N° 22, 2010 - Nuova Museologia

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N° 22, 2010 - Nuova Museologia
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Giugno 2010 - N°
22
Il tema del numero
Musei dell’immigrazione
e dell’emigrazione
a cura di Maurizio Maggi
Rivista semestrale di Museologia
Giornale ufficiale
dell’Associazione Italiana di Studi Museologici
www.nuovamuseologia.org
sped. in abb. post. 70% Milano
Sommario
Nuova Museologia
n. 22, Giugno 2010
Segreteria
Via V. Foppa 16 - 20144 Milano
Telefono 02.4691589 - fax 02.700406383
E-mail [email protected]
pag.
Promozione e sviluppo
Carlo Teruzzi
I musei in Italia dedicati alle migrazioni
Maurizio Maggi
Direttore Responsabile
Giovanni Pinna
Redazione e impaginazione
Claudia Savoiardo
1
pag.
2
Il museo dell’immigrazione
Joachim Baur
pag.
9
Musei e migrazioni
Maddalena Tirabassi
Relazioni esterne
Donatella Lanzeni
Via Chiossetto, 16 - 20122 Milano
Telefono e fax 02.76004870
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Progetto grafico
Antonia Pessina
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Stampa
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Telefono 02.55025312
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Associazione Italiana di Studi Museologici
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Nuova Museologia è aperta alla
collaborazione di quanti si interessano
alla problematica dei musei. Gli articoli
proposti vanno inviati alla Segreteria.
14
Ana Mercedes Stoffel Fernandes
23
27
La rappresentazione della migrazione
Joachim Baur
pag.
35
Il Museo dell’emigrazione portoghese
Maria Beatriz Rocha-Trindade e Miguel Monteiro
pag.
39
Mobilitare le comunità e trasmetterne le storie
Padmini Sebastian
pag.
43
Significato di un museo delle migrazioni
in Germania
Aytac Eryilmaz
pag.
48
Libri
a cura di Giovanni Pinna
La Redazione declina ogni responsabilità in merito alle
notizie contenute nelle inserzioni pubblicitarie.
ISSN 1828-1591
Musei etnici a Chicago
Nunzia Borrelli
Registrazione del tribunale di Milano
numero 445 del 18.06.1999
Salvo indicazione contraria i singoli autori sono proprietari
del copyright dei testi.
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senza l'autorizzazione dell'autore.
Musealizzare la speranza
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Eventi
EDITORIALE
I musei in Italia
dedicati alle migrazioni
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Museo di Roasio (NO)
Museo di Frossasco (TO)
Museo di Sordevolo (BI)
Museo di Magnacavallo (MN)
Museo di San Giorgio in Bosco (PD)
Museo di Pordenone (PD)
Museo di Favale di Malvaro (GE)
Museo di San Marino
Museo di Bedonia (PR)
Museo di Tarsogno (PR)
Museo di Lucca (LU)
Museo di Coreglia Antelminelli (LU)
Museo di Gualdo Tadino PG()
Museo di Cansano (AQ)
Museo di Sant’Elia Fiumerapido (FR)
Museo di Napoli (NA)
Museo di Francavilla Angitola (VV)
Museo di Camigliatello Silano (CS)
Museo di Asuni (OR)
Museo di Acquaviva Platani (CL)
Museo di Malfa/Salina (ME)
Museo di Savoca (ME)
Museo di S. Ninfa (TP)
Museo di Giarre (CT)
Museo di Canicattini Bagni (SR)
Fra settembre 2009 e gennaio 2010, Nuova Museologia ha invitato i musei
italiani dedicati al tema delle migrazioni a rispondere ad alcune domande per
rilevare lo stato dell’arte delle iniziative museali in questo campo. Quasi
nessuna tipologia di musei è individuabile in modo esaustivo, per diverse
ragioni. In questo caso, i motivi risiedono nella confusione fra musei veri e propri
e centri di documentazione dotati di collezioni, in genere documentali. Si
tratta inoltre di una tipologia recente e ancora fortemente dinamica, perciò esistono
molte iniziative annunciate ma non del tutto operative. Una comparazione fra
i diversi elenchi (per esempio quelli del Centro Altreitalie di Torino, del MEI di
Roma, della web community Migrationmuseums.org dell’UNESCO per citarne alcuni),
i partecipanti ai convegni degli ultimi anni su questo tema e infine le iniziative
concrete, come mostre o momenti di studio proposti dai singoli musei, permette
di stilare una mappa, per quanto incerta nei contorni, di ciò che si muove in
questo specifico sotto-campo museale: si tratta di 25 musei o centri similari, un
terzo circa dei quali ancora in fieri. Con un tasso di risposta vicino al 60% e
con una integrazione redazionale, resa possibile dalla ricca offerta di materiale
su internet, si può delineare un primo quadro.
Emerge innanzitutto come questi musei costituiscano un fenomeno recente:
la quasi totalità è stata creata dopo la seconda metà degli anni Novanta o addirittura
dopo il 2000. Un secondo dato interessante è la dimensione relativamente
contenuta dei comuni che li ospitano: circa 3900 abitanti in media (escludendo
San Marino), contro una media dei comuni italiani di quasi 7000 abitanti, ma
la dimensione demografica media dei comuni dotati di musei è certamente molto
superiore. Le due osservazioni considerate congiuntamente sono interessanti.
Si tratta infatti di un fenomeno diverso rispetto alla proliferazione di musei
etnografici, predominante nella seconda metà degli anni Settanta. Sembrerebbe
piuttosto in sincronia con l’esplosione dei musei d’identità, che parte appunto
dalla seconda metà degli anni Novanta e che non si è ancora arrestata. Ciò non
significa che vi siano analogie museali ma si tratta di un indizio interessante.
La distribuzione geografica è abbastanza omogenea nel paese, con una lieve
relativa prevalenza nel centro-nord, ma con una dinamica recente più accentuata
nel sud (dove sta nascendo una rete locale di musei dedicati al tema migrazioni),
in analogia con quanto avviene nel campo dei musei d’identità.
La motivazione alla base di questi musei sembra essere quasi dovunque il
desiderio di testimoniare un fenomeno che è considerato una parte rilevante
dell’identità e della storia locale. Più rari i casi in cui ci si propone di
concretizzare legami di qualche tipo con le comunità di emigranti disperse nel
mondo. Altrettanto rari poi i casi in cui il tema è visto come “migrazioni” e dunque
in entrambi i sensi, con un occhio ai fenomeni contemporanei.
Quasi sempre si parla di “emigrazione” come di un fenomeno che ha
riguardato solo una specifica comunità locale, ormai terminato, da recuperare
come memoria per la sua potenziale importanza identitaria, ma senza
collegamenti espliciti con la realtà odierna.
Maurizio Maggi
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Il museo dell’immigrazione
Joachim Baur
La musealizzazione del fenomeno della migrazione è attualmente tra i settori più dinamici nel panorama museale mondiale. Oltre a considerare che questo tema è trattato in esposizioni temporanee e permanenti di istituzioni già esistenti,
si può osservare che sono sempre più numerosi i centri museali istituiti sull’insieme del fenomeno della migrazione – più
precisamente sull’immigrazione. L’emergere di questo nuovo
tipo di museo – il museo dell’immigrazione – nel panorama
museale globale risale, salvo poche eccezioni, a non più di
vent’anni or sono. Una rapida panoramica senza pretesa di
completezza consente di rilevare quale sia stata la dinamica
dello sviluppo di questo tipo di museo: la prima istituzione
di questo tipo avrebbe dovuto essere l’American Museum of
Immigration, progettato nel 1951 ma aperto solo nel 1972 all’interno della Statua della Libertà di New York e chiuso nel 1991.
Nel 1986 fu inaugurato il più vecchio museo dell’immigrazione
in essere ancora oggi, il Migration Museum di Adelaide, Australia1. Nel 1990 con l’Ellis Island Immigration Museum di New
York City fu realizzato il museo dell’immigrazione più grande e più importante oggi esistente. Poco lontano, all’estremità
meridionale di Manhattan, nel 1994 aprì i battenti il Lower East Side Tenement Museum2. Alla fine degli anni Novanta, vi
fu un’ondata di nuove costituzioni: nel 1998 l’Immigration Museum Melbourne e il Memorial do Immigrante/Museu da Imigração di São Paolo, situato nell’Hospedaria dos Imigrantes,
il punto cruciale di disbrigo delle formalità doganali per gli
immigranti verso il Brasile nel periodo compreso tra il 1886
e il 19783. Nel 1999 si aggiunse il museo dell’immigrazione
canadese Pier 21 di Halifax e nel 2001 l’argentino Museo Nacional de la Inmigracion a Buenos Aires, anch’esso ospitato
nell’edificio storico di una vecchia stazione di transito e di alloggio per gli immigranti4.
In Europa lo sviluppo iniziò con ritardo. Da alcuni anni
a Furesø, un sobborgo di Copenhagen, è allestito un museo
dell’immigrazione danese, quello che finora, nonostante il nome, non è altro che un piccolo museo di storia locale, recentemente focalizzatosi sulla storia della migrazione, ma che
in futuro dovrà essere ampliato in una istituzione di profilo
nazionale5. Decisamente ancorato alla realtà locale è il museo londinese 19 Princelet Street. In un vecchio municipio
del XVIII secolo esso documenta, sulla base della storia
dell’edificio e dell’area circostante, i diversi momenti della migrazione nell’East End londinese. Il primo museo dell’immi-
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grazione di rango nazionale in Europa è stato inaugurato nell’ottobre 2007 a Parigi, la Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration6. In molti altri paesi europei sono attualmente in
discussione progetti analoghi, più o meno concretamente. Espressione dell’importanza del fenomeno è inoltre la costituzione di una rete internazionale dei musei della migrazione da
parte dell’UNESCO nell’ottobre 20067.
Musei dell’immigrazione e dissonant heritage
Nella analisi di questo nuovo tipo di museo, e di alcune delle sue configurazioni e implicazioni, ho spostato lo
sguardo dall’Europa ai contesti di Stati Uniti, Canada e Australia. La tesi che seguirò è che in questi paesi la costituzione di musei dell’immigrazione autonomi può essere sostanzialmente considerata come reazione alla crisi di narrazioni capaci di promuovere un senso di comunità e alla
diversificazione delle identità culturali. Nel rappresentare l’immigrazione come esperienza socialmente unificante, i musei costruiscono un Meistererzählung8 della migrazione e
in questo modo lavorano alla revisione della imagined
community della nazione9. Da impulso per la messa in discussione della nazione, il fenomeno essenzialmente transnazionale della migrazione diventa il principio della sua
costituzione narrativa.
Punto di partenza di questa argomentazione è una problematica dibattuta da John Tunbridge e Gregory Ashworth
definita con l’espressione “heritage dissonance ”10. Con un’attenzione particolare al contesto canadese, essi espongono le
difficoltà emergenti nelle società di insediamento, tra cui anche Stati Uniti e Australia11, relativamente alla costruzione di
un’identità nazionale basata sulla storia e sul patrimonio culturale. La situazione di base è una profonda frammentazione in heritage identities in cui, idealmente, si contrappongono
tre gruppi sociali, anch’essi frammentati. Da un lato vi sono
le cosiddette società dei Padri Fondatori, che tradizionalmente
dominano il racconto nazionale e pongono i miti delle origini. In epoca più recente queste vengono contestate soprattutto
su due fronti: da un lato dalla popolazione autoctona che spinge per il riconoscimento della propria visione della colonizzazione del paese, per l’ammissione dei crimini coloniali e,
non ultimo, per il risarcimento materiale; dall’altro, dagli immigrati di epoca successiva e dai loro discendenti che vogliono vedere rispettato il proprio patrimonio culturale e la
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cie espositiva di circa 9000 m2, nell’edificio principale – rinloro storia accolta nel Meistererzählung nazionale. In questo scenario sorgono tensioni e conflitti che spesso portano
novato con grande dispendio di mezzi – della vecchia stail riferimento alla storia a non favorire la coesione sociale benzione di controllo degli immigranti, su un’isola nelle immesì a creare tendenze centrifughe.
diate vicinanze della Statua della Libertà. Nel 2004 è stato meL’istituzione di un nuovo museo dell’immigrazione può
ta di oltre 3,6 milioni di visitatori. L’iniziativa per la ristrutessere quindi intesa come risposta a questa situazione e coturazione dell’edificio inutilizzato dagli anni Cinquanta e per
me tentativo di un suo parziale appianamento, poiché, cola trasformazione in museo si è sviluppata agli inizi degli anme si cercherà di dimostrare, la caratteristica principale del
ni Ottanta, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario delmuseo consiste nel rappresentare la storia dell’immigrazione
la Statua della Libertà. Dal punto di vista finanziario e storicome racconto globale e in grado di creare integrazione.
co-politico, il progetto era paradigmatico per il programma
Le più diverse storie di immigranti di varia origine vengodell’amministrazione Reagan. Da un lato l’Ellis Island era, nel
no non solo integrate, ma anche unificate, in un insieme
segno di una politica di spesa neoliberale, il primo progetpiù ampio, con il racconto dei coloni originari, ora chiamati
to museale statale realizzato negli Stati Uniti senza impiego
anch’essi a definirsi immigranti. In tal senso questo tipo di
di denaro pubblico, ma interamente sostenuto con donazioni
museo rappresenta uno strumento e una piattaforma per l’ardi privati e bilanci pubblicitari di imprese; dall’altro, esso domonizzazione dei dissonant heritage. Al riguardo è signifiveva – almeno nella lettura dei suoi fondatori – fare appelcativo il carattere ambivalente di questa operazione: da un
lo all’orgoglio degli immigrati di origine europea che nel fratlato, il Meistererzählung deltempo si erano stabiliti e avela migrazione così costruito si
vano guadagnato importanza,
presenta notevolmente più
non da ultimo come ethnic
inclusivo delle precedenti vavote, e al contempo doveva
rianti – pensare alla Nazione
sollecitare i nuovi immigranti
e raccontare la Nazione –;
provenienti dal sud a integrarsi
dall’altro, anch’esso produce
rapidamente e senza problemi,
– non ultimo con uno sguarseguendo il (presunto) esemdo alle prospettive autoctone
pio degli immigrati di Ellis
– forme specifiche di escluIsland. Tuttavia, per la confisione tendendo, come qualgurazione del museo fu desiasi forma di nazionalismo del
terminante anche la parteciconsenso, all’occultamento
pazione di famosi storici deldei conflitti sociali.
la migrazione, i quali cercaroDi seguito svilupperò il
no di controbattere in parte
concetto relativamente a tre muquesta versione patriottica. Nel
L’Ellis Island Immigration Museum, New York City.
sei dell’immigrazione realmuseo, sostenuto istituzional(Foto Joachim Baur)
mente esistenti: l’Ellis Island Immente dall’U.S. National Park
migration Museum di New York City, il museo canadese Pier
Service, viene sostanzialmente raccontata la storia di Ellis Island
21 di Halifax e l’Immigration Museum di Melbourne12. La cloe dell’immigrazione dalla fine del XIX secolo agli inizi del
XX. Una delle esposizioni, “The Peopling of America”, tratse reading di alcune installazioni significative è focalizzata
ta della lunga storia della migrazione negli Stati Uniti lungo
non tanto sulle differenze e sulle peculiarità dei tre musei,
l’arco di tempo che dal periodo precedente alla colonizzaquanto piuttosto sui punti in comune da me intesi come prinzione dell’America, attraverso l’immigrazione forzata degli schiacipio strutturale del museo dell’immigrazione. Per non renvi africani e le grandi ondate di immigrazione del XIX e XX
dere eccessivamente ermetica questa particolare prospettiva,
secolo, giunge fino ai giorni nostri14.
alla fine saranno delineati alcuni aspetti che possono essere considerati cause disturbanti della rappresentazione di un
Il Pier 21, Canada’s Immigration Museum come si defiMeistererzählung della migrazione nei musei.
nisce orgogliosamente nel sottotitolo, è stato aperto nell’estate 1999. Analogamente all’Ellis Island Immigration Museum,
Tre casi
ha sede nell’edificio di una vecchia stazione di controllo di
Innanzitutto, una breve presentazione dei musei, della loimmigranti, anche se non su un’isola ma all’estremità meriro storia e delle loro esposizioni permanenti13. L’Ellis Island
dionale del porto di Halifax, sulla costa orientale del Canada, tra binari ferroviari e impianti industriali. Per quanto riImmigration Museum, istituito nel 1990, è il più grande muguarda le dimensioni, l’Ellis Island del Canada, come è voseo dell’immigrazione al mondo. Si estende su una superfi-
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migrazione dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri. Anche
lentieri chiamato dai commentatori e dai suoi ideatori, può
in questo caso le singole sezioni sono orientate al viaggio deessere a malapena paragonato al suo più famoso modello:
gli immigranti, benché la sequenza delle unità espositive non
la superficie espositiva è dieci volte più piccola, e dall’apersegua una narrazione lineare. Una particolarità è la cosiddetta
tura il numero di visitatori si aggira attorno ai 50.000 all’an“Access Gallery”, dove le comunità di immigrati, in collabono. L’iniziativa per l’istituzione del museo è riconducibile all’ex
razione con il museo e da questo finanziate, possono predirettore dell’ufficio immigranti della provincia della Nova Scosentare esposizioni proprie, riguardanti la loro storia e la lozia. La realizzazione è stata patrocinata dal governo canadese,
ro cultura16.
anche se oggi la Pier 21 Society, un organismo a carattere
privato, sostiene il museo dal punto di vista organizzativo e
ne risponde dei contenuti. Nel 2009 al Pier 21 è stato tuttaImagining community
via riconosciuto lo status di museo nazionale canadese.
Indipendentemente dalle differenze di genesi, titolarità,
L’esposizione permanente “The Immigration Experience” selocalizzazione, focus tematico e accentuazione politica –
gue, in un percorso libero che si snoda in diverse unità espoaspetti che qui non è possibile sviluppare ulteriormente – i
sitive, il cammino degli immigranti nel periodo di attività dell’editre musei funzionano sostanzialmente in maniera analoga: il
ficio, ossia dal 1928 al 1971. La configurazione è caratterizpunto focale è la costruzione e la rappresentazione di una
zata da tre elementi catalizzatori strutturati come quinte teacommon o shared experience dell’immigrazione. Il raccontrali: la nave, simbolo del viaggio verso il Canada, il treno,
to che promuove un senso di comunità e mira alla creazioemblema del viaggio attrane di una imagined commuverso il Canada, e, infine, l’edinity degli immigranti viene
ficio stesso, a cui si rimanda,
rappresentato in una figura
nella parte centrale dell’espoche definirei “container”: una
sizione, con un modello e una
sorta di metafora visuale in
sala d’attesa costruita succescui le differenze tra singoli o
sivamente. Il museo, la cui
gruppi sono inserite, riunite, per
rappresentazione comunica
così dire raccolte in una unità
nel complesso una visione nopiù grande17. A Ellis Island e
stalgicamente chiarificatrice
nel museo Pier 21 già gli edidel tema della migrazione,
fici fungono da container.
aspira a un’espansione dei
Quando nei testi delle espocontenuti per affrontare, al di
sizioni e nel materiale di aclà dello sguardo sugli anni
compagnamento viene più
1928-1971, l’intera storia dell’imvolte ripetuto che questi sono
migrazione verso il Canada15.
i luoghi autentici attraverso
Il Museo dell’immigrazione canadese Pier 21, Halifax.
cui gli immigranti sono tranL’Immigration Museum Mel(Foto Joachim Baur)
sitati, a essi viene attribuita
bourne è stato inaugurato nel
una forza coesiva. Al di là della retorica, nello spazio è rea1998 e ha sede in un edificio doganale del XIX secolo, al cenlizzata emblematicamente la figura dell’ambiente unificante
tro della città. Qui l’istituzione museale non è nata, come nee delimitante nel cosiddetto “Great Registry” di Ellis Island,
gli altri due casi, in un edificio autentico ma è sorta in conla sala principale in cui venivano effettuati i primi controlli.
temporanea con un altro museo. Il museo madre di VictoÈ il cuore del museo e, al contempo, il suo contenitore simria, che fonda le sue radici nel XIX secolo, spinto dalla nuobolico; nella sala lasciata vuota aleggia un’atmosfera che
va ideologia statale del multiculturalismo, avviò negli anni
riunisce tutte le più diverse storie individuali. Questi contaiOttanta, l’allestimento di una collezione sulla storia della
ner unificanti sono però presenti anche in dimensioni ridotmigrazione in Australia e in particolare nello Stato del Victe: una vetrina nella sezione “Treasures from Home” espotoria, la cui capitale è Melbourne. A metà degli anni Novanta,
ne le cose più diverse che gli immigranti di diverse epoche
su iniziativa del primo ministro del Victoria, nel contesto dei
e di diversi paesi portavano con sé. Dagli oggetti si apprenprogetti per il delinearsi di Melbourne quale capitale della
de ben poco o assolutamente nulla dei vecchi proprietari. Semcultura, si decise di dare una sede propria all’importante tebra quasi che l’elemento più importante non sia l’oggetto sinma della migrazione, considerato anche come attrattore tugolo ma la disposizione delle cose nella vetrina, ovvero il fatristico. Da allora l’Immigration Musem opera, con carattere
to che, nonostante tutte le differenze, le cose trovino comunque
e immagine indipendenti, come sezione del museo statale del
posto in un’unica vetrina.
Victoria. L’esposizione permanente illustra la storia dell’im-
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cano e talvolta li ricalcano. Toccando i nomi, non solo osA causa del suo diverso utilizzo storico, l’edificio di
sequiano i singoli immigrati, spesso loro antenati, ma, al conMelbourne è un container meno simbolico. Tuttavia, in motempo, entrano in contatto con la nazione. I gesti trascendo del tutto analogo, al centro dell’edificio e della narrazione
dono quindi la dimensione individuale e familiare per diventare
espositiva è stata costruita una riproduzione: una nave stirituali della nazione.
lizzata, visitabile, contenente la ricostruzione di cabine riA Ellis Island e nel museo Pier 21 anche la common exsalenti a tre diverse fasi storiche. Il testo introduttivo spieperience, che trova espressione in queste diverse forme di
ga che “All immigrants, no matter when they arrived in Vicpresentazione, viene esplicitamente e letteralmente rielabotoria, are linked by the common experience of a journey”.
rata con il simbolismo della nazione. Nel museo Pier 21, in
Vale a dire che essi, nonostante tutte le differenze, in quancoda al citato treno c’è un breve filmato: in rapidi tagli, moto immigranti sono per così dire “tutti nella stessa barca”.
stra immagini di uomini “culturalmente poliedrici” che, sulDel tutto simile è l’allestimento nel museo Pier 21: in un trele note dell’inno nazionale “O Canada”, finiscono per dissolversi
no stilizzato – che per il rumore e il movimento sembra esin una bandiera canadese. A Ellis Island un’installazione al
sere effettivamente in marcia – singoli immigranti narrano
centro dell’unità espositiva finale segue un identico princile proprie esperienze in interviste video. Benché si dipanipio: numerosi ritratti fotografici di individui, una mescolanno in scompartimenti separati, le storie confluiscono tutte
za ostentatamente “colorata”, nonostante le foto in bianco e
nel container del treno, che sembra spostare tutti i protagonisti
nero, che si trasforma nelle stars and stripes della bandiera
in un’unica direzione, costantemente e in modo continuo.
americana. “Unity in diversity”,
Un’altra forma di rappre“E pluribus unum”: queste imsentazione dell’esperienza colmagini sono metafore perfetlettiva della migrazione e delte di una nazione d’immigrala imagined community degli
zione ben ordinata, senza conimmigranti è costituita dalle tarflitti e multiculturale.
ghe commemorative che si
Con queste rappresentatrovano nei tre musei. Sepzioni tutti i tre musei lavorano
pure con qualche differenza,
alla costruzione e al consolil’“American Immigrant Wall
damento della migrazione coof Honor” a Ellis Island, il “Some master narrative nazionabey Wall of Honour” nel Pier
le. L’immigrazione viene pre21 e il “Tribute Garden” dell’Imsentata come l’esperienza pomigration Museum di Melsitiva comune atta a promuobourne seguono, per dimenvere il senso della comunità. Desioni e configurazione, lo stescisamente non si tratta della
so principio: migliaia di nomi
L’Immigration Museum di Melbourne.
costruzione di un’omogeneità
di immigrati di epoche e ori(Foto Joachim Baur)
culturale, della creazione di
gini diverse sono incise su taruna conformità anglosassone o di altro tipo. La diversità di
ghe in acciaio riunite a formare un insieme armonioso18. In
individui e gruppi viene riconosciuta in pieno e talvolta acquesti monumenti la citazione dei nomi richiama da un lacentuata in modo rilevante. Tuttavia vengono delineate unito la dimensione individuale della migrazione evidenziancamente le differenze culturali e non le differenze di posizione
do nella diversità del suono la diversificazione dei background
sociale o politica, a favore di una culturalizzazione del sociale.
culturali da cui provengono gli immigranti, dall’altro la riContemporaneamente le tendenze potenzialmente centrifugida disposizione in ordine alfabetico colloca i singoli noghe delle società multiculturali, oppure i conflitti più fortemi in un reticolo uniforme e uniformante in cui le indivimente tematizzati, vengono inseriti, mitigati e integrati in
dualità sembrano conservate collettivamente. Attraverso gli
questo Meistererzählung. In tal modo, la possibilità di deelenchi di nomi del monumento, gli immigrati storici venstabilizzazione e di decentramento del concetto di nazione pregono iscritti nella comunità immaginata della nazione. Al di
sente nel fenomeno della migrazione viene sovvertita e imlà della funzione di metafore visuali, alle targhe commemorative
piegata a favore della sua rigenerazione o rivitalizzazione.
attiene anche una dimensione performativa che, non ultimo, ne garantisce la continua attualizzazione del significaCause disturbanti
to. Diventano teatro di un rituale ripetuto quotidianamenSarebbe errato supporre che la rappresentazione di un
te, in cui i moderni visitatori, in particolare i discendenti deMeistererzählung nazionale della migrazione nei musei progli immigrati, passano in rassegna gli elenchi di nomi, li toc-
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ceda senza complicazioni. Perciò nella parte conclusiva vengono messi in evidenza alcuni momenti di disturbo connessi a una costruzione di questo tipo e viene descritta la loro
gestione da parte dei musei.
È possibile descrivere una prima problematica come potenziale tensione tra il luogo della musealizzazione e la narrazione museale, e illustrarla prendendo in considerazione il museo Pier 21. L’edificio della vecchia stazione di controllo degli immigranti, che al museo funge non solo da sede ma anche da punto iniziale e centrale della presentazione, è intimamente collegato a una fase specifica della
migrazione verso il Canada, ossia il periodo in cui il Pier
21 era attivo, tra il 1928 e il 1971. La concentrazione su questa fase consente di raccontare un’unica storia particolare
e di rappresentare solo un capitolo specifico della storia
dell’immigrazione canadese. Condizione di un Meistererzählung è, tuttavia, che esso trascenda da questo tipo
di concentrazione e aspiri a una validità generale, in modo da considerare efficacemente il maggior numero possibile di intervalli temporali e di gruppi storici. Il museo
colma il divario tra la tendenza del luogo verso il particolare e l’esigenza di una validità generale ricorrendo alla figura retorica della sineddoche. Nel materiale di accompagnamento al previsto ampliamento del museo si legge:
“When you step through the doors of Pier 21 you do not
simply walk in the footsteps of the one million people who
passed through this landmark between 1928 and 1971 – you
also experience the emotions and feelings of every immigrant to this country, whether their journey brought them
here 300 years ago or as recently as last week”19. Il Pier 21
è considerato pars pro toto dell’immigrazione verso il Canada. Diventa il nucleo di una immigration experience non
più circoscritta a una determinata fase e a particolari condizioni storiche, ma intesa come valida in senso generale.
I sentimenti e i “primi passi” che vengono rappresentati nel
museo perché siano vissuti dai visitatori riguardano non più
soltanto il piccolo gruppo di coloro che hanno effettivamente attraversato l’edificio, ma un immigrante universale concepito oltre la storia. L’immigrazione avvenuta in altri tempi o in altri luoghi viene così integrata nella narrazione e quasi concentrata in questo luogo. Le conseguenze di questo espediente retorico sono di ampia portata. Non
solo vengono unificati diversi movimenti storici e neutralizzate le tensioni tra anglo- e franco-canadesi, per secoli
considerate la “questione canadese”, ma in questa prospettiva
viene tradotta in chiave positiva anche la colonizzazione
del Nord America in quanto forma d’immigrazione. Un fenomeno analogo – Barbara Kirshenblatt-Gimblett parla di
slick taxonomic move20 – si riscontra anche all’Ellis Island
Immigration Museum. Grazie alle sue dimensioni, al suo
status di museo dell’immigrazione nazionale de facto e all’esten-
6
sione della narrazione museale che va oltre la storia del luogo, esso include non solo tutte le storie dell’immigrazione, ma anche tutti gli altri luoghi a cui tali storie erano collegabili.
Il fatto che spesso tale operazione non sia priva di contraddizioni può essere inteso come una seconda causa di disturbo di un Meistererzählung universale della migrazione
e può essere illustrato con le voci che si levano dalla comunità
afroamericana in relazione all’Ellis Island Immigration Museum.
In occasione dell’anniversario della vicina Statua della Libertà
nel luglio 1986 – all’apice dello sviluppo del museo – numerosi
rappresentanti presero le distanze da una narrazione universale
dell’immigrazione. Lo storico John Hope Franklin prese le distanze dalla comunità degli immigrati: “It’s a celebration for
immigrants and that has nothing to do with me. I’m interested in it as an event, but I don’t feel involved in it”21.
L’ostentata indifferenza verso una storia che riguarda solo altri si è spesso trasformata nella critica secondo cui, nell’accentuazione della narrazione sugli immigrati, la storia del commercio di schiavi e della schiavitù è stata quasi trasmessa come tema centrale costitutivo dell’identità degli afroamericani e quindi tendenzialmente annullata dalla coscienza pubblica. Così commentava l’allora sindaco di Atlanta, Andrew
Young: “No one in the black community is really excited about
the Statue of Liberty. We came here on slave ships, not via
Ellis Island”22. Anche la debole risposta degli afroamericani
all’appello di mettere a disposizione del museo degli oggetti può essere letta come resistenza passiva contro l’inserimento
in un Meistererzählung della migrazione – ancora dominato dai bianchi e codificato all’europea – delle esperienze migratorie dei neri d’America, e in particolare della migrazione totalmente diversa del commercio di schiavi. Per equilibrare il misero patrimonio di oggetti e delineare, nonostante tutto, un quadro quanto più possibile completo della migrazione e della pluralità culturale, ai creatori del museo non
restò altro che distribuire lungo le esposizioni le poche testimonianze disponibili dell’immigrazione extraeuropea23.
Infine, quale terza causa di disturbo di un Meistererzählung nazionale dell’immigrazione nelle società d’insediamento citiamo il rapporto precario che tali società hanno con
la storia e la prospettiva della popolazione autoctona. Il problema è evidente: gli autoctoni, siano essi aborigeni d’Australia o nativi americani, per definitionem non sono immigrati e non è neanche possibile – non da ultimo considerando
esigenze politiche e materiali, quali la restituzione della terra loro sottratta – reinterpretarli come tali, nonostante ciò sia
stato talvolta tentato facendo riferimento alle migrazioni preistoriche24. La capacità di integrazione nella narrazione dell’immigrazione, anche se non formulata in modo così inclusivo,
inciampa involontariamente nel suo limite. Mentre dal punto di vista narrativo la maggioranza della società americana,
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canadese e australiana può essere assorbita sotto l’insegna
dell’immigrante, la parte autoctona della popolazione viene
sistematicamente spinta, attraverso il Meistererzählung dell’immigrazione, al di fuori della comunità nazionale. La parte autoctona in questo racconto è sempre l’altro, è l’esterno di una
nazione di immigranti, e in questo si segnala che ogni forma di inclusione produce una forma specifica di esclusione.
Ancora di più, in un Meistererzählung positivo dell’immigrazione,
in contrasto con le prospettive autoctone, viene valutata positivamente anche la colonizzazione del Nord America e
dell’Australia in quanto forma di immigrazione.
Il rapporto con questa problematica è molto diverso nei
tre musei. Nel museo Pier 21 il problema è semplicemente escluso, il che è in linea con il suo ristretto focus temporale, ma tuttavia non con la dichiarata esigenza di validità generale. A Ellis Island, una targa nell’esposizione “The
Peopling of America” recita che il contatto con gli europei
arrecò agli indiani malattie, guerre, deportazioni nelle riserve
e l’annientamento del loro modo di vita tradizionale. Sulla
base di un contesto più ampio, questi crimini vengono tuttavia riportati e riscritti in un racconto sostanzialmente positivo. Parte del pageant of immigration, del “corteo dell’immigrazione”, celebrato dal testo introduttivo e dalla presentazione del museo, sono i colonizzatori, su cui si fonda
la tradizione, e non le vittime con loro i traumi. Solo nell’Immigration Museum di Melbourne i riferimenti alla storia e
alle prospettive degli aborigeni pervadono la rappresentazione per ampi tratti, instaurando così l’immagine di una
complessa storia di relazioni. Mentre talvolta due modi di
vedere si accostano e/o si contrappongono, almeno in linea di principio diventa evidente che il Meistererzählung
dell’immigrazione presenta solo uno specifico punto di vista della storia.
Quo vadis, museo dell’immigrazione?
Come breve conclusione, è possibile rilevare che negli
ultimi anni la tendenza alla musealizzazione della migrazione costituisce uno sviluppo significativo e dovuto da tempo,
e che i musei dell’immigrazione sono importanti forme
dell’istituzionalizzazione di questa tendenza. La genesi di questa nuova tipologia attesta un’apertura dell’istituzione museale
verso una più ampia gamma di storie e di gruppi sociali. I
musei dell’immigrazione mettono al centro del discorso le esperienze e i ricordi dei migranti – anche gli aspetti a lungo marginalizzati nei cosiddetti paesi d’immigrazione classici – e sono importanti segni del riconoscimento e dell’apprezzamento della pluralità culturale. In tal senso, la loro diffusione crescente non può che essere accolta con favore.
