dentro la striscia - Vento di Terra ONG

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dentro la striscia - Vento di Terra ONG
DENTRO LA STRISCIA
VIAGGIO IN PALESTINA / ISRAELE 24-31/04/2013
by www.injunik.com
GENESI
Tutto ha inizio a fine gennaio 2013. Una cooperativa locale, solita ad organizzare periodicamente
appuntamenti “etnici”, organizza una cena palestinese alla quale prendo parte con gli amici. Lì c’è Serena
che ci illustra le attività della ONG Vento di Terra che opera proprio in Palestina e Cisgiordania e ci parla di
queste terre tormentate.
(* Sulla Questione Palestinese qui e qui )
Poco più di un mese dopo veniamo a conoscenza che VDT organizza ad aprile un viaggio/missione di una
settimana, proprio in visita a questi progetti unito ad un canonico turismo ai “luoghi sacri”. Nel programma
è prevista l’entrata in Gaza, un nome che evoca da subito tante brutture sentite o lette solo su tv e giornali
ma proprio per questo anche tanto “stimolante”.
Io e l’amico Obe, con cui già stavo paventando una trasferta per i medesimi giorni, ci consultiamo e
pressoché immediatamente abbandoniamo i nostri progetti caraibici ancora in fase embrionale aderendo
decisamente all’iniziativa, pur con tutte le perplessità che il caso impone; la voglia di toccare con mano,
vedere coi nostri occhi, renderci diretti testimoni, per quanto possibile, di quanto finora solo più o meno
distrattamente letto e visto sui mass media è decisamente più forte.
VDT svolge tutta la laboriosa burocrazia del caso e alla fine Serena ci annuncia felice via mail “Abbiamo i
permessi per Gaza!”.
MERCOLEDI’ 24 APRILE
Partenza da Malpensa alle 22.35 con ELAL, compagnia di bandiera israeliana, e ritrovo alle 19.40 per via dei
lunghi controlli e “interviste” di rito, vista la destinazione. Siamo in 15 (oltre me, Obe e Serena ci sono
Patrizia, Alberto, Grazia, Gilberto, Rosanna, Laura&Claudio, Paola riminese, Paola milanese, Mariateresa,
Maria&Ludovico,) e il gruppo è variegato, per età, professioni ed esperienze personali, di viaggio e non. C’è
anche chi è già stato in Israele. Nonostante questa varietà, il gruppo si rivelerà poi molto affiatato e
funzionale, nonché mosso in toto da uno stesso spirito comune.
I controlli in aeroporto si confermano lunghi e minuziosi e giustificano ampiamente le 3 ore di anticipo sul
volo. Solerti funzionari dai modi gentili ci interrogano individualmente seduta stante sui motivi del viaggio,
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le professioni ecc … ad alcuni di noi vengono già controllati i bagagli, a me (i cui tratti somatici mediterranei
e vagamente arabeggianti in questa sede non aiutano) viene fatta firmare una carta con la quale “concedo”
(dovendo levare il lucchetto che avevo apposto) il controllo dei miei bagagli in mia assenza (zaino a mano
compreso) pena la riserva a permettermi la partenza. Lo zaino mi verrà restituito al gate di imbarco e tutto
questo, dicono, “per la MIA sicurezza”(?).
Al gate veniamo sottoposti ad altri controlli e trattenuti nuovamente sotto lo sguardo vigilissimo e
intransigente delle gentili funzionarie che non ci staccano gli occhi di dosso controllando perfino se
nell’attesa parliamo tra di noi e se ci scambiamo qualsivoglia oggetto. Ci impediscono anche contatti con
esterni a questo gruppo “esclusivo”.
Alla fine riusciamo a partire, 4 ore di volo e arriviamo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv a notte fonda,
intorno le 3.30, dove ci attende Mahmoud che col suo pulmino ci scorazzerà In Israele e Cisgiordania
diventando di fatto parte tanto riservata quanto integrante del gruppo.
Guadagniamo le camere e soprattutto i letti presso l’Hotel Victoria a Gerusalemme Est (Al-Quds in arabo)
quando sono già intorno le 5 per una meritata e corposa dormita di ben … 4 ore!
GIOVEDI’ 25 APRILE
In Italia si festeggia la Liberazione e la Resistenza, parola quest'ultima che da queste parti, ahimè, mi
sembra assumere ancora la sua più autentica e soprattutto tangibile valenza. Sveglia, colazione e partenza
a piedi per un primo giorno di “conoscenza” di Gerusalemme. Il clima è e rimarrà sempre bellissimo, ideale,
costantemente soleggiato, pure troppo (a tratti mi lacrimano gli occhi per la rifrazione della luce sugli edifici
rigorosamente in pietra chiara), cielo perennemente sgombro da nuvole (ne conterò forse un paio per tutta
la durata del viaggio) ma anche ventilato e quindi non umido. Ci cospargiamo preventivamente con un po’
di crema solare.
