marco venditti - 10 righe dai libri

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marco venditti - 10 righe dai libri
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fanucci
MARCO VENDITTI
NOI CAMPIONI
L’ORGOGLIO DI ESSERE JUVENTINI
Prima edizione: aprile 2013
© 2013 by Marco Venditti
© 2013 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
MARCO VENDITTI
NOI CAMPIONI
L’ORGOGLIO DI ESSERE JUVENTINI
Le mie Juventus
Ho amato tutte le “mie” Juventus, come il primo giorno,
quando ero bambino e avevo conosciuto la signora in bianconero al cinema, nei filmati della Settimana INCOM e sulle figurine della Fidass che ritraevano i suoi giocatori. Molti miei
coetanei simpatizzavano per il Grande Torino. Come pure
mio papà Eligio. Il Torino degli anni Quaranta, quello degli
invincibili, che inanellava scudetti in serie sulla scia della Juventus del leggendario Quinquennio. Un Torino che il CT della Nazionale Vittorio Pozzo (due mondiali e un’olimpiade
vinti) travestì d’azzurro schierando ben dieci granata e uno
juventino (Sentimenti IV) allo stadio Comunale torinese contro l’Ungheria del giovane Ferenk Puskás, il Maradona del
Danubio. Il tifo di mio padre non mi contagiò quando, nel dopoguerra, scoprii il calcio da strada, poi quello da oratorio. Tiravo pedate al pallone cercando di imitare lo stile di Giampiero Boniperti e l’eleganza di Carletto Parola, l’uomo della
rovesciata. Li avevo ammirati sul grande schermo. Un colpo
di fulmine per i due campioni e per la Juventus che, a quei
tempi, doveva inchinarsi alla superiorità dello squadrone
granata.
Avevo poco più di sette anni quando chiesi a papà di regalarmi per Natale la divisa della Juventus. Lui trasalì ma non
fece obiezioni. Lo stupore si disegnò nel suo sguardo allorché gli dissi di portarmi nel negozio di articoli sportivi di Parola e Rava. Mi accontentò, e al cospetto dei due mitici difen7
sori juventini disse: “Sono granata, amico di Gabetto e Ossola, con i quali gioco anche a carte nel loro bar, e guarda cosa
mi tocca fare per mio figlio”. Parola mi regalò un sorriso carico di complicità. Non immaginava che, tre lustri dopo, ci saremmo ritrovati, lui allenatore della Juventus e io giornalista
con il compito di raccontare nuove imprese tinte di bianconero, come i due scudetti vinti da “Nuccio” in panchina e
quello perso, in modo incredibile, nella volata con il Toro, di
nuovo tricolore a ventisette anni dalla tragedia di Superga.
Giocavo a calcio con un gruppo di amici su un prato di periferia, quel livido pomeriggio del 4 maggio 1949. La pioggia
ci costrinse a riparare in un portone. Quando uscimmo in strada, vidi il colle di Superga avvolto in una nuvola biancastra
con chiazze scure. Era il fumo dell’aereo che si era schiantato
nel terrapieno della basilica. Il Grande Torino non c’era più.
Fu la Juventus del presidente Gianni Agnelli a prenderne
il testimone, per tornare a conquistare il titolo italiano a distanza di quindici anni dall’ultimo (1934-’35). Una Juventus
ricca di fuoriclasse, che fece il bis nel 1951-’52. Ci fu, poi, una
lunga astinenza che si interruppe nel 1957-’58 sotto la presidenza del dottor Umberto Agnelli. Ero sugli spalti del Comunale, vestito semplicemente da tifoso, il giorno del debutto in
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campionato del trio composto da Giampiero Boniperti, John
Charles e Omar Sivori. Segnarono un goal ciascuno e la Juventus batté il Verona 3-2.
Fu l’inizio di una splendida cavalcata. Quattro stagioni dopo, al culmine di un ciclo trionfale, Boniperti decise di chiudere la carriera da calciatore, in attesa di iniziare un’altra strepitosa avventura, quella di presidente del club.
E questa è una storia che ho vissuto in prima persona come giornalista. Prima che appendesse le scarpe al chiodo, intervista il calciatore Boniperti. Ero emozionato, ma tra noi ci
fu subito feeling. Un’amicizia che si è cementata nel tempo
anche se non è facile conciliare le esigenze professionali di un
giornalista con quelle di un manager calcistico “condannato”
a vincere sempre.