Nell’osservazione dei tre musei dell’immigrazione esistenti
in Stati Uniti, Canada e Australia ho tentato di accennare a
una tendenza che può essere definita problematica, o per lo
meno ambivalente. Rispetto a questi tre casi, è possibile affermare che i musei dell’immigrazione tendono a fissare a
livello nazionale la storia e il movimento della migrazione.
Ancora: mentre nelle loro rappresentazioni costruiscono un
Meistererzählung nazionale dell’immigrazione, le energie e
i ricordi transnazionali della migrazione vengono sfruttati per
una ricentralizzazione e una stabilizzazione del concetto di
nazione. Una tale revisione della imagined community può
essere più inclusiva e multiculturale rispetto alle precedenti
versioni orientate a un’omogeneità culturale ma, come accennato,
produce anche specifiche esclusioni e favorisce inoltre l’occultamento egemoniale dei conflitti sociali. Un importante passo successivo sarebbe svincolare la musealizzazione della migrazione dalla focalizzazione sull’ambito nazionale e rinunciare al “nazionalismo metodologico”25 rispetto al fenomeno
di per sé transnazionale della migrazione.
Joachim Baur insegna Studi Museali al Dipartimento di Antropologia Culturale dell’Università di Tubinga (Germania)
e lavora come curatore indipendente.
1. Szekeres V., Representing Diversity and Challenging Racism: The Migration Museum, in: Sandell R. (ed.), Museums, Society, Inequality, London/New York, 2002, pp. 153-174; Simpson M.G., Making Representations.
Museums in the Post-Colonial Era, London, 1996, pp. 64-66.
2. Abram R.J., History is as History Does. The Evolution of a Mission-Driven Museum, in: Janes R.R., Conaty G.T. (ed.), Looking Reality in the Eye.
Museums and Social Responsibility, Calgary, 2005, pp. 19-42; Baur J.,
Commemorating Immigration in the Immigrant Society. Narratives of
Transformation at Ellis Island and the Lower East Side Tenement Museum, in: König M., Ohliger R. (ed.), Enlarging European Memory. Migration
Movements in Historical Perspective, Ostfildern, 2006, pp. 137-146.
3. Xavier M.A., Immigrant Memorial - Immigration Museum (Brasil),
News of Museums of History/Les Nouvelles des Musées d’Histoire, June
1999, n. 23, pp. 4-7; Vieira da Costa Leitão A.M., The São Paulo Immigrants’
Memorial. Fields of Research and Challenges in the Twenty-First Century,
Museum International, 59, n. 1-2, 2007, pp. 117-126.
4. Ochoa de Eguileor J., Immigration in Argentina, ICOM News, 58, n. 1,
2005, p. 7.
5. Hermansen C.K., Møller T.A., The Danish Immigration Museum of Furesø. The History of Immigration and the Collecting of Memories, Museum
International, 59, n. 1-2, 2007, pp. 137-144.
6. L’apertura a Parigi del nuovo museo dell’immigrazione francese ha suscitato non solo apprezzamenti positivi ma anche qualche nota stonata per
il fatto che essa non è stata accompagnata da cerimonie ufficiali e che l’inaugurazione formale è stata rimandata a data da destinarsi. Questo episodio testimonia ancora una volta che la rappresentazione della migrazione nel museo è un tema non solo molto attuale, ma anche di scottante
attualità politica poiché, nonostante tutti gli interessati si siano sforzati di
ridimensionare l’importanza della vicenda, il gesto simbolico aveva motivazioni profonde ed era politicamente dirompente. In Francia il tema dell’immigrazione ha destato molto scalpore. Il presidente Sarkozy aveva predisposto un’azione politica nei confronti dell’immigrazione: in parlamento
doveva essere varata una nuova legge restrittiva che prescriveva test genetici per gli immigranti in relazione al ricongiungimento familiare, a lun-
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go rifiutata nell’ambito del governo. Già nel giugno 2007 si era scatenato
un putiferio allorché otto storici erano usciti dal comitato scientifico della Cité non perché non intendessero più sostenere il progetto del museo
ma per protesta contro il Ministero per l’immigrazione e l’identità nazionale istituito da Sarkozy, come promessa elettorale fatta alla destra francese. In questo clima surriscaldato, almeno all’apparenza, la politica ufficiale ha ritenuto alquanto inopportuna l’inaugurazione del museo. Per informazioni su Cité Nationale e altri musei della migrazione, consultare: Museum International, a. 59, vol. 1-2, 2007; Green N.L., A French Ellis Island?
Museums, Memory and History in France and the United States, History
Workshop Journal, 63, n. 1, 2007, pp. 239-253; Stevens M., Immigrants
into Citizens. Ideology and Nation- Building in the Cité National de l’Histoire de l’Immigration, Museological Review, n. 13, 2008, pp. 57-73.
7. Il suo sito web fornisce una pregevole panoramica sui musei dell’immigrazione e dell’emigrazione attualmente esistenti e in corso di progettazione; si veda http://www.migrationmuseums.org.
8. Il Meistererzählung (master narrative) viene definito da Konrad H. Jarausch e Martin Sabrow come “una rappresentazione storica coerente, dotata di una prospettiva univoca e di regola allineata allo stato nazionale,
la cui forza plasmante non ha solo una funzione formativa interdisciplinare ma assume predominanza pubblica” (Jarausch K.H., Sabrow M.,
“Meistererzählung” - Zur Karriere eines Begriffs., in: Idem (ed.), Die historische Meistererzählung. Deutungslinien der deutschen Nationalgeschichte nach 1945, Göttingen, 2002, pp. 9-32, qui p. 16).
9. Il concetto di imagined community quale fondamento della nazione è
ovviamente riconducibile a Benedict Anderson: Imagined Communities.
Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London/New York,
1991 (seconda edizione ampliata).
10. Tunbridge J.E., Ashworth G.J., Dissonant Heritage. The Management
of the Past as a Resource in Conflict, Chichester/New York, 1996, p. 179.
11. Riallacciandomi a Stasiulis e Yuval-Davis, definisco le “società di insediamento” (settler societies), come “società in cui gli Europei si sono stabiliti, dove i loro discendenti sono rimasti politicamente dominanti sulle popolazioni indigene e dove si è sviluppata una società eterogenea in termini di
classe, etnia e razza (Stasiulis D., Yuval-Davis N., Unsettling Settler Societies.
Articulations of Gender, Race, Ethnicity, and Class., London, 1995, p. 3). Le
Autrici hanno evidenziato che non si tratta di una categoria ben definita bensì di un continuum che rende necessarie ulteriori differenziazioni. Viene accennato solo sommariamente alla differenziazione praticata negli USA tra settler republic e i white dominions Canada e Australia.
12. Un’analisi esauriente dei tre musei, della loro genesi e delle loro
esposizioni permanenti è riportata in: Baur J., Die Musealisierung der Migration. Einwanderungsmuseen und die Inszenierung der multikulturellen Nation, Bielefeld, 2009.
13. Autorappresentazioni dei musei e panoramiche delle loro esposizioni sono disponibili ai seguenti indirizzi web: http://www.nps.gov/elis,
http://www.pier21.ca, http://immigration.museum.vic.gov.au.
14. Chermayeff I., Wasserman F., Shapiro M.J., Ellis Island. An Illustrated
History of the Immigrant Exerience, New York, 1991; Wallace M., Mickey
Mouse History and Other Essays on American Memory, Philadelphia, 1996,
pp. 55-73; Desforges L., Maddern J., Front Doors to Freedom, Portal to the
Past. History at the Ellis Island Immigration Museum, New York, Social &
Cultural Geography, a. 5, vol. 3, 2004, pp. 437-457; Baur J., Ellis Island,
Inc. - The Making of an American Site of Memory, in: Grabbe H.J., Schindler S. (ed.), The Merits of Memory. Concepts, Contexts, Debates, Heidelberg,
2008, p. 11.
15. Duivenvoorden Mitic T., LeBlanc J.P., Pier 21. The Gateway that Changed Canada, Hantsport, 1988; Vukov T., Performing the Immigrant Nation at Pier 21. Politics and Counterpolitics in the Memorialization of Ca-
8
nadian Immigration, International Journal of Canadian Studies, Herbst,
vol. 26, 2002, pp. 17-39.
16. McFadzean M., Immigration Museum (Australia), News of Museums
of History/Les Nouvelles des Musées d’Histoire, vol. 23, Juni 1999, pp. 813; Barr H., Melbourne’s Immigration Museum, Ormond Papers, a. 19, 2002,
pp. 63-71; Sebastian P., Mobilizing Communities and Sharing Stories. The
Role of the Immigration Museum in One of the Most Culturally Diverse Cities in the World, Museum International, a. 59, vol. 1-2, 2007, pp. 151-159.
17. Il termine “Aufheben” è qui inteso nel triplice senso hegeliano di conservare, negare e porre a un livello superiore. Il mio uso del termine “container” per queste forme di rappresentazione riprende il discorso di Ulrich Beck a proposito del modello di container dello stato nazionale che
egli analizza e critica come caratteristico della prima età moderna (Beck
U., Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus -Antworten auf Globalisierung, Frankfurt am Main, 1997).
18. A Ellis Island e nel museo Pier 21 i “Walls of Honor” hanno anche la
funzione di elemento della campagna per il finanziamento delle attività
del museo. Per un importo di 150 USD, ovvero 250 dollari canadesi, chiunque può fare registrare un nome, senza che il presupposto sia che si tratti effettivamente di un immigrato. Le installazioni variano, quindi, in modo alquanto singolare, tra monumento democratizzato in virtù della forma della merce e targa dei donatori di dimensioni eccessive. Proiettata in
questo costrutto, appare quindi pienamente giustificata la pungente critica mossa da Barbara Kirshenblatt-Gimblett all’apparente facilità di iscrizione nella società nazionale: “La facilità con cui si può apporre una firma sull’American Immigrant Wall of Honor, offusca gli ostacoli reali all’ottenimento di visti e della carta verde” (Kirshenblatt-Gimblett B., Destination Culture. Tourism, Museums, and Heritage, University of California Press,
Berkeley/Los Angeles/London, 1998, p. 181).
19. Pier 21 Media Kit, 2005.
20. Kirshenblatt-Gimblett B., Destination Culture, op. cit., 1998, p. 200.
21. “New York Times”, 30 maggio 1986, A1.
22. Vecoli R.J., The Lady and the Huddled Masses. The Statue of Liberty as
a Symbol of Immigration, in: Dillon W.S., Kotler N.G. (ed.), The Statue of
Liberty Revisited. Making a Universal Symbol, Washington/London, 1994,
pp. 39-69, qui p. 68.
23. Sotto questo aspetto, è caratteristica la diffusione delle immagini dei
componenti di una stessa famiglia di immigranti caraibici nell’unità espositiva “Family Album”. Sulle pareti tappezzate di numerose fotografie essi non sono disposti uno accanto all’altro ma ai lati opposti della stanza.
24. I tentativi di caratterizzare la popolazione autoctona, con riferimento
alle migrazioni preistoriche, quasi come immigranti primordiali, così da
integrarli nel racconto, hanno regolarmente incontrato rifiuti e proteste.
Per un esempio relativo al contesto australiano, l’esposizione sul bicentenario della colonizzazione europea, che diede adito ad analoghi conflitti interpretativi, consultare Peter Cochrane e David Goodman, The
Great Australian Journey. Cultural Logic and Nationalism in the Postmodern Era, in: Bennett T. et al. (ed.), Celebrating the Nation. A Critical Study
of Australia’s Bicentenary, St. Leonards, 1992, pp. 175-190.
25. “Nazionalismo metodologico”, un’espressione generalmente pronunciata in modo critico e riconducibile ad Anthony D. Smith, indica quella
prospettiva di studio di stampo sociologico che, implicitamente o esplicitamente, ritiene che lo stato nazionale moderno (e la sua società) rappresenti la naturale forma politica e sociale del mondo moderno e dunque il contesto di osservazione più significativo. Con riferimento allo studio delle migrazioni, consultare la sintesi critica di Andreas Wimmer e Nina Glick Schiller, Methodological Nationalism and Beyond. Nation-State
Building, Migration and the Social Sciences, Global Networks, 2, n. 4, 2002,
pp. 301-334.
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Musei e migrazioni
Maddalena Tirabassi
I musei di storia, spesso di storia sociale, sono oggi all’ordine del giorno. Come altri musei nascono per conservare la
memoria, anche materiale, di una comunità o di un settore di
attività umana. In genere, tuttavia, associano a questa finalità
anche un intento propriamente educativo: la memoria non va
tutelata soltanto in quanto a rischio di scomparsa, ma perché
tale memoria può essere una risorsa significativa nell’affrontare questioni della contemporaneità, o del futuro, in un quadro
culturale adeguato. Questo accade a più livelli: musei di storia nazionale, musei di storia locale, musei della pratica religiosa, dell’industria, assai frequentemente del territorio. Questa forma addizionale di educazione storico-civica si presta, è
naturale, a rischi di sovraccarico o addirittura di utilizzo ideologico: ma, in un momento in cui la dimensione pubblica della storia è alla ribalta, spesso preda dell’abuso mediatico, forse la “forma museo” può garantire un approccio al passato più
ponderato e critico. E ciò proprio per le caratteristiche di quello che, bene o male, continuiamo a chiamare museo: l’esistenza
di un progetto culturale dibattuto pubblicamente da curatori,
intellettuali, mondo della cultura; l’attenzione al rigore documentale; il collegamento tra assunti storico-critici e gli aspetti
narrativi e di allestimento; infine, e non meno importante,
l’appartenenza a una “collettività museale”, spesso internazionale, che ha le proprie regole e che continua a sviluppare una
riflessione culturale e, per così dire, deontologica.
Certo, i musei di storia sono musei sui generis: tant’è che
nel dibattito e nella pratica spesso per identificarli si ricorre a
dizioni differenti, come quella di centro di interpretazione, o
di centro tout court. Del museo tradizionalmente inteso, infatti, manca talvolta uno degli aspetti qualificanti, la collezione;
qualora esista, essa spesso è composta da oggetti e beni di scarso interesse intrinseco individuale, quando non di limitata
“leggibilità”.
Per questa ragione, pur vedendo nel patrimonio dei reperti
e delle testimonianze materiali uno dei loro punti di forza (e
anzi talvolta espressamente nascendo per raccogliere e organizzare materiali altrimenti ad alto rischio di dispersione), i musei o centri di storia identificano nell’allestimento il loro focus.
Non si immagini, tuttavia, che ciò comporti un’articolazione elementare del centro. Al contrario, esso si configura come un’istituzione complessa: raccolta, documentazione, ricerca, narrazione,
sperimentazione comunicativa sono tutte funzioni che debbono
essere attivate e presidiate, con riferimento sia all’allestimento
stabile (in realtà il più delle volte in evoluzione continua) sia
alle rilevantissime attività temporanee – dai laboratori, alle mostre, ad altre forme di coinvolgimento comunicativo del pubblico in generale o di specifici segmenti. Con il museo, il centro di storia condivide oggi un’altra caratteristica: l’idea che le
istituzioni di questa natura debbano offrire al visitatore una vera e propria “esperienza” formativa. Che non è e non può essere, per evidenti ragioni, l’“esperienza” di quella parte di storia verso la quale il centro rivolge la propria attenzione, bensì l’esperienza delle riflessioni che il centro, tramite l’accesso
ai risultati della ricerca storica e culturale, formula e propone
in modo narrativo ai propri pubblici. Di qui l’importanza, accanto a una gestione culturale attiva del centro, dei sistemi di
comunicazione, compresi quelli ICT; di qui ancora la dichiarata accettazione di non esaustività da parte del centro, che anzi si mette al servizio dei visitatori interessati indicando altri giacimenti documentari, altre istituzioni, altri punti di vista.
Una volta accettato che i musei possono insegnare la storia si tratta di vedere come. Può essere di aiuto a questo proposito l’esperienza internazionale. Negli Stati Uniti Eric Foner,
uno dei più importanti storici del paese, è un antesignano della tesi che sostiene l’importanza di divulgare la disciplina al di
fuori “della torre d’avorio” dell’accademia. Da tempo impegnato
a portare i risultati della ricerca scientifica nelle scuole, sulla
stampa, alla TV e alla radio, e persino nei parchi di divertimento
della catena Disney, pone una serie di caveat per il successo
dell’operazione. Basandosi sulla sua esperienza di collaborazione all’allestimento di numerose mostre e iniziative museali, sostiene che i siti storici diretti a un grande pubblico devono incoraggiare a pensare ai fenomeni storici attraverso fonti
aggiornate, con contenuti che illustrino la complessità del passato, attraverso un’esposizione che stimoli emozioni sulle vicende storiche, che facciano insomma pensare al passato in un
modo diverso1, dato che il pubblico cerca divertimento, oltre
che informazioni. Questo puntare alla complessità, a evitare le
semplificazioni anche quando si parla a pubblici diversi, sembra essere la chiave per un’efficace trasmissione della storia attraverso i musei.
Quando si parla di emigrazione la questione che è emersa negli ultimi anni riguarda da un lato la storicizzazione della memoria personale, come cioè rendere le storie private parte della grande storia, e dall’altro come leggere la narrazione
pubblica delle migrazioni italiane in senso storico. Gli stori-
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ci che vogliano affrontare la questione si trovano di fronte a
tre tipi di fonti e letture: privata, pubblica e locale. Recentemente
ci si è interrogati su quale possa essere la funzione degli storici nell’organizzare una memoria così ricca, grazie alle potenzialità
di un oggetto di studio così rilevante, che ha la fortuna di essere toccato in misura minore dalle implicazioni ideologiche
che riguardano altri tipi di memoria quali, per esempio, quella dell’Olocausto o delle guerre mondiali. Il fenomeno migratorio ha fatto scattare nei suoi protagonisti gli stessi meccanismi di autorappresentazione (diari, lettere, autobiografie), ha
incentivato in altre parole la scrittura popolare ponendosi, in
quanto evento importante del vissuto delle classi subalterne,
subito dopo le guerre mondiali. D’altro canto, forse più ancora delle guerre, le migrazioni italiane, cominciate ancora prima che si potesse parlare di Stato e che si protraggono fino ai
giorni nostri, con i loro 29 milioni di protagonisti diretti e i fenomeni di pendolarismo e di ritorno, costituiscono un’esperienza
che ha toccato più o meno direttamente tutta la popolazione.
Parlando di musei delle migrazioni si può affermare che
tutto sia iniziato nel 1990 con l’inaugurazione del Museo dell’immigrazione di Ellis Island a New York. Destinato a divenire lo
specchio della nazione multietnica, il museo sanciva il culmine del revival dell’ethnicity, percorso iniziato alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, con il riconoscimento in forma inequivocabile del contributo degli immigrati alla costruzione della nazione. “Today, over 40 percent of America’s population
can trace their ancestry through Ellis Island” si recita nella prima pagina del sito di Ellis Island2.
Ellis Island è la prima esperienza museale del paese ad aver
avuto immediatamente risonanza nazionale e mondiale3. Un elemento da non trascurare infatti è che il museo nasce in contemporanea con la rivoluzione informatica: dai 130 web site
del 1993 si era passati ai 200.000 nel 1996, per superare, oggi,
i 40 miliardi!, come era accaduto con la nascita della fotografia, coeva all’emigrazione di massa a cavallo tra Ottocento e
Novecento, i nuovi media esercitano un ruolo importante per
i fenomeni migratori. Senza la cassa di risonanza del web il modello americano non sarebbe stato esportabile e tanto meno
fruibile da parte di un pubblico così eterogeneo come quello
che si interessa alle migrazioni, composto principalmente da
coloro che dell’emigrazione hanno avuto un’esperienza più o
meno diretta. La fortuna della formula consistette nel far identificare gli americani con l’esperienza migratoria, includendo
finalmente anche la grande immigrazione proveniente dall’Europa sud-orientale nel processo di nation building. Inoltre, al
di là del riconoscimento simbolico attraverso il monumento,
l’elemento che avvicina il grande pubblico è dato dalla possibilità di ritrovarsi all’interno del museo. Ciò può avvenire attraverso le fotografie, i data base dei passaporti o delle liste di
sbarco, resi fruibili anche a distanza attraverso il web. Il museo di Ellis Island può usufruire delle liste di sbarco messe a
10
disposizione da un importante centro di ricerca, il Balch Institute in Pennsylvania, fondato nel 1971 e dedito alla raccolta di
materiali sull’esperienza americana in senso etnico, razziale e
immigratorio e che ha operato la digitalizzazione di ship manifests e passengers lists4.
Negli ultimi anni è stato effettuato sempre a New York il
recupero di alcuni monumenti della memoria: un tenement è
divenuto la sede di uno dei più suggestivi e riusciti esperimenti
di narrazione storica attraverso il museo. Il Tenement Museum, fondato nel 1988 nel Lower East Side (97 Orchard
Street), in un edificio costruito nel 1863, riproduce le condizioni
di vita delle famiglie italiane, ebree, tedesche, e irlandesi nei
minuscoli appartamenti. Ma il museo è anche un centro di ricerca e di incontro per eventi culturali e artistici. Nel 2008 è
stato inaugurato, sempre nel cuore della Little Italy newyorkese, a Mulberry Street, l’Italian American Museum, nella sede di
una vecchia banca italiana, la Banca Stabile. L’intera area del
Lower East Side, sede del più importante insediamento italiano nella Manhattan di inizio Novecento, immortalata in numerosi
film (da C’era una volta in America di Sergio Leone a Gangs
of New York di Scorzese) ha assunto una dimensione mitica e,
da anni, è meta di turismo etnico, anche se gli italiani si sono
da tempo trasferiti in altri quartieri. Ci troviamo in questo caso, raro per gli Stati Uniti, di fronte a un museo a cielo aperto
non formato da monumenti artistici ma da edifici e strade ancora segnate dal passaggio di milioni di immigrati.
Anche in Argentina, attraverso la recente costituzione del
Museo nazionale dell’immigrazione di Buenos Aires, si è partiti con l’intento di “codificare l’apporto delle migrazioni alla
formazione della nazione”5. Conservazione della memoria e celebrazione/riconoscimento della portata dei fenomeni migratori nella storia del paese, quindi. Riguardo a questo secondo
aspetto, particolarmente rilevante ci sembra anche il caso francese, accomunabile a quello argentino in ragione del tardivo
riconoscimento del ruolo delle migrazioni derivante dalle politiche di assimilazione e integrazione degli immigrati storicamente portate avanti nel paese. In Francia, infatti, l’idea di un
museo dell’immigrazione nasce soltanto nel momento in cui
il modello francese dell’integrazione comincia a mostrare segni di cedimento, culminati nella crisi delle banlieux del 2005.
È stato inaugurato nell’estate del 20076: “Cité a pour missions
de concevoir et de gérer un musée national de l’Histoire et des
Cultures de l’immigration, ensemble culturel original à caractère muséologique et scientifique, chargé de conserver et de
présenter au public des collections représentatives de l’histoire, des arts et des cultures de l’immigration”.
L’Europa e le migrazioni
I paesi nordeuropei protagonisti della grande migrazione
ottocentesca ma anche, dal secondo dopoguerra, meta di immigrazione, da molti anni hanno dedicato centri e musei vol-
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commerciale, offrendo ricerche genealogiche, data base sulle
ti a illustrare l’esperienza migratoria; alcuni di essi affiancano
liste di sbarco, perfino l’organizzazione di viaggi per nave sulallo studio dell’emigrazione quello dell’immigrazione. La colle rotte dell’emigrazione7. Tutti gli enti hanno un sito e diciaslaborazione tra centri di ricerca e musei ha consentito lo sviluppo di una musealità moderna nel campo migratorio.
sette di essi sono musei. Sebbene AEMI riunisca prevalentemente
I siti dei musei europei sono stati scelti spesso in luoghi
centri per lo studio delle emigrazioni, alcuni sono dedicati alsimbolici come i porti di imbarco. Esemplari in questo senso
le immigrazioni e possiedono talvolta materiali di ricerca utili
sono il museo di Amburgo, la città da cui partirono dal 1850
per lo studio dei movimenti migratori italiani (http://www.aeal 1939 quasi cinque milioni di emigranti provenienti dai vari
mi.dk/adr.php?page=1)
paesi europei, e BallinStadt, inaugurato nel 2004 e sito nell’isoNell’ottobre del 2006 si è svolto a Roma l’“Expert Meeting
la Veddel, in cui furono costruiti una trentina di edifici per ospion Migration Museums” organizzato dall’International Organitare gli emigranti in attesa di imbarco. Il museo prende il nozation for Migration (IOM) e l’International Migration prome dall’armatore Albert Ballin che nel 1898 ebbe in concesgramme dell’UNESCO. Ne è nata una rete che si propone di
sione il terreno dall’amministrazione della città. A BallinStadt
coordinare i principali migration museums del mondo e si fogli emigranti venivano fatti sostare in quarantena per almeno
calizza prevalentemente sulle potenzialità che i musei delle midue settimane, accollandosi tutte le spese del soggiorno. La degrazioni presentano per favorire l’integrazione dei nuovi micisione venne presa a seguito dell’epidemia di colera del 1892
granti, coniugando le migrazioni storiche con quelle della seche aveva colpito Amconda globalizzazione.
burgo e di cui furono
Qui la concezione di
ritenuti responsabili gli
museo delle migrazioni
emigranti russi che affolviene ancora espansa,
lavano la città.
fino a concepire lo spaA pochi chilometri
zio museale come pundi distanza, a Brema troto di incontro, centro di
viamo la Deutsches Audiscussione e finanche
swanderer Haus, Gerpalcoscenico di performan Emigration Center,
ming arts da parte dei
il museo di Bremenhagruppi migranti.
ven inaugurato nel 2005.
La suggestione della riL’Italia
costruzione delle moIl discorso pubblico
dalità dell’emigrazione
sulle migrazioni italiane
ottocentesca allestita nel
ha origini lontane. Se
porto di imbarco con alsolo in epoca recente si
lestimenti di navi, caè iniziato a parlare di
merate, memorabilia tenmusei, la raffigurazione
BallinStadt, 2009. (Foto Alvise del Pra’)
de però ad attrarre l’atdelle migrazioni italiatenzione del visitatore sull’esperienza migratoria al momento
ne attraverso le mostre ha una storia che supera il secolo. Quedella partenza, lasciando in secondo piano gli esiti delle miste ultime costituiscono la prima rappresentazione pubblica del
grazioni nonostante tra gli intenti ci sia quello di “collegare il
fenomeno e meritano un approfondimento.
tema dell’emigrazione e quello dell’integrazione con la storia,
La prima comparsa dei fenomeni migratori italiani si ebbe
passata e presente”, per citare l’introduzione al catalogo di preattraverso le esposizioni universali e le mostre di fine Ottocento.
sentazione di uno dei più autorevoli storici delle migrazioni,
Esse riflettono l’ideologia politica del tempo e illustrano bene
Klaus J. Bade.
i fini strumentali che animavano gli organizzatori, come è staAltre importanti esperienze negli ultimi due decenni hanto osservato in due recenti saggi da Emilio Franzina e Patrizia
no origine dallo sviluppo di reti transnazionali tra le istituzioAudenino8. La prima rappresentazione dell’emigrazione italiani che si occupavano di migrazioni.
na si ebbe nel 1892 a Genova all’interno della mostra della ScoIn Europa, sin dal 1989 è attiva l’Association of European
perta, in una sezione dell’esposizione italoamericana9. La seMigration Institutions (AEMI), che oggi comprende quarantaconda apparizione si ebbe all’esposizione di Torino del 1898
sei tra centri e musei sulle migrazioni sparsi in ventidue stati
in cui venivano illustrati prevalentemente i movimenti migraeuropei. Alcuni di questi centri hanno aperto la strada all’uso
tori verso le Americhe. L’imponente volume Gli italiani nella
pubblico della storia migratoria, alcuni sono addirittura di tipo
Repubblica Argentina, pubblicato a Buenos Aires (600 pagine
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nel nostro formato A3!), corredato da numerose foto e illustrazioni,
descrisse le svariate attività degli italiani, ma riuscì anche a cogliere in nuce sia i processi di argentinizzazione degli italiani
che quelli di italianizzazione degli argentini10.
Seguì nel 1906 la mostra “Gli italiani all’estero”, promossa
dall’Istituto coloniale italiano nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Milano per documentare “la multiforme attività
degli italiani all’estero”11 e mettere in luce le potenzialità economiche delle colonie; l’evento venne utilizzato dai leader
delle comunità oltreoceaniche come una vetrina per le potenzialità
produttive e commerciali o, nel Mediterraneo, per documentare il contributo italico alla civilizzazione di quei paesi. Le monografie newyorkesi mettevano anche l’accento sulle condizioni
di vita degli emigranti italiani denunciandone le difficoltà, facendo anche qualche cenno relativo alla grande varietà del lavoro italiano nel mondo, e puntando l’accento sulle grandi opere. Il messaggio che dalle colonie sparse per il mondo veniva
inviato alla madrepatria era prevalentemente quello di voler rafforzare l’appartenenza all’Italia illustrando la vita delle istituzioni
a carattere nazionale ricreate nel paese di insediamento, dalle
società di mutuo soccorso alle testate italiane12. In uno degli
eventi collaterali che affiancarono l’Esposizione internazionale di Roma del 1911, il 1° Congresso di etnografia italiana, Amy
Bernardy, da attenta osservatrice dei fenomeni migratori
dell’epoca, spostò l’attenzione sull’inserimento, avvalendosi
dei risultati di due inchieste da lei condotte commissionatele
nel 1908 dal Commissariato all’emigrazione. In esse si documentavano le difficili condizioni di vita degli immigrati italiani negli Stati Uniti e la preoccupazione per il danno che le condizioni di degrado in cui vivevano potevano recare all’immagine dell’Italia all’estero.
Se Argentina e Francia hanno riconosciuto tardivamente il
contributo delle migrazioni alla formazione dei rispettivi paesi,
in l’Italia, di converso, si è giunti notoriamente solo in anni recenti a riconoscere nella lunga storia delle migrazioni italiane un
elemento fondante del passato e del presente della nazione.
L’Italia non ha avuto fino al 2009 l’equivalente di Ellis Island
o del Museo Nacional, nondimeno essa presenta un panorama
ricco di centri, più o meno grandi, per lo studio delle migrazioni13, la cui presenza si è rivelata sempre un’importante fonte di
materiali da inserire nei musei. L’assunzione nelle politiche culturali degli enti pubblici, specialmente le Regioni e i Comuni, della ricostruzione della storia dei propri territori, spesso intrecciata fortemente ai movimenti migratori, sembra aver incrementato un interesse diffuso nei confronti delle tematiche migratorie,
come testimoniano le innumerevoli iniziative locali sul tema, nate spesso proprio grazie al supporto degli enti locali.
Il supporto che i centri di ricerca dedicati allo studio
delle migrazioni possono dare alla costituzione dei musei
è rilevante, per farne appunto dei luoghi pluriattivi.
A volte sono gli stessi centri di ricerca a creare con i pro-
12
pri fondi archivistici un museo, come nel caso del Museo
dell’emigrazione “Paolo Cresci”, che nasce per esporre i materiali e i documenti raccolti dall’archivio omonimo. Oltre
a fotografie e oggetti tipici dell’emigrante, presenta un’importante raccolta di filmati storici: interviste a emigranti
realizzate dalla omonima fondazione e filmati conservati negli archivi delle Teche Rai.
Altre volte è il museo a servire da catalizzatore per la raccolta di documenti: è questo il caso del Museo dell’Emigrante
di San Marino, il primo museo dell’emigrazione nato nella penisola italiana nel 1997, che contiene un archivio informatizzato diviso in diversi data base tematici, per la ricerca di dati
e documenti sull’emigrazione14. O del Museo Regionale dell’Emigrazione “Pietro Conti”, centro di ricerca dotato di una biblioteca che raccoglie testi e ricerche sull’argomento, un archivio
fotografico e documentario, una nastroteca e una videoteca nazionale con film, documentari e cinegiornali della Rai e della
Televisione della Svizzera Italiana su temi migratori. Il sito
consente una visita virtuale, presenta un catalogo on line, videoteca, giochi di ruolo. La Nave della Sila, nasce come museo delle migrazioni italiane in generale, con le migrazioni calabresi come case study.
Al momento si può segnalare una ventina di musei locali
interamente dedicati alle migrazioni italiane e alcune sezioni
dedicate all’interno di musei di storia locale15. I musei locali offrono potenzialità che lo storico non può trascurare poiché, come ha osservato Bruno Cartosio, la rappresentazione pubblica può stimolare il racconto e la testimonianza dei singoli e ridare legittimità al passato individuale e collettivo16. Ne consegue un positivo effetto di arricchimento del patrimonio delle
fonti: il museo locale fa sì che da soffitte e cantine emerga un
patrimonio di lettere, fotografie, memorabilia, che volentieri si
mettono a disposizione della comunità donandole al museo.
In conclusione, in questi decenni in cui le vicende migratorie
italiane sono entrate nel discorso non solo pubblico, ma anche politico, è emersa l’utilità e la complementarità di centri di
ricerca, musei locali e reti museali. Come pure è diventata praticabile la possibilità per un museo delle migrazioni italiane di
raggiungere un pubblico potenzialmente immenso, composto
da addetti ai lavori, studenti, persone con un’esperienza migratoria
personale o familiare, attraverso il web.
Quello che per anni è stato un soggetto privato, quasi un
motivo di vergogna è divenuto così un elemento di interesse.
Il recupero e la rivisitazione della memoria da parte degli storici delle migrazioni ha favorito il passaggio infatti da una lettura quasi esclusivamente pauperistica, che aveva portato a leggere i migranti come pedine, a una in cui i migranti sono attori protagonisti di un’epopea pubblica.
D’altro canto molti dei musei locali da una parte rischiano
l’invisibilità, in particolare se non hanno un sito web, e dall’altra rischiano di trasmettere un messaggio di nostalgia senza for-
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nire gli strumenti interpretativi dei fenomeni, fallendo quindi
la mission dei nuovi musei di storia. L’orientamento che ha ispirato la costituzione di un museo nazionale è quello di creare
una rete che comprenda i centri, i musei locali e i due musei
nei grandi porti di imbarco a Genova, e a Napoli Immacolatella. Come si vede per le migrazioni italiane è difficile scindere tra museo/monumento e centro di documentazione e ricerca. In primo luogo poiché sarebbe difficile identificare un
solo luogo simbolico: in ogni epoca dall’Italia si parte da ogni
parte per andare dovunque.
