Intervista a Federico Faloppa: una società più equa è

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Intervista a Federico Faloppa: una società più equa è
Fonte
Prospettive
Altre
Data
24 dicembre
2015
Web
http://www.prospettivealtre.info/2015/12/intervista-a-federicofaloppa-una-societa-piu-equa-e-il-miglior-rimedio-contro-ilrazzismo/
Intervista a Federico Faloppa: una società più
equa è il miglior rimedio contro il razzismo
Federico Faloppa lavora all’Università di Reading (Gran Bretagna), dove insegna Storia
della lingua italiana e Sociolinguistica. Docente, ricercatore e attivista si occupa da anni degli
stereotipi etnici e della costruzione linguistica della “diversità”. Ha pubblicato tra altro:
Razzisti a parole (2011, Laterza), Parole contro. (2004, Garzanti), Lessico e alterità
(2000, Edizioni dell’Orso).E per il mese di marzo 2016 è prevista la pubblicazione, per
Einaudi, di “Contro il razzismo. Quattro ragionamenti”, Federico Faloppa, Marco Aime,
Guido Barbujani, Clelia Bartoli.
Prospettive Altre: nel tuo libro, Razzisti a parole(1), dicevi che l’Europa
nonostante le dichiarazioni di buoni intenti non ha fatto un solo passo in
direzione di una copertura giusta e equa del fenomeno migratorio e
dell’immagine delle minoranze. In particolare quelle più deboli e stigmatizzate.
Oggi la crisi e le guerre hanno portato elementi nuovi? E’ cambiata la situazione
rispetto al 2011 anno di pubblicazione di quel libro o rispetto al 2004 anno di
pubblicazione di Parole contro(2)? Cos’è cambiato? E perché secondo te?
Federico Faloppa: In termini di rappresentazione mediatica dei fenomeni migratori, e di
immagine delle minoranze nei media e nel discorso pubblico, alcune cose sono cambiate
negli ultimi anni, sia in peggio sia – per fortuna – in meglio. Altre invece sembrano
spaventosamente immobili: come se proprio non si riuscisse ad adeguare il linguaggio, il
ragionamento e le finalità del discorso alla complessità e alla mutevolezza del reale.
Comincio dalle note dolenti. Non so quanto i termini di paragone che proponi (il 2004 e il
2011) possano essere utili e rivelatori a chi legge. Per quanto mi riguarda, gli allarmi che
tentavo di lanciare in quegli anni, in quei libri non sono affatto rientrati. In “Razzisti a
parole” provavo a decostruire termini, espressioni, modi, di un discorso – xenofobo e
razzista – fin troppo quotidiano, diffuso, incontrastato. Un discorso che mi pare ancora ben
radicato: disomogeneo ma strutturato. “Clandestino” è ancora usato, a sproposito. Di “etnia”
si discute meno, ma solo perché usiamo “cultura” con la stessa ambiguità, con le stesse
connotazioni, come spiega Marco Aime nei suoi lavori. In seguito alla nomina di Cècile
Kyenge a Ministro dell’Integrazione, nel 2013, abbiamo assistito a una serie di sproloqui su
“negritudine” versus identità italiana. Il frame della “sicurezza” è ancora dominante, quando
si parla di migrazioni e movimenti di persone. Per non parlare dei rom, e della loro aberrante
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rappresentazione mediatica, come rilevato dall’inchiesta “Se dico rom...” pubblicata dal
Naga di Milano nel 2013 (3).
Se poi dal piano lessicale e semantico si passa a quello testuale-argomentativo, non si
contano le fallacie retorico-argomentative, la mancanza di considerazioni basate su
dimostrazioni logiche, documentate, informate, l’uso improprio di numeri e statistiche (si
sa quanto si può ingannare il lettore/ascoltatore dietro una parvenza di scientificità, senza
mai chiedersi da dove arrivino quelle statistiche, chi le ha formulate, con quale autorità, con
quale scopo, ecc. Perfino i numeri degli arrivi dei migranti in Europa, come ha dimostrato
recentemente Nando Sigona, sono stati falsati allo scopo, forse, di farli sembrare
più consistenti e quindi impressionanti).