L’esperienza maturata nella lunga e fortunata carriera di
atleta gli è servita a centrare tutti, o quasi, gli obiettivi. Con
Boniperti alla presidenza, nove scudetti e lo storico Grande
Slam della Juventus, il primo club capace di vincere tutte le
coppe internazionali. Ho raccontato per La Stampa le imprese di quella Juventus “autarchica” che si aggiudicò il primo
trofeo europeo, la Coppa UEFA, accoppiandola allo scudetto.
Per oltre mezzo secolo sono stato testimone delle storiche
pagine, le più belle, scritte dalla Fidanzata d’Italia, il club che
vanta quattordici milioni di fan. Nel 1975 ho avuto il privilegio, unico giornalista, di seguire la Juventus nella tournée
estiva in Brasile. Viaggiavo sul pullman della squadra, avevo
anche libero accesso agli spogliatoi. Parola mi volle addirittura accanto a lui in panchine, nel mitico Maracanà di Rio de
Janeiro, nell’ultima partita. Mi sentivo uno di loro. Una bella
sensazione.
L’amore che continuo a provare per la Vecchia Signora non
mi ha mai condizionato quando indossavo i panni del critico
sulle pagine della Stampa, neppure adesso che, oltre a collaborare con il Processo di Biscardi, sono opinionista per Juventus Channel. Cerco sempre di fare un’analisi costruttiva e
non esito a difendere a spada tratta una società punita ingiustamente da Calciopoli. Per Juventus Channel ho commentato la stagione in B e continuo anche ora sotto la presidenza
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del dottor Andrea Agnelli, con Marotta direttore generale e
Antonio Conte alla guida tecnica. La Juve sta tornando agli
antichi splendori, avendo vinto due scudetti consecutivi (fanno trentuno “sul campo”) e una Supercoppa Italiana.
La Juventus è un patrimonio del calcio italiano e mondiale, per l’apporto dato alla Nazionale e per i successi nelle coppe internazionali, nonché per i suoi Palloni d’Oro: Omar Sivori, Michel Platini (tre), Paolo Rossi, Roby Baggio, Zinedine
Zidane, Pavel Nedved e Fabio Cannavaro. Ai magnifici sette
andrebbe aggiunto Alex Del Piero per il favoloso 1997 e la sua
straordinaria carriera nella Juventus, fabbrica di campioni,
scuola di vita.
Un esempio.
Bruno Bernardi
Le emozioni. La scelta.
La prima sensazione di appartenenza.
Zio Paolo
Con molta nostalgia ricordo, seppur frammentariamente
come fosse la proiezione di una pellicola sbiadita in bianco e
nero, quel lontano pomeriggio dell’inverno del 1964 quando
esplose l’amore per la Vecchia Signora. Ma questa è una storia troppo importante per raccontarla in due parole e credo
che tralasciare particolari e aneddoti sarebbe grave, perciò
vorrei riavvolgere il nastro dei ricordi a qualche mese prima.
Avevo otto anni quando iniziò tutto. È quella l’età giusta
per ricordare le cose più importanti dell’infanzia, che poi ti rimangono scolpite indelebilmente e ti accompagnano nel percorso della vita.
Si era nel pieno della ricostruzione di un Paese felice, denso di iniziative grazie al boom economico già in atto da qualche anno. Un’Italia alla ricerca di identità, una programmazione per le generazioni future. Tanta voglia di fare bene.
L’edilizia popolare, l’avvio di numerosissime opere pubbliche, nuove leggi per l’agricoltura e gli aiuti alle regioni del
Sud attraverso la Cassa del Mezzogiorno.
Il più grande gruppo industriale del Paese, la FIAT, mise sul
mercato la mitica 850 e il Piper di Bornigia e Crocetta stava
per sancire la svolta epocale nel mondo musicale, la morte
delle balere a favore delle chiassose discoteche. Questa novità fece impazzire la generazione dell’epoca e il tempo degli
je-je era ormai arrivato.
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Mentre Gigliola Cinquetti vinceva Sanremo con la canzone Non ho l’età, John Surtees salì sul gradino più alto del podio e si aggiudicò il mondiale piloti e la Ferrari quello costruttori. Il Bologna vinse il campionato e la Juventus si piazzò
quarta alle spalle del Milan di Trapattoni.