Raggiungiamo la Porta di Damasco e da lì entriamo direttamente nel Suq Arabo (o souk che dir si voglia)
che percorriamo in toto anche lungo la Via Dolorosa e le sue stazioni della Via Crucis (c’è anche chi la
percorre con croci in spalla! :/) fino a sfociare al Cardo Romano (sti romani sono arrivati davvero
dappertutto!) e nel quartiere ebraico culminante nella moderna Sinagoga Beit Yakoov. Subito ci pare
lampante la differenza di mondi confinanti, anzi, s-confinanti tra loro: il suq arabo col suo dedalo caotico di
vie e viuzze, bancarelle e merce di ogni genere (nessuno mai è però insistente o vagamente molesto) e
pochi metri al di fuori di questo l’ordine, la fioritura e il florilegio di bandiere con la stella di David del
quartiere ebraico. Questo contrasto ci sarà visibile per tutto il nostro viaggio anche se in contesti diversi. Lo
spaesamento unito all’emergente sensazione (a tratti poi quasi tangibile) di essere sempre e comunque
sorvegliati, deve essere palese sui nostri volti, tanto che un simpatico signorotto barbuto che ci passa di
fianco ci esorta simpaticamente a sorridere.
Sbuchiamo nella vasta area del Muro del Pianto (o Kotel, come lo chiamano gli ebrei: il muro occidentale
del tempio) e della Spianata delle Moschee, tutte e due lì, uno sotto all’altra. Visitiamo il Muro indossando
una Kippah posticcia che viene distribuita appena prima di approssimarvisi. Contrastano la solennità di chi,
seduto o in piedi, poggia dondolante il capo al muro in preghiera e il festoso frastuono a pochi metri di
distanza provenienti da un paio di Bar Mitzvah in corso. Vista la lunga coda, lasciamo la Spianata per il
nostro ritorno a Gerusalemme alla fine del viaggio.
Ci rituffiamo nel suq per pranzare in un localino tipico e alla mano dove abbiamo il primo approccio col cibo
locale, che costituirà giocoforza la nostra dieta per tutta la durata del viaggio: riso, spezie varie, hummus,
insalatine, Mansaf, yogurt, falafel e succhi vari rigorosamente analcolici ☺ Notiamo la singolare “usanza”
degli arabi di Gerusalemme di tenere al muro di abitazioni e negozi molte gabbiette con uccellini canterini.
Chiedendo a un barbiere di fronte al nostro Hotel anche lui con la gabbietta al muro, mi spiega che questi
sono una particolare tipologia di uccellini diversi dai canarini e che il Governo Israeliano vieta di tenere in
gabbia. “Quindi in questo momento …” gli dico ridendo “tu saresti fuorilegge” … e lui, ridendo, annuisce.
Certo l’immagine di tutti questi uccellini che cantano nelle loro gabbie mi risulta subito molto emblematica
di questo popolo.
Finito di pranzare riprendiamo la Via Dolorosa fino alla Porta dei Leoni e da lì sbuchiamo al Cimitero Arabo,
lasciato purtroppo all’incuria e alla trascuratezza. Da qui, anche, si gode di un bel panorama su tutta la città
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e sul dirimpettaio Cimitero Ebraico sull’altro colle. Una rapida sosta rigenerante all’ombra di un albero e si
riparte fino all’Orto del Getsemani con l’adiacente Grotta e Chiesa, dove si sta celebrando messa in
italiano.
Rimontiamo sulla Mahmoud-mobile che è venuta a prelevarci e ci spostiamo nella periferia cittadina fino ai
piedi del Muro che separa la città dai suoi sobborghi arabi. Qui l’impatto è abbastanza forte, è il primo
imponente segno della segregazione palestinese davanti a cui ci troviamo. Scatta automatica in tutti
l’indignazione che sfocia nei primi animati dibattiti interni al gruppo (ovviamente sempre presenti durante
tutto il viaggio) e, personalmente, la profonda e sincera VERGOGNA verso il genere umano.
Percorriamo l’altissimo muro per un tratto in salita, salutiamo e ci soffermiamo con qualche bambino che
gioca in strada, ci saluta e ci dà il benvenuto (tutti gli arabi indistintamente ci daranno il benvenuto durante
tutto il nostro viaggio). Arriviamo così al Cimitero Ebraico sul colle opposto a quello arabo di poco prima. La
vista della città e di tutta la Spianata delle Moschee è qui ancor più suggestiva.
Torniamo in hotel per una doccia ristoratrice e poi ceniamo al vicino ristorante Al Azhar (Le rose) dove
incontriamo altri ragazzi di VDT impegnati in Palestina e Cisgiordania (e che rivedremo nei giorni seguenti) e
Dario, sempre di VDT, che ci farà da cicerone per tutta la nostra permanenza nella Striscia di Gaza. Sarà la
stanchezza, le poche ore di sonno e le tante ore sotto il sole battente, ma non mi sento proprio al 100%,
quindi sono tra i primi a ritirarsi a malincuore e guadagnare il letto per una più corposa dormita. La finestra
della nostra camera mostra un suggestivo skyline di Gerusalemme Est sotto la luna piena.
VENERDI' 26 APRILE
E’ il grande giorno: si va a Gaza! Credo che l’opportunità di entrare nella Striscia di Gaza e proprio a Gaza
City sia stata la vera molla che abbia spinto tutti noi ad aderire a questa “missione” … almeno lo è stato per
me.