In generale, troviamo ancora nei media, nel discorso politico e quindi nel discorso pubblico
molti di quegli stereotipi, di quelle imprecisioni, di quelle rozzezze, che da anni cerchiamo
di smascherare, di smontare. Con l’aggiunta, in periodi, particolarmente sensibili come
quello che stiamo vivendo, di casi vergognosi, tanto eccessivi da apparire grotteschi, come
quello del titolo a piena pagina di “Libero” all’indomani degli attentati di Parigi (“Bastardi
islamici“), strenuamente e goffamente difeso dal direttore di quella testata, ma
legittimamente denunciato dell’Associazione “Carta di Roma” per la volgare, pericolosa,
inaccettabile generalizzazione contenuta nel testo.
Infine, gli episodi di razzismo, anche verbale, non sono diminuiti, come documentato
capillarmente dal sito “cronache di ordinario razzismo” e dai libri bianchi sul razzismo
editi dall’Associazione Lunaria. E questo è ovviamente preoccupante, vista anche l’ascesa in
mezza Europa di movimenti nazionalisti, xenofobi e talvolta scopertamente razzisti.
Tuttavia, non mancano alcune note positive. E bisogna raccontarle, altrimenti si rischia
di rimanere intrappolati in una narrazione a tinte fosche e monolitica.
Sono aumentate le campagne di sensibilizzazione così come la sensibilità – anche grazie
all’eccellente lavoro di “Carta di Roma” e di associazioni simili – di alcune testate
giornalistiche e di singoli professionisti dell’informazione. Non mancano le azioni di
solidarietà, di costante continuo lavorio sul territorio da parte di ONG (come l’Associazione
“Straniamenti”) e di singoli per garantire a sempre più persone l’accesso alle risorse e a una
informazione più articolata. Reti di cittadini si costituiscono spontaneamente per
contribuire all’accoglienza di “migranti” e “rifugiati”, e per stigmatizzare comportamenti
xenofobi e razzisti su cui per troppo tempo si è preferito chiudere un occhio. Insomma, se si
gratta la superficie e si esce dalla logica dell’invasione, dell’incertezza e dell’assedio costruita
da certi attori politici e da certi mezzi di informazione, si trova molto fermento: rapido,
vivace, partecipato. Ma molto rimane ancora da fare. Tanto per dirne una: a livello
mediatico, la voce dell’ “altro” è sempre ridotta quando non assente, manca una pluralità di
voci e volti – ad esempio, di giornalisti di origine straniera, delle seconde generazioni, di
“intellettuali” che non appartengano sempre alle solite conventicole – mancano inchieste
che non si fermino ai soli aspetti legati all’emergenza e all’accoglienza. E poi, last but not
least, occorre andare avanti nella battaglia per garantire diritti di cittadinanza a tutti,
cominciando con lo smantellamento dei centri di espulsione, con la riforma dei Cara, con
tempi rapidi e certi per l’ottenimento dell’asilo politico, con l’approvare una buona (e non
raffazzonata) legge sullo ius soli, dando accesso a tutti a strutture sanitarie ed educative…
Un avanzamento sul piano del diritto non solo migliorerebbe, in concreto, la vita di
moltissime persone, ma farebbe fare un balzo in avanti alla qualità del discorso pubblico e
politico rispetto ai temi di cui stiamo parlando.
P.A.: Molti puntano i social media come ambiente dove si moltiplica il “discorso
dell’odio”. Ma tu nei tuoi lavori hai sempre sottolineato il ruolo trascinante dei
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media tradizionali nei fenomeni di razzismo e creazione di capri espiatori.
Quale ha secondo te un ruolo più forte tra social media e media tradizionali? si
alimentano in qualche modo tra di loro?