Che odori e che sensazioni, ma forse è solo l’incoscienza di
un periodo della vita, quello adolescenziale dove il divertimento e la spensieratezza lasciano poco spazio alle difficoltà
quotidiane. E tra queste mille novità c’era il calcio, ma non capendo cosa fosse ne captavo le prime nozioni seppur in modo frammentario e assai confuso. Qualche immagine in bianco e nero di gare giocate aumentarono la mia curiosità, ma
non certo la mia conoscenza. Lo consideravo uno sport senza emozioni, con fasi di noia assoluta. Quello era il mio giudizio.
Lo zio Paolo, milanista incallito
Non saprei dire se il principale artefice del mio amore per
la Juve fu mio zio Paolo, ma fatto è che i primi contatti con lo
stadio ci furono grazie a lui.
Zio Paolo, tifosissimo del Milan e di Lodetti, la Gazzetta dello Sport sotto il braccio, come il Vangelo per un prete, e un biglietto sempre pronto per la domenica successiva. Credo che
pochi come lui possano considerarsi tifosi veri, preparati e attenti, uno di quelli che di una squadra sanno tutto e di più.
La domenica è sacra e dedicata totalmente alla partita, con le
urla degli amici in quel bar all’angolo con via Cesare Correnti, una sorta di liberazione interiore lì dove le proprie ragioni
vanno dette e manifestate come si deve. Lo frequentavo anch’io quel bar, perché mio zio mi portava con sé e i ricordi sono tanti e frastagliati, ma assolutamente divertenti. Certo è
che quel gruppo di signori, datati e stravaganti, sembrava un
branco di pazzi scatenati e le loro grida le sento ancora oggi.
Calcio e sempre calcio, non si parlava d’altro, e sempre più in
me si faceva strada che quella fosse davvero l’unica disciplina esistente sulla faccia della terra.
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L’identificazione assoluta del calcio, almeno per mio zio,
era rappresentata dal mitico Milan, mentre tutte le altre partecipanti al torneo di serie A non contavano assolutamente
niente. L’Inter rappresentava la seconda squadra della città,
quella degli sfigati, e i derby scatenavano una sorta di coprifuoco nelle ventiquattro ore precedenti la partita. Poi la Juventus. Era vista come la maggiore antagonista dei rossoneri e tra i due mali i bianconeri erano più tollerati ma non per
questo amati.
Casa come un museo
Una prima pagina stropicciata della Gazzetta dello Sport capeggiava nel salotto di casa. Appiccicata con delle semplici
puntine da disegno sulla vecchia carta da parati. Ritraeva una
formazione dell’epoca. Accanto, in una cornice di colore nero, il mitico Lodetti in bella evidenza; la sacralità di quella immagine era tutta nell’autografo riportato a penna. Un vero cimelio da osservare e assolutamente da non toccare. Col
passare del tempo capivo sempre meno perché questi “grandi” si comportassero in quel modo. Mio zio mi spiegava chi
fosse questo o quel giocatore e che importanza avesse questo
Lodetti nel contesto della squadra, ma si capiva da come ne
parlava quanto fosse importante per lui. Un vero idolo. Sotto la foto in un mobile liberty un po’ corroso dal tempo, una
radio a cassettone dell’allora nota marca Geloso, quelle con la
retina giallognola sul diffusore acustico e col famoso occhio
magico di colore verde, che una volta immobile e centrato nel
mirino stabiliva l’esatta sintonizzazione nelle onde medie.
Sparecchiata la tavola si dava dunque inizio e, in assoluto silenzio, all’ascolto di una popolare trasmissione radiofonica
dell’epoca che alternativamente si collegava con tutti i campi
di calcio. Mi sembra di ricordare che trasmettevano solo i secondi tempi. La voce gracchiante si schiariva col passare dei
minuti, rendendo l’ascolto più apprezzabile. Finalmente si
poteva iniziare. Come un grido di guerra veniva annunciato
con enfasi lo sponsor istituzionale della trasmissione e la ten13
sione aumentava in attesa del resto. “Gentili sportivi, la Stock
di Trieste vi invita all’ascolto di... (e poi, in un timbro più alto) Tutto il calcio minuto per minuto”. Quanta curiosità e
quanto divertimento nel vedere la faccia di mio zio, che per
quarantacinque minuti entrava in uno stato di totale ibernazione, emettendo strani mugugni accompagnati da movimenti scomposti di difficile interpretazione solo quando le
cose non andavano per il verso giusto. Una domenica allo
stadio Peppino Meazza e l’altra in casa e questo per un’interminabile stagione, ma tutto ciò mi divertiva, anche se ancora
non avevo identificato con esattezza cosa volesse dire tifo e
appartenenza ai colori di una squadra.