Alle 8.30 l’impeccabile Mahmoud ci aspetta per la partenza già in strada col suo pulmino, lasciamo il grosso
dei bagagli in hotel e riempiamo gli zaini con lo stretto necessario per i prossimi due giorni e mezzo.
Arriviamo così al fatidico Valico di Erez, dove un piccolo pallone aerostatico con telecamera annessa
controlla a 360° dall'alto la zona e ci dà il “benvenuto” … siamo attesi. Il check-point di Erez sembra un vero
e proprio aeroporto, per mole e funzionalità. Appena fuori ri-incontriamo Dario, insieme alla sorella Silvia
col fidanzato Marco, anche loro in “visita” per poi proseguire insieme in Egitto. Diamo l’arrivederci
a Mahmoud e Dario ci dà tutte le indicazioni del caso, ci spiega le procedure e i comportamenti da tenere,
prende tutti i nostri passaporti e approccia il gabbiotto d’ingresso. Pur in possesso di tutti i permessi, non è
affatto detto che venga concesso il passaggio e questo avviene soprattutto in momenti particolarmente
“caldi”. Una signora palestinese accompagnata dal marito viene infatti “rimbalzata” appena prima di noi; lui
ci spiega che in questi casi (non rari) e anche senza nessuna specifica motivazione, semplicemente bisogna
rassegnarsi e tornare giocoforza indietro. Noi passiamo: controllo passaporto, controllo bagagli, mini
intervista sulle motivazioni del nostro ingresso nella Striscia, tutto come da prassi.
Da lì imbocchiamo un tunnel di superficie tutto ingabbiato che si estende per circa un chilometro. Qui
davvero ci sentiamo pesantemente e costantemente sorvegliati a distanza (non fosse altro per le numerose
telecamere sopra di noi lungo tutto il tragitto) e scattiamo qualche foto con rigorosa discrezione.
Percorrendo il tunnel ci lasciamo alle spalle l’imponente Valico di Erez e molto repentinamente cambia il
paesaggio intorno a noi … e non in meglio. Alle nostre spalle diventano sempre più visibili il lunghissimo
muro e le torrette di controllo israeliane … stiamo entrando nella Striscia di Gaza.
Alla fine del percorso giungiamo al primo dei check-points palestinesi, gestito da Al Fatah,
di tutt'altra portata rispetto all'imponente valico israeliano; ha più che altro le sembianze di un piccolo
cascinale, ma provvisto di baretto dove mi spingo, vista l’attesa, a prendermi un bel bicchiere di caffè locale
(caffè turco) seguito da quasi tutto il gruppo. L’aroma di cardamomo ci inebria e l’impatto con la gente
palestinese è dei migliori, tutti sono gentili, ci salutano o ricambiano il nostro saluto e TUTTI
indistintamente non mancano (e non mancheranno nei due giorni a seguire) nel darci il loro consueto
“Welcome in Palestine!”
Montiamo a gruppi di 4/5 su dei taxi e percorriamo lungo la strada polverosa un altro chilometro scarso che
ci separa dal terzo ed ultimo check-point, quello gestito da Hamas, ancora più sui generis del precedente,
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dove ci accoglie in pompa magna quello che poi scopriamo essere il Mukhtar (capovillaggio) di Um Al
Nasser, il contiguo villaggio dove ci recheremo l’indomani per la visita al primo centro realizzato da VDT.
Sbrigati i consueti controlli montiamo su un vero e proprio bus di linea che ci attende e si uniscono al
gruppo Fatima (giovane direttrice del Centro per l’Infanzia), suo fratello, Nahed (la assistente sociale) e
l’ingegnere Abu Karim (che ha seguito i lavori del Centro) i quali ci accompagneranno passo passo in tutta la
nostra permanenza nella Striscia.
Siamo ufficialmente all’interno della Striscia! … come ho letto da qualche parte: “La più grande prigione del
mondo” : (
Il Bus parte addentrandoci in uno scenario che si fa via via sempre più desolato e dove ben visibili sono i
segni del disagio, le bombe e ogni altra sorta di ordigno caduto dal cielo e non solo. La nostra presenza non
passa ovviamente inosservata, complice il bus “turistico” sul quale viaggiamo e, credo, la non abitudine dei
locali a ricevere visite; fatto sta che tutti immancabilmente ci seguono con lo sguardo al nostro passaggio.
Noi salutiamo tutti dal bus e tutti ricambiano il saluto.
Raggiungiamo il nostro Beach Hotel – Orient House, a conti fatti un Hotel di discreto lusso con camera
provvista di ogni comfort e vista mare direttamente sulla spiaggia! Sinceramente non era quello che mi
aspettavo venendo a Gaza : ) Sulla parte alta della facciata esterna, però, anche l’Hotel porta i segni delle
ostilità con dei vetri rotti e alcuni fori nel muro. Il tempo di poggiare lo zaino e darsi una rinfrescata che ci
ritroviamo già all'entrata per dare il via alla nostra agenda piena di impegni. Altri “internazionali” prima di
noi sono stati qui, altri ne arriveranno, ma dentro di me (e credo anche in tutti gli altri del gruppo) aleggia
una particolare eccitazione, una sorta di spirito pioniere che mi inorgoglisce e a allo stesso tempo mi
emoziona.
