agatha ricambiò con un’occhiataccia torva.
Erano rimasti solo i due agricoltori e Agatha. “Giuro che
qui non ci rimetto piede,” disse Jimmy Page. “Vorrebbe dire
buttare via una giornata intera.”
Se la cavò però rapidamente, essendo venuto a ritirare
la ricetta per degli antibiotici, che consegnò alla signorina
Mabbs. Anche l’altro agricoltore voleva dei farmaci e Agatha si rallegrò vedendolo riapparire nel giro di pochi minuti.
Aveva l’intenzione di dirne quattro al veterinario per quella
attesa così lunga ma lui riesibì quel sorriso soave, le prese la
mano, la scrutò con quegli occhi profondi e intimi.
Sentendosi parecchio eccitata, ma al tempo stesso colpevole perché Hodge era sanissimo, Agatha gli restituì un
sorriso imbambolato.
“Ah, signora Raisin,” disse il veterinario, “vediamo un
po’ questo gatto. Come si chiama?”
“Hodge.”
“Come il gatto del dottor Johnson.”
“Chi è? Quello che ha lo studio con lei a Mircester?”
“Il dottor Samuel Johnson, signora Raisin. Il letterato.”
“Va bene, va bene, come facevo a saperlo?” domandò
Agatha offesa, e pensando che per come la vedeva lei il dottor Johnson era uno di quei vecchi barbogi, tipo sir Thomas
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Beecham, che la gente cita sempre durante le cene, tanto
per darsi delle arie.
Per celare la sua irritazione sollevò la cesta di Hodge posandola sul lettino da visita, e l’aprì. “Vieni bello, vieni,” lo
blandì Agatha, mentre Hodge con aria minacciosa si rintanava sul fondo.
“Lasci fare a me,” disse il veterinario, spingendo Agatha
di lato. Infilò un braccio dentro e trascinò alla luce Hodge,
brutalmente, e poi tenne per la collottola il gatto fremente e
miagolante.
“Oh, non lo faccia! Lo sta spaventando,” protestò Agatha. “Glielo tengo io.”
“Benissimo. Sembra decisamente in salute. Che problema ha?”
Hodge seppellì la testa nell’apertura del cappotto di Agatha. “Ehm, rifiuta la pappa.”
“Vomito, diarrea?”
“No.”
“Ottimo. Però misuriamogli la temperatura. Signorina
Mabbs!”
La signorina Mabbs entrò e rimase lì a capo chino. “Tenga fermo il gatto,” ordinò il veterinario.
La signorina Mabbs strappò il gatto ad Agatha e lo inchiodò al tavolo da visita con la sua mano robusta. Il veterinario marciò su Hodge con un termometro rettale. Ma non
è che quel termometro, rifletté Agatha, lo hanno infilato
nel didietro del povero Hodge con forza eccessiva? Il gatto
gnaulò, riuscì a liberarsi, saltò giù dal tavolo e si rannicchiò
in un angolo della stanza.
“Ho sbagliato,” disse Agatha, a quel punto smaniosa di
portarsi via la bestiola. “Magari se dovesse avere qualche
sintomo importante potrei riportarglielo.”
La signorina Mabbs venne congedata. Agatha rimise delicatamente Hodge nella cesta.
“Signora Raisin.”
“Sì?” Agatha lo scrutò con i suoi occhietti da orso, dai
quali era completamente svanita ogni luce d’amore.
“A Evesham c’è un ristorante cinese piuttosto buono. Ho
avuto una giornata faticosa e ho voglia di viziarmi. Le farebbe piacere cenare con me?”
Il corpo maturo di Agatha fu invaso dal calore della gratificazione. Andassero a farsi fottere tutti i gatti in generale,
e Hodge in particolare. “Ne sarei felice,” esalò.
“Allora ci vediamo lì alle otto,” disse lui, sorridendo con
gli occhi fissi nei suoi. “Si chiama Evesham Diner. È in una
casa del diciassettesimo secolo su High Street, non può sbagliare.”
Agatha riemerse nella sala d’aspetto ormai vuota, sorridendo compiaciuta. Rimpianse di non essere stata la prima
“paziente”, perché così avrebbe potuto spiattellare a tutte
quelle donne di avere un appuntamento con il veterinario.
Però si fermò in un negozio lungo la strada di casa e per
alleggerirsi la coscienza comprò a Hodge una scatoletta del
salmone migliore.
Una volta arrivata a casa, dopo aver coccolato Hodge e
averlo sistemato davanti al fuoco che ardeva allegro, si convinse che il veterinario nel trattare il gatto era stato fermo ed
efficiente, e non deliberatamente crudele.