Adesso è giunto il momento di ripartire da quel famoso
pomeriggio d’inverno.
Era il 13 dicembre del 1964, si festeggiava Santa Lucia se
ben ricordo, e già si respirava aria natalizia, però la dominante assoluta era rappresentata dalla partita domenicale. Mio
zio mi portò per la prima volta in trasferta e l’emozione di poter vedere una partita di pallone in un’altra città, in un altro
stadio che non fosse il Meazza, mi elettrizzò a tal punto che
la notte precedente non chiusi occhio.
Partimmo dalla stazione centrale di Milano, questo lo ricordo perfettamente, perché nell’occasione mio zio acquistò in
una bancarella una bandiera tutta per me e un cuscinetto da
stadio col simbolo ben impresso del Milan. Non ho mai capito perché non me l’avesse regalata prima. Fui contento di poter sbandierare quei colori e per tutto il viaggio non feci altro,
ma non avrei mai potuto immaginare che di quella bandierina di stoffa e di quel cuscinetto ne avrei presto fatto a meno.
Arrivammo a Torino Porta Nuova, e la strada a piedi fu
tanta prima di raggiungere lo stadio Comunale, che apparve
davanti ai miei occhi già da lontano, e attraverso gli alberi di
corso Giovanni Agnelli riuscii a vedere la torre, quella che capeggiava nello stadio. Sinceramente non ricordo chi fossero
i giocatori che disputarono quella gara, per me erano delle
persone che correvano dietro una sfera di cuoio. Il miracolo
o l’illuminazione avvenne quasi subito. Rapito da quel cielo
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pieno e intenso di vessilli bianconeri che coprivano per buona parte lo stadio e dallo sventolio continuo senza un solo attimo di sosta, destarono in me una sorta di flash, un amore a
prima vista. E forse solo lì capii cosa volesse dire “appartenenza”. Avevo una gran voglia di essere come tutti quelli che
gridavano quel nome, “Juventus”, che mi dava una sensazione mai provata prima. Eppure di vessilli ne avevo già visti a
sufficienza al Meazza, ma qualcosa esplose dentro di me. La
gara terminò in pareggio, 2 a 2, ma questo me lo raccontò mio
zio, e lo ricordo assai infuriato perché a suo dire il Milan aveva perso molte occasioni per vincere quella partita. Quando
uscimmo dallo stadio ricordo le immagini di tanta gente felice e sorridente, ma non quella di zio Paolo, contrariato e triste. Si urtò quando chiesi in regalo una bandiera della Juventus. Ma mi accontentò. Da quel pomeriggio di quel lontano
1964 mio zio non mi portò più allo stadio, però io diventai
quello che sono oggi... juventino.
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Il mito del Quinquennio
Al termine del campionato 1929-’30 vinto dall’Ambrosiana (denominazione dell’epoca della società Inter FC), il presidente della FC Juventus Edoardo Agnelli convoca nel suo studio il Consiglio di Presidenza per congratularsi della
stagione appena conclusa. Nella riunione che si tenne in
quell’epoca si parlò subito dell’immediata programmazione
per affrontare il successivo torneo con ambizioni di conquista e crescita della squadra. Nello studio di Edoardo Agnelli
siedono il barone Mazzonis, ex giocatore e membro della Juventus, Craveri, unico presidente a rivestire per due volte la
carica (1936-1947), Monateri, Tapparone, Levi e Zambelli. Il
primo punto da affrontare è la sostituzione dell’allenatore
scozzese mister Ajtken che ha deciso di accasarsi alla squadra francese del Cannes; il barone Mazzonis spiega che il sostituto non può che essere Carlo Carcano che essendosi liberato dall’Alessandria in pratica può accordarsi con la
Juventus. Carcano in gioventù ha disputato vari campionati
con l’Alessandria (1913-’24), l’Internaples (1925-’26), e ha disputato anche cinque partite in nazionale siglando un goal.
Carcano è un eccellente preparatore atletico, distaccato e inflessibile con i giocatori, con l’obiettivo della vittoria come
punto fermo della sua preparazione.