La prima tappa, quasi immediata, è allo Stadio di Gaza City, o meglio, quello che ne rimane dopo il
bombardamento israeliano del novembre 2012 … ovvero un cumulo di macerie. Camminiamo su calcinacci,
detriti, cancellate divelte e quant'altro fin dentro al “campo di gioco” e fino al cospetto di un enorme
cratere che si apre davanti ai nostri piedi, presumibilmente il punto di impatto di una bomba o missile. Lo
scenario è deprimente.
Rimontiamo comunque sul bus e, anche se lo “spettacolo” appena visto non agevola, ci fermiamo
al ristorante Thailandi dove, a dispetto del nome, servono esclusivamente i consueti piatti locali e dove io
mi butto senza indugio su un sacrosanto shawarma. Davanti al cibo viviamo un bel momento di convivialità,
il nostro gruppo si cementa ulteriormente anche grazie ai nostri amici palestinesi che conosciamo un po’
meglio sfruttando l’inglese, quando possibile, che comunque è molto diffuso anche e soprattutto tra i più
giovani. Io per non sbagliare e per meglio immedesimarmi comincio a impratichirmi anche con l’Arabo :
) Anche i giovani camerieri, molto modaioli, mostrano molto interesse e ci scattano delle foto.
Finito di pranzare percorriamo in bus la Striscia lungo le vie interne passando per Jabalya, il campo profughi
più grande e che all'atto pratico è oggi un vero e proprio villaggio che conta circa 170.000 abitanti.
Raggiungiamo l’estremo sud arrivando a Rafah e all'omonimo valico, frontiera internazionale con l’Egitto.
La zona è da sempre comprensibilmente “calda”, nonché teatro dei numerosi tunnel sotterranei lungo i
quali passa clandestinamente ogni sorta di mercanzia, materiale da costruzione e bene di sostentamento (si
dice perfino interi camion!) e le cui uscite in superficie vengono agghindate a serre e vivai. Scendiamo
quindi solo pochissimi minuti per qualche foto veloce, ma sufficienti affinché intorno a noi si raduni una
folla festante di bambini dai quali veniamo magicamente circondati senza quasi accorgerci. Li salutiamo e
battiamo il “5” (forma di saluto molto in voga soprattutto tra i bambini i quali rispondono sempre molto
energicamente : ) ) e riguadagniamo il bus quando la folla è diventata ormai quasi un corteo che ci saluta
gioioso rincorrendoci mentre ci allontaniamo.
Altra circostanza che ci balza all'occhio è come all'interno delle comunità arabo/beduine/palestinesi la
presenza di bambini e in generale di giovani fino ai 20 anni sia nettamente preponderante.
Automaticamente ci si chiede che sviluppi potrà mai avere un tale contesto nel quale un popolo viene
sempre più segregato territorialmente mentre, un po’ in diretta risposta e un po’ per esigenza, questo di
pari passo aumenti esponenzialmente di numero.
Da Rafah risaliamo la Striscia questa volta lungo la costa e qui, ancora, veniamo favorevolmente sorpresi: è
venerdì, l’equivalente musulmana della nostra domenica, e tutto il lungo mare, all'approssimarsi del
tramonto, è frequentato da bambini, ragazzi e intere famiglie in tranquilla villeggiatura e relax, chi a piedi,
chi in moto, chi a cavallo o persino in cammello! Una scena che ci solleva e stupisce, visto il contesto,
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rinfrancandoci delle tante brutture che attanagliano quest’area di mondo e dello spirito nonostante tutto
propositivo dei suoi abitanti. Ci fermiamo anche noi per fare due passi sulla spiaggia e mi unisco ad alcuni
ragazzini a dar due calci a un pallone … sgonfio! : ) Tutti sono ben lieti della nostra presenza: l’apparente
reticenza e (comprensibile) diffidenza iniziale della gente arabo/palestinese appare in tutti (bambini
compresi) più come una riguardosa timidezza che si scioglie immediatamente come neve al sole al solo
tendere una mano in segno di saluto trasformandosi in totale apertura, brama di conoscenza e di rapporti
umani regalando grandi sorrisi e disponibilità.