Maddalena Tirabassi è direttore del Centro Altreitalie sulle
Migrazioni Italiane.
Il MEI
Il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana, che al momento
ha trovato una sua sede all’interno del complesso del Vittoriano, è stato creato sulla base di questa considerazione:
mettere in rete i numerosi musei e centri di ricerca che a livello locale o nazionale si occupano da decenni di migrazioni italiane. E non poteva essere che così: a differenza degli altri paesi il Museo dell’emigrazione è sito nella capitale,
luogo da sempre meta di immigrazioni e non di partenze.
D’altro canto si tratta di una localizzazione altamente simbolica che consente di ovviare alla trascuratezza storica del
paese nei confronti delle migrazioni. E di far entrare dalla
porta principale le migrazioni nell’identità nazionale. Il MEI
raccoglie e mostra materiali provenienti da realtà museali e
da centri preesistenti, oltre a raccolte private. La dicitura emigrazione non è affatto casuale, vi si trovano infatti materiali circoscritti ai momenti dell’emigrazione nelle diverse fasi
storiche a partire dall’Unità d’Italia fino ai giorni nostri, anche se non manca una parte dedicata all’immigrazione che
conclude il percorso espositivo.
1. The Historian in the Museum: An Interview with Eric Foner, Museum
News, March-April 2006, pp. 45-49.
2. Si veda http://www.ellisisland.com/ellis_home.html.
3. Negli Stati Uniti, oltre a importanti centri per lo studio delle immigrazioni (cfr. la sezione Centri e associazioni culturali in www.altreitalie.it)
esisteva già dal 1956, per esempio, il Garibaldi-Meucci Museum,
http://www.garibaldimeuccimuseum.org.
4. Progetto che negli anni Ottanta il Balch aveva sviluppato unitamente
alla Fondazione Giovanni Agnelli, dando origine anche al data base sugli sbarchi italiani negli Stati Uniti, ora nel Centro Altreitalie e disponibile nella sezione “Cerca le tue radici” del portale www.altreitalie.it. The Balch Institute for Ethnic Studies, http://www.libertynet.org.
5. Magnani I., Immigrazione e identità nazionale: riflessioni sul museo nazionale dell’immigrazione di Buenos Aires, in: Corti P., Tirabassi M., Racconti dal mondo. Narrazioni, memorie e saggi delle migrazioni, Torino,
2007, pp. 173-188.
6. Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration, http://www.histoire-immigration.fr.
Ciò che colpisce l’utente virtuale è la possibilità di visionare un documentariofilmato che ripercorre per grandi tappe la storia delle migrazioni verso la
Francia a partire dal 1820 fino a oggi. Con supporto fotografico e sonoro
di notevole qualità, l’utente attraverso questo dettagliato excursus tra storia, cultura e politica prende coscienza dei vari tipi di migrazioni (inclusi
i momenti di conflitto) che hanno fatto della Francia, si legge nella mission, un luogo dove la multietnicità è aspetto fondante.
7. The Association of European Migration Institutions, http://www.aemi.dk/home.php. Per l’elenco e gli indirizzi web si veda la voce “Musei e
Mostre” nel portale www.altreitalie.it.
8. Franzina E., La tentazione del museo: piccola storia di mostre ed esposizioni sull’emigrazione italiana negli ultimi cent’anni, Archivio storico
dell’emigrazione italiana, 1, 2005, pp. 165-182; Franzina E., Le mostre
sull’emigrazione in Italia, in: Lombardi N., Pricipe L., Museo nazionale delle migrazioni. L’Italia nel mondo, il mondo in Italia, Roma, 2008, pp. 2346; Audenino P., La mostra degli italiani all’estero: prove di nazionalismo,
Storia in Lombardia, XXVIII, 1, 2008, pp. 211-224.
9. Franzina E., Le mostre sull’emigrazione in Italia, op. cit., 2008; L’Esposizione illustrata di Milano 1906, Giornale ufficiale del Comitato esecutivo,
febbraio 1906, dispensa n. 8 ; Esposizione Internazionale di Milano 1906,
Mostra “Gli italiani all’estero”, vol. II, Diplomi e medaglie assegnati dalla
giuria, Milano, 1907, p. 13; Comitato della Camera italiana di Commercio
ed Arti, Gli italiani nella Repubblica Argentina, Buenos Aires, 1898, p. 51.
10. Comitato della Camera italiana di Commercio ed Arti, Gli italiani nella Repubblica Argentina, op. cit., 1898.
11. Audenino P., La mostra degli italiani all’estero: prove di nazionalismo,
op. cit., 2008.
12. Ibidem.
13. Per l’elenco completo cfr. la sezione Centri di ricerca e associazioni culturali nel portale www.altreitalie.it.
14. San Marino, Museo dell’Emigrante. Centro Studi Permanente sull’Emigrazione (http://eticodns12.eticodns12.com/~admin45/). Il sito, in lingua
italiana e inglese, è dedicato agli espatri dei cittadini sammarinesi e introduce il museo elencandone le facilitazioni disponibili (biblioteca, cineteca, collana editoriale e mostra itinerante). Interessante e ben organizzata
la visita virtuale al museo, grazie alla quale l’utente può muoversi per le
stanze e, tramite il supporto fotografico, avere una visione d’insieme del
materiale contenuto nelle varie sezioni in cui è suddivisa la collezione esposta. Tutti visionabili sono i progetti in corso e futuri (degno di nota il Concorso letterario il cui scopo principale è quello di raccogliere, attraverso il
lavoro presentato dai partecipanti, nuovo materiale sul fenomeno migratorio) sponsorizzati dal Centro e spesso in collaborazione con l’Università
di San Marino. Tra essi degno di attenzione è il progetto “Mestieri migranti”
che utilizza la rete per ricercare e scambiare dati sulle migrazioni. Il materiale raccolto è a disposizione di tutti i centri studi che aderiscono all’iniziativa. Contiene 11.977 dati con foto ricavati dai passaporti rilasciati a sammarinesi fra il 1923 e il 1961 e circa 5000 rinnovi; 16.298 dati ricavati dai
fogli di via rilasciati a sammarinesi fra il 1856 e il 1923; 1550 dati ricavati
dai registri dei passaporti che documentavano il movimento migratorio della popolazione sammarinese fra il 1835 e il 1861; 5914 dati ricavati dalle
matrici dei fogli di via rilasciati a sammarinesi fra il 1868 e il 1923 e relativi rinnovi; 5000 dati circa riguardanti i rientri a San Marino dal 1960 al 1985.
15. Indicazioni di musei con sezioni dedicate all’emigrazione si trovano in
www.altreitalie.it.
16. Cartosio B., Memoria privata e memoria pubblica nella storiografia del
movimento operaio, Studi Storici, 4, ottobre-dicembre, 1997, pp. 897-910.
Gallerano N., Memoria pubblica del fascismo e dell’antifascismo, in: AA.VV.,
Politiche della memoria, Roma, 1993.
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Musealizzare la speranza
Ana Mercedes Stoffel Fernandes
La realizzazione e la divulgazione di un’istallazione artistica in omaggio all’emigrazione africana hanno coinvolto una serie di protagonisti con comportamenti e reazioni
che consentono di osservare il modo in cui gli artisti, la comunicazione sociale, i responsabili culturali, i museologi
e i politici affrontano l’argomento. Permettono inoltre di
registrare le alterazioni verificatesi negli ultimi anni nell’arte e nella cultura nonché i cambiamenti provocati dalle nuove comunità multietniche rispetto a concetti come il patrimonio, l’identità o la memoria.
Lo scopo del documento è di analizzare questi eventi
dal punto di vista della Museologia Sociale, inquadrandoli con le dovute riflessioni e stabilendo delle linee di condotta per i musei.
L’importanza che riveste il consolidamento di una società culturale solidale e multietnica per il futuro dell’Europa e del mondo obbliga tutti, e in particolar modo gli operatori culturali, a riflettere sul tema, a comprenderne le implicazioni e a considerare eventuali forme di comportamento
rinnovate. I musei e i museologi, in veste di mediatori fra
la comunità e il patrimonio, non possono esimersi dalla responsabilità che ricade su di loro.
Questo progetto è stato realizzato grazie alla consultazione degli archivi dell’artista Emilio González, creatore dell’installazione e principale protagonista, che li ha generosamente messi a disposizione per la realizzazione.
Immigrazione e multiculturalità al centro di un
crocevia
La storia posta alla base di questo progetto ha inizio
con l’avvio di un’iniziativa artistica di solidarietà verso
l’immigrazione. “La Carretta della Speranza”, come Emilio
González ha chiamato la sua opera, è stata realizzata utilizzando una delle barche che arrivano cariche di “clandestini”
nel sud della Spagna.
Solitamente un cantiere navale di un qualunque porto
africano rappresenta l’inizio di un tragitto che potrà culminare in una nuova vita più dignitosa, nella disillusione
del ritorno o, tragicamente, nella morte e nell’oblio in fondo al mare. In questi cantieri, infatti, vengono costruiti i “caicchi” o “carrette”, che poi trasporteranno le persone fino ai
paesi meridionali d’Europa, in un viaggio apocalittico dal
finale incerto.
14
Immagine di copertina de “El Periódico Extremadura”
del 27 luglio 2006.
Emilio González è un artista proveniente dalla regione spagnola chiamata Estremadura, la cui opera intende farsi carico di un impegno di solidarietà e di intervento sociale. Le sue
creazioni promuovono la riflessione su temi sociali attuali, avendo egli già realizzato opere sulla globalizzazione, la pace nel
mondo e la violenza sulle donne. Quando decise di creare un’installazione sugli immigranti africani scelse, per la propria opera, un’imbarcazione e nell’agosto 2006 chiese per iscritto alla Croce Rossa di Algeciras una delle barche confiscate dalla
polizia e depositate nei magazzini municipali, chiedendo nel
contempo alcuni abiti abbandonati dagli immigranti dopo il
loro arrivo. Emilio González spiegava in una lettera1 l’intenzione che lo motivava e ciò che voleva ottenere con il suo lavoro: “LA MIA inquietudine e il mio manifesto artistico rappresentano un impegno con la società e con i tempi in cui ci
è toccato vivere [...]. Il mio proposito è rendere consapevoli i
popoli e le nazioni di questo grave problema che colpisce tutti noi [...]. Sarà esposto nel Museo da Cáceres e spero che venga sovvenzionato dalla Giunta dell’Estremadura [...]. Spero vivamente che il tentativo di realizzare la mia manifestazione
artistica vada in porto [...]”.
La sua installazione doveva costituire una denuncia dell’ingiustizia e della disuguaglianza sociale, un ponte verso una nuova epoca per una vita più dignitosa e un’opera di sensibilizzazione pedagogica e sociale. Per vari decenni l’emigrazione ha rappresentato un vero e proprio salasso umano per la zona dell’Estremadura spagnola; è stato calcolato in un milione il numero di
abitanti di questa regione che hanno cercato altre soluzioni di
vita fuori da questa terra. Tuttavia, l’evoluzione economica e sociale degli ultimi anni ha permesso loro di migliorare il proprio
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tenore di vita. Attualmente accoglie immigranti da altri paesi e
realizza, con organizzazioni di solidarietà, un programma di accoglienza temporanea di immigranti subsahariani.
L’immigrazione rappresenta oggi una delle principali preoccupazioni dei governi europei e sta modificando le relazioni sociali e di lavoro tra i diversi paesi. Le classi politiche promuovono accordi di rimpatrio e predispongono spazi dedicati all’accoglienza e all’integrazione, ma le misure sembrano sempre insufficienti a causa delle nuove situazioni che ogni giorno sorgono intorno a questo fenomeno, delle direttive poco chiare della legislazione dell’Unione Europea, del concetto di ingiustizia
sociale che il problema trascina con sé, e a causa della consapevolezza che, nonostante tutto, i posti di lavoro occupati da
molti di questi immigranti colmano la lacuna causata dalla crescita demografica negativa, che dalla metà del XX secolo colpisce i paesi dell’emisfero nord. Ma il fenomeno dell’immigrazione sta provocando trasformazioni non solo nell’economia,
ma anche nel comportamento sociale del recettore umano nel
suo complesso, in una mescolanza di culture e tradizioni sempre più interiorizzata, tendente a correggere atteggiamenti di tipo segregazionista, specialmente fra le generazioni più giovani. Nonostante la pericolosa esistenza di alcuni fenomeni di xenofobia e razzismo, i costumi, l’alimentazione, l’abbigliamento
e le abitudini quotidiane di coloro che arrivano hanno finito con
l’influenzare e il modificare la cultura e la vita autoctone, modellando a poco a poco una società più aperta e tollerante.
Questa trasformazione, basata sull’integrazione tra culture,
ha provocato la comparsa di nuovi concetti come multiculturalità, interculturalità, inclusione o diversità sociale, ed è riuscita a modificare il significato tradizionale di altri, tra cui quello di identità. L’identità, derivante dalla visione storicista del XIX
secolo, era uno dei più forti attributi della cultura nazionalista
europea, e ora è messa in discussione dalla presenza di altre
identità all’interno delle nazioni, che invadono e smembrano
identità culturali precedentemente consolidate. Come afferma
Pereira Bastos2: “In questa guerra delle immigrazioni, che è subentrata alla Guerra Fredda, l’Occidente è stato chiaramente battuto dai suoi “Altri”. D’ora in poi, l’Europa, come precedentemente gli USA, con o senza mura e pattugliamenti, è condannata alla multiculturalità, al relativismo religioso, al sincretismo
culturale, alla tolleranza di fronte alla diversità dei costumi e
dei valori così come di fronte alla mescolanza delle razze, che
ha tanto combattuto. Europei di colore, europei di origine cinese, europei di origine indù, europei slavi di religione ortodossa, europei musulmani, europei di origine sudamericana,
europei del Magreb si incroceranno sempre di più con gli immigranti locali che hanno abbandonato il mondo rurale e confronteranno il mondo dell’orgoglio bianco non solo con le loro realizzazioni ed esigenze ma piuttosto con le loro promesse insoddisfatte di rispetto per i diritti umani”.
Attualmente multiculturalità e interculturalità sono temi indissolubili dalla cultura dell’emisfero nord, con le sue città che
ormai sembrano una coperta patchwork formata dalle comunità più diverse, in cui abitudini, culture e religioni convivono
volontariamente o forzatamente nei nuovi spazi urbani e territoriali. Promuovere la riflessione e la ricerca di soluzioni e utilizzare questo tema nell’ambito di attività culturali e di sensibilizzazione come un mezzo per accelerare l’inclusione e la pacificazione sociale è attualmente una necessità che deve essere alimentata e curata dai responsabili politici e culturali.
Nuove comunità e nuove forme d’arte e di intervento
culturale
La risposta alla richiesta di Emilio González da parte
della Croce Rossa di Algeciras è stata quella di un sostegno
incondizionato all’iniziativa, e la barca scelta ha iniziato il
suo viaggio per terra verso Cáceres.
Scelta e trasporto della carretta fino a Cáceres.
(Foto Emilio González)
Nei documenti di presentazione del suo progetto3, l’artista descriveva le fasi di realizzazione del suo lavoro, citando il sostegno del responsabile del Museo municipale di Cáceres, che si era dimostrato disponibile fin dal primo momento
a collaborare alla patrimonializzazione dell’imbarcazione
e alla divulgazione dell’iniziativa. La realizzazione dell’opera, che consisteva nella restaurazione della barca e nella sua
copertura integrale con gli abiti lasciati dagli immigranti, era
volta a dimostrare, da un lato, “[...] il vuoto e l’abbandono
di un passato di tristezza e di privazioni [...]” e, dall’altro, l’effetto simbolico di “[...] entrare senza abiti, in un nuovo mondo di speranza verso un destino migliore”.
Il progetto prevedeva, inoltre, la collocazione della carretta in Plaza de las Veletas, di fronte al museo, proponendo l’inaugurazione per il giorno 28 novembre del 2009. Dopo la mostra, l’intenzione era di vendere l’opera a un’asta pubblica e devolvere il denaro raccolto alla Croce Rossa di Algeciras. Nel documento si faceva riferimento anche alla memoria
dell’emigrazione della gente dell’Estremadura di epoche passate e alla necessità di accogliere con spirito solidale i nuovi
abitanti, ricordando anche il loro contributo alla ricchezza
dell’economia nazionale e locale.
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La costruzione di un’installazione artistica ricorrendo alla patrimonializzazione simbolica introduce nel terreno di questa riflessione il tema dell’arte e dei suoi nuovi volti. L’accesso
generalizzato all’educazione e la divulgazione della cultura
attraverso i mezzi di comunicazione e delle industrie culturali hanno reso possibile la nascita di nuovi temi, di nuovi
creatori e di nuove forme di produzione artistica e di intervento, nell’iniziativa individuale e collettiva, nelle strade e nei
laboratori di produzione popolare.
La problematica che ha caratterizzato le discussioni di pensatori e sociologi della metà del XX secolo, come Weber, Simmel o Adorno, sull’arte e la cultura, sulla razionalizzazione dei
comportamenti dei gruppi sociali, sul significato e sulla selezione culturale degli atti umani o sulla difficoltà di scegliere tra
una cultura raffinata e superiore, ma elitaria e segregazionista,
e una cultura popolare e democratizzata, ma apparentemente
impoverita, almeno in parte, delle proprie caratteristiche, è ancora lontana dall’essere risolta. Come ci dice Fleury4, il problema
continua a ruotare intorno a una triplice metamorfosi: la perenne rivoluzione dei contributi che gli individui apportano alla Cultura, i cambiamenti che i poteri pubblici inducono con
il loro contributo alla democratizzazione e alla democraticità
culturale, e il rinnovo continuo delle problematiche che i sociologi avviano e che riguardano le pratiche culturali e l’esperienza estetica. Tra la democratizzazione culturale – mettere a
disposizione di tutti forme di cultura artistica considerata superiore – e la democraticità culturale – promuovere lo sviluppo di tutte le manifestazioni della cultura compresa la cultura
popolare – la contraddizione tra la scelta e la necessità di accettazione sembra ancora aperta.
Ma tutto questo indispensabile fenomeno di riflessione
e ricerca sembra aver perso il suo valore di equilibro innanzi
all’indifferenza con cui le nuove forme d’arte e di cultura vengono vissute dalle società attuali.
Nuove pratiche culturali, che prima venivano disprezzate perché considerate volgari o inferiori, sono diventare di
uso comune e vengono consumate in ogni tipo di ambiente, grazie all’accettazione di una nuova diversità socioculturale, precedentemente negata5. Allo stesso tempo, le culture alternative hanno introdotto nel terreno culturale, a partire dagli anni Settanta del XX secolo, realtà come i movimenti
rock, punk, heavy, rap, black metal o graffiti, che competono liberamente nelle strade con i movimenti culturali socialmente
“legittimi”6.
In qualche modo, questi nuovi modelli di produzione di
cultura condizionano i risultati finali, nel bene e nel male:
diffondono processi e opzioni, mettono in discussione concetti di selezione e appropriazione e ammortizzano le differenze tra cultura e divertimento. Ma se queste nuove esigenze
della produzione e dell’azione culturale possono introdurre
qualche volgarizzazione, è altrettanto vero che la dimensio-
16
ne e la portata della nuova offerta culturale stanno contribuendo alla creazione di una maggiore e migliore cultura e
di una società più interessata e nobilitata, senza sapere con
certezza quale parte – la intellettuale ed elitaria o la popolare e democratizzata – sia più responsabile di questa evoluzione. Ha ragione López de Aguileta7 quando dice che la
cultura è un territorio contraddittorio in perenne tensione, dove si trovano contrapposti tradizione e rinnovamento, accademismo e popolarizzazione, cultura familiare e cultura di
strada, identità individuale e identità di gruppo.
Nuovi patrimoni, nuove memorie e nuove funzioni
sociali per i musei
Il caicco, che ha percorso il tragitto fino a Cáceres con il
sostegno di aziende locali, è stato riparato, pulito e coperto
con gli abiti usati. Nella lettera indirizzata al sindaco di Cáceres il giorno 7 novembre, a cui erano allegati i documenti di presentazione già citati, Emilio González spiegava il suo
progetto e chiedeva al Comune l’autorizzazione a installare
la sua carretta in Plaza de las Veletas8.
Invito all’inaugurazione dell’installazione in Plaza de las Veletas.
Con la certezza che la sua richiesta sarebbe stata accolta, tenendo conto dell’appoggio ricevuto in iniziative precedenti, ha dato inizio, con la collaborazione del museo di Cáceres, all’invio degli inviti per l’inaugurazione, informando
nel contempo i mezzi di comunicazione sociale dell’evento
in preparazione.
“La Carretta della Speranza” trasportata nel centro storico di
Cáceres. (Foto Emilio González)
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L’Autore aveva fiducia nella realizzazione di questa iniziativa
che a suo avviso trattava un tema di interesse per la comunità,
che per altro era già stato al centro di altri eventi realizzati da
istituzioni pubbliche e private. Un esempio in questo senso era
stata la mostra intitolata “Dalla Spagna che emigra alla Spagna che accoglie”, prodotta dalla Fondazione Largo Caballero
e che, promossa nella regione dalla Giunta dell’Estremadura,
era stata inaugurata il 7 novembre 2006 nel Museo di Estremadura e Iberoamericano d’Arte Contemporanea di Mérida.
L’esposizione, che presentava diversi punti di vista della realtà
dell’immigrazione in Spagna, ricordava anche il passato da emigranti di alcune popolazioni spagnole e la similitudine di circostanze difficili nei paesi di accoglienza di allora.
Questo tipo di iniziative illustra il ruolo fondamentale
che possono svolgere i musei come centri di patrimonializzazione attiva e spazi di riflessione sulla memoria dei popoli, fornendo un apporto essenziale in una materia che
rimanda alla diversificazione e alla risignificazione del patrimonio e al dialogo interculturale.
Una delle principali missioni del museo è dare significato al patrimonio e accompagnarlo costantemente nel
suo processo di trasferimento nel tempo. Durante il XX secolo, il consolidamento della democrazia, la generalizzazione del processo educativo, la fine degli imperi coloniali
e la reinterpretazione dell’etnografia hanno permesso al patrimonio e ai musei di evolversi verso la valorizzazione di
nuove forme di cultura.
In particolare i movimenti di rinnovamento culturale e
sociale della fine degli anni Sessanta hanno aperto le porte a una nuova lettura dei musei e della missione dei suoi
responsabili.
Anche la comparsa verso la fine degli anni Settanta degli ecomusei e dei musei comunitari9 e, allo stesso tempo,
delle teorie della Nuova Museologia10 ha contribuito al
rinnovamento del pensiero museologico, introducendo
una nuova lettura degli elementi che costituivano il mondo dei musei: la collezione (opere d’arte o di cultura selezionate), l’edificio (spazio chiuso per la presentazione delle collezioni), e il pubblico (visitatori che ammirano le opere esposte). Al posto del museo tradizionale sorge un patrimonio rappresentativo della cultura e dell’identità universale, un territorio che comprende realtà patrimoniali fuori dalle pareti dell’edificio e una comunità protagonista della vita e della gestione dell’attività del museo.
Le riflessioni della Nuovelle Muséologie e il lavoro sul
campo degli ecomusei e i musei comunitari hanno in parte contribuito affinché l’UNESCO includesse nel concetto
di patrimonio, valori di complementarità e intangibilità
rappresentativa. Nell’anno 2001, in occasione di una Tavola
Rotonda in Piemonte11 l’UNESCO decise di includere for-
malmente nell’ambito del patrimonio la memoria, i sapori popolari e i loro autori, così come gli inquadramenti sociali delle culture autoctone, definendo il patrimonio immateriale come: “[...] les processus acquis par les peuples
ainsi que les savoirs, les compétences et la créativité dont
ils sont les héritiers et qu’ils développent, les produits
qu’ils créent et les ressources, espaces et outres dimensions
du cadre social et naturel nécessaires à leur durabilité. Ces
processus inspirent aux communautés vivantes un sentiment
de continuité para rapport aux générations qui les ont
précédées et revêtent une importance cruciale pour l’identité culturelle ainsi que la sauvegarde de la diversité culturelle et de la créativité de l’humanité”.
L’ICOM, da parte sua, scelse come tema “I musei e il
patrimonio immateriale” nel 2004, in occasione della sua
Conferenza Generale di Seul, evidenziando l’importanza
dell’opera svolta dai musei in relazione a rilevazione, inventario, conservazione e diffusione.
Giovanni Pinna, nel suo editoriale volto a promuovere
questo incontro e ispirato alla definizione dell’UNESCO, classifica il patrimonio immateriale in tre categorie12: le espressioni trasmesse in forma tangibile dalla cultura di una determinata
comunità, come i rituali religiosi, le economie tradizionali o
le forme di vita; le espressioni individuali o collettive sprovviste di forme tangibili, come la lingua, la memoria, la tradizione orale, le canzoni o la musica tradizionale non scritta; e infine le significazioni simboliche e metaforiche degli
oggetti che costituiscono il patrimonio materiale. In quest’ultima
classificazione aggiungeva una nuova lettura all’oggetto, attribuendogli due dimensioni di appropriazione: quella della sua apparenza fisica e quella del suo significato, essendo
quest’ultima dimensione la conseguenza della sua storia e delle diverse interpretazioni che può suscitare, fungendo da ponte tra presente e passato.
Questa nuova prospettiva delle missioni dei musei e del
patrimonio è di importanza fondamentale in un momento
di convulsione interculturale come quello attuale. Solo attraverso un’attenzione continua ai cambiamenti sociali che
hanno luogo i musei possono svolgere azioni e programmi che trovino una collocazione nel panorama multietnico attuale. Esposizioni, dibattiti e incontri su un certo argomento, o laboratori a partecipazione interculturale possono accelerare l’integrazione, aiutare a evitare il confronto razziale che si prospetta come un rischio continuo
per le città e supportare il lavoro pedagogico delle scuole, in cui giovani di diverse etnie nazionali e internazionali
condividono i programmi educativi.
In questo campo di azione, il Museu do Trabalho “Michel Giacometti”, a Setúbal (Portogallo) svolge un compito
di integrazione e unione di culture che può costituire un paradigma di riflessione e azione per altri musei. La storia re-
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cente e la degradazione del tessuto aziendale locale ha evidenziato alcune delle difficoltà che l’incrocio di culture genera all’interno dello spazio urbano in momenti di crisi: impoverimento del tessuto economico-sociale, rischi di marginalizzazione e delinquenza, e conflitti associati alla disoccupazione, alla povertà e alla disorganizzazione urbana. Nelle “Tardes Interculturais” le sale del museo sono disponibili per la creazione congiunta di momenti di valorizzazione
della specificità di ogni comunità, mettendo la comunità in
contatto con il resto della popolazione. Secondo Isabel Victor, direttrice dell’istituzione, il museo si trasforma “[...] num
espaço de auto-representação, inspirador de diálogo e palco de expressões identitárias”13.
Questa e altre iniziative complementari all’azione di patrimonializzazione attualmente realizzate in diversi musei, come corsi di lingua nazionale per stranieri, programmi di sostegno alle attività scolastiche dei bambini immigrati o di aiuto alla risoluzione di problemi di tipo giuridico, sono esempi di un nuovo modello di comportamento dei musei che li
colloca nello spazio e nel tempo attuale e che rafforza la necessità della loro esistenza come mediatore privilegiato della comunicazione culturale nella società.
Dal canto suo, la rappresentazione della memoria attraverso la raffigurazione simbolica, un’altra delle opzioni culturali della Nuova Museologia, ha permesso di sottrarre forza alla rappresentatività quasi esclusiva che l’opera d’arte aveva nel modello espositivo e ha garantito l’introduzione della patrimonializzazione delle idee nei programmi di comunicazione. L’inclusione della memoria ha ampliato la capacità di scegliere e rappresentare la cultura e ha aperto il campo patrimoniale a domini più vasti di recupero del pensiero e dell’opera delle comunità. Oggetti apparentemente banali, il cui potere simbolico inquadra avvenimenti che meritano di essere ricordati, vengono utilizzati sempre di più in
musei ed esposizioni per la ricostituzione di memorie, attività o fatti storici. Una valigia o una barca possono costituire elementi di identità effimera e ponti che uniscono luoghi
di arrivo e partenza, negli attuali crocevia14.
In Brasile, un paese di innovazione museologica e il cui
attuale piano strategico per i musei15 può costituire un paradigma per la museologia attuale, il Museu da Maré, costruito in una delle favelas di Rio de Janeiro, ricostruisce la memoria degli immigrati delle zone interne che costruirono, in
una regione lacustre e insalubre, le palafitte che oggi costituiscono il centro storico di una città con più di 300.000 abitanti. Un patrimonio di oggetti d’uso quotidiano, fotografie e
documenti raccontano l’origine della comunità locale, che si
rinnova costantemente grazie all’apporto dei loro abitanti
che lo sentono come proprio. Eduardo Lima spiega16: “[...] Il
Museu da Maré è il primo, in Brasile, che funziona in periferia. Gli abitati stessi della favela sono i conservatori e i do-
18
nanti del patrimonio, composto da foto e documenti. Questa concretizzazione del desiderio della comunità di intervenire nella propria storia è un avvenimento storico; “sono stati letteralmente gli abitanti a fare il museo”, dice Luiz Antônio de Oliveira, coordinatore del museo. Oliveira evidenzia
l’importanza del museo per la preservazione dell’identità della comunità: “I giovani hanno bisogno di conoscere la lotta
dei loro genitori e nonni. Siamo felici che conoscano le loro
radici perché questo li aiuta a costruire la loro identità””.
La musealizzazione della memoria attraverso il protagonismo della popolazione della favela di Maré è un esempio significativo di come i musei possono contribuire alla
nobilitazione sociale e alla proiezione della storia reale nel
futuro dei giovani.
A questo proposito parla Mário Chagas17 quando interpreta
il museo come uno strumento di lavoro e uno spazio di
creazione e risignificazione che permette nuove relazioni
temporali. “Il museo sta vivendo un processo di democratizzazione, di risignificazione e di appropriazione culturale.
Non si tratta solo di democratizzare l’accesso ai musei istituzionalizzati, ma piuttosto di democratizzare il museo vero
e proprio, inteso come tecnologia, strumento di lavoro e dispositivo strategico per una relazione nuova, creativa e che
partecipa al passato, al presente e al futuro. È una lotta audace per democratizzare la democrazia; per comprendere il
museo come una matita, un semplice strumento, che esige
certe abilità per essere utilizzata”.
La solidarietà cittadina e il potere della comunicazione
sociale
Il valore sociale e culturale dell’iniziativa di Emilio González e la buona volontà espressa da tutti coloro che conoscevano e appoggiavano il progetto sembravano indicare che era
stata messa in moto un’interessante azione di pedagogia e di
solidarietà. Ma a un certo punto, tutto il progetto e la sua realizzazione hanno cominciato a imbattersi in una serie di difficoltà che hanno condizionato la sua missione, i suoi obiettivi e, infine, la sua stessa esistenza.
Sette giorni prima dell’inaugurazione, in una lettera della Giunta del governo locale, il Comune di Cáceres18 ha negato a Emilio González l’autorizzazione a realizzare l’esposizione nella Plaza de las Veletas perché “[...] la stessa non
era fattibile date le sue dimensioni, e anche per l’ubicazione proposta [...]”. Un documento scritto19 da Emilio González, in cui si comunicava pubblicamente la decisione della
municipalità, riporta la delusione di González per il divieto
che non comprende e non accetta, essendo la prima volta che
un fatto del genere colpisce le sue opere.
Davanti a queste circostanze, su iniziativa del direttore
del Museo municipale di Cáceres, l’imbarcazione viene installata nei giardini del museo.
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Nelle notizie viene rafforzato il valore di identità e di
simbolo dell’imbarcazione e l’importanza degli obiettivi: “[...]
contro il razzismo e la xenofobia e a favore dell’emigrazione moderata e controllata [...]” e viene evidenziata la lotta di questo artista per le cause delle minoranze, il suo coraggio e il suo impegno solidale23. I giornali evidenziano
anche il ruolo del Museo municipale, che ha messo a disposizione i suoi giardini per dare continuità al progetto.
Trasporto e installazione dell’imbarcazione nei giardini del museo. (Foto Emilio González)
Per il tempo in cui è durata l’esposizione, e approfittando
delle festività natalizie, sono state realizzate diverse iniziative
nella città e nel museo stesso sul tema dell’immigrazione.
Nel contempo è stata usata la pagina internet di Yahoo! delle notizie20 per la divulgazione dell’evento e lo spazio
EBay21 per pubblicizzare l’asta prevista.
Il rifiuto del Comune ha finito con il dare una grande
visibilità all’avvenimento. Le circostanze relative alla proibizione di realizzare l’esposizione nella piazza e le cause
di ciò sono state abbondantemente dibattute sulla stampa
locale, che ha fatto eco allo scontento delle persone e dei
media culturali e ha adottato una posizione chiara di appoggio all’iniziativa e a favore dei gruppi immigranti della regione dell’Estremadura.
In uno degli articoli di critica pubblicati, che riporta e
commenta la notizia con il titolo “Aprire la strada all’arte solidale”, l’editoriale del giornale si rammarica e si stupisce del fatto che in pochi giorni il Comune abbia proibito l’installazione in strada di questa iniziativa e di un’altra dedicata alla Giornata Internazionale contro l’AIDS22.
“La Carretta della Speranza” nei giardini del Museo municipale.
(Foto Emilio González)
L’influenza che i mezzi di comunicazione hanno sull’opinione pubblica è innegabile, e sembra ragionevole pensare che il modo in cui i media utilizzano e diffondono le
informazioni che possiedono sui nuovi fenomeni di convivenza etnica potrà accelerare o rallentare l’adattamento
alle nuove circostanze della società multiculturale. Nel
Forum Sociale delle Migrazioni24, svoltosi nel mese di settembre 2008 a Madrid, nella conferenza presentata da
Harresiak Apurtuz, coordinatrice di una ONG dei Paesi Baschi che aiuta gli immigranti, troviamo la riflessione che
permette di inquadrare questo ruolo fondamentale: “[...] I
mezzi di comunicazione, che attualmente sono uno dei principali agenti di socializzazione, fanno eco a tutto quello
che compromette la convivenza interculturale, ma finora
il trattamento che i media hanno riservato all’immigrazione è stato discriminatorio ed etnocentrico, come dimostrano
varie inchieste. Intorno ai mezzi di comunicazione esiste
un dibattito continuo che colpisce quelle che potremmo
definire le loro responsabilità sociali.