Carcano per meglio assemblare il proprio tipo di gioco
punta su Giovanni Ferrari, suo pupillo all’Alessandria; il giocatore ha in mano un’impegnativa del club grigio che lo libe17
ra al termine del torneo 1929-’30. Mazzonis spiega così che
l’ingaggio di Ferrari oltre che proficuo per la squadra è ottimo per le casse sociali, che non devono pagare per il suo trasferimento nessuna cifra alla squadra cedente. Agnelli è d’accordo ma desidera che i rapporti con l’Alessandria siano
ottimi, lo stile e le buone maniere innanzitutto. Il rafforzamento della squadra non termina con Ferrari, arriva anche
Giovanni Vecchina detto “Nane” dal Padova; nativo di Vene-
zia, classe 1902, ottimo centravanti, stazza fisica notevole, tiro secco e preciso, in mediana viene concordato l’acquisto del
mediano della Lazio, Rier. In conclusione della riunione,
Agnelli si informa sul giovane Mosca che ha preferito sacrificare un posto da titolare nella Juventus per gli studi in Medicina. Mazzonis risponde che Mosca è sempre tesserato per
la Juventus, può tornare quando lo desidera. A tale scopo
Agnelli decide di stanziare una cifra per illuminare il campo
d’allenamento sito dietro la tribuna del Campo di Corso Marsiglia permettendo così agli studenti giocatori allenamenti
notturni; pronto per l’inizio della stagione sportiva 1930-’31,
è il primo impianto d’illuminazione di un campo di calcio.
Tutti gli acquisti concordati vanno in porto, la squadra è
solida con Combi in porta, i terzini sono Rosetta e Caligaris,
Varglien I centrale, mentre sulle fasce sono di marcatura i mediani Barale e Rier; il quintetto offensivo orchestrato da Cesarini che di fatto sostituisce Cevenini III trasferitosi al Messina è veramente irresistibile, Ferrari detta i tempi del gioco
mentre le ali Munerati e Orsi corrono come il vento mettendo in mezzo palloni invitanti per il bomber “Nane” Vecchina. Una squadra diretta con sapienza dall’allenatore Carcano, fine psicologo e abile a illustrare la tattica alla squadra.
I nuovi arrivi alla Juventus sono Ferrari, Vecchina, Polliano
Gilberto che proviene dalla squadra Fedelissima Cuneo, Rier
dalla Lazio, e Vollono dalla Triestina. Vengono ceduti Borgo
II (Casale), Cevenini III (Messina), Della Valle (Bari), Merciai
(Fiorentina), Mortaretti (Atalanta), Sanero (Ambrosiana), Viola Joszef (Atalanta), Zanni (Lazio).
Le prime amichevoli si disputano a settembre e vedono
una squadra dinamica e compatta imporsi a Novara contro
la squadra locale (7-0) con Vecchina in veste di goleador (4 reti); poi è la volta del Pavia (6-0), partita disputata a Torino;
vengono quindi travolti gli ungheresi del Budai (6-0) con poker di Cesarini.
La squadra al completo viene invitata da Caligaris nei suoi
vigneti di famiglia in provincia di Casale, la squadra si muove al completo per passare una giornata in compagnia e anche a vendemmiare sotto la sorveglianza simpatica e discreta
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dell’allenatore Carcano, del dirigente Zambelli e del tuttofare
Demaria. Il pranzo è allegro e il moscato va via che è un piacere. Nel pomeriggio visita al Collegio Salesiano della zona
dove tirarono i primi calci oltre che Caligaris anche il casalese
Mattea. Cesarini ricorda la sua giovinezza dicendo di aver
studiato ed essere stato educato dai salesiani, non poteva certo mancare la risposta di Zambelli, simpatica e pungente:
“Non sempre i risultati corrispondono alle intenzioni...”. Alla
sera cena con le specialità gastronomiche di mamma Caligaris, a quelle enologiche, ci pensa papà. Al termine della cena
un brindisi saluta i nuovi Ferrari, Rier e Vecchina, il gruppo si
cementa anche con queste giornate; non può mancare il giuramento finale della squadra che promette al suo allenatore
impegno, concordia e disciplina.
Il campionato inizia con ben otto successi consecutivi, centrando un record ancora valido oggi nel campionato a 18 squadre ma battuto dalla stessa Juventus nel campionato 2005-’06.