Sostiamo al ristorante/bar "Haifa" per bere dei corposi succhi di frutta e per rilassarci facendo qualche tiro
al narghilè. Il contesto è da mille e una notte: ampio spazio/terrazzone coperto con finestrone 180°
direttamente sul Mare Mediterraneo al tramonto. Il sole sparisce rapido sotto la linea dell’orizzonte e
ancora una volta stento a realizzare dove realmente sono, immaginando i nostri parenti ed amici a casa
magari preoccupati e in apprensione per le nostre sorti : )
In Hotel ci buttiamo in doccia per poi uscire rigorosamente in gruppo tutti insieme e raggiungere una
pescheria conosciuta da Dario dove ceniamo direi lucullianamente ovviamente a base di pesce. Per quel
breve percorso che separa l’Hotel dalla pescheria la nostra “estraneità” è evidente e siamo l’attrazione di
tutti. Ma anche qui è una curiosità più che altro divertita, ricca di saluti e sorrisi. Qualche momento
di empasse per qualcuno di noi nell'udire quelli che sembrano degli spari ripetuti per poi realizzare
(tranquillizzandoci) che altro non sono che fuochi d'artificio celebrativi per festeggiare i numerosi
matrimoni che si tengono nei locali del lungomare ... alla faccia dell’embargo e della segregazione! : )
Mentre mangiamo alla pescheria la luce va via un paio di volte, ma Dario dice che da queste parti è normale
che accada.
SABATO 27 APRILE
Sempre di buon mattino montiamo sul bus e ci rechiamo a Um Al Nasser, villaggio beduino proprio a
ridosso della Buffer Zone (area cuscinetto non meglio definita tra i territori Palestinesi e i confini israeliani),
dove visitiamo il primo dei progetti di VDT, il Centro per l’Infanzia anch'esso oggetto nei mesi passati di un
bombardamento che l’ha risparmiato per solo una manciata di metri.
La nostra delegazione viene prima ufficialmente convocata presso il “Municipio” dove ci dà il benvenuto
il Mukhtar (che già ci aveva accolti al check-point il giorno prima) con tutta la sua “squadra”. Ci sediamo in
circolo in uno stanzone e ci presentiamo uno ad uno spiluccando salatini. Il Mukhtar non parla inglese e il
suo più stretto collaboratore traduce le sue parole cominciando a renderci consapevoli delle condizioni di
vita del villaggio e delle mille difficoltà legate oltretutto alla mancanza di acqua (o meglio alla imposta
privazione da parte del governo israeliano) e alla necessità di dover “attingere” forzatamente da un
limitrofo stagno di acque nere, dove anche successivamente ci recheremo.
Prima però visitiamo il Centro per l’Infanzia: il nostro bus passa quasi a fatica tra gli stretti sterrati e le
baracche del villaggio, soffermandosi e scaricandoci dapprima in aperta campagna proprio al limite
della Buffer Zone, oltre il quale, ci dicono, chiunque si incammini è passibile di essere sparato a vista. Il
muro e le torrette israeliane sono infatti lì davanti a noi, a solo una manciata scarsa di
chilometri. Scendiamo con molta cautela e scattiamo qualche foto in compagnia, manco a dirlo, di un
gruppo di ragazzini del villaggio che subito si sono radunati attorno a noi. Trovarsi lì in quel luogo sapendo
di essere sorvegliati a (breve) distanza in ogni nostro movimento dà una certa inquietudine e ancor di più
pensare che questa è la realtà quotidiana in cui gli abitanti del villaggio (ma tutti i palestinesi) sono costretti
a vivere.
Arriviamo al Centro, col portone ancora chiuso, mentre i bambini stanno lavorando all'interno. Qualche
altro fuori dalla scuola come di consueto si è già raccolto ai piedi del nostro bus e si avvicina prima
circospetto e poi sorridente, salutandoci. Si apre il portone della scuola e ci accoglie Fatima, giovane
direttrice già incontrata il giorno prima; all'interno regna inaspettatamente ordine e tranquillità. La scuola è
come una piccola corte, una piccola oasi di pace con un patio centrale con qualche gioco e tutt'intorno le
aule, i bagni e le altre stanze. Le maestre sono tutte donne e tutte in rigoroso Hijab nero, alcune con una
fessura solo per chi occhi altre con l’intero viso scoperto. I bambini sono in fila, ordinati e scrupolosi nelle
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loro impeccabili uniformi, tenendosi l’uno dietro l’altro e seguendo i dettami delle maestre. Altri sono
intenti a lavarsi nei lavandini sempre sotto l’attenta supervisione di un’altra maestra. Inizialmente rimango
rispettoso dei “ruoli” e dell’ordine salvaguardato dalle maestre, ma poco dopo mi è impossibile non unirmi
ai bimbi per giocare, come del resto tutto il gruppo, e visitare tutto il Centro. In definitiva, non si capisce
bene CHI faccia giocare CHI :)
Rimaniamo a lungo al Centro per poi fare una breve visita anche al vicino bacino di acque nere di cui
sopra, avvolto da un comprensibile tanfo, e al suo impianto di “depurazione” che altro non è che un
sistema di scolo a discesa delle acque in otto vasche naturali di altezza via via decrescente e i cui residui
liquidi vengono poi nuovamente sotterrati in un’altra area vicina. Da un lato è ammirevole la dedizione e
l’orgoglio con i quali ci viene spiegato il funzionamento dell'impianto, dall'altro è evidente come il lavoro di
“depurazione” dell’acqua sia reso abbastanza vano nel lungo periodo dall'ulteriore inquinamento della
falda acquifera sottostante. Ma anche in questa circostanza non c’è alternativa :/
Ritorniamo al Centro dove i bambini hanno nel frattempo finito di lavorare e sono tornati a casa, e
pranziamo con la specialità tipica locale, ovvero un abbondante e saporito Maqluba; ovviamente le
femminucce pranzano in una stanza con tutte le maestre e noi ometti, insieme al Mukhtar e tutti i suoi più
stretti collaboratori, in un’altra.