È ovvio che oggigiorno i media sono i principali artefici dei criteri da seguire, coloro che forniscono all’insieme della popolazione i modelli di interpretazione della realtà,
degli stereotipi, dei dati che alimentano, configurano,
confermano o smentiscono le visioni del mondo. Pertanto, i media contribuiscono in modo decisivo alla costruzione dei valori sociali, in un rapporto dialettico, in un continuo andare e venire della realtà: da un lato, i media sono un specchio dei valori di una società e dei suoi rapporti interni, dall’altro, sono fondamentali nella definizione
di valori e comportamenti [...]”.
In queste circostanze, la necessità di professionisti ben
formati e indipendenti diventa indispensabile per evitare il rischio di manipolazioni che questo campo permette. Il trattamento che i mezzi di comunicazione possono
riservare al tema del rinnovamento interculturale frutto della società multietnica non può dipendere da valori meramente economicistici o da sentimenti xenofobi di fronte alle nuove realtà.
I rischi che si corrono per mancanza di senso di responsabilità sociale in questo campo sono troppo elevati e non possono essere ignorati da un mezzo di informazione
e di formazione del pensiero così potente.
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Gestione culturale e politiche culturali locali
Durante i mesi successivi all’esposizione nel museo,
Emilio González si è dato molto da fare per trovare uno spazio definitivo per la sua barca, scrivendo su vari giornali
articoli relativi alla sua iniziativa. Nel gennaio 2007, il Comune di Talayuela, una piccola cittadina di 10.400 abitanti, ha informato Emilio González di essere interessato
all’opera. Il suo sindaco era già noto per le sue posizioni
favorevoli sugli immigrati, che a Talayuela rappresentano
una percentuale elevata della popolazione. I suoi interventi,
che comprendevano la proposta di costruzione a Talayuela di una moschea, erano già stati oggetto di elogi, critiche
e persino minacce di morte da parte di gruppi estremisti.
Il giorno 2 aprile il giornale “Hoy” informa che la carretta ha iniziato un nuovo viaggio e che verrà installata in
un parco naturale della zona.
Ma le elezioni municipali e delle autonomie locali
svolte nel maggio 2007 hanno assegnato un nuovo destino al caicco. Il cambiamento di direzione politica nel Comune ha interrotto l’esecuzione del progetto. In una lettera del Comune datata novembre 200925, Emilio González veniva informato di questa decisione e della necessità
di ritirare la barca dai magazzini comunali.
L’artista ce lo racconta nell’articolo “La Carretta della Speranza, varata in una stanza buia” scritto su un giornale locale26.
Nella sua lettera al Comune di Talayuela, Emilio
González puntava su un altro paese, Aldeacentenera, il cui
sindaco proponeva di installare la barca in una rotatoria del comune e il giorno 4 maggio 2008 venne eseguita
la consegna ufficiale in un documento27 di donazione
della “carretta” al paese di Aldeacentenera.
Una volta istallata in una rotatoria di questa località,
l’imbarcazione sembrava finalmente aver trovato il suo punto di arrivo. È stata esposta solo 15 giorni. Un giorno,
all’alba, tre individui sconosciuti l’hanno incendiata distruggendo completamente l’opera.
Fotografia di copertina de “El Periódico Extremadura”
8 luglio 2008.
20
La popolazione e l’opinione pubblica si sono nuovamente
ribellate contro questo fatto e di nuovo i mezzi di comunicazione sociale hanno fatto eco alla situazione28, questa volta con l’intervento di numerosi rappresentanti della comunità culturale. Inoltre, è stata presentata una denuncia alla Guardia Civil da parte dell’ufficio del sindaco di Aldeacentenera, volta a scoprire i responsabili dell’incendio. A novembre di questo stesso anno, una notizia del
giornale “Hoy Extremadura” riferiva che il Tribunale di
Istruzione nº 1 di Trujillo aveva avviato le indagini preliminari poiché esiste una persona imputata come presunto
autore dei fatti29.
La politicizzazione dei fenomeni artistici e culturali
non è rara, specialmente nei governi locali dove la vicinanza tra eletti ed elettori e le loro manifestazioni pubbliche
sono immediatamente visibili. L’avvio o la cancellazione
di iniziative in prossimità delle elezioni e la loro divulgazione attraverso i media è molto frequente. Esposizioni,
spettacoli o inaugurazioni di musei vengono posticipate
o definitivamente cancellate solo perché si tratta di iniziative
dell’avversario politico.
Il caso che studiamo ci permette di riflettere sul fatto
che le politiche culturali locali debbano essere attente ai
cambiamenti sociali e alle esigenze dei nuovi cittadini. Se
l’utilizzo della cultura a fini elettorali è un modo negativo di affrontare la politica di parte, un trattamento inadeguato del delicato tema delle minoranze etniche e della loro integrazione sociale può costituire una strada pericolosa per il confronto e l’ostilità tra le comunità, con
conseguenze imprevedibili. La presenza di etnie diverse
nel panorama sociale delle città richiede misure da parte dei poteri pubblici locali, nell’ambito delle loro funzioni,
che completino quelle già fornite dai poteri centrali e dalla legislazione emanata al riguardo. Politiche di integrazione sociale e di arricchimento e sensibilizzazione culturale sono indispensabili per creare pacificazione e comprensione di fronte alle nuove situazioni e agli eventuali conflitti.
Politiche culturali appropriate ed esaustive, promosse
congiuntamente dai poteri pubblici e da agenti culturali,
come i musei e i centri di cultura, possono essere un’eccellente via di comunicazione e un’opportunità di nobilitazione sociale che può contribuire molto all’integrazione e allo sviluppo locale sostenibile.
Interculturalità, musei e politiche culturali, quale
futuro?
Emilio González non desiste. Attualmente lavora al
progetto di costruzione di un fanale che ha chiamato “Il
Faro della Libertà tra i popoli”30. Se riuscirà a realizzarlo,
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potrà contare sull’appoggio del sindaco di Aldeacentenera
che ha già deciso di installarlo nello stesso luogo in cui
è stata bruciata la barca; una torre di luce alta 6 metri
che al suo interno accoglierà le ceneri della barca, come un monumento alla speranza che non si arrende
nella sua lotta contro lo sradicamento sociale, il razzismo e la xenofobia31. La comunicazione sociale locale continua a dare notizia dei suoi interventi e la popolazione di Aldeacentenera lo appoggia, nella speranza che un
giorno o l’altro Emilio González riesca a raggiungere il
suo obiettivo32.
casi con poca consistenza e con rischi per la loro sussistenza,
dimostrano che si sta dando a queste istituzioni un ruolo sociale fondamentale nella cultura del futuro.
Tutti abbiamo un ruolo attivo da svolgere nella nuova società interculturale: immigranti, anfitrioni, artisti, teorici, media, politici, agenti culturali e museologi. E ricordando un’ultima volta Emilio González, tra tutti, forse il ruolo principale è rivestito ancora dalla Speranza.
Ana Mercedes Stoffel Fernandes è museologa presso l’Università
Lusofona di Lisbona.
Progetto “Il Faro della libertà tra i popoli”. (Disegni Emilio González)
Tutto sta cambiando e, in un mondo in rapido mutamento, quello che ogni essere umano e ogni gruppo sociale produce, trasmette o assorbe dal comportamento sociale degli altri, pur mostrando contraddizioni ed esigenze, è proprio ciò che
le nuove missioni del patrimonio e dei musei non possono permettersi di ignorare. “La Carretta della Speranza” è un esempio delle numerose possibilità che la creazione e la collaborazione tra istituzioni culturali, comunicazione sociale e cittadinanza possono fare a beneficio dell’integrazione sociale,
quando sono debitamente sostenute dai responsabili politici.
Cercare di fermare queste iniziative, per motivi poco chiari, finisce con il provocare l’effetto contrario a quello sperato. Probabilmente questa storia non avrebbe varcato le frontiere di Cáceres se la “carretta” avesse passato il mese previsto nella piazza, svolgendo semplicemente la sua missione di cultura e di
solidarietà. La cultura e i musei sono di moda. La Sociomuseologia
sta vivendo uno sviluppo importante presso centri di studio e
università, e le nuove esperienze dei musei, benché in alcuni
1. González E., Carta a la Cruz Roja de Algeciras de 20 de Agosto, 2006,
fonte privata.
2. Bastos J.P, A mudança na cultura - identidade, interculturalidade, e
hibridação cultural. 12º Atelier Internacional MINOM, 26-28 de Octubre,
ULHT - Universidade Lusófona de Humanidade e Tecnologias, Lisboa, 2007.
Edizione on line su http://www.minom-icom.net/PDF/PB-INTERCUL.pdf.
3. González E., Historia de la Patera y La Patera de la Esperanza, 2006,
fonte privata.
4. Fleury L., Sociologie de la Culture et des Pratiques Culturelles, Armand
Colin, Paris, 2008.
5. Queste nuove manifestazione traggono ispirazione e sono, in molti casi, frutto dell’influenza delle comunità di immigranti. La moda e il culto
delle acconciature rasta, di trecce, tatuaggi o piercing hanno generato un
nuovo gruppo di artisti, nuovi consumatori e nuove “opere d’arte” ambulanti, fondate, queste ultime, su antichi costumi e prima considerate esclusivamente appartenenti a società primitive, marinai o persone eccentriche.
6. Un esempio caratteristico di “mescolanza” culturale è senza dubbio quello dei concerti condivisi da solisti di opera e interpreti rock, alla presenza nello stesso auditorium di un ventaglio di spettatori molto diversi tra
loro – intellettuali di mentalità tradizionale, famiglie di classe media con
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bambini in braccio e giovani vestiti con i simboli caratteristici della loro
cultura di strada: jeans, acconciature rasta, tatuaggi e pearcing.
7. Lopez de Aguileta I., Cultura y Ciudad. Manual de política cultural municipal, TREA, Gijón, 2000.
8. González E., Carta al Ayuntamiento de Cáceres de 7 de Noviembre, 2006,
fonte privata.
9. Desvallées A. et al., L’écomusée: rêve ou réalité, Publics et musées, n.
17-18, 2000.
10. de Bary M.O., Wassermann F. et al., Vagues, une anthologie de la Nouvelle Museologie, M.N.E.S., Savigny-le-temple, 1992.
11. UNESCO, Tavola Rotonda sul tema “Patrimonio Immateriale Definizioni operazionali” realizzata in Piemonte, Italia, 2001. Edizione
on line su http://www.unesco.org/bpi/intangible_heritage/backgroundf.htm.
12. Pinna G., Le Patrimoine immatériel et les musées, in: Journée international des musées 2004 “Musées et patrimoine immatériel”, Nouvelles de
l’ICOM, Musées et patrimoine immatériel, n. 4, 2003, ICOM, Paris.
13. Victor I., Cadernos “Tardes Interculturais”, Armazém dos Papeis do
Sado, Setúbal, 2009.
14. L’inaugurazione del Musée de l’histoire e des cultures de l’immigration a Parigi e le pubblicazioni delle sue iniziative su riviste e newsletter
sono un tentativo di interpretare e inquadrare questi nuovi fenomeni di
collaborazione con gli immigrati residenti, in programmi che vogliono far
riflettere sulle vicissitudini e le difficoltà dell’integrazione. Si veda
http://www.histoire-immigration.fr/index.php?lg=fr&nav=446&flash=0&id_actu=1106.
15. Si veda “Política Nacional de Museus”, su http://www.cultura.gov.br/site/categoria/politicas.
16. Lima A.S., Memória dos Excluídos: Moradores ajudam a montar museu da Maré, Brasil de fato, 2006. Edizione on line su http://www.brasildefato.com.br/v01/impresso/anteriores/170/cultura/materia.2006-0605.2163508242.
17. Chagas M., Museus, Memórias e Movimentos Sociais, Museu. Cultura
levada a sério, 2009. Edizione on line su http://www.revistamuseu.com.br/18
demaio/artigos.asp?id=16512.
18. Comune di Cáceres, Lettera del Comune a Emilio González, 2006, fonte privata.
19. González E., Desestimado. Documento informativo obre la recusa de
instalar la pantera en la Plaza de las Veletas, 2006, fonte privata.
20. Yahoo! Noticias España, El Museo de Cáceres expone una recreación
artística de una patera como símbolo de esperanza para muchos inmigrantes,
17 dicembre 2006, edizione on line.
22
21. Ebay.com.sg, Patera, subasta benéfica. Instalación de arte, 25 dicembre 2006, edizione on line.
22. Editorial, Abrir la calle al arte solidario, Opinión - El Periódico Extremadura, 29 novembre 2006.
23. Sulla stampa locale la notizia del “rifiuto” è stata riportata in diversi
articoli tra cui: Redazione Cáceres, Deniegan al artista Emilio González
el permiso para exhibir una obra en la Plaza de las Veletas, Cáceres - Hoy
Extremadura, 24 novembre 2006; Redazione Cáceres, Emilio González instalará su patera de la Esperanza en el Jardín del Museo de Cáceres, Cáceres - Hoy Extremadura, 25 novembre 2006; Ortiz C., Una Patera llega
a la parte antigua. Reportage, Cáceres - El Periódico Extremadura, 29 novembre 2006.
24. Apurtuz. H., Inmigración y Medios de Comunicación: Manual Recopilatorio de Buenas Prácticas Periodísticas. Conferenza presentata nel
“Foro Social de las Migraciones”, Madrid 11-13 settembre 2008. Edizione
on line su http://www.fsmm2008.org/media/ponencias/ponencia_71.pdf.
25. Ayuntamiento de Talayuela, Carta - respuesta a Emilio González solicitando la retirada de la patera de los almacenes municipales, 6 novembre 2007, fonte privata.
26. González E., La patera de la esperanza varada en un cuarto oscuro,
Tribuna - El Periódico Extremadura, 2 maggio 2007.
27. González E., Certificado de Donación de la Patera, al Pueblo de Aldeacentenera, 4 maggio 2008, fonte privata.
28. Notizie sull’incendio della “carretta” sono state riportate in numerosi
articoli tra cui: M.P., Queman la patera que homenajea la inmigración,
El Periódico Extremadura, 8 luglio 2008; J.S.P., Calcinan una patera destinada a un monumento a la inmigración, Ciudades e Municipios - Hoy
Extremadura, 8 luglio 2008; M.P., Gonzalez dice que la quema de la patera “es un acto xenófobo”, Cáceres - El Periódico Extremadura, 9 luglio
2008; Editorial Opinión, Quemar una Patera, El Periódico Extremadura,
10 luglio 2008; Redazione, Caso del Monumento. El alcalde de Aldeacentenera lleva a juzgado opiniones racistas, El Periódico Extremadura, 10 luglio 2008; Jiménez J., La esperanza quemada, El Periódico Extremadura,
13 luglio 2008; Gutiérrez J., Salvajada en Aldeacentenera, Tribuna extremeña - Hoy Extremadura, 16 luglio 2008.
29. Pablos J., Imputada una persona por quemar la patera de Aldeacentenera, Región - Hoy Extremadura, 21 novembre 2008.
30. González E., Descripción del proyecto del Faro de la Libertad, 2008, fonte privata.
31. González. E., Proyecto para el “Faro de la Libertad entre los Pueblos”,
2008, fonte privata.
32. Armero A., Un faro marinero en plena llanura, Hoy Cáceres, 27 ottobre 2008.
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NUOVA
Musei etnici a Chicago
Nunzia Borrelli
Chicago in cifre
“Chicago è la più grande città dell’Illinois e la terza per
popolazione di tutti gli Stati Uniti dopo New York e Los Angeles, con 2.853.114 abitanti. È la più grande città dell’entroterra
statunitense, ed è anche considerata una tra le più grandi metropoli degli USA. La sua area metropolitana (detta Chicagoland) arriva a oltre 9 milioni di persone felicemente distribuiti
in un’ampia area pianeggiante. È situata lungo le rive del lago Michigan. Trasformatasi da piccola città di frontiera nel
1833 (con circa 350 abitanti) in una delle città più grandi della Terra, Chicago è stata definita come una delle 10 città più
influenti al mondo. Oggi è una città multietnica, nonché un
importante centro finanziario e industriale e uno dei maggiori centri fieristico-espositivi mondiali”.
È con queste parole che l’enciclopedia Wikipedia introduce Chicago, individuando come elementi che più di altri
la caratterizzano l’elevato numero di abitanti, l’estensione (606,20
km2), la forza economica e politica a scala globale e il carattere multietnico.
La natura multietnica di questa città, come di molte altre
città/metropoli americane, è indubbiamente un elemento significativo e fortemente caratterizzante. Come auspicabile, es-
Total population
2.725.206
Hispanic or Latino (of any race)
758.877
Mexican
558.125
Puerto Rican
101.890
Cuban
7.509
Other Hispanic or Latino
91.353
Not Hispanic or Latino
1.966.329
White alone
857.952
Black or African American alone
935.047
American Indian and Alaska Native alone
3.621
Asian alone
132.769
Native Hawaiian and Other Pacific Islander alone 1.041
Some other races alone
10.320
Two or more races
25.579
Two races including Some other race
3.435
Two races excluding Some other race,
22.144
and Three or more races
sa è legata profondamente alle numerose ondate migratorie
che hanno investito Chicago e che hanno contribuito, da una
parte, alla formazione di quartieri e di community areas1 con
forti connotati etnici e, dall’altra, allo sviluppo di marcati fenomeni di segregazione che tuttora caratterizzano il vissuto
di questa città.
Per dare un’idea della natura multietnica della città di Chicago, è utile sia citare il lavoro di Melvin Holli e Peter d’A.
Jones (1995), dove sono individuate almeno 15 macro-comunità,
French-Indian, irlandese, tedesca, svedese, ebraica, polacca, ucraina, italiana, greca, afro-americana, latina, cinese,
giapponese, Asia Indians, coreana; sia osservare il modo di
classificare i dati, nonché le cifre stesse relative alla popolazione della città di Chicago (vedi tabella sotto riportata).
Nelle tabelle ufficiali, gli abitanti di Chicago sono descritti
considerando due macro-gruppi, ispanici e non ispanici, e la
composizione della popolazione si presenta alquanto eterogenea,
con una percentuale elevata di ispanici, soprattutto messicani
(nella città raggiungono rispettivamente il 27,8% e il 20,5% e
tendono a crescere), di African American e un numero elevatissimo di white alone al cui interno ovviamente ci sono: Irish, German, Swedish, Jews, Polish, Ukrainian, Italians, Greek.
100,0%
27,8%
20,5%
3,7%
0,3%
3,4%
72,2%
31,5%
34,3%
0,1%
4,9%
0,0%
0,4%
0,9%
0,1%
0,8%
9.502.094
1.849.486
1.453.730
174.761
19.256
201.739
7.652.608
5.361.902
1.660.131
10.785
491.477
3.302
25.182
99.829
9.670
90.159
100,0%
19,5%
15,3%
1,8%
0,2%
2,1%
80,5%
56,4%
17,5%
0,1%
5,2%
0,0%
0,3%
1,1%
0,1%
0,9%
Popolazione di Chicago. (Fonte: U.S. Census Bureau, 2006-2008 American Community Survey)
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23
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li che avevano caratterizzato e caratterizzano ancora in larDal Cultural Connections Program alla Chicago Cultuga parte il vissuto della città. Il grafico riportato in figura
ral Alliance. La valorizzazione dei musei etnici a Chicago
bene illustra le caratteristiche del progetto.
Le potenzialità e il valore del carattere multietnico di
I risultati degli anni di attività del Cultural Connections
Chicago sono ampiamente riconosciute nelle politiche per
Program sono stati molteplici. In primo luogo, la conoil turismo culturale che la città sta perseguendo e, nell’amscenza reciproca tra le diverse comunità: Chicago è stabito di queste ultime, nell’attenzione che presta alla valota per anni, e per buona parte è tuttora, una città caratrizzazione dei musei etnici2.
terizzata da scarsa integrazione. L’attuazione del proIn maniera particolare, è interessante il programma
gramma ha permesso, sebbene solo parzialmente, una mag“Cultural connections” promosso dal Center for Cultural Ungiore conoscenza reciproca e il riconoscimento del valoderstanding and Change del Field Museum of Chicago, il
re di tale conoscenza. In secondo luogo, i diversi partner
più importante museo di Chicago.
hanno riconosciuto la presenza di problemi comuni e hanIl “Cultural connections program” fu lanciato dal Field
no iniziato a ragionare su come fare per affrontare tali proMuseum come programma pilota nel 1998 e prevedeva
blemi. In altre parole, si sono dati un piano di azione e
il coinvolgimento di otto istituzioni tra musei etnici e istihanno definito una strategia3.
tuti culturali – Balzekas Museum of Lithuanian Culture,
Chicago Japanese American Historical Society, The DuChiariti gli obiettivi, è stata istituita un’altra organizSable Muzazione che
seum of Afriha visto il
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so tempo, si
Rappresentazione della strategia del programma Cultural Connections.
Center – che
è separata da
(Fonte http://www.fieldmuseum.org)
lo hanno proquest’ultimo.
mosso e sostenuto anche dal punto di vista finanziario.
L’organizzazione in questione è la Chicago Cultural Alliance.
Alla base del progetto vi era la tesi antropologica del
Questa è un’organizzazione composta da due categoCommon concerns, “Different responses”. Essa muove dalrie di membri: core members4 che sono musei etnici, istila convinzione, di matrice strutturalista (Levi-Strauss, 2009),
tuti culturali, che svolgono attività con le comunità locali;
secondo la quale esistono preoccupazioni comuni a tutte
e partner institutions5, che includono grandi musei, unile società, che si ripetono nel tempo e nello spazio, ma alversità, biblioteche, scuole pubbliche e agenzie. L’insieme
le quali sono date risposte differenti. Le preoccupazioni cui
dei core members che co-fondarono l’Alliance hanno un budsi fa riferimento riguardano il bisogno di coprirsi, di ripaget annuo di circa 5 milioni di dollari e rappresentano le
rarsi, di nutrirsi, di costruire relazioni sociali, di segnare con
comunità etniche e culturali, il cui numero di abitanti va
riti di passaggio i più importanti eventi della propria vita.
da 3000 a 3 milioni nell’area di Chicago.
L’idea del progetto era, dunque, quella di organizzare
L’organigramma dell’istituzione prevede la presenza di 4
eventi finalizzati principalmente a favorire il confronto fra
committee: 1.Fundraising Committee; 2. Board Development
le comunità sui modi diversi di dare risposte a esigenze coCommittee; 3. Membership Committee; 4. Program Commitmuni, e, allo stesso tempo, ad aiutare i membri delle ditee Marketing/PR Committee. Uno staff composto da un
verse comunità a integrarsi, rompendo le barriere culturaExecutive Director e Grants Manager & Director of Special
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Programs, e un consiglio di amministrazione composto da Executive Board; Directors e Honorary Board.
Gli obiettivi perseguiti da questa istituzione sono: 1. promuovere il dialogo tra le diverse comunità al fine di far
comprendere il valore aggiunto della diversità; 2. costruire
partnership tra istituzioni pubbliche e private al fine di condividere risorse istituzionali per programmi didattici, mostre, azioni di promozione e grandi eventi; 3. indirizzare il
cambiamento e la trasformazione delle comunità locali; 4. promuovere politiche pubbliche; 5 definire programmi didattici specifici per ciascuna comunità rivolti ai giovani e alle famiglie, alle scuole e al largo pubblico; 6. promuovere il turismo mediante azioni di marketing che enfatizzino la dimensione
etnica delle diverse comunità; 7. offrire alle organizzazioni
servizi di mentoring e definire i programmi per lo sviluppo
di nuove professionalità; 8. assistere le organizzazioni nella
gestione e nella raccolta di fondi; 9. rendere le diverse comunità consapevoli delle risorse che posseggono e migliorare le loro performance.
La visione che determina l’azione di questo consorzio è
l’idea che, avendo messo insieme attori direttamente impegnati sul territorio e con le comunità locali (i core members),
l’Alliance è detentrice di forme di conoscenza locale, difficilmente acquisibile in altro modo. E in quanto tale essa rappresenta una “voce” che deve essere presa in considerazione allorquando sono pianificate politiche culturali a scala regionale e nazionale.
L’Alliance fornisce, quindi, importanti forme di conoscenza ai governi, alle università, ai grandi musei, alle biblioteche (partner institutions) e vuole creare un collegamento tra core members e partners institutions. La ragione per la quale l’Alliance si propone di creare questi
collegamenti tra musei locali e grandi istituzioni sono da
ricercare nella consapevolezza che se i primi posseggono la conoscenza locale, i secondi posseggono le competenze professionali e scientifiche per poter aiutare i primi a pianificare percorsi di azione e a trovare fondi per
realizzarli. L’aspetto del fundraising è centrale e, come
sopra detto, vi è un’apposita commissione che si occupa
di intercettare possibili canali di finanziamento6 .
Al fine di avviare le sue attività e definire il piano di sviluppo l’Alliance in in un primo momento ha organizzato un’indagine sui bisogni e sulle risorse dei core members. Ciò che
si è appreso dall’indagine è che dalla costituzione di questo
organismo i core members si aspettano di allargare la propria visibilità, assicurarsi l’accesso ai supporti tecnici, migliorare
la formazione delle persone che lavorano nei musei, avere
più possibilità di creare contatti, avvantaggiarsi delle esternalità prodotte dalle economie di scala, creare partenariati
con le scuole pubbliche di Chicago in maniera tale da indirizzare eventuali curricula formativi.
Gli incontri organizzati hanno permesso inoltre di definire il piano strategico e la struttura di governance. Su quest’ultima non è necessario dilungarsi ulteriormente; è invece interessante considerare cosa è stato inserito nel business plan.
Alla base del piano vi sono programmi e progetti che l’Alliance sta intraprendendo. Nel piano sono definiti il programma
e gli obiettivi e, per ciascun obiettivo, è descritto in un primo momento il programma, e successivamente i microobiettivi da raggiungere nel corso dei successivi tre anni. Gli
obiettivi descritti sono gerarchizzati, al fine di sottolineare quali devono essere raggiunti più rapidamente e quali invece possono attendere. Nell’ultima parte vengono definiti gli indicatori
che consentono di stabilire se i risultati previsti sono stati realmente raggiunti.
I programmi e i progetti definiti nel business plan si inscrivono nell’ambito delle seguenti principali macro-aree: 1.
rafforzare la capacity building che deve permettere all’Alliance
di diventare un’organizzazione sostenibile e allo stesso tempo permettere ai membri di partecipare a programmi e progetti che prevedono collaborazioni tra le parti; 2. costruire
ampie collaborazioni sui programmi e progetti relativi alla formazione e soprattutto all’educazione dei giovani.
L’Alliance, dunque, al fine di creare e mantenere la formazione di partenariati tra i soggetti sopra considerati, si preoccupa di mettere a disposizione dei membri servizi, programmi e ulteriori partenariati, nonché li aiuta a rafforzare
la loro organizzazione, dando supporto al management e alla gestione delle risorse. Essa, quindi, nasce come un’organizzazione che deve principalmente mettere in comunicazione
core members e partner institutions, promuovere la formazione di programmi comuni e dare supporto nella ricerca di
finanziatori o di sponsor.
In altre parole, l’idea che accompagna l’azione di questo soggetto è quella di considerare che l’intervento dei singoli membri può, come spesso accade, essere poco incisivo. Ma messi insieme, core members e partner institutions
possono incidere sulla realtà sociale. In special modo, essi
possono avviare azioni in grado di indirizzare il turismo culturale a scala urbana, migliorare le risorse e i beni collettivi
e condizionare la formazione di politiche culturali. Allo stesso tempo, l’Alliance si propone di abbassare i costi delle azioni sia dei core members sia dei partner institutions.
Allorquando avvertano sia giunto il momento di avviare
un determinato programma, i partners possono mettersi in
contatto attraverso l’Alliance con le diverse comunità. L’Alliance, dunque, con la sua azione si sta preoccupando di
rendere più competitivi e più forti i musei etnici e i centri
culturali, di migliorare le loro performance e di far crescere
per tal motivo la capacità di portare a compimento la loro missione.
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Conclusioni
L’esperienza della Chicago Cultural Alliance illustrata, seppure brevemente, presenta diversi elementi di interesse e suggerisce osservazioni che possono eventualmente stimolare la riflessione su cosa significa fare politiche culturali.
Il primo elemento da evidenziare è che la Chicago
Cultural Alliance è l’esito di un processo durato 11 anni.
Quello del tempo è un aspetto che non va sottovalutato;
al contrario, questo fattore è cruciale per la buona riuscita di un’azione culturale.
La seconda componente è relativa alla necessità di trovare sponsor. Avviare un’azione culturale richiede, oltre al
tempo, risorse soprattutto in termini del capitale umano che
deve impegnarsi per portare avanti l’azione. Tale capitale,
come prevedibile, deve essere retribuito adeguatamente.
Il terzo elemento riguarda il valore aggiunto della costruzione di reti di relazioni sociali, di capitale sociale7, ossia di fiducia. Il capitale sociale rappresenta una risorsa che
permette l’avanzamento dell’azione sociale e culturale,
nonché il suo continuo rinnovarsi e innovarsi.
In ultimo, ma non meno importante, il valore della capacity building, o anche di quella che in ambiente anglosassone è definita capacità di governance, o capacità di azione. In altre parole, la capacità dei soggetti di mettersi insieme in nome di un obiettivo che riconoscono essere di
comune interesse, di definire strategia generale e singole
azioni per raggiungere quell’obiettivo. Il che significa sviluppare la capacità di fare, o quella che Amartya Sen chiama “capacitazione”, ossia la capacità di agire, di sviluppare idee, di concepire progetti.
storical Society of Chicago; Indo-American Heritage Museum/IndoAmerican Center; Institute of Puerto Rican Arts and Culture; Irish American Heritage Center; Italian Cultural Center at Casa Italia; Korean
American Resource and Cultural Center; Latvian Folk Art Museum; Mitchell Museum of the American Indian; Polish Museum of America;
Swahili Institute of Chicago; Swedish American Museum; The History
Makers; Ukrainian Institute of Modern Art; Ukrainian National Museum.
5. I partner institutions sono: Changing Worlds; Chicago 2016; Chicago History Museum; Chicago Zoological Society - Brookfield Zoo; Chinese Mutual Aid Association; Jane Addams Hull-House Museum; North
Park University Chicago; Pullman State Historic Site; Snapshot Chicago; The Field Museum; The University of Chicago - Center for International Studies; United African Organization.
6. Il Cultural Connections Program è stato sostenuto da: Institute of Museum and library Service, Kraft foods, Polk Bros Foundation, Chase, Richard Driehaus Foundation, Chicago Public Schools’ Office of Language and cultural education; Illinois Humanities Council, Charles and
M.R. Shapiro Foundation. Attualmente l’Alliance è sostenuta da Richard
H. Driehaus Foundation; JP.Morgan Chase Foundation; The Boeing
Company; Chicago 2016 Candidate City; Chicago Community Trust;
Chicago Wilderness.
7. Come spiega Coleman (1988), il capitale sociale indica un insieme
variegato di entità differenti, che consistono di vari aspetti di una struttura sociale e facilitano alcune azioni degli individui dentro la struttura stessa. Il capitale sociale è produttivo perché rende possibile la
realizzazione di fini che non potrebbero essere raggiunti in sua assenza
e, a differenza delle altre forme di capitale (fisico, umano), si riferisce alla struttura di relazioni tra due o più persone: esso non risiede
né negli individui, né nelle componenti fisiche della produzione. Il capitale sociale si trova nelle relazioni e costituisce la proprietà del collettivo e non dei singoli. Il capitale sociale non è “pre-condizione” dato che rende possibile l’azione del singolo, né esito di un’attività di
pura manipolazione delle risorse informali, ma effetto “strutturale” di
dinamiche relazionali che si modificano nel tempo e nello spazio
simbolico.
Nunzia Borrelli lavora alla II Università degli Studi di Napoli, ha un PhD in Spatial Planning and local development,
Fulbright research scholar, Loyola University Chicago.
Bibliografia
Coleman J.S., 1988 - Social Capital in the Creation of Human Capital. American Journal of Sociology, 94 Supplement, pp. S95S120).
Holli M.G., Jones. P.d’A. (ed.), 1995 - Ethnic Chicago: A Multicultural Portrait. Eerdmans Publishing Company.
Koval J.P., 2006 - The New Chicago: A Social and Cultural Analysis. Temple University Press.
Lévi-Strauss C., 2009 - Antropologia strutturale. Il Saggiatore.
Pacyga D.A., Skerrett E., 1986 - Chicago: City of Neighborhoods: Histories and Tours. Loyola University Press.
Sen A., 2000 - Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza
democrazia. Mondadori, Milano.
Spinney R.G., 2000 - City of Big Shoulders: A History of Chicago.
Northern Illinois University Press.
1. Chicago ha 77 community areas e circa 170 neighbourhoods (quartieri).
2. Nella città di Chicago si contano almeno 30 tra musei etnici, historical societies e centri culturali (senza considerare i musei grandi). Il valore numerico dichiarato è l’esito dell’esperienza diretta di chi scrive,
pertanto non essendoci una fonte ufficiale deve essere considerato indicativo.
3. Piano e strategia sono riportati nei documenti “The cultural diversity
alliance. Strategic planning executive summary” e “The cultural diversity alliance”. Phase II: Governance: www.fieldmuseum.org.
4. I core members sono: American Indian; Arab American Action Network;
Balzekas Museum of Lithuanian Culture; Brazilian Cultural Center of Chicago; Bronzeville Children’s Museum; Bronzeville/Black Chicagoan Historical Society; Cambodian American Heritage Center and Killing Fields
Memorial; Casa Aztlan; Chicago Japanese American Historical Society
Chicago; Chinese-American Museum of Chicago; Filipino American Hi-
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Sitografia
http://www.fieldmuseum.org.
http://factfinder.census.gov.