La voglia di vantarsi dell’appuntamento galante era forte e così telefonò alla signora Bloxby, la moglie del pastore.
“Indovini cosa c’è,” disse Agatha.
“Un altro omicidio?” azzardò la moglie del pastore.
“Molto meglio. Il nostro nuovo veterinario questa sera
mi porta fuori a cena.”
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Ci fu un lungo silenzio.
“È ancora lì?” domandò Agatha, bruscamente.
“Sì, sono qui. Stavo solo pensando.”
“A cosa?”
“Perché l’ha invitata a cena?”
“Pensavo che fosse ovvio,” rispose sgarbata Agatha. “Gli
piaccio.”
“Mi perdoni. Certo che lei gli piace. È solo che mi dà l’impressione di essere un po’ freddo e calcolatore. Stia attenta.”
“Non sono mica una ragazzina sedicenne,” ribatté Agatha, stizzita.
“Esattamente.”
Quell’“esattamente” ad Agatha sembrò dire: “Sei una
donna di mezza età e come tale cedi facilmente alle lusinghe
di un uomo più giovane”.
“In ogni caso,” proseguì la signora Bloxby, “sia prudente,
per strada. Sta cominciando a nevicare.”
Agatha chiuse la telefonata, sentendosi giù di corda, poi
le spuntò un sorriso. Ma certo! La signora Bloxby era gelosa. Tutte le donne del villaggio erano invaghite del veterinario. Però, che cosa aveva detto della neve? Agatha tirò indietro la tenda e guardò fuori. Stavano cadendo dei fiocchi
bagnati, ma non attecchivano al suolo.
Alle sette e trenta si mise al volante con tutta la scomodità di un body attillato sotto un abito di seta dorata di Armani abbellito da una cintura di perle. Aveva i tacchi alti,
quindi scalciò via le scarpe e risalì la collina sopra il villaggio
guidando solo con le calze.
I fiocchi si stavano infittendo, e all’improvviso, nei pressi
della sommità della collina, superò il limite della neve e si
ritrovò a guidare su una spessa coltre. Ma davanti agli occhi
c’era la visione allettante di una cena con il veterinario.
Arrivata nei pressi della A44 schiacciò il freno per rallentare e all’improvviso l’auto slittò. Fu tutto così rapido, così
spaventosamente rapido. I fari turbinarono vorticosamente
nel paesaggio invernale, e poi ci fu uno scricchiolio agghiacciante quando andò a urtare contro un muro in pietra alla
sua sinistra. Spense i fari e il motore con mano tremante e
rimase immobile.
Una macchina che veniva in senso opposto, diretta al villaggio, si fermò. Una portiera si aprì e si richiuse. Poi una
figura scura si chinò sul lato di Agatha. Lei tirò giù il finestrino. “Tutto bene, signora Raisin?” la voce era quella di
James Lacey.
Prima del veterinario, prima del fiasco delle Bahamas,
Agatha aveva spesso fantasticato che James Lacey la salvasse da qualche incidente. Ma adesso riusciva solo a pensare a
quel prezioso appuntamento.
“Non credo di essermi rotta nulla,” disse Agatha e poi colpì il volante in preda alla frustrazione. “Maledetta neve. Senta, non è che potrebbe darmi un passaggio fino a Evesham?”
“Ma lei sta scherzando. Il tempo è in peggioramento, o
almeno così dicono le previsioni. Fish Hill sarà chiusa.”
“Oh no,” piagnucolò Agatha. “Magari potremmo fare
un’altra strada. Passando da Chipping Campden, forse.”
“Non sia sciocca. Il suo motore va ancora?”
Agatha girò la chiavetta e quello tornò in vita.
“E i fari?”
Agatha li accese, e questi sciabolarono nel paesaggio coperto di neve.
James Lacey studiò il danno alla parte anteriore dell’auto. “Il vetro dei fari è disintegrato, e dovrà cambiare il paraurti, il radiatore e la targa. È meglio se viene fuori in retromarcia e poi mi segue fino al villaggio.”
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“Se lei non mi dà un passaggio, chiamerò un taxi.”
“Può provare.” Si avviò verso la sua auto e Agatha lo udì
avviare il motore. Lei fece manovra e lo seguì. Lui parcheggiò davanti al suo cottage, la salutò agitando il braccio ed
entrò subito in casa.
Agatha balzò giù dalla macchina, dimenticandosi di essere scalza, e corse a casa. Agguantò il telefono, e guardando
l’elenco delle compagnie di taxi attaccato al muro cominciò
a chiamarle, l’una dopo l’altra, ma nessun conducente era
disposto a portarla a Evesham o da qualunque altra parte,
in una nottataccia come quella.