Ora il record appartiene alla Juventus allenata da Fabio Capello con nove vittorie consecutive iniziali.
Prende notevole importanza la sfida con la Pro Vercelli disputata alla quarta giornata di campionato, s’impone la Juventus 3-1 violando il terreno della Pro; in pratica il Piemonte con questa netta affermazione dei bianconeri si identifica
sempre più con i colori bianco e neri, inizia un amore che mai
verrà tradito.
La partita successiva vede ancora la Juventus imporsi in
casa sulla Roma (3-2) ma è un match sofferto e combattuto. Il
sabato sera, vigilia della partita, la Juventus ospita presso la
sua sede di via Bogino l’intera comitiva della Roma, squadra
e dirigenti. Le tradizioni dell’ospitalità e della cortesia sanno
essere squisitamente rispettate. La sede della Juventus è la casa della società dove tutti i soci e gli amici godono dell’accoglienza in un ambiente quasi principesco: la sede consolida e
amalgama soci, dirigenti, giocatori in un unico gruppo che si
consolida giorno dopo giorno. Il circolo bianconero è conosciuto e rinomato in tutta la città e non solo. La squadra domina il campionato, nel girone di ritorno il cammino dei
bianconeri non conosce ostacoli nonostante l’infortunio del
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portiere Combi che viene sostituito negli ultimi turni. Sembra che non ci siano altri ostacoli ma il Bologna infligge una
secca sconfitta (4-0) con Cesarini che la settimana successiva
alla partita si rapa a zero per una scommessa persa. Dopo sette giorni è pareggio nel Derby (1-1), poi lo scudetto della Juventus si materializza con le vittorie casalinghe con Lazio e
Modena e il pareggio con il Brescia (1-1). Arriva così il 21 Giugno, la Juventus affronta in casa l’Ambrosiana (1-0). Prologo
alla partita la finale di ritorno degli allievi, che vede la Juventus prevalere sul Torino (3-1), i campioni d’Italia uscenti vengono superati (1-0), goal vincente di “Mumo” Orsi... La Juventus con questa vittoria è campione d’Italia! I tifosi si
riversano sul terreno di gioco portando in trionfo i loro eroi.
Il massaggiatore Freilich porta in campo il gagliardetto della
Juventus agghindato come gonfalone, che viene requisito da
Orsi che compie un giro di campo ricevendo le ovazioni del
pubblico. Combi, in convalescenza a Ceres per via dell’infortunio, viene avvisato telefonicamente e risponde con un telegramma: “Spiacente non aver assistito grande trionfo. Vi abbraccio tutti – Combi”. Altri telegrammi arrivano alla sede
della Juventus da tutte le parti d’Italia, sono autorità, simpatizzanti, e altri club come l’Old Boys di Basilea, il Livorno, il
Genova, l’AS Roma. Giocatori e dirigenti festeggiano con
una cena al Ristorante del Cambio, poi si trasferiscono nella
sede sociale di via Bogino con spumante e brindisi sino a tarda notte. La domenica successiva si disputa l’ultima giornata del torneo che vede la Juventus recarsi a Livorno; la squadra locale è in lotta per la retrocessione, l’uno a uno finale e
la contemporanea vittoria del Casale fa di fatto retrocedere in
serie B il Livorno, l’ira dei tifosi esplode con un’invasione di
campo che costringe i bianconeri a un supplemento di scatti
e corse per raggiungere in tutta fretta gli spogliatoi dove saranno barricati sino a tarda sera. Intorno a mezzanotte raggiungono Viareggio e consumano una cena fredda; si brinda
allo scampato pericolo, all’aver portato in alto i valori dello
sport con una squadra che aveva iniziato il suo viaggio verso il mito... Il mito del Quinquennio.
La squadra al completo, con dirigenti e soci, festeggerà an21
cora la vittoria del titolo di Campioni d’Italia con un banchetto
al ristorante del Parco del Valentino. Incredibile anche il vivaio, cioè le riserve e i ragazzi della Juventus che conquistarono
nell’annata 1930-’31 il Campionato regionale di III divisione
battendo il Torino (1-0) nella finale spareggio disputata sul
campo dell’UNICA. Inizia così un mito, il mito del Quinquennio, che porterà la Juventus ad aver il maggior numero di sostenitori in ogni regione d’Italia e non solo.
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