L’agenda giornaliera è ancora densa di appuntamenti, quindi lasciamo il Centro salutando il Mukhtar e
qualche bambino che ora ritroviamo a giocare in strada e andiamo in visita ad una famiglia
di coltivatori/contadini non lontani, sempre a ridosso della Buffer Zone. Il capofamiglia ci spiega come,
anche qui, le condizioni di vita e di lavoro siano molto difficili. Il governo israeliano non permette di
coltivare piante di altezza superiore ai 60 cm (anche) per avere una migliore visuale e controllo. Gli
stessi ulivi, rigogliosi in quest’area di mondo, vengono meschinamente falciati (quando non bruciati) in
tutte le terre arabo/palestinesi, favorendo oltretutto la loro desertificazione. Ovviamente anche qui vige
(come dappertutto) il consueto divieto ad inoltrarsi troppo all'interno della stessa Buffer Zone, pena lo
sparo a vista. Il problema è che il limite consentito è molto aleatorio e molto a discrezione dell’esercito
israeliano, con le conseguenze che si possono immaginare. Tutto questo a meno che questi non decida di
entrare direttamente nelle case (solitamente senza bussare né troppi complimenti) come, ci dice sempre il
capofamiglia, è avvenuto spesso dal 2001 a questa parte. Qui fu anche attivo Vittorio “Vik” Arrigoni che lui
ricorda ovviamente in modo molto riconoscente e appassionato insieme a tutti noi.
E’ pomeriggio inoltrato quando ritorniamo a Gaza City per l’ultimo incontro della giornata, quello con
l’Associazione Pescatori, con cui anche collaborava Vik, anche loro ridotti ai minimi termini dagli embarghi
e dai veti israeliani. In particolare a loro non è concesso addentrarsi nelle acque marine oltre le 3
miglia (cifra progressivamente ridotta negli anni in modo totalmente discrezionale da Israele dopo
gli Accordi di Oslo senza la ferma opposizione di alcuno stato straniero), distanza palesemente irrisoria al
fine di procacciarsi battute di pesca realmente fruttifere. Anche qui il rischio è ovviamente lo sparo a vista
da parte delle vedette israeliane che vigilano in mare aperto e negli ultimi anni già diversi pescatori hanno
incontrato la morte o sono stati feriti. Il conseguente risultato è che i pescatori e la loro attività sono in
ginocchio con la paradossale necessità di importare (in prevalenza dall'Egitto) anche e perfino il pesce!? Ci
sembra una storia ormai ricorrente, seppur udita in ambiti diversi. Siamo evidentemente molto stanchi
dopo una lunga giornata densa di incontri e spostamenti, dopo aver parlato coi pescatori direttamente al
porto ed esserci riuniti in una stanza coi loro rappresentanti sindacali arriva il momento delle foto di gruppo
e dei lunghi, sentiti e a tratti emozionanti saluti tra strette di mano, baci e forti abbracci.
Uscendo dal porto, sul muro all'altro lato della strada proprio di fronte al cancellone d’ingresso campeggia
un grande murale raffigurante Vik con Handala; l’anno di morte è barrato e a fianco qualcuno ha scritto al
suo posto “ETERNAL”.
Rientriamo all'Hotel per una sacrosanta doccia rigeneratrice e un po’ di relax prima di ritrovarci per la cena.
Alla finestra contemplo la spiaggia e il mare sotto di me all'approssimarsi del tramonto quando si affaccia
dalla stanza di fianco Gilberto. Rapido consulto e, in barba alle disposizioni interne, decidiamo di scendere e
fare due passi in spiaggia. Rientriamo appena in tempo per assistere, nel cortile dell’Hotel, ai
festeggiamenti (con consueti spari pirotecnici) per l’ennesimo matrimonio che verrà festeggiato nel salone
serale (l'Orient House) e all'arrivo della sposa che, prima di scendere dall'auto, assiste alla Dabka (danza
folkloristica popolare maschile) dello sposo insieme agli altri uomini e ai musicisti in abiti tradizionali.
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Assistere al via vai di invitati che sostano nel cortile è di per sé uno spettacolo e, naturalmente, noi siamo
oggetto di simpatica curiosità per i più piccoli, anche loro tutti impeccabili nei loro completi da festa.
Radunati tutti all'orario convenuto, muoviamo sempre in gruppo verso un ristorante vicino, abbastanza chic
e sempre a ridosso del mare; un cartello ben visibile all'entrata richiede gentilmente "No weapons please".
Cena molto soddisfacente e piacevole serata "defatigante" in gruppo. Rientrati all'hotel ci si ferma tutti nel
cortile ad assistere ancora al caotico commiato degli invitati alle nozze. Siamo stanchi ma inconsciamente
credo nessuno abbia veramente voglia di andare a dormire. L’indomani lasceremo Gaza e, poggiando la
testa sul cuscino, un po’ me ne rammarico.