Maledizione, pensò furiosamente Agatha, la mia auto
cammina ancora. Io vado.
Infilò un paio di stivali sui piedi bagnati e uscì di nuovo.
Ma era a metà della salita quando entrambi i fari si spensero
lasciandola ad arrancare nell’oscurità nevosa.
Invertì stancamente la marcia e tornò al villaggio. Una
volta a casa telefonò al ristorante cinese. No, le rispose la
voce all’altro capo, il dottor Bladen non era lì. Sì, aveva prenotato un tavolo. No, non era proprio arrivato.
Molto abbacchiata, Agatha telefonò al Servizio Abbonati e si fece dare il numero del veterinario a Mircester. Le
rispose una donna. “Temo che il dottor Bladen sia impegnato, al momento.” La voce era placida e divertita.
“Sono Agatha Raisin,” la rimbeccò Agatha. “Avevamo
appuntamento per questa sera in un ristorante di Evesham.”
“Difficile che si mettesse in strada con un tempo del genere, non le pare?”
“Con chi sto parlando, prego?” s’informò Agatha.
“Sono la moglie.”
“Oh!” Agatha lasciò cadere il ricevitore neanche fosse
stato un carbone ardente.
Ma allora era ancora sposato! Che storia era questa? Se
era sposato, non avrebbe dovuto invitarla a cena. Agatha
aveva teorie molto rigorose rispetto alla frequentazione degli uomini sposati.
Le pareva che lui avesse deciso deliberatamente di prenderla in giro. Gli uomini! E James Lacey! Quello si era infilato dritto in casa senza neppure venire a controllare se
davvero lei fosse uscita illesa dall’incidente.
Agatha si sentì una cretina, e a quel punto, di quei sogni
romantici con un bell’uomo, le restava solo un’auto rovinata. Passò il resto della serata a compilare moduli per l’assicurazione, con Hodge in grembo a fare le fusa.
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L’alba del giorno dopo si presentò piena di nebbia e di
neve. Agatha ancora una volta provò quella vecchia sensazione di essere in trappola. Rimase in attesa che il telefono squillasse, certa che Paul Bladen l’avrebbe chiamata per
dire qualcosa. Ma quello rimase immobile e muto.
Alla fine decise di andare a far visita al vicino, James Lacey,
non fosse altro che per chiarirgli, in modo subliminale, che
lei non lo aveva braccato. Ma lui non venne ad aprire la porta,
anche se dal suo camino si levava una colonna sottile di fumo
e la sua auto, coperta di neve, era parcheggiata lì davanti.
Agatha si sentì snobbata in pieno. Era certa che lui fosse
in casa.
Hodge con quel suo fare egoista da gatto giocava allegramente nella neve, in giardino, inseguendo una preda immaginaria.
Nel pomeriggio suonarono alla porta. Agatha si guardò
nello specchio dell’ingresso, afferrò un rossetto che teneva
sempre a portata di mano sul tavolino e si dipinse le labbra.
Poi aprì la porta, rassettandosi il vestito.
“Ah, sei tu,” disse, vedendo i tratti tondi e orientali del
sergente Bill Wong.
“Non è un granché, come accoglienza,” disse. “Ho qualche speranza di farmi offrire un caffè?”
“Entra,” disse Agatha, sbirciando oltre la sua spalla per
controllare speranzosa il vialetto.
“Chi aspettavi?” domandò lui, quando furono seduti in
cucina.
“Aspettavo delle scuse. Il nostro nuovo veterinario, Paul
Bladen, ieri sera mi aveva invitata a cena, ma in cima alla
salita l’auto è slittata e io non ce l’ho fatta. Ma poi si è scoperto che lui al ristorante non ci è neppure andato, allora gli
ho telefonato a casa e mi ha risposto una donna. Ha detto di
essere sua moglie.”
“Non è possibile,” ribatté Bill. “Si è separato dalla moglie cinque anni fa e l’anno scorso ha avuto il divorzio.”
“Ma allora a che gioco sta giocando?” gridò Agatha, esasperata.
“Con chi sta giocando, vorrai dire. La notte era nevosa,
non c’era modo di arrivare a Evesham, e quindi si è divertito a casa.”
“D’accordo, ma in ogni caso avrebbe dovuto telefonare,” disse Agatha.
“A proposito di vita amorosa, come te la sei passata alle
Bahamas?”
“Bene,” rispose Agatha. “Ho preso un po’ di sole.”
“E il signor Lacey lo hai visto?”
“Non era previsto. Era al Cairo.”
“E tu lo sapevi già prima di partire?”
“Ma che è?” sbottò Agatha. “Un interrogatorio poliziesco?”
“Domande da amico, tutto qui. Sono contento di vedere
Hodge di buon umore. Sembra molto in forma.”