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La rappresentazione
della migrazione
Joachim Baur
Per iniziare, una breve storia di tracce fugaci, uomini in
movimento e peculiarità del museo! Nel romanzo La goccia
d’oro Michel Tournier racconta del giovane berbero Idris, che
lascia la sua oasi remota per andare in cerca di una fotografa
parigina che nel deserto gli ha scattato una fotografia. Durante il viaggio rimane coinvolto in ogni sorta di situazioni
sorprendenti e finisce con il mischiarsi a un gruppo di turisti in visita al museo naturalistico ed etnografico del Sahara.
Tournier descrive così la scena: “Idris [...] si ritrovò subito nella prima sala del museo, arredata con vetrine e popolata di
animali impagliati. La guida accompagnava le sue parole con
ampi gesti e correva di qua e di là pronunciando battute o
storielle con tono da imbonitore. Era circondata da un piccolo seguito di fedeli che scandiva le sue osservazioni con
risa entusiaste. [...] Idris era tutt’orecchi: stava ascoltando
una conferenza e ogni frase, ogni parola lo riguardava”. Il
giro conduce tra le altre cose a una mostra sulla zona dedicata al cibo nelle abitazioni del Sahara: “Qui vedete la kitchenette, la sala da pranzo degli abitanti dell’oasi”, proseguì
la guida. “Utensili da cucina: mortaio e pestello in legno di
acacia, con cui è possibile polverizzare finemente datteri, carote, henna e mirra. [...] Qui vedete anche il colino, il macinino in calcare conchilifero e il setaccio con i fori per la semenza [...]”. Idris sbarrò gli occhi. Tutte queste cose, adesso
irrealmente pulite, immobilizzate nella loro essenza eterna,
intoccabili, diventate mummie, tutte lo avevano circondato
nell’infanzia, in gioventù. Neppure quarantotto ore prima aveva mangiato da questa scodella, aveva visto sua madre girare questo macinino”. Infine il gruppo giunge davanti a una
vetrina di gioielli che la guida illustra con competenza e l’episodio termina così: “Quando i visitatori iniziarono ad andare via, Idris si avvicinò alla vetrina. Aveva visto questi gioielli di argento indosso a sua madre, alle sue zie, alle altre donne di Tabelbala. Le foto mostravano volti con il trucco rituale
a cui Idris avrebbe quasi potuto dare nomi noti. Quando, infine, si allontanò dal cristallo della vetrina, vi vide brillare un’immagine, una testa dai folti capelli neri, un viso scarno, vulnerabile, turbato: era lui, una figura sfocata che si trovava a
indugiare in questo Sahara imbalsamato”1.
In questa breve storia ci si imbatte involontariamente
in alcuni concetti e (pre)giudizi sul museo: viene delineata l’immagine di una separazione ricca di conseguenze tra
museo e vita, la realtà da un lato, il museo con le sue co-
se “irrealmente pulite” dall’altro. Concretezza e movimento qua, stupore ed essenzialità là, musealizzazione come
mummificazione. Viene descritto il divario tra l’atmosfera
distaccata e la sete di sapere degli osservatori indifferenti
e il timore, sì il turbamento di colui di cui si dice che “ogni
parola lo riguardava”. Viene così accennato anche al problema della rappresentazione, in particolare della rappresentazione di “culture estranee”. Chi, che cosa, quanto si
ritrova in essa? Chi rappresenta chi e per chi? Come sono
i rapporti di forza tra i rappresentanti e i rappresentati? Il
museo quale luogo di sicurezza e di rimozione della sicurezza di identità, di produzione di concetti del sé e degli
altri, quale luogo di immagini sfocate, fugaci, che lasciano comunque un’impressione duratura. Quando si deve parlare di rappresentazione della migrazione in musei ed
esposizioni, occorre tenere bene in mente tali questioni e
questi aspetti, in modo che facciano da orizzonte e da sfondo a ogni forma di rappresentazione.
Insomma, la migrazione è diventata un tema per musei. Anche se il confronto con immigrazione ed emigrazione
non rappresenta un terreno del tutto nuovo nel panorama
museale, negli ultimi anni le attività si sono notevolmente infittite2. È quindi evidente che la musealizzazione della migrazione non si esprime solo in esposizioni temporanee o in programmi museali pedagogici ma che anche
interi musei vengono istituiti sul e per il complesso della
migrazione. La migrazione non è quindi solo uno dei tanti temi per un museo ma può anche costituire una tipologia museale a sé. Con la Deutsche Auswandererhaus di Bremerhaven3 e l’Hamburger Auswanderermuseum di BallinStadt, negli ultimi anni in Germania si sono aperti due musei della migrazione, anche se entrambi sono interamente
focalizzati sull’emigrazione. L’esemplare più recente di
museo dell’immigrazione è stato aperto a Parigi nel 2007:
la Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration è il museo
nazionale dell’immigrazione verso la Francia e il primo grande museo dell’immigrazione in Europa4.
Tratterò i pro e i contro di questo confronto solo alla
fine. Come prima cosa è preferibile fare un passo indietro, sondare lo sviluppo di questo settore della museologia e selezionare alcune tendenze. Procederò in quattro fasi: dapprima delineerò alcune delle cause principali dell’attuale moda della musealizzazione della migrazione; quin-
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di farò il punto della situazione, non elencando i progetti
passati ma citando concetti-guida caratteristici; successivamente
discuterò delle questioni, dei problemi e delle sfide che oggi si pongono per tentare infine di delineare una prospettiva futura.
Cause di una moda
Quali sono le cause dell’attuale boom della musealizzazione della migrazione? Senza dubbio la domanda va posta per ogni singolo progetto, in base agli specifici contesti sociali, alle condizioni (anche locali) e alle forze propulsive. Tuttavia, alcuni fattori – senza che l’elenco abbia
la pretesa della completezza – potrebbero essere validi anche al di là del singolo caso.
1. Da un lato, bisogna discutere della globalizzazione.
Malgrado il modo in cui si considera questo fenomeno –
se vi si vuole vedere una nuova qualità della rete globale
o solo una riedizione e una modernizzazione concettuale
di antichi rapporti di scambio globali – non si deve disconoscere che si tratta di un discorso pregnante, di cui la
migrazione rappresenta un tema fondamentale. Senza considerare se oggi vi sia un maggior numero di movimenti
migratori globali di un tempo, la migrazione è un tema rovente. È al centro dell’attenzione pubblica e come tale si
ripercuote anche sulla scelta tematica dei musei, la quale
è sempre determinata dalle condizioni del momento.
2. Il secondo punto – strettamente connesso con il primo – è che la musealizzazione della migrazione è anche
un segno e un effetto di identità mutate, a livello sia locale, sia nazionale. Il fatto che ultimamente le grandi città
si rappresentino come metropoli multiculturali5, o che un
paese come la Germania, dove per lungo tempo è stata egemone l’idea di nazione etnicamente omogenea, sia oggi concepito sempre più come paese di immigrazione, si può vedere nelle attuali forme di rappresentazione. Spesso un’immagine di sé così mutata implica una ricerca di tracce di
migrazione finora trascurate o ignorate; questo, non di rado, nel senso di una invention of tradition, per dirla con
Eric Hobsbawm, ossia di una legittimazione storica e di un
ancoraggio a concetti e a valori contemporanei6. Non è un
caso che questa evoluzione si rifletta anche nel museo, da
sempre luogo attivo di costruzione di identità e di proiezione verso il futuro.
3. Gli impulsi verso tali nuove ridefinizioni provengono
non da ultimo dagli stessi migranti, uomini e donne. Una coscienza sociale rinvigorente, e con essa le esigenze di rappresentazione avanzate dai migranti con maggiore veemenza, possono essere considerate un ulteriore fattore. Per il contesto statunitense andrebbe citato a questo riguardo il cosiddetto
ethnic revival. Dagli anni Sessanta, anche a seguito del movimento per i diritti civili dei neri, sempre più americani si
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sono ricordati delle proprie roots, riconoscendosi in un patrimonio storico di immigranti a lungo represso a favore
dell’assimilazione alla cultura angloamericana7. Da un lato questo ha trovato espressione in esposizioni e in musei in cui
le stesse comunità etniche documentavano la propria cultura e la propria storia8, e dall’altro ha dato origine a esigenze di inserimento di questi aspetti in musei di carattere più
generale, talvolta storico-culturali nazionali.
Per la Germania è possibile individuare un fenomeno
molto simile. In particolare al riguardo va citata come uno
sviluppo importante la decisione estremamente graduale
degli Arbeitsmigranten, i lavoratori reclutati, di rimanere
stabilmente in Germania. Infine, non bisogna dimenticare
che questi ultimi vennero certamente emarginati dalla società dominante in quanto “Gastarbeiter”, e cioè lavoratori stranieri, e furono emarginati anche nella rappresentazione della nazione; d’altro canto non bisogna trascurare
il fatto che molti consideravano la propria permanenza soltanto temporanea e che solo l’imporsi come parte importante della società tedesca fece sorgere l’esigenza di una
rappresentazione adeguata.
4. Come quarto punto favorente la musealizzazione della migrazione devono essere citati gli sviluppi nel museo
stesso, nella scienza della storia e nelle discipline accademiche correlate. Dalla metà degli anni Ottanta, nella teoria e nella pratica è andato delineandosi il movimento della Nuova Museologia in opposizione alle precedenti forme di azione dei musei. A livello teorico vi è stata una riflessione più critica sui meccanismi di funzionamento e sull’importanza sociale dei musei, e dal dibattito innescato sono
risultati anche impulsi per una pratica museale più meditata. In particolare, sono diventate cruciali le questioni
sulla costruzione di se stesso e dell’altro, nonché la critica al concetto di inclusione ed esclusione – a livello sia dell’accesso ai musei, sia della rappresentazione nei musei9 – e
l’integrazione sociale (social inclusion) si è sviluppata come nuovo concetto-guida10. I musei della migrazione sono un prodotto di questa corrente quando accolgono l’impulso alla massima inclusività e tentano di rivolgersi a
nuovi gruppi di visitatori e di valorizzare storie a lungo trascurate. Questi sforzi sono stati coadiuvati dai cambiamenti della prospettiva scientifica. Con l’affermarsi della storia sociale negli anni Settanta e della storia della vita quotidiana focalizzata sull’emarginato e sulla “piccola gente”
negli anni Ottanta, migrazione e migranti sono divenuti temi centrali e hanno così favorito la musealizzazione11.
5. Soprattutto per quanto riguarda la costituzione di musei dedicati in modo specifico alla migrazione, va citato come ulteriore fattore di sviluppo il boom museale dell’ultimo decennio, che ha determinato un alto tasso di nuove
costituzioni di musei. La statistica fornisce una prova im-
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pressionante di questo sviluppo esponenziale: oggi il 95%
dei musei mondiali non ha più di sessant’anni. Come altri
ambiti sociali, anche il tema della migrazione ha tratto
vantaggio dalla progressiva musealizzazione dell’elemento popolare12. Una particolarità è la correlazione delle iniziative museali con la forma relativamente giovane dell’heritage tourism, ossia quel turismo spinto dalla ricerca delle proprie radici familiari che procede di pari passo con la
popolarizzazione della scienza, un tempo elitaria, della
genealogia13.
Temi nella musealizzazione della migrazione
Arrivo ora a un secondo punto, espresso esplicitamente nel titolo del contributo: la situazione della rappresentazione della migrazione nei musei e nelle esposizioni. In questo mi riferisco ai temi impiegati nella rappresentazione museale della migrazione, in quanto considero la rappresentazione come la visualizzazione di una particolare interpretazione14. Senza considerare quanto oggettiva
o astratta, quanto vivacemente colorata o sobria risulti una
tale rappresentazione, essa ha bisogno di concetti-guida,
di metafore visuali e di paradigmi. Di seguito illustro alcuni di questi concetti-guida nella presentazione della migrazione ricorrendo a esempi relativi a Stati Uniti, Canada,
Australia e Germania15.
1. Come primo tema, esamino il concetto di “confine”.
Nell’Ellis Island Immigration Museum il richiamo al confine è diretto, in quanto il museo, ubicato in una vecchia stazione di controllo degli immigranti, già nel luogo e nell’edificio fa riferimento al concetto di confine. Analoga è la situazione nel museo canadese Pier 21, anch’esso ospitato
in una vecchia immigration station. Qui il tema viene ulteriormente rafforzato con la ricostruzione della scrivania
di un funzionario della polizia di frontiera al centro dell’esposizione16. Collegata a questo tema è la vasta esposizione
di passaporti e di documenti ufficiali.
Un racconto della migrazione che ponga un accento particolare sul concetto di confine presenta alcuni vantaggi:
sposta al centro dell’osservazione il ruolo dello stato nazionale nella regolazione e nella regolamentazione dell’immigrazione. Può, in particolare, darsi come tema il ruolo
di varie politiche sull’immigrazione, illustrare definizioni storicamente mutevoli di immigranti desiderati/indesiderati nonché meccanismi di inclusione ed esclusione. Il focus sul modo di agire dello stato è, al contempo, uno dei problemi
di questo paradigma. Esso implica, infatti, una sottoesposizione di quello che in epoca recente viene dibattuto come “autonomia delle migrazioni”17. La migrazione non appare come un movimento indipendente e indomabile, e come forza storica, ma risulta sempre determinata dalla politica degli stati nazionali, essa non è una sfida costante ma
un epifenomeno. In questo senso la migrazione è concepita soprattutto come fenomeno legale, documentato, controllato, e lo stato nazionale è un bastione chiaramente identificabile e per così dire sicuro. Per quanto riguarda i musei nei classici paesi di immigrazione, appare ancora più
decisivo un secondo problema: l’intima connessione del tema del confine – nella sua forma metaforica – con i miti
originari della nazione. Sia a Ellis Island sia nel museo Pier
21, il confine viene trasformato da istituzione dell’esclusione
a luogo del benvenuto e dell’accoglienza per i migranti nella nuova società18. Viene così rappresentata anche una
trasformazione agevole, momentanea di identità: secondo
il racconto, nell’atto del superamento del confine, da una
massa eterogenea si originano nuovi americani o canadesi. Infine, il concetto di confine (in quanto confine nazionale) opera nell’ambito di un “nazionalismo metodologico” orientandosi verso un concetto di migrazione ristretto, che serve allo stato nazionale come criterio importante e ambito di riferimento19.
2. Il secondo tema è il “viaggio”. Il viaggio che si concretizza in modo perfetto nella rappresentazione di una nave di immigranti nella sala centrale dell’Immigration Museum di Melbourne o di un transatlantico nella Deutsche
Auswandererhaus di Bremerhaven. Entrambi sono visitabili e illustrano la vita di bordo in epoche diverse. Ma non
solo la nave, anche il treno o altri mezzi di trasporto possono simboleggiare il viaggio in senso generale: il movimento nello spazio quale caratteristica della migrazione. In
linea di principio, nel tema del viaggio la migrazione non
è vincolata alla migrazione tra stati nazionali. Hanno un proprio peso anche i collegamenti iconografici e potenzialmente
anche tematici ad altre forme di mobilità, quali il turismo,
i viaggi religiosi o i viaggi di esplorazione20. Attraverso la
rappresentazione di forme e mezzi di trasporto diversi si
rendono visibili differenze e disparità sociali.
Anche in questo caso appare problematica la mitizzazione insita in questo tema molto antico – si pensi all’Odissea o all’Eneide. Il passaggio in nave, la grande traversata, e anche il viaggio via terra, vengono spesso metaforizzati nelle presentazioni come rite de passage, il passaggio
da una vita a un’altra, a un’altra identità. Contrariamente
al passaggio istantaneo insito nel concetto del confine, qui
la trasformazione è concepita come ampia, ma tuttavia
non meno lineare. Di regola, il viaggio conosce un punto
di partenza e un punto di arrivo univoci e si svolge in un’unica direzione. Se una tale concezione appare limitata rispetto
ai movimenti migratori reali, essa diventa più che mai incerta come metafora dello sviluppo di identità nel contesto della migrazione21.
3. Il terzo tema è intimamente correlato al viaggio ma,
a causa della sua rilevanza, merita di essere osservato se-
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paratamente. Si tratta del concetto-guida e dell’oggetto
che per primo viene in mente quando si pensa alla musealizzazione della migrazione: la valigia. Qui sono riportate solo alcune varianti degli usi di questo tema: nell’Ellis Island Immigration Museum un cumulo di valigie serve a rappresentare l’arrivo, chiarendo immediatamente il
tema22. Presso la Haus der Geschichte nel Baden-Württemberg,
degli “armadi biografici” a forma di valigia costituiscono l’elemento centrale della sezione dedicata alla migrazione.
Inoltre, nell’Immigration Museum di Melbourne, così come in tante altre esposizioni sulla migrazione, la valigia si
ritrova come singolo oggetto dalla storia individuale; nel
museo londinese 19 Princelet Street essa è presente come
elemento pedagogico-museale e nel museo BallinStadt di
Amburgo come semplice espediente scenografico.
La valigia è un motivo ambivalente, sotto diversi aspetti. Più marcatamente rispetto ai due temi precedenti, in essa è richiamato il singolo individuo, e questo nonostante
il fatto che le valigie stesse siano per lo più tutte simili, a
malapena distinguibili. Come detto, è il tema più intimamente legato al tema del viaggio anche se, in un certo qual
modo, gli manca una connotazione chiara. La valigia rappresenta un intervallo sospeso tra partenza e arrivo e supera il momento del viaggio oltre i due punti fissi che lo
delimitano. Si pensi all’atto di sedere su valigie fatte, pronte per il viaggio: dove si colloca uno “stato” così descritto? Non più qua, non ancora per strada, non più per strada, non ancora là. Soprattutto, la valigia – almeno quando è chiusa – gioca in modo affascinante con la dialettica
di visibilità e invisibilità, che Krzysztof Pomian ha descritto come centrale per gli oggetti museali in genere. Pomian
definisce questi oggetti particolari semiofori, portatori di segni23. Sono oggetti senza utilità in senso stretto, più che di
utilità sono muniti di significato. La loro funzione è rimandare
a qualcos’altro, la rappresentazione dell’invisibile. In questo senso la valigia è un “super semioforo”. Da un lato, ha
un significato in se stessa, rimanda all’invisibile della sua
origine e della sua storia. Dall’altro, porta – così almeno
vuole l’immaginazione – ad altri oggetti che contiene, i quali, da parte loro, hanno un significato che – benché esso
stesso invisibile – rimanda ad altro invisibile. Pur sapendo
che le valigie del museo sono vuote, le riempiamo di significato e di oggetti con significato: bagaglio e bagaglio
culturale. E le valigie finché restano chiuse si oppongono
all’esposizione, all’estirpazione e all’esplorazione di oggetti
e storie estranei.
Non è un tema negativo, quindi. Ma è ambivalente, anche perché, pur racchiudendo in sé tutti questi livelli – o
forse proprio per questo –, appare troppo utilizzato. È possibile “ancora portare” il tema? È ancora possibile realizzare il potenziale ambivalente, provocare una vista aper-
30
ta sulla valigia chiusa oppure questa vista, come la valigia
stessa, resta alla fine ancora vuota? Pomian afferma che,
contrariamente alle cose di uso comune, i semiofori non
sono soggetti a usura24. Se fosse necessario produrre una
controprova, l’usura della valigia in quanto oggetto e motivo delle esposizioni sulla migrazione non sarebbe una cattiva argomentazione.
4. Giungo adesso a un quarto tema, che definisco “cornucopia”. In un certo qual modo si tratta di una sottospecie della valigia, più precisamente della sua apertura e della spiegazione del suo contenuto. È un tema molto diffuso nelle esposizioni sulla migrazione come raccolta delle
molteplici cose che i migranti portavano con sé – in senso letterale e traslato. Caratteristica di queste esposizioni
è la visione d’insieme di diversi oggetti, una varietà ostentata accompagnata da un’ombra di esotismo. Il tema può
fungere da rappresentazione classica del multiculturalismo: viene messa in scena l’idea di un arricchimento della società attraverso la vivace cultura dei migranti.
La critica a queste immagini positive di una società ad
alta immigrazione, spesso dirottate sulla tradizione culinaria,
è ampiamente diffusa e non intendo qui esporla in modo
dettagliato25. Cito solo la tendenza alla etnizzazione e alla
folklorizzazione, la costruzione di una presenza contemporanea di culture originarie statiche nitidamente delineate, il concetto di migranti come aggiunta, addirittura come
decorazione di una società essenzialmente immutata e
concepita in modo omogeneo, nonché l’armonizzazione di
rapporti di forza, disparità e conflitti sociali. Questo non
va assolutamente inteso come un’arringa contro l’impiego
e l’esposizione di oggetti in generale. Sarebbe tuttavia necessario il ritorno di una “material culture of cultural contribution”26, una presentazione della storia della immigrazione come insieme variopinto di contributi di migranti, e
l’interesse per una rappresentazione che renda visibili anche tensioni, ambivalenze e contrasti.
5. Elemento comune a tutti e quattro i temi citati è che
essi rivolgono tenacemente lo sguardo sull’atto della migrazione. Sono da citare infine anche forme di presentazione che allontanano alquanto da questa ottica, e cercano un maggiore inserimento nel contesto sociale generale. Così, il Lower East Side Tenement Museum utilizza una
casa popolare di New York e collega la storia della migrazione
a una storia di condizioni abitative e lavorative27. Tali rappresentazioni non si trovano solo in luoghi originali, ma
hanno occupato un posto di rilievo anche in alcune delle
più recenti mostre sulla migrazione in Germania, come nella mostra “Hier geblieben. Zuwanderung und Integration
in Niedersachsen 1945-2000” con la ricostruzione parziale
di un salotto degli anni Cinquanta nella sezione sui profughi o di un’officina nella sezione sugli Arbeitsmigranten,
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i lavoratori reclutati28. La forza di questo approccio consiste nel fatto che le questioni relative alla migrazione vengono sempre collegate a condizioni sociali generali. Viene così aggirata la tendenza, riscontrabile in altre rappresentazioni museali, a definire gli immigrati in virtù della loro condizione di migranti e si pone l’attenzione sulle esperienze diversificate e contrastanti tra migranti e autoctoni.
Sfide
Dopo aver discusso di alcune rappresentazioni concrete
della storia della migrazione, in una terza fase, come riportato
nel seguito, vengono delineate alcune questioni e sfide di
carattere generale poste dalla rappresentazione della migrazione in musei ed esposizioni.
1. Da un lato andrebbe considerata la questione delle
aspettative e delle attribuzioni pubbliche. Le speranze legate ai diversi progetti sono infatti varie, almeno quanto
le cause e i motivi della musealizzazione della migrazione. I musei della migrazione (e questo vale anche per le
esposizioni temporanee) devono essere luoghi di discussione per la società multiculturale. È possibile chiarire
questo concetto prendendo in considerazione il verbale conclusivo di un incontro di esperti tenutosi a Roma nell’ottobre 2006, su invito dell’UNESCO, cui sono convenuti i rappresentanti di 15 musei della migrazione europei e americani. Tra le altre cose nel verbale si diceva: i musei della
migrazione sono un luogo per il dialogo fra le culture e
per l’intesa culturale tra le generazioni; hanno nobilitato i
contributi forniti dai migranti alla società di accoglienza comunicando loro un senso di appartenenza; nei luoghi della memoria così creati è possibile raccontare storie di individui e di gruppi in movimento e, soprattutto attraverso
la rappresentazione di motivi di fuga e di migrazione coatta, nella società dominante si generano comprensione ed
empatia; informazioni approfondite sulla storia della migrazione
possono inoltre contribuire a una decostruzione degli stereotipi; inoltre questi musei potrebbero avere un ruolo importante proprio per i migranti della seconda generazione
in quanto, illustrando loro la storia dei loro genitori e la
ricchezza della cultura da cui provengono, potrebbero
contribuire alla complessa formazione della loro identità
e del rispetto di sé; i musei della migrazione hanno dato
un importante contributo all’integrazione dei migranti,
all’incoraggiamento della diversità culturale e alla coesione pacifica nella società29. Sono obiettivi ed esigenze di alto profilo. Per quanto auspicabile possa essere la realizzazione
di questo programma, altrettanto facilmente l’impeto
dell’euforia social-riformatrice potrebbe condurre a una pretesa eccessiva per l’istituzione museo.
2. Una cosa risulta tuttavia evidente: la musealizzazione della migrazione non può essere realizzata in modo co-
sì armonico come appare in queste formulazioni. A quale
migrazione ci riferiamo effettivamente quando parliamo di
musei della migrazione? Che cosa e chi intendiamo? In primo luogo, è possibile constatare che generalmente i musei e le esposizioni sulla migrazione si distinguono in due
grandi gruppi: da un lato vi sono progetti sulla storia
dell’immigrazione e, dall’altro, progetti sulla storia dell’emigrazione. Benché questa suddivisione appaia a prima vista illuminante, a uno sguardo più attento essa risulta problematica, ciò per due motivi. Primo, la differenziazione
implica un trattamento separato per l’immigrazione e l’emigrazione e tende a considerare la migrazione come strada
a senso unico. In realtà, con riferimenti incrociati fra musei si creano relazioni, per lo più unidirezionali. Se la
Deutsche Auswandererhaus di Bremerhaven si considera
abbastanza esplicitamente come complementare all’Ellis Island
Immigration Museum di New York, è facile realizzare il collegamento tra l’emigrazione tedesca e l’immigrazione americana. Più raramente, invece, vengono posti come tema i
collegamenti fra immigrazione ed emigrazione in un certo paese e in un certo periodo. Il rimpatrio o il transito,
accentuati soprattutto nella ricerca più recente, restano
nella loro complessità spesso poco trattati. Secondo: il
concetto di immigrazione ed emigrazione comprende anche la migrazione come un fenomeno sostanzialmente inter-nazionale e quindi senza volere pone lo stato nazionale
come criterio analitico centrale. Le migrazioni tra le regioni
all’interno di un paese o tra città e campagna vengono così facilmente perse di vista, benché – in senso lato – rappresentino importanti aspetti nella storia di “uomini in
movimento” e di “contatto di culture”30.
Tuttavia, anche se ci si limita a un’osservazione ristretta, la questione della rappresentazione museale della
migrazione non è priva di contraddizioni. Si pensi all’immigrazione verso la Germania limitatamente al breve periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Qui si identificano
almeno due grandi gruppi: i profughi tedeschi dopo la Seconda Guerra Mondiale e, dagli anni Cinquanta, i cosiddetti “Gastarbeiter”, ossia i “lavoratori stranieri”. Per alcuni aspetti questi diversi movimenti migratori presentano analogie, per altri si differenziano. Ma quello che qui appare
più importante è che le iniziative per una accettazione museale pubblica delle rispettive storie provengono da ambiti politici e sociali del tutto diversi, così come le implicazioni storico-politiche. L’esposizione sulla migrazione
“Hier geblieben. Zuwanderung und Integration in Niedersachsen 1945-2000”, che ha tentato una sintesi delle storie
di profughi, Arbeitsmigranten, Spätaussiedler, i cosiddetti “tedeschi etnici”, e richiedenti asilo politico, oltre a reazioni positive ha suscitato anche proteste. In tal senso, mi
sembra sintomatica la reazione di un profugo tedesco che
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nel libro dei visitatori ha scritto: “Migrante – non lo sono!
È decisamente inopportuno gettare i profughi di guerra tedeschi nel calderone generale della migrazione con tutti i
suoi problemi attuali. Permangono differenziazioni importanti e necessarie”31. L’esempio è citato solo per dimostrare quanto la musealizzazione della migrazione – anche
se è difficile che qualcuno possa contestarne l’importanza
di principio – sia suscettibile di controversie e di concezioni storico-politiche contrastanti.
3. Infine: come è possibile mostrare la migrazione nel
museo? Soprattutto, a che punto siamo con la cultura materiale della migrazione? Quali oggetti sono disponibili per
la rappresentazione di un fenomeno che sin dall’inizio
non si caratterizza per una ricca tradizione? Come illustrato, ancora oggi in molte presentazioni non si può fare a
meno di oggetti espositivi scontati, quali valigie e passaporti. Tuttavia, a prescindere dalla frequente scarsità di oggetti e dalla potenziale noia suscitata da pezzi espositivi sempre uguali, si pone la domanda: il museo è sostanzialmente
il luogo giusto, può essere il luogo giusto per la tematizzazione e l’esposizione narrativa della migrazione? Gottfried
Korff sostiene, a ragione, da un lato che il museo non può
fare a meno di oggettivazioni, e più precisamente di oggettivazioni di tipo concreto, perché solo la fisicità permette
l’osservabilità e la persistenza nel tempo che sono costanti
fondamentali del museo, dall’altro sostiene che gli oggetti significano sempre sedimentazione e materializzazione,
e quindi recano in sé il pericolo – beninteso non l’automatismo – della fissazione di significati, della formazione
di cliché e dell’illustrazione di cliché32.
Se il dilemma della potenziale fissazione e immobilizzazione della cultura in oggetti non riguarda solo il tema
della migrazione ma può addirittura essere il problema principale del museo, bisogna riflettere sulla complessità e
sull’eterogeneità del fenomeno migrazione, sul suo significato sociale e sull’esigenza, in genere rappresentata in modo esplicito, di decostruzione di stereotipi. Verrebbe da chiedersi: è possibile trovare oggetti che esprimono particolarmente
bene la polivalenza e la mobilità? Come è possibile contrastare le immobilizzazioni nelle disposizioni di oggetti o
di oggetti e testi e stimolare un’osservazione multidimensionale? Anche: come la mettiamo con l’intangible heritage adesso dibattuto dappertutto, ossia con il patrimonio culturale che non incide materialmente sul contesto della migrazione? Oppure la questione si pone in modo del tutto
diverso? Abbiamo davvero bisogno di oggetti originali se
nei musei storico-culturali il passaggio da approcci orientati all’oggetto ad approcci orientati al concetto si è consolidato al punto che l’idea dei curatori e la configurazione rappresentativa mettono spesso in ombra i singoli oggetti?33 Ritengo che questo debba valere per le singole
32
esposizioni, ma che sul piano generale un tale atteggiamento
costituirebbe l’alibi giusto per non perseguire le “fugaci tracce” della migrazione ma insabbiarle definitivamente. Soprattutto
perché il museo non riveste solo una funzione espositiva
ma anche una funzione conservativa, è necessario approfondire notevolmente e promuovere l’attività di collezione attuata dai musei sul complesso tematico della migrazione, non solo sporadicamente e con riferimento a progetti specifici ma in modo preciso e duraturo. Al contempo, si tratta di esaminare e registrare le collezioni esistenti con riguardo al tema della migrazione.
4. Finora ho considerato soprattutto l’aspetto della rappresentazione e della collezione. Se si riflette in linea di
principio sui presupposti da realizzare affinché la società
d’immigrazione si ritrovi nel museo, si deve citare un punto molto più convincente: la struttura del personale. Purtroppo a questo riguardo non posso affidarmi ai numeri,
dovrebbero tuttavia esserci poche istituzioni, come il museo, che in misura così ridotta danno lavoro, soprattutto
in posizioni di responsabilità, a collaboratori e a collaboratrici che hanno vissuto la storia della migrazione, rispecchiando così scarsamente la composizione della società
d’immigrazione. Tempo fa Lord Ralf Dahrendorf, scomparso
di recente, chiese l’introduzione di una quota di immigrati per le università tedesche, così da equilibrare gli svantaggi nel settore dell’istruzione34. Questa potrebbe essere
un’ultima possibilità perché forse è vero che si dovrebbe
effettivamente riflettere su misure quali l’affirmative action
per affrontare in modo istituzionalizzato l’evidente sottorappresentazione. Negli USA questo tipo di sostegno proattivo delle minoranze (come per esempio trattamenti preferenziali in sede di assunzione) è praticato da tempo anche per i musei, sebbene non manchi di sollevare contrasti. Sarebbero necessari cambiamenti, anche relativamente agli stessi musei, perché il know how culturale dei migranti, uomini e donne, che inizia anzitutto dalle competenze linguistiche, deve essere sempre accessibile per il museo, se esso vuole avere un ruolo formativo in una società
ad alto tasso di migrazione.
Prospettive
Non posso infine concludere senza rivolgere uno sguardo al futuro. Una domanda che si pone è la seguente: la
migrazione deve essere un tema del museo o, piuttosto, una
tipologia di museo? L’immigrazione e l’emigrazione devono essere trattate nell’ambito delle esposizioni e dei musei storici a carattere generale o devono essere create istituzioni specifiche? Una discussione in tal senso si sviluppa praticamente in tutti i paesi in cui sono stati istituiti musei della migrazione. In Germania lo scrittore Feridun Zaimoglu ha sollevato la questione circa l’effettiva necessità
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di creare in Germania, paese di immigrazione, un museo
della migrazione affermando che “La migrazione non deve finire in una nicchia, ma entrare nel Deutsches Historisches Museum”. D’altro canto, anche i sostenitori di un
museo della migrazione indipendente dispongono di valide argomentazioni: un’istituzione autonoma metterebbe
in evidenza l’eccezionale rilevanza del tema, realizzerebbe un importante luogo della memoria e della rappresentazione e offrirebbe una piattaforma stabile per il confronto
sulle attuali società d’immigrazione.
Il mio discorso andrebbe nella direzione di un categorico
sì o no. Sì, perché la mia opinione è che musei della migrazione indipendenti sono auspicabili e ormai dovuti. La
migrazione – chi può metterlo in dubbio! – è un fenomeno sociale importante, almeno quanto il giocattolo o la cioccolata, per i quali da tempo esistono musei. No, perché una
tale istituzione non dovrebbe assolutamente diventare luogo di competenza isolato per questioni concernenti la diversità culturale, l’integrazione ecc. In questo senso, considerando un’attribuzione di funzioni quale delega di mansioni, quasi una ghettizzazione rappresentativa, l’istituzione non contribuirebbe alla visibilità del fenomeno della migrazione, oggi in mutamento sociale, ma lo circoscriverebbe
come caso speciale. Nel museo, quindi, la migrazione deve essere non solo tipologia ma anche tema, ossia deve essere ripresa in tutti i musei possibili, nelle loro esposizioni permanenti e temporanee, nelle collezioni e nei programmi
pedagogici, e, ancora, deve pervadere in prospettiva anche altri campi tematici.