DOMENICA 28 APRILE
Salutiamo Gaza e la Striscia accompagnati da tanti interrogativi circa le sorti di questo lembo di terra e della
sua popolazione e ripercorriamo a ritroso tutta la trafila già affrontata per l’ingresso. Simpatico diversivo al
check point di Hamas, dove io e Claudio (dalla folta e riccia criniera) al controllo passaporti veniamo
scambiati rispettivamente per David Villa e Carles Puyol, rispettivamente attaccante e difensore/capitano
della squadra di calcio del Barcellona (squadra molto in voga nella Striscia insieme ai rivali del Real Madrid)
e della nazionale spagnola. I torvi esponenti dell’organizzazione politica scoppiano in una fragorosa risata
all’interno del gabbiotto attirando l’attenzione di tutti noi che attendiamo fuori : )
Al valico di Erez questa volta veniamo anche “passati” al Body Scanner (personalmente ancora mai visto in
funzione in nessun aeroporto). Ad attenderci ritroviamo Mahmoud e il suo furgoncino, sul quale
riprendiamo le nostre postazioni in direzione Tel Aviv, dove abbiamo deciso di fare una veloce visita. Prima
ci accomiatiamo da Silvia, Marco e Dario, ringraziandolo sentitamente per l’appoggio nei nostri giorni
gazawi e complimentandoci per il suo lavoro comprensibilmente non semplice. A bordo della loro auto
puntano l’Egitto per qualche giorno di meritata vacanza.
A tarda mattinata arriviamo a Tel Aviv fermandoci a Giaffa, località marittima situata pochi chilometri più a
sud e porto storico del Paese. Si respira decisamente tutta un’altra atmosfera rispetto alla Striscia e
godiamo della magnifica vista a picco sul mare, scendendo poi via via verso il porto attraverso i numerosi
vicoli e cunicoli che si fanno largo tra gli edifici in pietra. Percorriamo a piedi il lungomare sotto il sole qui
più intenso fino a fermarci a pranzare in un locale vista mare. Sulla spiaggia qualcuno fa già il bagno …
mentre a pochi metri qualcun’altro entra in acqua in groppa ad un cavallo che si libera del suo “pesante
fardello” : ) … per gli sguardi sbigottiti dei natanti distanti solo pochi metri! : )
Ci concediamo un veloce giro tra le bancarelle del mercato locale e qualche fresco succo per rintuzzare la
calura, mentre quattro simpatici e attempati signori attirano giocoforza la nostra attenzione sfidandosi
energicamente a quella che sembra una sorta di briscola locale ai bordi del marciapiede, con tanto di
fragorosi sfottò e vigorosi colpi di mano sul traballante tavolino.
Ritorniamo alla base a Gerusalemme in tempi relativamente brevi nonostante il fitto traffico verso la città,
grazie allo “scafato” Mahmoud che, seguendo un altro furgoncino suo collega, prende un paio di scorciatoie
che ci catapultano direttamente appena fuori la zona centrale. Deve essersi appena conclusa qualche
funzione religiosa in qualche sinagoga in quanto nelle strade si riversano coloni rigorosamente in abito
ufficiali nero e Peot (i famosi boccoli ai lati della testa che cadono sulle spalle) con tanto di famiglie al
seguito. Notiamo che la prole numerosa non è prerogativa unicamente arabo/palestinese e che, anche se
di età diversa, i figli vestono tutti nel medesimo modo all’interno della stessa famiglia. “Curioso” anche
l’abbigliamento tipico femminile: ci dicono che le donne ebraiche si rasino i capelli indossando poi una
parrucca ed il consueto foulard, in una mise dal vago sapore Amish.
ll gruppo si divide tra chi va in visita alla Basilica del Santo Sepolcro, solo “sfiorata” dall’esterno il primo
giorno in città, e chi preferisce perdersi per altri lidi turistico/spenderecci avendola già visitata in precedenti
viaggi in loco. Io sono tra i primi e mi tuffo insieme ad Obe, Grazia e Paola (riminese) nel caotico formicaio
all’interno della Basilica. Abituati al dualismo ebraico/musulmano, qui vige quello cattolico/ortodosso. La
Basilica ingloba sia quella che è ritenuta la “Collina del Golgota”, luogo della crocifissione di Gesù Cristo, sia
il Sepolcro scavato nella roccia, dove il Nuovo Testamento riferisce che questi fu sepolto. Subito all’entrata
si trova un lastrone in pietra lungo il quale Gesù sarebbe stato adagiato e sopra il quale i fedeli si adagiano
in preghiera sofferta strofinandoci vorticosamente sopra oggetti vari e tessuti. Attorno all’Edicola del
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Sepolcro si accalcano i visitatori divisi in cattolici e ortodossi e l’entrata a folate è gestita da un religioso,
non senza qualche poco edificante accenno d’isterismo collettivo. Grazia, la sola tra noi disposta a mettersi
in fila ed entrare all’interno del sepolcro, non potrà poi nemmeno spiegare quello che ha visto, in quanto
quasi spinta al suo interno, fatta inginocchiare e poi subito rispedita al di fuori.