“Oh, Hodge scoppia di salute.”
Gli occhi a mandorla che la studiavano con tanto scrupolo brillarono leggermente nella luce bianca della neve
che filtrava attraverso la finestra della cucina.
“E allora perché il povero Hodge è dovuto andare da
questo veterinario?”
“Mi stavi spiando?”
“No, passavo per caso, ieri, e ti ho vista portare Hodge
all’ambulatorio. Con questo tempaccio dovresti metterti
calzature più assennate.”
“Volevo solo controllare il gatto fosse in regola con le
vaccinazioni,” disse Agatha, “e quello che mi metto ai piedi
è affar mio.”
Lui alzò le braccia e le lasciò ricadere. “Scusa. Strana
faccenda quella di Bladen, però.”
“In che senso?”
“Qualche tempo fa è entrato in società con Peter Rice,
il veterinario di Mircester. Che fila di donne c’era, le prime
settimane! Arrivava fino in strada. Ma poi hanno smesso di
andarci. Pare che Bladen non sia buono con gli animali da
compagnia. È un mago con gli animali da cortile e con i cavalli, ma detesta cagnetti e gatti.”
“Non ho nessuna voglia di parlare di quell’uomo,” lo rintuzzò Agatha con veemenza. “Non abbiamo altri argomenti di conversazione?”
E così Bill le raccontò del guaio che avevano in zona,
con l’aumento dei furti d’auto e di come moltissimi crimini
fossero compiuti sempre più spesso da minorenni, mentre
Agatha ascoltava con un orecchio solo, sperando che il telefono squillasse, a pacificazione del suo orgoglio. Ma Bill se
ne andò, e il maledetto apparecchio era ancora muto.
Agatha telefonò al meccanico del posto e gli disse che
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venissero a prendere la sua auto scassata con il carro attrezzi
e le facessero un preventivo, poi, dopo aver visto portare via
la vettura sul retro di un camion, decise di andare al Leone Rosso. Non c’era più alcun motivo per mettersi in ghingheri. Per mesi aveva indossato solo i suoi abiti più belli ed
eleganti tutte le volte che doveva passare davanti alla porta
di James Lacey. Si infilò un maglione spesso, una gonna di
tweed e gli stivali. Ma proprio nel momento in cui si stava
infagottando in una giacca di pelle di montone, il telefono
squillò facendola sussultare.
Alzò il ricevitore, certa che fosse finalmente Paul Bladen, invece una voce che non riconobbe disse timidamente:
“Agatha?”.
“Sì, chi parla?” rispose Agatha, delusa e irritata.
“Sono Jack Pomfret. Ti ricordi di me?”
Agatha si illuminò. Jack Pomfret dirigeva un’azienda di
pubbliche relazioni concorrente della sua, ma i loro rapporti erano sempre stati amichevoli.
“Certo. Come ti vanno le cose?”
“Ho venduto più o meno quando lo hai fatto tu,” disse
lui. “Ho deciso di seguire il tuo esempio, di andare in pensione anzitempo, spassarmela un po’. Ma mi sto annoiando, capisci quello che voglio dire?”
“Oh, sì,” rispose Agatha, con trasporto.
“Sto meditando di ricominciare e mi chiedevo se ti andrebbe di essere mia socia.”
“Non è un buon momento,” disse Agatha, cauta. “Siamo nel mezzo di una recessione.”
“Le grandi aziende hanno bisogno di PR, e io ne ho due
in attesa, l’Elettronica Jobson e La Polvere Lavabianco.”
Agatha era impressionata. “Sei da queste parti, per caso?”
s’informò. “Dobbiamo trovarci e parlarne per bene.”
“Quello che mi chiedevo,” disse lui ansiosamente, “era
se tu avevi voglia di venire a Londra, in modo da poterne
discutere.”
Il pensiero di sfuggire al villaggio, di allontanarsi dalle
speranze romantiche ormai perdute, spinse Agatha a dire:
“Lo farò. Prenoterò un posto in città. Mi dai il tuo numero?
Ti richiamerò”.
Annotò il suo numero di telefono ma poi, sul punto di chiamare il suo albergo preferito, si bloccò. Maledetto Hodge.
Non poteva proprio mollare di nuovo quella povera bestia nel
gattile. Poi si ricordò di un edificio di costose foresterie che
una volta aveva prenotato per dei clienti stranieri e chiamò lì,
e riuscì ad accaparrarsi un appartamento per due settimane.
Era certa che gli animali non fossero ammessi, ma non aveva
intenzione di chiederglielo. Hodge poteva sopravvivere chiuso nell’appartamento per due settimane. Tanto il tempo era
schifoso.
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