Tempo fa lo studioso di musei Michael Fehr ha presentato un piccolo testo decisamente utopico dal titolo Kurze Beschreibung eines Museums, das ich mir wünsche
(Breve descrizione del museo che desidero)35. Ne riprendo la formulazione con qualche lieve modifica e concludo con una “Descrizione molto breve di un museo della
migrazione che desidero”. Si basa su sei premesse che con
qualche modifica possono essere applicate anche a singole esposizioni36. Il museo della migrazione che desidero dovrebbe:
• essere tenuto a seguire il concetto di contact zone; in
base a questo concetto, James Clifford elabora la visione
di un museo che nelle proprie attività includa, in modo completo e duraturo, coloro di cui espone la storia e la cultura. Invece di educare o confortare il pubblico da una posizione certa, il museo dischiude prospettive e interpretazioni alternative e intrattiene relazioni flessibili, vincolanti e reciproche con coloro di cui rappresenta la storia,
senza tuttavia eliminare in tali relazioni le asimmetrie di risorse e del potere sociale37;
• porre a fondamento del proprio lavoro un ampio concetto di migrazione, che comprenda immigrazione ed emi-
grazione, migrazione interna e transito, migrazione volontaria e forzata ecc., così come epoche e movimenti migratori diversi;
• trovare delle vie per presentare la migrazione come tema sociale generale, invece di definire il complesso in modo personalizzante, ossia fissare l’immigrato come “eterno
migrante”;
• non rimanere immobile presentando storie di successo
che creano visioni armoniche, ma inserire i temi relativi soprattutto ai conflitti sociali, ai rapporti di forza e alle disparità
osservabili nella pratica e nell’analisi della migrazione;
• essere indirizzato in senso transnazionale e non abbandonare
il proprio contesto nazionale ma interrompere l’ampia focalizzazione sull’ambito nazionale e “infrangere il muro del
suono del pensiero nazionale statale”38;
• infine, essere orientato in modo transculturale, ossia non
costruire – come nella prospettiva classica del multiculturalismo – una presenza contemporanea di culture chiaramente delimitate, concepite in modo statico e separate, ma
considerare la nomadizzazione della cultura, l’azione costante e reciproca di travelling cultures per le quali la migrazione è al contempo motore e metafora.
Joachim Baur insegna Studi Museali al Dipartimento di Antropologia Culturale dell’Università di Tubinga (Germania)
e lavora come curatore indipendente.
1. Tournier M., Der Goldtropfen. Roman, Suhrkamp, Frankfurt am Main,
pp. 93-98.
2. Questo sviluppo così come gli aspetti delineati di seguito sono ampiamente trattati in: Baur J., Die Musealisierung der Migration. Einwanderungsmuseen und die Inszenierung der multikulturellen Nation, Transcript,
Bielefeld, 2009.
3. Baur J., Ein Migrationsmuseum der anderen Art. Das Deutsche Auswandererhaus in Bremerhaven, WerkstattGeschichte, 15, n. 42, 2006, pp.
97-103.
4. Cité und anderen Immigrationsmuseen die Beiträge in der Zeitschrift,
Museum International, 59, n. 1/2; Green N.L., A French Ellis Island? Museums, Memory and History in France and the United States”, History
Workshop Journal, 63, n. 1, 2007, pp. 239-253; Stevens M., Immigrants
into Citizens. Ideology and Nation-Building in the Cité National de l’Histoire de l’Immigration, Museological Review, n. 13, 2008, pp. 57-73.
Inoltre si veda: Baur J., Die Musealisierung der Migration, op. cit., 2009,
pp. 14-15.
5. Welz G., Inszenierungen kultureller Vielfalt, Akademie Verlag, Frankfurt am Main, New York City, Berlin, 1996.
6. Hobsbawm E., Das Erfinden von Traditionen, in: Conrad C., Kessel M.
(ed.), Kultur und Geschichte. Neue Einblicke in eine alte Beziehung, Reclam, Stuttgart, 1998, pp. 97-118.
7. Vecoli R.J., From ‘The Uprooted’ to ‘The Transplanted’. The Writing of
American Immigration History, 1951-1989, in: Gennaro Lerda V. (ed.),
From “Melting Pot” to Multiculturalism. The Evolution of Ethnic Relations
in the United States and Canada, Bulzoni Editore, Roma, 1990, pp. 25-53.
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8. Simpson M.G., Making Representations. Museums in the Post-Colonial
Era, Routledge, London, 1996, p. 73 e seguenti e p. 81 e seguenti.
9. Vergo P. (ed.), The New Museology, Reaktion, London, 1989; Karp I.,
Lavine S.D. (ed.), Exhibiting Cultures. The Poetics and Politics of Museum
Display, Smithsonian Institution Press, Washington D.C., 1991. Macdonald
S., Expanding Museum Studies. An Introduction, in: Idem (ed.), A Companion to Museum Studies, Blackwell, Malden/Oxford, 2006, pp. 1-12.
10. Sandell R. (ed.), Museums, Society, Inequality, Routledge, London, 2002;
Janes R.R., Conaty G.T. (ed.), Looking Reality in the Eye. Museums and Social Responsibility, University of Calgary Press, Calgary, 2005.
11. Nel frattempo la ricerca storica sulle migrazioni si è sviluppata come
ramo indipendente e consolidato della scienza della storia. Bade K.J. et
al. (ed.), Enzyklopädie Migration in Europa. Vom 17. Jahrhundert bis zur
Gegenwart, Ferdinand Schöningh, Paderborn, 2007.
12. Hoelscher S., Heritage, in: Macdonald S. (ed.), A Companion to Museum Studies, Blackwell, Malden/Oxford, 2006, pp. 198-218, p. 201.
13. Dicks B., Culture on Display. The Production of Contemporary Visitability, Open University Press, Maidenhead, 2003.
14. Korff G., Roth M., Einleitung, in: Idem (ed.), Das historische Museum.
Labor - Schaubühne - Identitätsfabrik, Campus, Frankfurt am Main, 1990,
pp. 9-37, p. 22.
15. A beneficio della chiarezza, mi riferisco a immagini e scenografie molto esplicite. Tuttavia, i motivi presentati erano sostanzialmente riscontrabili anche in configurazioni astratte, in oggetti singoli e fotografie, in metafore linguistiche o in elementi della narrazione generale. Con questo non
intendo assolutamente suggerire che le esposizioni si orientano su un unico motivo, ma piuttosto che i motivi si integrano e si intersecano, comparendo in primo piano una volta l’uno, una volta l’altro
16. Baur J., Musealisierung der Migration, op. cit., 2009; Baur J., Einwanderungsmuseen als neue Nationalmuseen. Das Ellis Island Immigration Museum und das Museum “Pier 21”, Zeithistorische Forschungen, 2, n. 3, 2005,
pp. 456-467.
17. Mezzadra S., Lo sguardo dell’autonomia, in: Kölnischer Kunstverein
et al. (ed.), Projekt Migration, DuMont, Köln, 2005, pp. 26-29.
18. Baur J., Zur Vorstellung der Grenze. Beobachtungen aus nordamerikanischen
Migrationsmuseen, in: Gottwald M., Klemm M., Schulte B. (ed.), KreisLäufe.
Kapillaren der Weltkultur, Lit, Münster, 2007, pp. 91-103.
19. “Nazionalismo metodologico”, un’espressione pronunciata in modo critico, riconducibile ad Anthony D. Smith e divulgata nel dibattito tedesco
soprattutto da Ulrich Beck (dettagli esaustivi in: Beck U., Macht und Gegenmacht im globalen Zeitalter. Neue weltpolitische Ökonomie, Suhrkamp,
Frankfurt am Main, 2002, pp. 84-94), designa quella prospettiva di ricerca socio-scientifica che implicitamente o esplicitamente ritiene che il moderno stato nazionale (e la sua società) rappresenti la naturale forma sociale e politica del mondo moderno e, con essa, un autorevole sfondo d’osservazione. In riferimento alla ricerca sulla migrazione, consultare la panoramica critica in: Wimmer A., Glick Schiller N., Methodological Nationalism and Beyond. Nation-State Building, Migration and the Social
Sciences, Global Networks, 2, n. 4, 2002, pp. 301-334.
20. La necessità di concepire migrazione e turismo come un unico insieme viene sottolineata in: Holert T., Terkessidis M., Fliehkraft. Gesellschaft
in Bewegung - Von Migranten und Touristen, Kiepenheuer & Witsch,
Köln, 2006.
21. Così argomenta anche lo studioso delle culture Iain Chambers: “Il viaggio implica un movimento tra punti fissi, un luogo di partenza, un punto di arrivo e la conoscenza di un itinerario. [...] Al contrario, migrazione
indica un movimento in cui né i luoghi di partenza né quelli di arrivo sono immutabili o sicuri. Essa impone di vivere con lingue, storicità e iden-
34
tità soggette a cambiamento costante” (Chambers I., Migration, Kultur, Identität, Stauffenburg, Tübingen, 1996, p. 6).
22. Irit Rogoff usa questa rappresentazione come punto di partenza di un’ulteriore ampia osservazione sulle valigie nel museo (Rogoff I., Terra Infirma.
Geography’s Visual Culture, Routledge, London, 2000).
23. Pomian K., Der Ursprung des Museums. Vom Sammeln, Wagenbach,
Berlin, 1998, pp. 73-90.
24. Ibidem, p. 50.
25. Beck U., Kritik des Multikulturalismus, in: Kölnischer Kunstverein et
al. (ed.), Projekt Migration, DuMont, Köln, 2005, pp. 270-271; Teo, HsuMing, Multiculturalism and the Problem of Multicultural Histories. An
Overview of Ethnic Historiography, in: Teo, Hsu-Ming, White R. (ed.), Cultural History in Australia, University of New South Wales Press, Sydney,
2003, pp. 142-155; Mesa-Bains A., The Real Multiculturalism. A Struggle
for Authority and Power, in: Anderson G. (ed.), Reinventing the Museum.
Historical and Contemporary Perspectives on the Paradigm Shift, Altamira Press, Walnut Creek, 2004, pp. 99-109.
26. Anderson M., Collecting and Interpreting the Material Culture of Migration, in: Summerfield P.M. (ed.), Proceedings of the Council of Australian
Museum Associations Conference. Perth (WA) 1986, Western Australian Museum, Perth, 1987, pp. 107-111, p. 109.
27. Si veda http://tenement.org; inoltre: Baur J., Standpunkte und Standorte. “Points of Departure” in drei New Yorker Immigrationsmuseen, in:
Hampe H. (ed.), Migration und Museum. Neue Ansätze in der Museumspraxis, Lit, Münster, 2005, pp. 71-82.
28. Horn S., Mörchen S., Migrationsgeschichte(n) im Museum - Museale
Erinnerungslandschaften und Vermittlungsperspektiven, in: Schönemann
B. et al. (ed.), Museum und historisches Lernen, Wochenschau, Schwalbach, 2006, pp. 70-92, p. 74 e seguenti. Si veda anche il progetto “Villa
Global” di Jugendmuseums Schöneberg, http://www.villaglobal.de.
29. Si veda http://www.migrationmuseums.org/web/uploads/Finalreport_En.pdf.
30. Etwa Hoerder D., Cultures in Contact. World Migrations in the Second
Millennium, Duke University Press, Durham, 2002.
31. Urban A., Migrations-Geschichten im Museum. Die Ausstellung “hier
geblieben - Zuwanderung und Integration in Niedersachsen 1945-2000”,
in: Alavi B., Henke-Bockschatz G. (ed.), Migration und Fremdverstehen.
Geschichtsunterricht und Geschichtskultur in der multiethnischen Gesellschaft, Schulz- Kirchner, Idstein, 2004, pp. 154-162, p. 159.
32. Korff G., Fragen zur Migrationsmusealisierung. Versuch einer Einleitung, in: Hampe H. (ed.), Migration und Museum. Neue Ansätze in der
Museumspraxis, Lit, Münster, 2005, pp. 5-15, p. 7.
33. Hein H.S., The Museum in Transition. A Philosophical Perspective,
Smithsonian Institution Press, Washington D.C., 2000. Beier-de Haan R., Erinnerte Geschichte - Inszenierte Geschichte. Ausstellungen und Museen in der
Zweiten Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2005, p. 180 e seguenti.
34. Prußky C., Zuwanderer an die Unis. Soziologe Ralf Darendorf fordert
Migrantenquote, Spiegel Online, 21.9.2007.
35. Fehr M., Kurze Beschreibung eines Museums, das ich mir wünsche, in:
Rüsen J., Fehr M., Ramsbrock A. (ed.), Die Unruhe der Kultur. Potentiale
des Utopischen, Velbrück Wissenschaft, Weilerswist, 2004, pp. 197-206.
36. Maggiori dettagli in: Baur J., Die Musealisierung der Migration, op. cit.,
2009, pp. 358-363.
37. Clifford J., Museums as Contact Zones, in: Idem, Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1997, pp. 188-219.
38. Beck U., Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus - Antworten auf Globalisierung, Frankfurt am Main, 1997, p. 53.
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Il Museo dell’emigrazione
portoghese*
Maria Beatriz Rocha-Trindade e Miguel Monteiro
Un esame dei percorsi dell’emigrazione
In qualsiasi processo internazionale di emigrazione,
dal punto di vista del singolo individuo, di un’intera famiglia o dal più ampio punto di vista di gruppi e di movimenti collettivi, è importante comprendere ogni tappa
di un determinato itinerario di emigrazione, vale a dire
ogni fase del processo di migrazione, dal momento in cui
esso comincia, il suo sviluppo, fino alla sua conclusione.
Per essere compresi appieno, questi itinerari emigrativi dovrebbero includere una raccolta il più possibile completa delle conoscenze sulla storia del paese di origine,
ossia sul contesto della regione e dei luoghi in cui sono
vissuti i migranti prima di prendere la decisione irreversibile di partire.
È particolarmente importante capire le condizioni di
vita quotidiane, quelle lavorative, lo stato socio-economico
dei singoli individui e delle rispettive famiglie e le loro
prospettive di crescita sociale ed economica e, infine, la
quantità e l’affidabilità delle informazioni disponibili sia
riguardo all’opportunità di emigrare verso una determinata destinazione sia relativamente ai vantaggi e ai possibili problemi derivanti da tale decisione.
Per quanto riguarda il contesto del paese del migrante
e del luogo di origine è importante capire i passaggi e le
motivazioni che portano alla decisione finale di emigrare: documenti ufficiali da consegnare, impegni a breve o
lungo termine a cui dover far fronte, formalità da sbrigare per quanto riguarda la gestione delle proprie risorse
personali (proprietà, terreni e affari) oppure le provvigioni
a sostegno delle famiglie che non accompagnano coloro
che emigrano in un paese straniero.
Il successivo momento del percorso riguarda il trasferimento in quanto tale. Mentre oggi, in caso di emigrazione
legale, si tende a prestare scarsa attenzione a questa parte del processo, le cose erano ben diverse in passato nel
caso dei viaggi transoceanici, che potevano durare anche
diversi mesi e comportavano grossi rischi per la salute, il
benessere e la sicurezza dei passeggeri. Questa fase della migrazione comprende il viaggio dal luogo di residenza dell’emigrante al porto d’imbarco, con gli eventuali
ritardi sulla data di partenza della nave. All’arrivo nel nuovo paese, è necessario sbrigare nuove formalità amministrative e legali ed è possibile che alcuni migranti debbano dover proseguire il viaggio per raggiungere la destinazione finale. Queste fasi possono richiedere tempo,
confondere e stancare. Viceversa, se i nuovi arrivati vengono accolti da parenti o conoscenti locali, il processo può
risultare notevolmente semplificato.
In genere si distingue tra l’entrata del migrante in un
nuovo paese e l’arrivo alla sua prima destinazione, che
corrisponde alla fase in cui egli trova un alloggio (seppur temporaneo), si mette alla ricerca del primo lavoro e
avvia il disbrigo delle formalità per ottenere i documenti per poter risiedere in modo permanente nel nuovo
paese. Questo processo tende a essere più lungo nel caso dell’immigrazione clandestina. Un periodo di residenza viene qualificato come “soggiorno prolungato” quando l’individuo rimane nel nuovo paese di residenza per
un periodo di tempo abbastanza lungo, durante il quale
lo raggiungono gli altri membri della famiglia, quest’ultima cresce e si abitua gradualmente allo stile di vita e ai
costumi della società che la ospita. Il percorso di migrazione può terminare in uno dei tre modi seguenti: con la
sistemazione definitiva nel paese ospitante, con il ritorno nel paese di origine quando l’emigrazione ha deluso
le aspettative o, infine, con una situazione ibrida fatta di
periodi di residenza alternati fra il paese di origine e il
paese ospitante.
I musei sull’emigrazione e l’immigrazione
La migrazione è essenzialmente un processo doppio
nel senso che riguarda implicitamente due paesi diversi. Riguarda il migrante che ha un duplice ruolo legale:
quello di emigrante, dal punto di vista del suo paese di
origine e dei suoi connazionali, e quello di immigrante
agli occhi delle autorità e dei cittadini del paese in cui
va a risiedere. I musei della migrazione tentano di rispecchiare questa duplice realtà (emigrazione e immigrazione) secondo il contesto nel paese ospitante o in quello di provenienza dei migranti. A questo proposito, i pae-
* Museums Devoted to Migration: the Portuguese Emigration Museum (O Museu Português da Emigração), by Maria Beatriz Rocha-Trindade and Miguel
Monteiro. In MUSEUM international, LIX(59), 1-2 / 233-234, pp. 145-150, 2007 © UNESCO 2007. Used and translated by permission of UNESCO.
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si la cui popolazione è essenzialmente costituita da immigrati sono interessati particolarmente a dedicare i propri musei dell’immigrazione alla vasta gamma di nazionalità che hanno ospitato. Anche i residenti di origine straniera possono avere lo stesso interesse, in quanto possono avere una motivazione abbastanza forte verso la creazione e il mantenimento di uno spazio museale dedicato ai propri connazionali che si sono trasferiti nel loro
stesso paese. D’altra parte, i paesi che sono tradizionalmente fonti di emigrazione tendono a creare musei
dell’emigrazione a seguito di decisioni prese da governi
centrali, regionali o provinciali. Questi musei concentrano
l’attenzione sui propri connazionali emigrati all’estero, verso destinazioni che presentano uno stretto rapporto con
alcune regioni del proprio paese di cui molti emigrati sono originari. In genere questi musei si rivolgono alle generazioni più giovani al fine di consentir loro di cogliere l’importanza culturale, sociale ed economica delle ondate migratorie nella storia del loro paese, della loro regione o sito, sia perché molti dei loro concittadini hanno iniziato da qui il viaggio (musei dell’emigrazione), sia
perché numerosi stranieri vi si sono stabiliti (musei
dell’immigrazione).
Un ulteriore motivo per aprire questi musei è quello
di consentire ai discendenti degli emigrati di raccogliere
informazioni e dettagli personali sui propri antenati, sotto forma di documenti individuali, genealogie e dati diversi sui loro paesi e sulla cultura di origine. In questo
senso non vi è alcuna distinzione tra musei dell’emigrazione e musei dell’immigrazione. Quello che segue è un
elenco incompleto delle diverse categorie di musei della
migrazione [per quanto riguarda i musei italiani si veda
l’articolo di Maurizio Maggi a pagina 1 di questo numero di Nuova Museologia (N.d.R.).].
Musei dell’immigrazione
Musei nazionali
• Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration, Palais de la Porte
Dorée, Parigi (Francia)
• Ellis Island Immigration Museum, New York (Stati Uniti)
• Pier 21 National Immigration Museum, Halifax (Canada)
• Memorial do Imigrante-Museu de Imigração Moca, San Paolo
(Brasile)
• The Immigration Museum, Melbourne (Australia)
Musei delle comunità di immigrati
• Portuguese-American Historical Research Foundation on
Portuguese Roots, Franklin, North Carolina (Stati Uniti)
• Museu da Imigração Japonese, Liberdade, San Paolo
(Brasile)
• Memorial of Polish, Italian and Ukrainian Immigration,
Curitiba, Paraná (Brasile)
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Musei dell’emigrazione
Musei nazionali
• Museu da Emigração e das Comunidades e Luso-Descendentes, Fafe, Minho Interior (Portogallo)
• Utvandrarnas Husin (Casa degli emigranti),Våxjö, Smäland
(Svezia)
• Norsk Utvandrermuseum (Museo norvegese degli emigranti),
Hamar (Norvegia)
• Icelandic Emigration Centre, Skagafjörour (Islanda)
• Deutsches Auswanderer Haus, Bremerhaven (Germania)
Musei regionali o locali
• Museo de la Emigracion - Fundacion Archivo de Indianos,
Colombes, Astúrias (Spagna)
• Museo da Emigração Açoreana, Ribeira Grande, S. Miguel,
Azzorre (Portogallo)
Il Museo dell’emigrazione: comunità e discendenti
portoghesi
La decisione di aprire il Museo dell’emigrazione (Emigration Museum: Comunidades e Luso-Descendentes) a Fafe, nel Minho Interior, in Portogallo, è stata presa dal Consiglio comunale di Fafe nel 2001. Fin dalla sua apertura
il museo ha collaborato regolarmente con il Centro de Estudos das Migrações e das Relações Interculturais (Centro
di studi sulle migrazioni e sulle relazioni interculturali) del
Portogallo, con la Casa da Cultura de Porto Seguro in Brasile e con la Federação das Assiciações Portuguesas (Federazione delle associazioni portoghesi) in Francia. È
l’unico museo nazionale portoghese dedicato all’emigrazione e la sua esistenza è pienamente giustificata dal fatto che più di 5 milioni di portoghesi vivono all’estero, l’equivalente della metà della popolazione residente in Portogallo (10 milioni).
Il museo si propone di esplorare il fenomeno dell’emigrazione, le motivazioni per cui alcuni individui lasciano il proprio paese di origine e i motivi di coloro che
fanno ritorno a casa. Un approccio adottato dal museo
è l’utilizzo di nuove tecnologie, in grado di gestire grossi volumi di dati, per semplificare il processo di identificazione degli emigrati in ogni tipo di situazione. La fonte di informazioni è costituita da dossier pubblici e privati, come i registri municipali e gli archivi nazionali. I
dati vengono inseriti in un data base nazionale che identifica e segue gli emigrati e le comunità portoghesi in tutto il mondo. Queste tecnologie vengono utilizzate per
ricostruire “storie di vita”, grazie a donazioni ricevute dal
museo, vale a dire le destinazioni, i motivi del ritorno
in patria, gli itinerari dei migranti e dei loro discendenti, le modalità di ottenimento dei documenti necessari.
Conservando questo genere di memoria storica e sociale, il museo diventa un luogo in cui ordinare, conservare
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e gestire informazioni per ulteriori ricerche, incoraggiando di conseguenza lo studio dei luoghi in cui si sono stabiliti gli emigrati e dei luoghi in cui sono tornati,
ponendo un accento particolare sull’architettura industriale,
commerciale e filantropica, sul giornalismo, sulle associazioni e le arti, e sugli scambi di idee fra il Portogallo e i paesi di destinazione.
Il museo si definisce come un webmuseum, vale a dire una piattaforma d’informazione che facilita la ricerca
e la divulgazione per un pubblico costituito da emigrati,
dai loro discendenti, da associazioni e da studiosi, attraverso un approccio descrittivo, analitico, interattivo e di
rete. La sezione virtuale del museo è organizzata in sei
sale dedicate a specifiche tematiche, come descritto più
avanti. La sezione di supporto fisico e materiale include
il dipartimento degli archivi, l’edificio del museo, diversi centri museologici e i siti storici.
La Sala della Memoria descrive le destinazioni verso cui gli emigranti si sono diretti e i paesi cui hanno
fatto ritorno. Fra i temi discussi vi sono l’architettura,
la divulgazione delle idee, le politiche pubbliche in campo economico, sociale e culturale e nei contesti urbani e rurali, la filantropia e l’influenza che questa ha avuto sui modelli sociali di comportamento e sulla vita privata.
La Sala della Diaspora presenta un data base organizzato
per regioni geografiche (Europa, Nord America, Africa, Asia,
il Pacifico, Brasile e il resto del Sud America) che permette
di individuare le comunità portoghesi sparse nel mondo.
La Sala delle Origini contiene informazioni genealogiche e consente di accedervi. Queste informazioni sono
supportate da altre fonti documentali, quali informazioni sulle famiglie e sulle “storie di vita” dei componenti delle famiglie.
La Sala delle Comunità è dedicata alle comunità immigrate in Brasile, Europa, Nord America, Africa, Sud
America e Asia. Fornisce informazioni sulla loro storia, sulla vita e il lavoro e sui legami che hanno mantenuto con
i paesi d’origine.
La Sala della Lingua Portoghese illustra l’impatto che
la vita e il lavoro dei singoli hanno avuto nella diffusione della lingua portoghese nel mondo, e mette in evidenza
le principali espressioni della cultura e dell’arte portoghese
dal tempo della conquista delle colonie portoghesi e di
quando Rio de Janeiro divenne capitale del regno, sino
a oggi.
Nella Sala della Conoscenza è possibile consultare opere scientifiche sulla colonizzazione e sui fenomeni migratori e i visitatori possono accedere ai documenti, agli
autori e agli istituti di ricerca. Il sistema informatico è
organizzato per argomenti e per settori di ricerca.
La Casa del Museo è un museo e una biblioteca storica sull’emigrazione. Le varie sale descrivono le origini,
gli itinerari e la vita degli emigranti. Vi sono esposti oggetti personali che ricostruiscono le vite quotidiane delle ricche famiglie di emigrati che hanno fatto ritorno dal
Brasile, mettendo in evidenza i processi di migrazione e
la mobilità sociale.
La scelta della posizione dell’edificio, le sue caratteristiche architettoniche, le decorazioni e il mobilio interno ne sottolineano l’importanza all’interno di un contesto urbano e nella storia delle famiglie brasiliane nella vita pubblica e privata. Il suo aspetto riflette la cultura portoghese tra il XIX secolo e la prima metà del XX secolo.
I centri museologici e i siti storici sono spazi tematici visitabili che danno forma a un museo a molte facce il
cui fine è quello di valorizzare i differenti siti e gli elementi materiali associati all’emigrazione. A Fafe i centri
espongono materiali ed espressioni simboliche relative sia
agli emigrati in Brasile sia a quanti hanno fatto ritorno in
patria. Essi contribuiscono a dare forma alle diverse sezioni del museo: l’idroelettricità, la filantropia, l’industria,
il turismo, la casa brasiliana, l’istruzione, le arti, la stampa e i media, le ferrovie e le automobili.
Gli archivi storici tentano di recuperare documenti e
oggetti utilizzati dagli emigrati e dai loro discendenti e sollecitano donazioni per il museo. Comprendono documenti esplicativi e descrittivi come lettere, diari, fotografie, oggetti personali, la ricostruzione di ambienti legati
ai processi di migrazione. Una particolare attenzione è rivolta verso alcuni tipi di documenti raccolti e archiviati:
registri di imbarco delle navi passeggeri, liste di passaporti
rilasciati, registri delle partenze e degli ingressi in un
paese straniero, permessi di soggiorno e di lavoro concessi, contratti di lavoro stranieri, censimenti della popolazione, elenchi e rilevamento di immigranti: tutte testimonianze importanti per il museo della migrazione.
Il museo offre inoltre un servizio di assistenza in grado di facilitare la pianificazione e la realizzazione di ricerche sulle origini di una data persona e la raccolta di
informazioni sui luoghi di origine, di favorire contatti e
di organizzare attività. Esso fornisce anche la possibilità
di collegamenti con centri di informazione e documentazione: collezioni di documenti, lavori di ricerca in corso, biografie specializzate, informazioni sulle esposizioni temporanee con tematiche culturali ed educative,
informazioni su convegni scientifici e su incontri culturali e sociali.
Infine, il Centro di ricerca del museo, i cui specialisti
studiano la migrazione da diversi punti di vista, è coordinato da un professore universitario specializzato in
questo settore.
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Con l’intento di integrare pienamente il Centro in un
network internazionale, si è cercato di instaurare un legame permanente tramite protocolli di intesa con centri
di ricerca nazionali e stranieri, e in modo diretto con specialisti nello studio dell’emigrazione portoghese.
Maria Beatriz Rocha-Trindade è professore di sociologia alla Open University in Portogallo. Miguel Monteiro è professore associato al College of Fafe in Portogallo.
Bibliografia
Alves J.F., 1994 - Os Brasileiros, Emigração e Retorno no Porto Oitocentista. Ed. Aut., Porto.
AA.VV., 2001 - Rapport pour la Création d’un Centre National
de l’Histoire et des Cultures de l’Immigration. Migrance. n.
19 (IV), Éditions Mémoire Génériques, Paris.
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Commissão Nacional para as Comemorações dos Descobrimentos Portugueses, 2000 - Os Brasileiros de Torna-Viagem
no Noroeste de Portugal. CNCDP, Lisbona.
Leite J.C, 1987 - Emigração Portuguesa: a Lei e os Números. Análise Social, 23 (97) 3°, pp. 463-80, 1987.
Monteiro M., 1991/2004 - Fafe dos ‘Brasileiros’, 1860-1930.
Perspectiva Histórica e Patrimonial. Ed. Aut., Fafe.
Monteiro M., 1996 - Migrantes, Emigrantes e ‘Brasileiros’ - Territórios, Itinerários e Trajectórias. Instituto de Ciências Sociais, Braga.
Rocha-Trindade M.B., 1993 - Iniciação à Museologia. Universidade Aberta, Lisbona.
Rocha-Trindade M.B., 2002 - Musealizar as Migrações. História (Por Terras Estrangeiras. Emigração e Imigração em Portugal). Lisbon, vol. 24, n. 42, febbraio, pp. 58-63 (3a serie).
Rocha-Trindade M.B., 2006 - Literature and Cinema in Migration Museums. AEMI Journal, vol. 4, Aalborg, Danimarca.
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Mobilitare le comunità
e trasmetterne le storie*
Padmini Sebastian
L’immigrazione è una particolarità importante nell’Australia contemporanea. A partire dalla Seconda Guerra
Mondiale, quasi 6 milioni di persone sono immigrate in
Australia: a oggi, dei quasi 21 milioni di australiani, uno
su quattro è nato all’estero. La Nuova Zelanda e il Regno
Unito sono i principali paesi di provenienza degli immigrati. La comunità australiana è, ed è sempre stata, assai
varia. A partire dalle antiche origini indigene fino alla colonizzazione britannica e all’immigrazione internazionale,
l’Australia ha acquisito un’eredità etnica e culturale ricca
e variegata.
Nel presente articolo il termine “comunità” si riferisce
a persone con origini culturali e linguistiche diverse, che
contribuiscono attivamente alla creazione del nostro tessuto sociale, culturale, politico ed economico. Il Museo
dell’immigrazione di Melbourne collabora con le comunità dello Stato del Victoria, diverse per cultura e lingua,
al fine di documentare, raccogliere e presentare storie ed
esperienze di immigrazione e di diversità. Al cuore del nostro programma “Community Connections” vi è la volontà di formare una comunità piena di vita, unita e sostenibile. Il nostro operato contribuisce al raggiungimento
di questo obiettivo principale. L’immigrazione, la diversità e l’identità sono state in primo piano sulla scena politica e sociale fin dall’inizio del XIX secolo. Mentre la politica dell’assimilazione era stata sempre un elemento
chiave in Australia, l’attuazione di politiche di integrazione
risale agli anni Sessanta. Le politiche multiculturali sono
entrate a far parte del quadro politico e sociale australiano
negli anni Ottanta. Oggi viviamo in un contesto internazionale di paura e di diffidenza nei confronti della “differenza”. L’Australia si sta muovendo verso più severe restrizioni dell’immigrazione e ha subito le conseguenze dell’11
settembre. In un contesto come questo i musei devono
esercitare un ruolo attivo nel promuovere rispetto e comprensione, e nell’educare e informare i cittadini sui vantaggi offerti dalla diversità e dalla differenza. Il ruolo dei
musei come il Museo dell’immigrazione ha una grande importanza nel creare contatti con le comunità e nel riflettere la società variegata in cui viviamo. Il museo è anche
un luogo di dibattito in grado di informare sui vantaggi
dell’immigrazione e della diversità. Attraverso il dialogo
e la discussione, si creano le opportunità per far conoscere e modificare l’ambiente in cui si vive, per incoraggiare il dialogo in seno alle comunità e per giocare un ruolo nella trasformazione della società.
Il Museo dell’immigrazione
La fondazione del Museo dell’immigrazione è stata un’iniziativa del governo dello Stato del Victoria. È uno dei due
musei australiani dedicati a esplorare il significato dei fenomeni migratori e la diversità culturale che ne è derivata in
Australia. Per un periodo di circa dieci anni sono stati effettuati studi di fattibilità mentre le pressioni dei rappresentanti delle diverse comunità premevano perché fosse realizzato un museo che consacrasse e celebrasse la diversità culturale della Stato del Victoria.
Questo è uno degli stati australiani con maggiore diversità culturale. Circa un quarto della popolazione è nato
all’estero, mentre il 43,5%, quando non è nato all’estero, ha
almeno un genitore nato fuori dal suolo australiano. Gli abitanti del Victoria provengono da più di 200 paesi, parlano
più di 180 lingue e dialetti e professano più di 110 credo religiosi1. Gli abitanti del Victoria nati all’estero per la gran parte sono venuti in Australia come immigranti nella speranza
di avere una vita migliore per sé e per i propri figli. Un numero consistente è arrivato in Australia, e nel Victoria, con
lo statuto di rifugiato: prima europei in fuga a causa della Seconda Guerra Mondiale, in seguito persone che fuggivano
dalle guerre di Indocina e del Sud-Est Asiatico e, più di recente, persone vittime dei conflitti nella ex Iugoslavia, nel Corno d’Africa, in Medio Oriente e in Afghanistan.
I musei costituiscono una tribuna che offre l’opportunità
di conoscere il passato e di comprendere come questo continui a influire su ciò che siamo oggi e su quello che saremo in futuro. Il Museo dell’immigrazione è stato aperto nel
1998 come campus del Museo Victoria. Il nostro obiettivo era
quello di creare un museo sulla storia e sull’impatto dell’immigrazione che fosse importante e coinvolgente per le comunità. Per fare tutto ciò, e creare quindi un museo di suc-
* Mobilizing Communities and Sharing Stories: the role of the Immigration Museum in one of the most culturally diverse cities in the world, by Padmini
Sebastian. In MUSEUM international, LIX(59), 1-2 / 233-234, pp. 151-159, 2007 © UNESCO 2007. Used and translated by permission of UNESCO.