F.F.: Quello dei social media – e in generale dell’informazione che circola sul web – è un
problema serio. E seriamente va affrontato. Come infatti stanno cercando di fare alcuni
soggetti (l’UNAR, l’Associazione “Carta di Roma”, L’Associazione Lunaria) per sensibilizzare
sia i professionisti dell’informazione, sia i lettori e in generale gli utenti dei social. Paola
Andrisani, nel suo capitolo Il perverso intreccio tra odio reale e odio virtuale, pubblicato
nel Terzo libro bianco sul razzismo in Italia (Lunaria, 2014), ha descritto e analizzato
succintamente, ma con precisione e ricchezza di esempi, ciò che è avvenuto e sta
avvenendo: le espressioni d’odio che circolano liberamente, le bufale sui reati degli
“immigrati” costruire e diffuse ad arte, la sciatteria di blogger, commentatori, redattori, il
meccanismo per cui anche il falso, se virale, diventa vero, ecc. La colpa non è del mezzo in
se: il punto è sempre come si usa il mezzo, chi lo controlla e chi lo usa. Ma certamente la
diffusione di certo linguaggio e di certe prese di posizione è aumentata
esponenzialmente sulla rete, grazie alla rete. E ci sono responsabilità che dovrebbero essere
condivise: dagli utenti, dai provider, dai gestori dei social media, ecc. Non sono per la
censura, sia chiaro: ma non tutto può essere tollerato. O meglio, non si può attribuire lo
status di pensiero o commento a un insulto, a un rutto, a uno sproloquio razzista. Queste
cose non dovrebbero essere ammesse, col pretesto della libertà di pensiero, anche perché
“pensiero” non sono: ma solo rumore, turpiloquio, violenza gratuita. E credo sia sensato, e
legittimo, chiedere alle redazioni online dei giornali, e ai gestori dei social, maggiore
attenzione rispetto a questo fenomeno. Usiamo filtri – sociali, pragmatici, di politeness –
nella comunicazione quotidiana, nel parlato, nell’interazione vis-à-vis. Non vedo perché non
dovremmo filtrare anche il ciarpame razzista che circola, con troppa leggerezza, anche sulla
rete.
Detto questo, il ruolo dei media tradizionali continua ad essere importante nella formazione
dell’opinione pubblica, ed è per questo che le campagne contro il cosiddetto “hate speech”
(o discorso che incita all’odio) nel web sono indirizzate, gioco forza, anche a loro (si pensi,
appunto, alle edizioni online dei quotidiani, che accolgono blog e quindi commenti degli
utenti che non di rado andrebbero moderati). Certo: lo “hate speech” si sta diffondendo
esponenzialmente in rete, sia perché la rete deresponsabilizza l’utente (dandogli tra l’altro
l’illusione di essere unus inter pares, cosa che non è, come racconta Evgeny Morozov nei
sui libri), sia perché privilegia la battuta rapida e lo slogan a discapito della
riflessione articolata e soprattutto argomentata. Ma i media tradizionali, a cominciare dalla
televisione, hanno ancora un ruolo centrale: sono macchine di consenso formidabili, e per
le fasce della popolazione meno tecnologicamente alfabetizzate sono l’accesso principale alla
realtà e al mondo esterno. Basta un pessimo servizio giornalistico – come “A Tor Pignattara
comanda l’Islam”, trasmesso da La7 a fine novembre – a mettere in ombra, in pochi minuti,
anni di buone pratiche, di professionalità, e di corretta contestualizzazione
dell’informazione.
P.A.: Se si volesse veramente cominciare ad arginare il fenomeno, cosa si
potrebbe fare?
F.F.: Verificare la qualità dell’informazione, lavorare nella formazione e nell’educazione, e
continuare certamente a sensibilizzare l’opinione pubblica. Ma può non bastare. A volte
occorrerebbe fissare dei paletti: esigere che certi limiti non vengano superati. Diciamo
spesso che le leggi per contrastare il razzismo, anche quello verbale, esistono già. In realtà,
questo è vero fino in parte. Perché, se si va a spulciare le sentenze, ci si accorge che
comportamenti che potrebbero essere teoricamente rubricati nello stesso modo vengono
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giudicati in maniera anche opposta, a seconda del grado di giudizio e dell’organo giudicante
(bene ha fatto la linguista Elena Pistolesi, in un recente intervento all’università di Trieste,
a mettere in evidenza i “buchi” legislativi e interpretativi presenti nella giurisprudenza
italiana in fatto di “razzismo”, e a sottolineare quanto la composizione del collegio giudicante
possa influire sull’esito di una sentenza). Così, se – poniamo – sulla carta dire a qualcuno
“sporco negro” dovrebbe costituire reato, in realtà sappiamo che questo atto verbale è stato
giudicato, negli anni, in modo molto diverso, anche opposto: per alcuni espressione di
razzismo, per altri semplice opinione. Una maggiore aderenza alle leggi, e una maggiore
precisione nel definire che cosa sia “razzista” sarebbe quindi auspicabile, e da sollecitare
presso il parlamento e i nostri giurisperiti. Sul piano dell’informazione, direttori di testate
alla Belpietro sono troppo raramente sanzionati dall’ordine dei giornalisti, malgrado la
scoperta mancanza di professionalità e l’incorrettezza deontologica. Sappiamo che il modo
in cui è presentata una notizia non dipende solo dal colore politico della testata, ma anche
dalle condizioni contrattuali di chi la scrive, dai tempi in cui viene scritta, dal modo in cui
caporedattore e titolista decidono di evidenziarne alcuni tratti salienti, ecc. Quindi,
prendersela col giornalista di turno è spesso insensato. Anche perché l’ordine dei
giornalisti fa da anni formazione sui temi di cui stiamo parlando, con risultati
apprezzabili. Tuttavia sono ancora troppi gli episodi di cattiva informazione e di chiusura
verso l’approfondimento e la disponibilità verso l’ “altro”. E certamente redazioni più aperte
ai tanti giornalisti “stranieri” sarebbero senz’altro più aperte alla varietà delle voci, e alla
complessità della realtà.