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La vera forza del museo risiede proprio nelle molte stocesso in grado di contribuire al ricco capitale sociale e culrie reali e personali che presenta. È da esse che il museo trae
turale del paese, abbiamo scelto di privilegiare le diverse dila sua autorevolezza e la sua integrità. Si tratta di una dimensione
mensioni dell’immigrazione, vale a dire le sue numerose
rispettata e di notevole valore, e ogni reazione da parte del
esperienze e influenze attraverso il tempo e le diverse culvisitatore la rende ancora più potente.
ture, piuttosto che sviluppare un museo basato sulla storia
dell’insediamento di determinati gruppi culturali o solo su una
Diversità, non partecipazione e l’approccio del Museo
storia cronologica.
dell’immigrazione
L’opuscolo per i visitatori del Museo dell’immigrazione
Il punto in discussione delle istituzioni culturali che opesottolinea quanto segue: “L’esperienza dell’immigrazione rirano all’interno e a favore della diversificata popolazione auguarda la partenza, il viaggio e l’arrivo. Il Museo dell’immistraliana deve essere la relazione che esiste tra queste istigrazione esplora ogni elemento che ha a che fare con l’abtuzioni e le popolazioni di visitatori, di collaboratori e di sobandono di un luogo per stabilirsi in un altro, con tutte le
stenitori, diverse per cultura e lingua. Noi, in quanto musei
sue più ampie varie implicazioni, compresa l’interpretazioe agenzie culturali, dobbiamo dare fiducia, instaurare relane dell’immigrazione all’interno di un contesto di popolamento
zioni durevoli con le comunità e creare esperienze che uniindigeno, con gli effetti e gli scambi che essa produce. I proscano le comunità stesse e che creigrammi del museo fanno appello ai
no in esse una eco. Una ricerca rericordi, alle emozioni e alle storie
cente ha indicato che le persone proper evocare in modo forte le esperienze
venienti da comunità diverse, a sedell’immigrazione e coinvolgere il viconda di quando sono arrivate in
sitatore. È risaputo che tali esperienAustralia, sono meno inclini a parze possono essere comprese al metecipare alle attività culturali. È integlio attraverso storie personali che
ressante considerare i seguenti dati
nondimeno riflettono tendenze e instatistici:
terazioni più ampie e sfidano le ver• il 13,3% della popolazione austrasioni storiche tradizionali. Questo
liana è nato in paesi non anglofoni;
museo parla di assenza e di presen• il 16,7% degli abitanti del Victoria,
za. L’atto migratorio implica il partipari a circa 800.000 unità, è nato in
re, il lasciarsi alle spalle cose e perpaesi non anglofoni;
sone e il portarsi appresso un baga• il 36,4% degli abitanti del Victoria
glio più “culturale” che “fisico”. Il
ha almeno un genitore nato in un paeMuseo dell’immigrazione, attraverso
se non anglofono; secondo lo studio
il contenuto e la metodologia dei
demografico meno del 49% di tutti i
suoi programmi, cerca di portare alresidenti nello Stato del Victoria può
la luce voci inascoltate, rettificare
sostenere con certezza di avere tutti
squilibri storici e sfidare le presunzioni
e 4 i nonni nati in paesi anglofoni2.
più radicate riguardo a razza ed etnia [...]. Riconoscendo e dando importanza alla nostra diversità divenIn generale si sa perché la parL’esperienza delle famiglie Chen e Wang è un racteremo una società più tollerante”.
tecipazione culturale di comunità
conto epico di separazione e riunione che coinvolPer unificare i diversi aspetti
culturalmente e linguisticamente dige cinque generazioni. Wei Wang è australiano da
dell’organizzazione e dei programmi
verse è limitata. In primo luogo, vi
quattro generazioni: i suoi antenati sono arrivati
del museo è stato sviluppato un obietsono coloro che sarebbero interessati
in Australia durante la corsa all’oro del 1850.
tivo generale della comunicazione. La
a partecipare ad attività artistiche ma
frase che segue costituisce il principio fondamentale dell’inne sono impediti da varie barriere, come la mancanza di infortero programma del museo: “Vi è una storia d’immigrazione
mazioni o la difficoltà di accesso alle reti che forniscono infornella vita o nelle vicissitudini familiari di ogni australiano non
mazioni circa le attività e le manifestazioni. Altre barriere posindigeno”. Questa affermazione ispira l’intero allestimento
sono essere costituite dagli orari, dalle tariffe, dalla localizdell’esposizione, le attività educative, i programmi per il
zazione delle manifestazioni, dalla segnaletica, dall’assenza
pubblico, le strategie di marketing e di promozione. Favoridi materiale bilingue e infine dall’atteggiamento dello staff
sce inoltre nei nostri visitatori l’esplorazione delle esperiendelle istituzioni. Una seconda spiegazione è che le comunità
ze personali e familiari.
non vogliono impegnarsi o partecipare quando ciò che pre-
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sentiamo è considerato non interessante o non importante.
Infine vi sono coloro che non sono affatto interessati. Mentre la conquista di tale pubblico richiede il massimo delle risorse e del tempo, è solo il tipo di approccio al pubblico quello che darà i migliori risultati a lungo termine. I maggiori successi a questo riguardo sono stati quelli ottenuti da molti progetti di sviluppo culturale delle comunità che hanno concesso
sia il tempo che l’impegno necessari per instaurare una partecipazione più significativa e a lungo termine3.
I musei devono quindi prestare molta attenzione al loro
approccio e al loro atteggiamento nel lavoro con le comunità, e devono investire nelle risorse per ottenere una partecipazione significativa.
“Sono arrivato mezz’ora prima della chiusura. Improvvisamente mi sono ricordato di non aver fatto la mia preghiera
pomeridiana (sono musulmano). Ho quindi chiesto al personale se potessi mettermi in un angolo a pregare e loro sono stati davvero molto gentili e disponibili”4.
Come mostra questo esempio, il nostro approccio alla diversità è globale: non solo offriamo uno spazio per la riflessione
personale e per esperienze trascendentali, ma vogliamo che
tutti coloro che lavorano o collaborano con il Museo dell’immigrazione siano molto comprensivi, disponibili ad ascoltare e a imparare dai visitatori. Siamo molto aperti nell’instaurare rapporti con comunità diverse per lingua e cultura. Ma,
allo stesso tempo, siamo coscienti che non possiamo rappresentare tutto per tutti in una sola volta, e che è quindi importare adottare un approccio a lungo termine che consenta di instaurare rapporti approfonditi. Collaboriamo con le
comunità nel creare e presentare insieme un certo numero
di iniziative.
Il programma “Community Connections” del Museo
dell’immigrazione
Uno dei principali metodi seguiti per “coinvolgere” le comunità nell’elaborazione di programmi e nell’esplorazione
del nostro variegato patrimonio culturale è il programma “Community Connections”. Si tratta di un modello che favorisce
la collaborazione, l’integrazione e la partecipazione fedele
alla definizione che il compianto Stephen Weil, del Centro
educativo e di studi museologici dello Smithsonian, ha dato dei musei e del contributo che essi possono dare alla società. Secondo Weil “i musei hanno la capacità di trasmettere il sapere, stimolare la ricerca, sviluppare le capacità, offrire esperienze estetiche o pratiche, rafforzare i legami comunitari, stimolare l’ambizione personale, fornire nuove
prospettive, influenzare gli atteggiamenti, modellare il comportamento, trasmettere valori, creare rispetto [...] e molto
altro ancora”5. “Community Connections” è un programma
annuale di mostre e di festival realizzati dalla comunità e per
la comunità. Si tratta di un approccio strategico e mirato a
sviluppare attivamente le nostre relazioni e collaborazioni
con le comunità al fine di condividere storie, racconti, esperienze e tradizioni. L’intento del programma è di collaborare con le comunità per creare qualcosa che altrimenti non
esisterebbe. “Community Connections” assiste inoltre le comunità, sia quelle consolidate sia le nuove con risorse limitate,
affinché realizzino il loro potenziale attraverso la partecipazione
alla realizzazione di progetti culturali. È un forum in cui la
comunità può assumere un ruolo di guida nell’organizzare
la propria partecipazione e il proprio contributo, soprattutto nel caso dei festival. Questi ultimi sono eventi della durata di un giorno organizzati dai rappresentanti di una comunità. Vengono programmati con due o tre anni d’anticipo e sono preparati attraverso consultazioni regolari con le
comunità. Questi eventi rappresentano un’occasione per
esplorare le varie tradizioni delle comunità e celebrare eventi significativi della loro storia, come è avvenuto per i
trent’anni dell’insediamento vietnamita in Australia (2005) o
per il quarantesimo anniversario dell’immigrazione dalla
Turchia (2007).
“Ancora una volta, grazie per il vostro sostegno in questo fantastico evento. Non vedo l’ora di collaborare ancora
con voi per organizzare il festival per i festeggiamenti dei 40
anni dell’insediamento dei rifugiati vietnamiti nel Victoria!
Il prossimo fine settimana tornerò al Museo dell’immigrazione
con degli amici a vedere la mostra. “Nhan Quyen”, un giornale vietnamita, ha pubblicato un articolo sulla mostra e sul
festival nel numero di questa settimana”6.
A volte sono le comunità che propongono un progetto
al museo, altre volte siamo noi che cerchiamo la collaborazione dei vari gruppi e dei rappresentanti delle comunità. Incoraggiamo la partecipazione e il contributo intergenerazionale e intercomunitario. Gran parte di questo lavoro viene
svolto grazie a volontari, quindi è importante che il museo
si dimostri flessibile e adattabile. Tuttavia forniamo una struttura e un contesto entro cui sviluppare e presentare i festival, e, fra le altre cose, anche un supporto amministrativo.
Il festival degli abitanti delle isole del Pacifico ha riunito quattordici comunità della regione per lavorare insieme
all’elaborazione del programma. Un comitato di quaranta persone si è riunito per decidere e organizzare gli eventi e le
attività. Il museo ha invece fornito il personale, il finanziamento e altri aiuti per realizzare il progetto. Gran parte dei
partecipanti e dei visitatori dell’evento non aveva mai visitato il Museo dell’immigrazione prima di allora. Dopo questo festival abbiamo continuato a lavorare con i rappresentanti delle comunità per discutere nuove opportunità di mostre e di collaborazione con i giovani. Inoltre cerchiamo segnali di interesse da parte di gruppi e spingiamo i gruppi stessi a concepire e a proporre progetti per mostre. Una commissione formata da rappresentanti dello staff del museo e
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rappresentanti delle comunità seleziona le mostre sulla base della rappresentatività, del sostegno e dei pareri delle diverse comunità. Comunque forniamo sempre un riscontro e
una spiegazione alle comunità i cui progetti non vengono scelti e le sproniamo a riprovare. Continuiamo a rivedere questa procedura in modo da incoraggiare la partecipazione e
non erigere barriere.
“Siamo stati in grado di condividere e di celebrare storie
importanti riguardanti le tradizioni e la storia della nostra
comunità. Credo che uno dei risultati più significativi della
mostra sia dato dal fatto che le donne con abilità nelle tecniche tradizionali del ricamo e della tessitura si siano sentite valorizzate, probabilmente per la prima volta in Australia”7.
Il fatto di concepire e di presentare le esposizioni delle
comunità in un ambiente di fiducia e di comprensione reciproche sfocia in genere in una collaborazione significativa
e permette di comprendere l’importanza degli oggetti personali nella documentazione ufficiale e nella conservazione
della storia australiana. Il valore di questi oggetti deve essere considerato alla luce del processo continuo di registrazione
e di documentazione della ricca e diversa esperienza dell’immigrazione in Australia e della diversità culturale. Queste esposizioni permettono di iscrivere la cultura materiale delle comunità nella storia australiana e contribuiscono così alla formazione del patrimonio culturale dello stato.
“Nel 2005 ho fatto parte di un gruppo che ha organizzato,
progettato e studiato una mostra intitolata “Benvenuti nella
mia casa”. L’idea della mostra è venuta da un piccolo gruppo di bosniaci che volevano presentare la loro comunità relativamente recente al resto della società australiana. Attraverso storie di viaggio e preziosi souvenir, ci siamo presentati per la prima volta nel modo giusto e con dignità”8.
Per le comunità il Museo dell’immigrazione è un luogo
neutrale. Molti dei gruppi che creano questi programmi non
hanno mai lavorato prima su progetti del genere. I festival
e le mostre uniscono i giovani e gli anziani di ogni comunità, esplorano la loro eredità culturale e le loro tradizioni,
e soprattutto offrono un luogo che favorisce la crescita personale, la consapevolezza di sé, il rispetto e il benessere degli individui nell’ambito delle comunità stesse. I gruppi della stessa etnia non sono tuttavia omogenei: in essi coesiste
una diversità di lingua, di religione, di costumi, di classe e
di appartenenza politica. Quando il museo lavora con questi gruppi comunitari incoraggia sia l’espressione, sia la presentazione di queste differenze.
Un esempio interessante è dato dal festival dello Sri
Lanka tenutosi presso il Museo dell’immigrazione nel 2004
per il quale gruppi etnici e religiosi hanno lavorato separatamente per sviluppare un programma di eventi e attività. Tuttavia, nel giorno stabilito si sono trovati al Museo dell’immigrazione per presentare un festival ricco, vario e aperto a
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tutti che è stato ben accolto da tutti i gruppi all’interno della comunità. Più di 1500 persone di questa comunità hanno
preso parte all’evento. Sia la comunità sia il museo lo hanno considerato un festival di successo che ha unito la comunità
e ha consentito l’interazione interreligiosa ed etnica.
Ogni comunità con cui collaboriamo ha esigenze uniche
e diverse. Noi valutiamo di continuo il modo con cui collaboriamo con ciascuna di esse e definiamo un quadro flessibile al fine di poterci adattare alle esigenze e alle capacità
di ogni comunità.
La chiave del successo del programma “Community Connections” del Museo dell’immigrazione sta nella nostra volontà di metterci in secondo piano e consentire alle comunità di sviluppare programmi che abbiano una rilevanza dal
punto di vista culturale e riflettano le aspirazioni della comunità. Sono passati ormai nove anni dalla nostra apertura
e il nostro rapporto con le comunità dello Stato del Victoria,
diverse per lingua e cultura, è in costante crescita. Ciò è rispecchiato dalle oltre 50 comunità che in modo attivo hanno creato programmi e mostre presso il museo e dal profilo dei visitatori, il 54% dei quali è nato all’estero.
I musei e le organizzazioni culturali si trovano in una posizione privilegiata per favorire i cambiamenti politici; ciò può
non avvenire immediatamente, tuttavia siamo in grado di portare le persone a considerare punti di vista diversi e di influenzare quindi un cambiamento politico. Il nostro lavoro
al Museo dell’immigrazione non è ancora finito e le storie non
si sono ancora concluse. Il nostro è un lungo viaggio assieme alle comunità che presentiamo e con le quali collaboriamo.
Poiché sia la società sia le comunità evolvono, noi musei dobbiamo rispondere al cambiamento e continuare a reinventarci in modo da essere partecipanti attivi e importanti della vita delle comunità.
Padmini Sebastian è direttore del Museo dell’immigrazione di
Melbourne.
1. Dati dal Censimento del 2001 dell’Ufficio statistiche australiano. Il 14°
Censimento nazionale della popolazione e delle abitazioni ha avuto luogo il 7 agosto del 2001. Sono stati utilizzati dati del Censimento del 2001
dell’Ufficio statistiche australiano in relazione alla popolazione e alla diversità etnica (www.abs.gov.au).
2. Ibidem.
3. Si veda: Migliorino P., Cultural Perspective, Sydney, Australia, 2006; www.culper.com.au.
4. Commento di un visitatore del museo, aprile 2006.
5. Weil S.E, Rethinking the Museum and other Meditations, Smithsonian
Institution Press, Washington D.C., 1990.
6. Organizzatore del festival vietnamita, 2005.
7. Rappresentante della comunità Punjabi del Victoria, 2002.
8. Organizzatore della mostra della comunità bosniaca, 2005.
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Significato di un museo
delle migrazioni in Germania*
Aytac Eryilmaz
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la Germania ha conosciuto numerose ondate di migrazione, e nel paese sono iniziati diversi processi di integrazione. Tuttavia è necessario separare la Germania dell’Est da quella dell’Ovest
dal momento che questi due paesi hanno avuto una storia
differente. Si possono identificare sette tipi di processi di immigrazione1.
L’immigrazione in Germania dopo la Seconda Guerra
Mondiale
Il primo tipo di immigrazione riguarda i profughi tedeschi, gli esiliati e i deportati nel corso del periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale all’inizio degli anni
Sessanta. Vi erano circa diciotto milioni di tedeschi che vivevano nelle province orientali del III Reich, e nelle enclave tedesche situate in diversi paesi dell’Europa orientale, centrale e sudorientale; di essi circa 14 milioni fuggirono, furono espulsi o deportati verso la Germania Occidentale negli
anni 1945 e 1946. In quella che era la Repubblica Federale
Tedesca, influenti organizzazioni di esiliati rivendicarono
per decenni il diritto di tornare nei paesi d’origine mentre
nella Repubblica Democratica Tedesca il “problema del reinsediamento” rimase un tabù per non creare attriti con i paesi dell’Est confinanti. Nel frattempo, grazie alla sviluppo
dell’economia che ebbe luogo nel periodo in cui la Germania conobbe il suo miracolo economico, si assistette a un miglioramento del livello di integrazione sociale ed economica di questi rifugiati ed esiliati. Ciò avvenne anche per i circa 2,7 milioni di immigrati provenienti dalla DDR che si installarono nella Germania occidentale fra il 1949 e il 1961,
anno in cui fu costruito il Muro di Berlino.
Il secondo tipo di immigrazione, o migrazione operaia,
iniziò dopo il 1955. In quell’anno la Repubblica Federale firmò
accordi per il reclutamento di lavoratori con l’Italia e successivamente con Spagna, Grecia, Turchia, Portogallo, Marocco, Tunisia e Iugoslavia. Accordi di cooperazione per il
reclutamento di lavoratori vennero presi anche con la Repubblica
di Corea. La costruzione del muro di Berlino pose fine al flusso dei lavoratori dalla Repubblica Democratica, il che ebbe
l’effetto di indurre la Germania occidentale a reclutare mi-
lioni di immigrati dall’Europa sudorientale – i cosiddetti “lavoratori invitati”– per far fronte alle necessità di manodopera. Nel periodo compreso tra la fine degli anni Cinquanta e
la fine del reclutamento dei lavoratori nel 1973, entrarono nella Repubblica Federale circa 14 milioni di lavoratori stranieri. Di essi circa 11 milioni fecero ritorno nei paesi d’origine,
mentre gli altri rimasero in Germania, raggiunti, poco dopo
il loro arrivo, dalle loro famiglie. Anche la Repubblica Democratica accolse un piccola quantità di lavoratori stranieri
a seguito di accordi governativi. Nel 1989, circa 190.000 stranieri lavoravano ancora nella DDR, la maggior parte nelle industrie. Di essi circa 59.000 provenivano dal Vietnam e
15.000 dal Mozambico.
Una terza categoria di immigrati è formata da rifugiati e
da richiedenti asilo politico, rappresentati per la maggior parte da comunisti e socialisti in fuga dalla Grecia nel periodo
della guerra civile, dalle dittature militari di Spagna e Portogallo, e dal Cile dopo la caduta del governo Allende. Nel 1980,
a seguito del colpo di stato in Turchia, giunsero in Germania migliaia di richiedenti asilo politico. Il risultato fu che nel
1988 in Germania vi furono oltre 100.000 richieste di asilo
politico, che divennero quasi 260.000 nel 1991 per salire a
440.000 nel 1992. Nel 1993, a causa di questo afflusso crescente il governo limitò la concessione dell’asilo politico. Dopo questa data il numero delle richieste d’asilo decrebbe gradualmente fino alla cifra di 28.914 nel 2005.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta
si accrebbe il numero dei cosiddetti reinsediati (Aussiedler),
vale a dire immigrati di etnia tedesca provenienti dall’Europa dell’Est, ma i cui antenati avevano lasciato la Germania
prima del XX secolo. Questo tipo di immigrazione, che costituisce la quarta categoria, è da considerarsi un ritorno al
paese d’origine. Fra il 1959 e il 2002, più di 4 milioni di questi immigrati arrivarono in Germania (prima nella Germania
Federale, poi nella Germania unificata). La maggior parte di
essi, oltre 2,9 milioni, giunse su suolo tedesco dopo il 1987,
in corrispondenza dei periodi della glasnost e della perestroika.
Fino al 1987, i paesi di origine degli Aussiedler furono soprattutto la Polonia e la Romania, a cui si aggiunse dopo il
1990 l’ex Unione Sovietica.
* The Political and Social Significance of a Museum of Migration in Germany, by Aytac Eryilmaz. In MUSEUM international, LIX(59), 1-2 / 233-234, pp. 127-136,
2007 © UNESCO 2007. Used and translated by permission of UNESCO.
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La quinta categoria di immigrati è costituita dagli ebrei
provenienti dall’ex Unione Sovietica, un fenomeno relativamente nuovo per la Germania. Nel luglio del 1990, il Consiglio dei ministri della Germania dell’Est dichiarò che gli
ebrei perseguitati avevano il diritto di trovare asilo nella DDR.
A seguito di questa dichiarazione, fino all’aprile 1991 circa
50.000 ebrei sovietici presentarono domanda di residenza
permanente. Nel periodo compreso tra l’apertura delle
frontiere con i paesi dell’Europa orientale e la fine del 2003
altri 180.000 ebrei lasciarono l’ex Unione Sovietica per trasferirsi definitivamente in Germania. Gli Aussiedler venuti
dall’Europa dell’Est e gli immigrati di origine ebraica hanno goduto di sussidi grazie a un fondo pubblico per l’immigrazione e l’integrazione socio-economica. Ciò non è
avvenuto invece per i Rom provenienti dall’Europa orientale, che costituiscono la sesta categoria di immigrati. Secondo le stime ufficiali, circa 250.000 rifugiati Rom, provenienti da Romania, ex Iugoslavia e Bulgaria entrarono in Germania tra l’inizio del 1990 e il 1993, anno in cui entrarono
in vigore le nuove leggi sul diritto d’asilo. L’allargamento
delle frontiere dell’Europa e il simultaneo inasprimento dei
criteri per la concessione delle domande d’asilo determinarono
la crescita del numero di immigrati irregolari; questi ultimi
sono oggi in Germania quasi un milione e costituiscono la
settima categoria di immigrati.
Recenti statistiche sull’immigrazione in Germania sono state fornite dall’Ufficio federale di statistica (Statistisches Bundesamt); nel 2005, per la prima volta in Germania, un minicensimento ha tenuto conto della “popolazione proveniente dall’immigrazione”. Secondo questo censimento a questa
popolazione appartengono 15,3 milioni di persone su un totale di 82 milioni di abitanti della Germania, ovvero il 19%
circa del totale, di cui il 9% è rappresentato da non tedeschi
e il 10% da cittadini tedeschi.
Il significato della storia delle migrazioni in una società
di immigrazione
Uno degli aspetti essenziali dell’esistenza umana consiste
nella capacità di narrare la propria storia, di comunicare la conoscenza alle generazioni successive, rendendole capaci di
prendere in mano la propria vita e la propria storia. Più i bambini ascolteranno i genitori parlare del proprio passato e della
propria vita quotidiana, più sarà facile per loro dominare il proprio futuro. Per questo una delle nostre preoccupazioni principali è quella di rendere visibile la storia degli immigrati, che
spesso è relegata al ruolo di racconto familiare. Qui tuttavia sorgono alcuni interrogativi: come viene ricordata la migrazione
e da chi? La migrazione è rappresentata nella società? E se sì,
in che modo? Quali rappresentazioni e quali stereotipi devono essere rimessi in discussione, e quali punti di vista devono
essere privilegiati?
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La maggior parte dei giovani immigrati ha solo una conoscenza frammentaria del passato della propria famiglia a causa dell’atteggiamento di molti genitori per i quali l’esperienza
della migrazione resta un tabù ed è spesso considerata come
qualcosa di disonorevole. La loro storia è appena rappresentata nella storiografia dei paesi di immigrazione. È per questo
che le generazioni successive che non trovano alcuna traccia
del proprio passato familiare nelle narrazioni storiche, nei corsi di storia a scuola, e nella cultura della società in cui vivono,
hanno difficoltà nel definire la propria posizione nell’ambito di
questa stessa società.
I ricordi sono estremamente fragili. Si attenuano, cadono
nell’oblio, finendo con l’essere rimossi, il che spiega perché sono così difficili da visualizzare. Nondimeno essi sono molto potenti. Possono essere costruiti o rifiutati; li si può ricostruire, rinnovare e immaginare. I ricordi del passato cambiano in continuazione. Anche quando dei gruppi condividono dei ricordi
culturali, i ricordi sono soggettivi e non possono avere un valore generale. Una scienza storica che analizzi i ricordi collettivi giunge a formulare giudizi senza avere una connessione con
la realtà dei fatti. Le esperienze sono individuali, esattamente
come lo sono le fonti storiche, i documenti del passato, gli oggetti e gli scritti. Spesso si ricorda la storia in maniera molto selettiva. Gli avvenimenti storici sono continuamente eclissati
dalle interpretazioni effettuate alla luce degli avvenimenti attuali.
I ricordi culturali riflettono raramente la realtà; più spesso essi
tendono a deformare le esperienze passate e a enfatizzare i bisogni degli immigrati e le loro attuali condizioni sociali.
La voce degli immigrati e quella dei loro figli giocano un
ruolo cruciale nel processo di ricostruzione della loro storia, sia
da un punto di vista culturale, sia da un punto di vista politico. Dopo aver negato per decenni di essere un paese di immigrazione, la Germania è ormai in grado di riconoscere che
gli immigrati e i loro figli costituiscono una nuova identità sociale “transnazionale”. È la loro voce che rende possibile la trasmissione delle conoscenze sulla loro presenza attraverso narrazioni letterarie e racconti di interesse generale. Fino a quando gli immigrati rimarranno degli stranieri esclusi dalla storia,
anche la storia rimarrà loro estranea. Se aspetti della loro vita
quotidiana potranno essere integrati nella storia, che diviene sempre più complessa, questa storia ne risulterà ringiovanita. È così che potrà nascere un nuovo senso di appartenenza.
Le rappresentazioni della storia e i creatori della storia
Ogni giorno i media producono nuove immagini che ci
colpiscono e influenzano la nostra percezione del mondo a
livello sia conscio che inconscio, creando rappresentazioni
soggettive personali che divengono il supporto di riferimento della nostra memoria.
In Germania, l’arte della memoria è strettamente legata
al ricordo di Auschwitz. Nel paese sono onnipresenti il ri-
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cordo dell’Olocausto e dei crimini commessi dal regime nazista, come testimoniano gli agitati dibattiti pubblici sulla responsabilità, la colpa, l’interpretazione storica e la cultura del
ricordo. Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, il nazionalsocialismo fu messo sullo stesso piano dello stalinismo,
e in tutto il paese le polemiche sull’eventuale status di vittime dei tedeschi presero progressivamente un’importanza
considerevole nei racconti e nei dibattiti. Il ricordo del passato è inseparabile dall’identità e dall’interpretazione. La memoria culturale si costruisce attraverso gli archivi, i musei, i
monumenti e i memoriali, come attraverso le giornate dedicate al ricordo di eventi della storia nazionale. La struttura e
il contenuto della memoria culturale riflettono la situazione
politica, sociale ed economica di una nazione. Come sostiene
Jacques Derrida2, “Non vi è nessun potere politico senza il
controllo degli archivi, senza il controllo della memoria”. È
per questa ragione che la storia delle esposizioni e dei musei è strettamente legata alla storia del colonialismo, al concetto di stato-nazione e al capitalismo.
Nel XVIII secolo, i musei erano gli strumenti dell’identità
nazionale. Per una nazione possedere oggetti originali di altre
culture era il mezzo per affermare la propria superiorità. Nel
mondo globalizzato del XXI secolo, in modo particolare in Europa, la storia non può accontentarsi di semplici comptes rendus (accounts) nazionali perché la migrazione gioca un ruolo
fondamentale nelle società europee. “La crisi dell’Europa è una
crisi mentale” fa notare il celebre sociologo tedesco Ulrich Beck,
che spiega senza ambiguità come il problema dell’immigrazione
possa essere risolto nella mente degli europei abbandonando
“il concetto restrittivo di stato-nazione”. In un mondo uniformato e unificato dal mercato globale, nota ancora Beck, la globalizzazione dei rischi e le moderne tecnologie di comunicazione sono una realtà e non esiste alcuna possibilità di un ritorno al passato, “le relazioni di vicinato imposte a tutto il mondo, in cui ciascuno vive in contatto con tutti gli altri, costituiscono la conditio umana dell’inizio del XXI secolo”; e infine
conclude sottolineando che il ritorno a un nazionalismo etnico rivela “non tanto un realismo, ma un retrogrado illusionismo”3. La conoscenza del passato si basa sul lavoro di ricostruzione
della memoria culturale, rispetto al quale le mostre e i musei
rappresentano un elemento determinante.
Il Museo delle migrazioni in Germania
La società transnazionale è una realtà politica e sociale. In
Germania un abitante su cinque ha alle spalle una storia di emigrazione. L’ultimo censimento dimostra che questa percentuale
è destinata ad aumentare, cosicché nel 2010, il 40% delle persone con meno di quarant’anni avrà almeno un parente di origine straniera. Kofi Annan, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, ha recentemente diffuso un rapporto secondo il
quale oggi nel mondo 191 milioni di persone vivono fuori dal
proprio paese d’origine. Come sottolinea lo stesso Annan, è importante capire gli aspetti positivi della migrazione, perché entrambi i paesi, sia quello che espelle, sia quello che accoglie,
ne traggono profitto.
Contrariamente a quanto spesso si pensa, i flussi di migrazione
non sono il frutto di insuccessi storici né sono eccezioni rispetto
al normale svolgimento degli eventi storici, ma sono piuttosto
una caratteristica universale della storia stessa. Questo è l’assunto sul quale si basa il lavoro del Museo delle migrazioni in
Germania4. Fino a oggi la storia delle migrazioni non è mai stata considerata come parte integrante della storia sociale tedesca. Il Museo delle migrazioni si sforza di dare nuova interpretazione
alla percezione dei rapporti fra i movimenti migratori e la storia nazionale. Esso si offre come tribuna per un dibattito appassionante ed estremamente attuale sulle identità, sulla definizione di sé e sull’idea che si ha di se stessi e degli altri, su
un piano sia individuale che sociale. Esso permette una presa
di coscienza delle interconnessioni passate presenti e future fra
le società transnazionali, sia a livello europeo, sia a livello mondiale – al di là di ogni appartenenza nazionale e di ogni considerazione di ordine etnico.
Una rivalutazione storica nel contesto museale può fornire l’opportunità di non presentare la storia come cronologia di
avvenimenti, ma di mostrare la storia delle migrazioni come parte del cambiamento sociale globale e come una delle forze principali di questo cambiamento. Il museo permette di sensibilizzare
la gente verso la realtà sociale. La visualizzazione della storia
delle migrazioni e la trasmissione delle conoscenze sulle migrazioni sono premesse essenziali per una società capace di
integrazione. Un museo, pertanto, non ha per vocazione quella di essere un luogo di celebrazione rituale del ricordo, né di
fare rinascere una fiducia nell’io storico fondata soprattutto su
principi nazionali.
I vantaggi di un museo delle migrazioni risiedono in una
utilizzazione dello spazio che permetta di valorizzare la natura ibrida delle concezioni della vita culturale. In una società di
immigrazione le identità si fondano sull’etereogenità, sul superamento delle frontiere e sullo scambio interculturale. Le storie familiari, in gran parte cadute nell’oblio, vengono rivalutate nel corso di dibattiti pubblici e trasferite dal contesto sociale a quello culturale, politico e accademico.
Il Museo delle migrazioni è quindi concepito come centro polifunzionale che lavora sulla storia, sull’arte e sulla cultura dei fenomeni migratori. Esso è composto da uno spazio
museale, da un centro di documentazione, da un forum scientifico e da un museo virtuale. Lo spazio museale comprende
un’esposizione permanente sulla storia e sulla realtà delle migrazioni, una collezione storica e le esposizioni temporanee.
L’esposizione permanente è concepita secondo un approccio
interdisciplinare ed espone punti di vista diversi. Il museo cerca così di attrarre, non solo una élite colta, ma anche un va-
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sto pubblico internazionale e soprattutto gli stessi immigrati. Il
servizio di accoglienza dei visitatori gestisce una boutique e propone visite guidate alle esposizioni in diverse lingue. I musei
devono infatti suscitare anche un interesse turistico. Il futuro
dei musei – e in particolare quello del Museo delle migrazioni – risiede non tanto nella creazione di nuove esposizioni, quanto nell’elaborazione di nuovi contenuti capaci di favorire un
approccio critico del pubblico, e nell’essere luoghi adatti alla
riflessione e alla comunicazione più che centri di svago.
Il forum scientifico interdisciplinare è dedicato a dibattere
soggetti legati alla storia contemporanea e alla tradizione culturale di una società ad alto tasso di immigrazione; esso opera in rete con istituzioni scientifiche locali e internazionali.
Il museo virtuale da parte sua presenta su internet gli oggetti principali delle esposizioni. Grazie a un sistema di registrazione 3D-zoom delle esposizioni è possibile esplorare la storia e la situazione attuale dei movimenti migratori e accedere
alle informazioni più recenti.
Il Centro di documentazione sulle migrazioni (DOMiT)
Il Centro di documentazione e Museo delle migrazioni
(DOMiT)5 fu fondato nel 1990 da un piccolo gruppo di intellettuali turchi, tutti immigrati, allo scopo di preservare la memoria della migrazione turca in Germania. Esso ha l’obiettivo
di presentare questi movimenti di migrazione come parte integrante della storia tedesca, di conservare il patrimonio degli
immigrati e di renderlo accessibile al pubblico non solo per la
ricerca, ma anche per dare a loro e ai loro discendenti l’occasione di affermare la propria identità, e farne partecipe la società tedesca nel suo insieme. Dal 2002 questa collezione storica, sociale e culturale è cresciuta notevolmente e oggi include documenti e materiali relativi ai paesi d’origine sia dei “lavoratori ospiti”, sia dei “lavoratori a contratto”. Il risultato è una
collezione unica di documenti sulla storia dell’immigrazione verso la Germania proveniente da Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ex Iugoslavia, Marocco, Tunisia, Repubblica di Corea, Vietnam, Mozambico e Angola.
Il DOMiT ha quattro diversi campi di attività, e cioè:
1. costituire un fondo di archivio e una collezione di oggetti relativi alla storia dell’immigrazione a partire dagli
anni Cinquanta;
2. sviluppare progetti di ricerca su questo tema;
3. realizzare esposizioni storiche;
4. organizzare conferenze e gruppi di lavoro.
Il DOMiT è un’associazione privata di pubblica utilità regolata dalla legge tedesca. Le sue attività sono finanziate sulla base di progetti ben definiti, attraverso le quote associative dei membri, donazioni di privati e un considerevole lavoro
volontario. Fino a ora il DOMiT non ha beneficiato di alcun
finanziamento pubblico ufficiale di lunga durata. Esso conta
su nuovi progetti per garantire la propria esistenza.
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Le collezioni del DOMiT
A tutt’oggi il DOMiT è riuscito a formare una collezione
unica di libri, di opere scientifiche, di giornali, di riviste, di
documenti, di fotografie, di film, di registrazioni sonore, di
opuscoli, di manifesti e di ogni sorta di oggetti che riflettono la storia dell’immigrazione in Germania6. Quella del Centro di documentazione è una biblioteca di opere di riferimento
che contiene attualmente 12.000 titoli, di cui circa 4000 sono già consultabili dal pubblico attraverso un date base. Gli
utenti hanno accesso a testi specialistici di sociologia, di storia e di relazioni sociali, di giurisprudenza, di economia, di
educazione, di igiene, di cultura e di geografia. Di particolare interesse sono i giornali e le riviste delle comunità immigrate. Queste pubblicazioni, la maggior parte delle quali
sono scritte nella lingua di origine, sono fonti storiche di grandissimo interesse.
La fototeca contiene collezioni sia di fotografie di donatori privati (la maggior parte dei quali hanno un passato da
migranti), sia di fotografie di professionisti. Le collezioni private permettono di penetrare più a fondo nella vita degli immigrati, aggiungendo aspetti della vita quotidiana alla rappresentazione complessiva che si fa dell’immigrazione. Inoltre, fotografi professionisti hanno ceduto al DOMiT copie (a
stampa o digitali) di singole immagini o di serie di fotografie relative al tema della migrazione. Attualmente è possibile consultare 4500 immagini grazie a un data base nel quale sono classificate per parole chiave, tematiche, luoghi, date ecc. La videoteca contiene videocassette VHS, DVD e pellicole che illustrano la storia delle migrazioni o sono state prodotte da persone con un backgroung da migrante. La collezione comprende documentari, produzioni artistiche, film, registrazioni di eventi, notiziari, materiale didattico e filmati pubblicitari.
L’archivio del materiale sonoro contiene interviste, programmi musicali e radiofonici. A partire dalla metà degli
anni Novanta, il DOMiT ha incominciato la raccolta di interviste biografiche a immigrati, sia a persone inserite nel
loro ambiente sociale, sia a individui che rivestono ruoli
particolari, come gli impiegati dell’Ufficio federale del lavoro o i militanti nelle organizzazioni di migranti. Queste
testimonianze completano la storia delle migrazioni che appare nei testi scritti. L’archivio sonoro comprende anche
una raccolta delle musiche maggiormente diffuse tra gli immigrati, dalle canzoni tradizionali dei paesi d’origine alle
nuove forme musicali che emergono a seguito dell’esperienza legata all’emigrazione. È rappresentato un ampio spettro di generi musicali: canzoni folk, inni nazionali, ballate
popolari dei “lavoratori ospiti”, canzoni di protesta, grandi successi, musica pop e molto altro.
La collezione di documenti scritti è composta, per la
maggior parte, da documenti inerenti al reclutamento, al la-
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voro, alle condizioni di vita, alle attività culturali, alla partecipazione politica, alle attività sindacali, alle pratiche religiose,
al mantenimento delle tradizioni, alla vita associativa e altro.
Un esempio tipico del materiale raccolto è rappresentato dalla corrispondenza tra gli immigrati e le autorità, documenti
personali necessari per l’ingresso nel mondo del lavoro, documenti di identificazione di vario tipo, contratti di lavoro,
rapporti interni, diari, resoconti di viaggio, regolamenti di ostelli per lavoratori, volantini. In occasione della preparazione
di diverse esposizioni, il DOMiT ha raccolto una cospicua collezione di oggetti legati alla vita quotidiana, come, per esempio, mobilia recuperata dagli ostelli per immigrati e abiti tradizionali. Oggetti propri della devozione religiosa si trovano accanto a ricordi dei paesi d’origine, mentre i primi oggetti di consumo acquistati con il primo salario percepito in
Germania riflettono i desideri e le aspirazioni degli immigrati
che sono, complessivamente, molto simili a quelli dei tedeschi loro contemporanei. Le storie di questi oggetti riprendono vita nei racconti dei loro proprietari.
Nel gennaio 2003, il Centro di documentazione del DOMiT ha conosciuto una nuova fase di sviluppo con l’adozione
di un software per data base chiamato FAUST. Da quel momento gli inventari sono stati riorganizzati operando il trasferimento dei dati dai vecchi data base al nuovo sistema. Questo lavoro, tuttora in corso, è destinato a proseguire per un
certo tempo. FAUST permette ai visitatori di cercare immagini digitalizzate, documenti sonori e testi. La maggior parte delle immagini e dei documenti aggiunti alla collezione
dopo il 2003 è già stata digitalizzata; oltre a questo, molti oggetti sono stati fotografati, il che permette agli utilizzatori di
individuarli attraverso una semplice ricerca sul data base. Fino a ora, circa un terzo delle interviste rilasciate da immigrati
o da persone legate al mondo dell’immigrazione è stato digitalizzato e reso disponibile nel data base FAUST, con riassunti e informazioni supplementari. Queste raccolte sono molto usate da studenti, giornalisti e curatori di museo per la realizzazione delle esposizioni. Anche artisti e registi cinematografici trovano ispirazione per le proprie opere esplorando la varia ricchezza del nostro materiale.
Le esposizioni al DOMiT
Una delle attività più importanti svolte dal DOMiT è la
presentazione della storia dell’immigrazione attraverso mostre temporanee. Nel 1998, il DOMiT ha cooperato con il Ruhrlanmuseum di Essen per la realizzazione di una mostra in due
lingue dal titolo “Fremde Heimat – Eine Geschichte der
Einwalderung aus der Türkei” (La Patria all’estero – Una
storia dell’immigrazione dalla Turchia). Per la prima volta, un
museo riconosciuto e una associazione di immigrati hanno
lavorato assieme con pari dignità nella realizzazione di una
mostra che esponeva sia il punto di vista dei migranti, sia quel-
lo della popolazione tedesca. Questa cooperazione è stata
molto utile per il DOMiT in quanto ha creato molti contatti
con le autorità pubbliche, con archivi e con varie istituzioni. Inoltre il Ruhrlanmuseum è stato capace di attrarre nuovo pubblico. I visitatori per oltre il 30% erano immigrati: un
dato estremamente significativo per una mostra presentata
in una istituzione culturale tedesca. Entrambi i partner hanno tratto notevoli benefici dallo scambio di conoscenze e di
esperienza. In occasione del quarantesimo anniversario della sottoscrizione del primo accordo dell’ottobre 1961 fra il governo turco e quello tedesco per il reclutamento di lavoratori, il DOMiT ha allestito un’esposizione dal titolo “40 Jahre Fremde Heimat. Einwanderung aus der Türkei in Köln”
(Quarant’anni di patria straniera: l’immigrazione dalla Turchia
a Colonia). Basata sulla mostra di Essen e adattata alla storia locale di Colonia, questa esposizione fu esposta nel municipio e fu accompagnata da numerosi eventi.
Dall’ottobre 2002 al febbraio 2006, DOMiT ha fatto parte del progetto “Project Migration”7. Lanciato dal Kulturstiftung des Bundes (Fondazione federale per la cultura), il
progetto aveva lo scopo di descrivere i mutamenti sociali determinati dall’immigrazione e impegnarsi in studi interdisciplinari in più stadi ripartiti su diversi anni. Sotto gli auspici
di questo progetto hanno avuto luogo più di 120 eventi. Questi eventi si sono tenuti al Kolnischer Kuntsverein (Società
artistica di Colonia), a Francoforte, Berlino, Belgrado e Istanbul, oltre che a Creta e in molte altre località europee e hanno illustrato e messo in evidenza le cause e le implicazioni
dei fenomeni migratori.
Il DOMiT recupera e cataloga gli oggetti e i documenti
destinati a essere esposti nelle mostre. In linea di principio,
i ricercatori che lavorano ai progetti espositivi del DOMiT hanno un retroterra da immigrati e parlano le lingue dei propri
luoghi d’origine, ciò al fine di intervistare i protagonisti della prima generazione circa le proprie storie personali e le proprie esperienze nella lingua che questi ultimi preferiscono.
Aytac Eryilmaz è membro del board del Centro di documentazione e Museo delle migrazioni (DOMiT).
1. Bade K.J., Oltmer J., Einwanderung in Deutschland seit dem Zweiten
Weltkrieg (Migrazioni in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale), Projekt
Migration, Dumont, Köln, 2005, pp. 72-81.
2. Derrida J., Mal d’Archive, Editions Galilée, Paris, 1995.
3. “Suddeutsche Zeitung”, 23 maggio 2006.
4. Si veda: www.migrationsmuseum.de, a Colonia.
5. Si veda: www.domit.de.
6. Dokumentationszentrum der Migration (Centro di documentazione sulle migrazioni) DOMiT (ed.), Colonia, 2005.
7. Si veda: www.projektmigration.de.
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LIBRI
a cura di Giovanni Pinna
Musei e beni culturali
Nel mondo attorno a noi osserviamo uno straordinario panorama di bellezza e di diversità
culturale. Negli ultimi anni sono
cresciuti i timori che il progressivo emergere di una cultura unica, favorita dalla globalizzazione
economica e sociale, sia una seria minaccia per questa ricchezza.
Tuttavia la globalizzazione non è
un fenomeno recente e il livello
di diversità nel mondo sembra
relativamente costante nel lungo
periodo. Ma questa diversità esiste perché la globalizzazione non
ha ancora avuto sufficiente tempo per eliminarla o c’è qualcos’altro? In altre parole, la bellezza
che osserviamo è la retroguardia
di un esercito in ritirata o è la
manifestazione visibile di un fenomeno più profondo ma contemporaneo e tuttora vitale? La
domanda è cruciale perché la risposta condiziona direttamente le
politiche culturali. Se si sposasse
la tesi della retroguardia in ritirata, le politiche conservative e di
tutela, attuate in tutto il mondo ma
di cui l’Italia è campione, avrebbero una loro giustificazione. Diversamente, non dovremmo solo
difendere una diversità creatasi, chissà come, in passato, ma preoccuparci di assicurare le migliori con-
Collana di Museologia
edita dall’Editoriale Jaca Book,
diretta da Giovanni Pinna
e pubblicata in collaborazione
con l’Associazione Italiana
di Studi Museologici
Musei alla frontiera
di Maurizio Maggi
Jaca Book, Milano 2009
158 pagine, 18 euro
dizioni per la sua riproduzione
oggi. In analogia con l’analisi dei
sistemi complessi, l’Autore ritiene
che l’emergere di novità culturali sia possibile in condizioni lontane dall’equilibrio, al cosiddetto
“margine del caos” (la frontiera cui
Le massacre des Italiens
di Gérard Noiriel, Fayard, Paris, 2010, 295 pagine, 20 euro
In questo volume lo storico Gérard Noiriel, uno dei pionieri
della storia dell’immigrazione in Francia, racconta di un episodio nero per la storia dell’immigrazione e per molti anni dimenticato:
il linciaggio di almeno otto lavoratori italiani immigrati da par-
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allude il titolo). Tradotto in termini
culturali, si tratta di fornire, ai protagonisti della cultura e ai musei
in primo luogo, uno spazio abbastanza labile da non soffocare
innovazione e creatività, ma al
tempo stesso abbastanza consistente
da permettere l’aggregazione e il
confronto fra novità affini, perché questo rende possibili il consolidamento delle esperienze culturali, la loro riproduzione e diffusione, la loro trasmissione alle
generazioni future, in una parola
la loro evoluzione. Sfortunatamente le politiche culturali contemporanee, soprattutto quelle
dei musei, non rispettano queste
condizioni. Il volume le analizza
attraverso cinque principali tipologie: politiche delle grandi architetture museali, degli eventi,
degli standard museali, del turismo
culturale, delle reti e dei sistemi
museali. Tutte sono assai lontane
dalla “frontiera” e sono orientate
piuttosto a disciplinare, uniformare, banalizzare. Viste sotto il profilo della complessità, si potrebbe
dire che mostrano una tendenza
verso l’equilibrio: una bella parola
nel linguaggio quotidiano, ma un
concetto pessimo per l’evoluzione della vita, anche di quella culturale.
te di operai francesi e di semplici cittadini nelle saline d’AiguesMortes il 17 agosto 1893. Un crimine nato da un moto di follia
collettiva e di una violenza impensabile di cui l’Autore ricostruisce
le cause e le conseguenze, sino al vergognoso processo, che
mandò assolti tutti gli imputati, e al muro di silenzio che le autorità italiane e francesi innalzarono sulla vicenda.
LIBRI
LIBRI
Die Musealisierung der Migration. Einwanderungsmuseen und die Inszenierung der multikulturellen
Nation
di Joachim Baur, Transcript, Bielefeld, 2009, 404 pagine,
34,80 euro
Con questo libro, il cui titolo in italiano risulterebbe “La musealizzazione della migrazione. I musei dell’immigrazione e la
rappresentazione della nazione multiculturale”, Joachim Baur
presenta la prima monografia comparativa a livello internazionale
su ricordo, museo e migrazione. Dopo una delineazione teorica delle problematiche, Baur analizza tre musei della migrazione negli Stati Uniti, in Canada e in Australia – l’Ellis Island Immigration Museum
di New York, il museo Pier 21 di Halifax e
l’Immigration Museum di Melbourne – mostrando come queste istituzioni contribuiscano
a una “revisione” multiculturale della nazione.
Il libro fornisce dunque una rappresentazione
critica di come integrare i ricordi della migrazione in una società dell’accoglienza, affrontando apertamente gli antagonismi correlati e le implicazioni politiche.
All’inizio Baur ripercorre alcuni sviluppi che hanno contribuito alla nascita del
museo dell’immigrazione come istituzione specifica, intravvedendo negli sviluppi contemporanei della Nuova Museologia, della
storia sociale e del multiculturalismo i fattori
che hanno consentito la nascita dei musei
dell’immigrazione. L’Autore scinde opportunamente il proprio oggetto di analisi da esposizioni affini dal
punto di vista tematico e da musei locali e regionali, così da
sottolineare la rilevanza durevole e nazionale di questa speciale
tipologia di museo. Questi musei vanno inoltre distinti dai musei dell’emigrazione, sorti nello stesso periodo ma con diverse connotazioni storiche e politiche. Facendo riferimento al contributo che l’istituzione “museo” presta all’immaginario della nazione, Baur ha quindi formulato la tesi ricorrente del libro, ossia che, sulla base delle mutate condizioni di un mondo globalizzato e una società diversificata, il museo dell’immigrazione promuove nuove idee nazionali.
Nei tre capitoli successivi l’Autore convalida questa ipotesi con studi dettagliati sulla genesi e sull’esposizione permanente dei musei. Nelle rappresentazioni storiche dalla progettazione dei centri museali alla loro apertura, Baur evidenzia,
in particolare, come i conflitti socio-politici e le condizioni generali delle costituzioni influenzino la configurazione ideologica dei musei. L’Ellis Island Museum, nato come partnership
pubblico-privata, si è sviluppato nell’ambito conflittuale tra, da
un lato, lo sforzo patriottico attuato dal governo e dalla direzione e, dall’altro, un’esigenza di critica storico-sociale mossa
dal competente National Park Service e dalla commissione di
storici. Il Pier 21 è stato oggetto di cofinanziamenti statali ma
è sorto da un’iniziativa privata che intendeva tracciare una storia positiva e turisticamente valorizzabile della località, della regione e del Canada. Focalizzato sul turismo, il primo tentativo
di realizzazione di un museo dell’immigrazione a Melbourne
praticato dallo Stato federale australiano di Victoria non andò
a buon fine, mentre centrò l’obiettivo il secondo tentativo, concepito da curatori professionisti e storici con il coinvolgimento di gruppi di immigrati. I musei delle migrazioni sono quindi nati da situazioni diverse; ciascuno di essi concilia a proprio
modo esigenze statali e sociali e si occupa degli eventi specifici dei rispettivi paesi.
I diversi contesti di costituzione hanno inciso anche sulla configurazione delle esposizioni permanenti con cui Baur si confronta in modo critico attraverso close readings
e analisi focalizzate. L’Autore sostiene in modo convincente che Ellis Island costituisce una
storia di successo nazionale dell’immigrazione, in cui la molteplicità degli immigrati
viene ridotta a origine nazionale. Il museo canadese pone al centro dell’esposizione il
multiculturalismo come idea nazionale e la
sua storia viene presentata in modo nostalgico ed emozionale. Nel Museo dell’immigrazione di Melbourne la rappresentazione
degli immigrati e della storia dell’immigrazione
è particolarmente diversificata, benché caratterizzata da un racconto magistrale nazionale. Per tutte le tre esposizioni permanenti Baur illustra la relazione specifica tra multiculturalismo e storiografia nazionale, esponendo abilmente implicazioni ideologiche e problemi
di presentazioni singole e complessive. Infine, la contrapposizione comparativa tenta di rilevare i punti in comune e le differenze dei tre musei e di trarre conclusioni generali su possibilità e limiti della musealizzazione della migrazione.
Il libro Die Musealisierung der Migration fa finalmente il
punto della situazione sulle esperienze e sulle difficoltà connesse all’esposizione dell’immigrazione, integrandone i ricordi in un contesto nazionale. Joachim Baur offre un confronto
storicizzante e al contempo attuale con alcuni dei principali musei dell’immigrazione mondiali. Il fatto che le tre istituzioni prese in esame risiedano al di fuori dell’Europa ha motivazioni storiche e sociali ma non rende meno rilevanti per il contesto europeo le possibilità e i problemi ravvisati della musealizzazione della migrazione. Il libro costituisce un fondamento indispensabile per il dibattito sulla configurazione della musealizzazione dell’immigrazione anche in Europa.
J. Olaf Kleist
LIBRI
Freie Universität Berlin
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Gli archivi del mondo. Antiquaria, storia naturale e
collezionismo nel secondo Settecento
di Maria Toscano, Edifir, Firenze, 2009, 350 pagine, 20 euro
In questo saggio Maria Toscano offre una nuova lettura sulla grande influenza che l’antiquaria esercitò nel variegato microcosmo del collezionismo naturalistico del secondo Settecento
fra quegli eruditi che, partendo dalla diffusione dell’Histoire Naturelle di Buffon, seppero coniugare la teoria con l’applicazione
della pratica. Da questo connubio ecco prendere il via una sistematica campagna di viaggi naturalistici, con la conseguente catalogazione della natura, al fine di una sua più immediata e integrale comprensione. Per afferrare meglio il fenomeno
si parte tracciando un profilo della storiografia naturalistico-antiquaria, che trovò una larga applicazione fra gli antiquari inglesi (Henry Swinburne, William Hamilton, John Strange e
John Hawkins), sull’onda dalle premesse gettate da Francis Bacon che erano state l’elemento portante per la fondazione della Royal Accademy nel 1660. Gli inglesi, pur non disdegnando lo studio del territorio nazionale, visitarono con regolarità
l’Italia importando teorie innovative in grado di sposarsi con
quelle della tradizione italiana, rinvigorite dopo i felici risultati di Galileo Galilei. Uno scambio di conoscenze che allargò
gli orizzonti della conoscenza naturalistica e implementò la passione per il collezionismo naturalistico, con la conseguente diffusione dei gabinetti scientifici. La curiosità degli inglesi si
spinse oltre i luoghi italiani più popolari, contribuendo così alla diffusione all’estero di regioni sconosciute, come per esempio la Puglia, puntualmente descritta sulle pagine nei Travels
in the two Sicilies di Henry Swinburne, due volumi editi in Inghilterra fra il 1783 e il 1785.
Alle nuove idee anglosassoni era ben attento il mondo
scientifico veneto, particolarmente dedito alla comprensione della natura come evidenziano gli studi intrapresi in seno all’ateneo padovano e i contributi a cui veniva dato spazio sulle pagine del “Giornale d’Italia spettante alla scienza
naturale e specialmente all’agricoltura, alle arti e al commercio”,
diretto da Francesco Griselini e dai fratelli Arduino.
Meta prediletta di larga parte di artisti, eruditi, collezionisti e studiosi europei fu il Regno delle due Sicilia, che offriva
un territorio ricco di testimonianze antiquarie e una natura selvaggia e poco conosciuta. Viaggi e studi furono apprezzati e
sollecitati a corte, per via della naturale propensione verso gli
studi illuministici da parte di Ferdinando di Borbone e della
moglie Maria Carolina della casata Asburgo, almeno fino alla
battuta di arresto come conseguenza politica dei tragici fatti
della Rivoluzione francese. Al centro dell’interesse di questi dotti viaggiatori erano sicuramente le rinomate rovine di Ercolano e Pompei, in parte per quelle vestigia del passato che tutti noi conosciamo, ma anche per comprendere meglio quei
fenomeni naturalistici che ne avevano decretato la scomparsa. In generale, però, fu tutto il Regno a essere oggetto di in-
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dagine; si pensi, per esempio, quali poli attrattivi potevano essere i fenomeni naturali di zone particolarmente interessanti
dal punto di vista geologico, quali il Vesuvio e l’Etna, le cui
eruzioni furono puntualmente disegnate e dai quali si asportavano reperti mineralogici prontamente catalogati, studiati e
raccolti in gabinetti dedicati. Il saggio, quindi, offre uno
spaccato alquanto inedito degli ambienti scientifici che si muovevano fra l’Inghilterra, il Veneto e il Regno delle due Sicilie, e traccia un profilo storico-critico su di un significativo
tipo di collezionismo, portando alla luce profili biografici di
personaggi che, mettendo insieme reperti di interesse geologico, paleontologico e archeologico, hanno formato dei gabinetti in cui consumare studi e accogliere visitatori in grado di comprendere e diffondere quella conoscenza.
Maria Maugeri
Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle
installazioni
di Barbara Ferriani e Marina Pugliese, Electa, Milano, 2009,
279 pagine, 35 euro
L’installazione è una delle tipologie di espressione artistica più rappresentative della contemporaneità: con le sue
grandi dimensioni e la sua complessità strutturale ha assunto nel mondo dell’arte un ruolo simile a quello storicamente svolto dai monumenti; ma invece di celebrare valori certi e condivisi, esse sono i monumenti effimeri dell’età contemporanea di cui rappresentano la precarietà e la mancanza di certezze economiche e ideologiche.
Modificando radicalmente i concetti di spazio, tempo e
fruizione, le installazioni sfuggono a ogni rigida categoria qualificandosi come un medium in continua evoluzione. In questo libro, il primo in Italia dedicato alla storia e alla conservazione delle installazioni, dopo un saggio introduttivo di Germano Celant, Marina Pugliese traccia una possibile genealogia di questa tipologia di opere a partire dalle esposizioni
sperimentali di inizio Novecento, mentre Barbara Ferriani tratta il problema degli allestimenti e della conservazione. Approfondimenti sono dedicati alla specificità delle videoinstallazioni
e agli strumenti per la documentazione. La seconda parte del
libro è dedicata alle opere studiate durante il progetto DIC
- Documentare Installazioni Complesse, coordinato dalle
Autrici del libro, promosso dalla Direzione generale PAREC
e dal Museo del Novecento di Milano. Cinque musei italiani sono stati coinvolti per documentare alcune installazioni:
il Museo del Novecento di Milano per Coma di Alexander
Brodsky, il MAXXI di Roma per Il Vapore di Bill Viola, il MART
di Rovereto per Chiaro Oscuro di Mario Merz, la Collezione
Peggy Guggenheim di Venezia per Field Dressing di Matthew
Barney e la Fondazione François Pinault per Untitled di Rudolph Stinger e Franz West, oltre all’Hangar Bicocca per i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer.
LIBRI
MESSAGGIO
PROMOZIONALE
Palazzo Riso, Museo d’arte
contemporanea della Sicilia
Alessandra Raso
“Melania, ogni volta che si entra nella piazza, ci si va in mezzo a un dialogo [...]. La popolazione di Melania si rinnova: i dialoganti muoiono a uno a uno e intanto nascono quelli che prenderanno posto a loro volta nel dialogo, chi in una parte chi nell’altra”.
Italo Calvino, Le città Invisibili
Con la mostra “Sicilia 1968-2008. Lo spirito del tempo” il
Museo d’arte contemporanea della Sicilia inaugura a Palermo
presso Palazzo Riso la sua sede, caposaldo del “sistema” regionale
per la promozione e la valorizzazione dell’arte contemporanea.
La scommessa non è il contenitore, ma
l’attività culturale e di ricerca che esso
egregiamente rappresenta.
L’approccio progettuale adottato per
l’intervento del 2009 ha avuto come leitmotiv il dialogo, un netto e dichiarato
confronto con la preesistenza nel rispetto del passato.
Ciò è stato possibile con l’attribuzione al Palazzo di una nuova destinazione, sostenuta con forza attraverso l’uso
attento dei materiali tradizionali, la scelta accurata degli arredi a disegno e l’enfasi dei simboli.
La progettazione consiste nell’inserimento di un allestimento sempre riconoscibile all’interno dell’involucro storico. I materiali – naturali, come il legno,
il vetro, l’acciaio – si ripetono. Il risultato è quello di uno “spazio attrezzato”. Le
finiture superficiali, derivanti dall’utilizzo di materiali differenti,
sono le più diverse, enfatizzate dall’incidenza della luce spettacolare del luogo. Volutamente non c’è una scelta cromatica ma
un’astensione mai tradita che privilegia il bianco quale sfondo
più neutrale. Ad esso, declinato in una molteplicità di effetti tattili e visivi, si associano superfici specchianti per moltiplicare le
viste senza però aggiungere altro. Il linguaggio è semplice e lineare, personalizzato dalla lieve immagine coordinata di Riso.
L’idea originale è quella di far diventare il Palazzo – con il suo
sistema di corti coassiali – il tassello di unione tra le due anime cittadine. Un “sistema di piazze ascendenti” che permettono di attraversare la Città, dallo storico asse di Corso Vittorio Emanuele alla versatile area del Centro Storico in trasformazione.
I due poli, distanti, esistenti e fortemente connotati, le altre (piazze) nel mezzo tutte da inventare per raccontare una nuova storia,
attrezzate per l’esposizione, luoghi di aggregazione, spazi per l’arte.
L’intervento si è concentrato – per il momento – solo nella porzione
del Palazzo prospiciente piazza Bologni. L’idea vera e propria del
progetto in grado di dare un nuovo respiro all’area e conferire al
luogo una vocazione definitiva legata agli immaginari dell’arte e della contemporaneità è al momento sospesa.
Il visitatore ha come primo impatto il fronte esterno dell’edificio, accompagnato dalle quattro ampie vetrate del locale caffetteria e bookshop. È una messa in scena della nuova vita del Palazzo. Queste
due funzioni sono state organizzate con
estremo garbo: i divisori sono i contenitori e partecipano all’architettura definendone in modo attrezzato la semplice
distribuzione. Il controsoffitto a spirali,
suggerisce altri immaginari, proporziona
gli ambienti e funziona da corretto dispositivo fonoassorbente.
Anche la comunicazione in facciata è
discreta ma estremamente incisiva. Lastre
di vetro opalino portano il nuovo logo di
Riso, discretamente. Attraverso queste fasce opalescenti, che percorrono tutta la
facciata all’altezza dello sguardo diretto, si
intravede sempre la Città, con le sue tinte
forti e il suo movimento. Riso convive con
lo scenario retrostante. In equilibrio. Leggera e scanzonata sovrapposizione.
Questa sovrapposizione di piani è la chiave di lettura di tutto
l’allestimento. Non è mai una stratificazione, gli allestimenti mantengono sempre una “distanza” di rispetto, non esiste l’aderenza
ma un fresco confronto tra storia e nuove vocazioni, che cambiano
sempre cambiando il punto di vista.
Alessandra Raso, architetto, si occupa della progettazione di
spazi per l’arte contemporanea e exhibition design.
Progetto di allestimento: Alessandra Raso, Matteo Raso, Luca Poncellini,
Stefano Testa/CLIOSTRAAT, Torino
Realizzazioni: Bernini S.p.a., Ceriano Laghetto (MB), Tel +39 0296469293,
Fax +39 0296469646, www.bernini.it, [email protected]
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EVENTI
Roma, la pittura di un Impero
Scuderie del Quirinale, settembre 2009 - gennaio 2010,
a cura di Eugenio La Rocca con Serena Ensoli, Stefano
Tortorella e Massimiliano Papini
Per i Greci e i Romani, l’arte principale era la pittura e
non la scultura, come la tradizione neoclassica – e poi accademica – ci ha abituato a pensare. Case affrescate, ritratti, ma anche colombari e scenografie teatrali coloratissime si
contrappongono alla bicentenaria illusione winckelmanniana di un mondo classico senza colore, diafano e, a suo modo, metafisico.
Per la prima volta una mostra illustra al grande pubblico la verità sul mondo antico e fa il punto sullo stato della pittura romana, ben oltre i confini di una città: “Roma,
la pittura di un Impero”. È una mostra “spettacolare”, mi
si conceda il termine, in cui i curatori hanno lavorato su
un doppio registro, tenendo strette scientificità e massima
fruibilità e godibilità delle opere esposte, grazie all’intervento nell’allestimento di Luca Ronconi e Margherita Palli. L’allestimento che, d’abitudine, rischia di diventare debordante rispetto al luogo espositivo, non solo spicca per
attenzione e cura dell’oggetto ma avvolge – e travolge – il
visitatore guidandolo alla conoscenza di quel mondo antico così diverso da come lo immaginiamo. Tutti i pannelli di rivestimento sono blu notte, un colore che con le luci soffuse diventa neutro, non invasivo; numerosi le didascalie e i pannelli didattici, retroilluminati e facilmente
leggibili, oltre che bilingui (italiano e inglese). Queste accortezze danno alla mostra un respiro internazionale.
Veniamo ai lavori esposti, i quali, sebbene prevalentemente parti di decorazioni parietali, non appaiono alla
stregua di frammenti avulsi dal tempo e dal contesto; sono, invece, una splendida testimonianza del modo di concepire lo spazio e la figura nel mondo antico. Percorrono
un arco cronologico che va dal I secolo a.C. e arriva al V
secolo d.C., a volte senza significativi mutamenti di stile che
si mantiene inalterato anche a diverse latitudini. Tra i lavori più interessanti, sicuramente gli affreschi provenienti
dalla Villa Farnesina, a Roma, scoperta nel giardino dell’omonima villa rinascimentale durante i lavori di costruzione dei
muraglioni sul Tevere nel 1879. Secondo alcuni studiosi fu
costruita per le prime nozze di Giulia, la figlia di Augusto,
con Marco Claudio Marcello (25 a.C.), secondo altri per ospitare il giovane Ottaviano prima dello scontro con Antonio
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e Cleopatra (prima del 36 a.C.), secondo altri, infine, era
la villa di Lesbia. Gli affreschi in mostra appartengono al
secondo periodo del II stile pompeiano e provengono
dalle cosiddette “Galleria Bianca” e “Stanza Nera”. Le forme sono eleganti, e sottili elementi dipinti, composti in prevalenza da ghirlande vegetali ed esili candelabri, si stagliano
su uno sfondo assoluto, ora nero, ora bianco, per fare posto in fregi nella parte superiore a scene religiose, vedute
paesaggistiche o scene belliche.
Tra le opere che fanno mondo a sé, al di là della collocazione originaria, la Scena misterica (Nozze Aldobrandini)
di età augustea, Ercole e Telefo (affresco di IV stile proveniente
dalla Basilica di Ercolano del 50-79 d.C.), il famosissimo affresco Le tre Grazie (sempre in IV stile) e Ulisse e le sirene
(50-75 d.C.): il primo affresco godrà di molta fama nel Seicento grazie allo splendore dei colori e alla varietà delle pose, gli altri sono modelli indiscussi dell’arte rinascimentale.
Interessante il settore in cui sono esposti i ritratti a encausto, dall’effetto simile alla pittura a olio. Per la prima
volta sono messi a confronto i ritratti di mummie su legno
del Fayyum con quelli romani a encausto, da ciò si evidenzia
una comunità stilistica oltre che tematica.
L’arte della pittura prevedeva anche lavori a cavalletto
di cui si è persa ogni testimonianza. L’estimatore di arte ottocentesca – e quindi di pittura da cavalletto – non può rimanere indifferente davanti a tali tecniche artistiche, spesso impressionistiche, fedeli alla visione reale al punto da
essere imprecise da vicino per essere completamente leggibili a distanza. Già sono presenti la macchia, le lumeggiature, il chiaroscuro a tratteggio, utili a farci capire la continuità tecnica tra il mondo antico e il mondo moderno.
Due parole infine sullo stato sociale degli artisti. La pittura era amata, ammirata soprattutto quando doveva abbellire le stanze dei ricchi signori, tuttavia, i fautori di questa meraviglia erano stimati come dei semplici artigiani, non
degni di considerazione: la bottega non corrispondeva
certo a quella di un pittore del Rinascimento ma era organizzata
attorno a un imprenditore che si occupava con lo stesso
interesse di pigmenti, di regoli, e dei suoi uomini, liberti
o schiavi, a ognuno dei quali spettava un compito nelle diverse fasi di produzione.
Una mostra scientifica e appassionante, dunque, dove
è difficile rintracciare errori di giudizio o di allestimento.
Laura Fanti
EVENTI