Nelle scuole segnali positivi si vedono già, ma occorre ancora fare molto, fornendo agli
insegnanti maggiori strumenti e occasioni di approfondimento su questi temi, e agli studenti
altre voci. Sul piano politico, occorrerebbe sanzionare sul serio chi si rende responsabile di
parole o azioni xenofobe: il Calderoli che dà dell’orango a Cècile Kyenge non deve essere
tollerato, punto e basta. In altri paesi è già così: il politico razzista perde ogni credibilità, e
viene messo ai margini. Non significa che in quei paesi il razzismo sia scomparso. Ma almeno
non ha la stessa visibilità – e legittimità – istituzionale che ha in Italia. Detto questo, tutti
siamo responsabili, e tutti dovremmo riflettere di più, e meglio, sul modo in cui – attraverso
il linguaggio – descriviamo e commentiamo la realtà che ci sta intorno. Basta un po’ di
attenzione per evitare di cadere nel tranello, e nella zona grigia, del “non sono razzista,
ma…”. Ammesso, ovviamente, che lo si voglia fare: che si voglia, intendo, pensare e
immaginare una società più equa e aperta.
P.A.: una ultima considerazione?
F.F.: Il linguaggio è al centro delle mie preoccupazioni, e della mia riflessione: sia per motivi
professionali, sia perché credo che il modo in cui parliamo strutturi anche il nostro pensiero,
e la nostra visione del mondo. Ma – come ho detto – la vera battaglia è e deve essere
innanzitutto sul piano dei diritti. Perché non è detto che un linguaggio meno
razzista produca, immediatamente, una società più equa (anche se ne costituirebbe una
ottima precondizione). Ma una società più equa, credo, rifletterebbe naturalmente le sue
conquiste anche sul piano della rappresentazione e dei codici. In una società più equa il rutto
razzista non avrebbe più bisogno di censori: si ridicolizzerebbe e squalificherebbe da solo.
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Libri per capire meglio:
Di Federico Faloppa:
Sbiancare un etiope. La pelle cangiante di un tòpos antico, 2013, Aracne;
Razzisti a parole (per tacer dei fatti), 2011, Laterza;
Parole contro. La rappresentazione del «diverso» nella lingua italiana e nei dialetti,
2004, Garzanti Libri;
Lessico e alterità. La formulazione del «Diverso», 2000, Edizioni dell’Orso;
Di Marco Aime:
Eccessi di culture, Einaudi, 2004;
Il diverso come icona del male, (con Emanuele Severino), Bollati Boringhieri, 2009;
La macchia della razza, éleuthera, 2009;
Evgeny Morozov:
L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Torino, Codice, 2011;
Internet non salverà il mondo. Perché non dobbiamo credere a chi pensa che la Rete possa
risolvere ogni problema, Codice, 2014.
Altri libri
Naga: Se dico rom… Indagine sulla rappresentazione dei cittadini rom e sinti nella stampa
italiana – Scaricarlo qui
Lunaria: I libri bianchi sul razzismo
(http://www.cronachediordinariorazzismo.org/il-rapporto-sul-razzismo/)
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