La sera ceniamo al ristorante del Jerusalem Hotel, dove ci raggiunge l’amico Pepe, previamente contattato,
con la sua ragazza Karla. Compagno di viaggio mio e di Obe in Costa Rica nel 2004, Pepe è costaricano di
radici ebraiche e si è trasferito qui da qualche anno. Mentre il resto del gruppo rincasa, io e Obe
proseguiamo la serata con loro nella zona commerciale, dei bar e della “movida” di Gerusalemme Ovest. Il
tempo di aggiornare le nostre vite e rinverdire i bei ricordi davanti un paio di birre ed è già tempo anche per
noi di rientrare per la nuova levataccia del mattino dopo. Salutiamo Pepe e Karla nella strada illuminata e
deserta di Gerusalemme Est proprio al cospetto della Porta di Damasco. dandoci appuntamento in Italia.
LUNEDI’ 29 APRILE
Sveglia, colazione e partenza, ovviamente sulla Mahmoud-mobile! Direzione: l’accampamento beduino
Jahalin di Abu Hindi e la sua “Scuola di canne”, secondo progetto di VDT sul territorio. Nei prossimi due
giorni “danzeremo” sul confine con la Cisgiordania (o anche West Bank). Il tempo e i chilometri passati sul
pulmino ci daranno modo di osservare ancora più attentamente il contesto circostante, nutrendo
oltremodo le nostre perplessità. Ben evidenti sparsi lungo le valli e sopra le colline si riconoscono infatti gli
insediamenti dei coloni, a volte nel mezzo del nulla altre volte scientemente posizionati a ridosso di villaggi
arabo/palestinesi, soverchiandoli o bloccandone passaggi e vie di accesso. I tetti di mattone rosso
caratterizzano solitamente questi edifici “coloniali” e la strategia risulta fin troppo lampante anche ad
occhio nudo: si procede prima al posizionamento di prefabbricati/container per occupare fisicamente il
territorio (magari allontanando forzatamente chi già vi risiede) e permettere un primo insediamento
umano per poi, in rapida successione, rimpiazzarli con degli effettivi edifici in pietra fino a creare dei veri e
propri agglomerati urbani … e tutto questo in modo totalmente arbitrario e coattivo, in barba a ogni sorta
di accordo ufficiale, nel totale silenzio (o quantomeno assenza di fattive e vincolanti riprovazioni) di
qualsivoglia istituzione governativa internazionale. Ovviamente l’accostamento coi “dirimpettai” villaggi
arabi è impietoso, a cominciare dall’approvvigionamento idrico, difficoltoso o assente in alcuni di questi,
mentre in alcuni insediamenti coloniali sono ben visibili piscine, piantagioni rigogliose e ogni altro genere di
“comfort”. Le mie personali perplessità aumentano, però, constatando come anche in questi insediamenti,
il più delle volte, per quanto nell’agio si viva a loro volta all’interno di fili spinati, muri, torrette di controllo,
cancelli e ogni sorta di barriera protettiva possibile in una paradossale e ugualmente sconcertante “auto
segregazione”… che per certi versi mi risulta ancora più triste in quanto volontaria (e non imposta).
In prossimità di Abu Hindi conosciamo il barcellonese Alberto, giovane architetto che insieme ad altri
colleghi ha concepito (visto le numerose difficoltà logistiche e di reperimento dei materiali più idonei) e
realizzato (anche dando il suo proprio apporto manuale e di fatica) la scuola e la simpatica Inam, operatrice
locale di VDT.
La vallata che introduce al villaggio, però, è quanto di più triste (se fosse possibile) abbiamo potuto vedere:
il campo sorge infatti a valle della maggiore discarica della zona, utilizzata sia dalla Municipalità di
Gerusalemme, sia dalla colonia limitrofa. L’area è disseminata da sacchetti di plastica (e ovviamente altro)
che il più delle volte svolazzando liberamente fermandosi intrappolati tra i rami di qualche arbusto o pianta
avvolgendoli con i conseguenti danni ambientali che si possono figurare. In questo scenario è stato
volontariamente deciso di trasferire (ovviamente coercitivamente) il villaggio beduino e già solo questo dà
la misura della considerazione (nulla) che godono queste comunità agli occhi del governo israeliano … e non
solo.
Passiamo un piccolo sottopasso adornato dai disegni e le scritte di ivan, poeta di strada e artista, cofondatore di Art Kitchen, superato il quale arriviamo al villaggio: poche sparute baracche, una cisterna per
l’acqua e un bel canestro da basket con tanto di tabellone nel bel mezzo del nulla … più in fondo la “Scuola
di canne”. Anche qui ci accoglie il Mukhtar ma purtroppo i bambini oggi sono impegnati in una “gita”
fuoriporta. Arrivano non solo dal villaggio, ma anche da diversi altri limitrofi, ovviamente i più a piedi e
percorrendo ogni giorno chilometri sia in andata che in ritorno. Questa scuola è delimitata da una semplice
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recinzione e si sviluppa anch’essa a mò di corte, con tutte le stanze e le aule tutt’intorno. Alberto ci parla di
tutto il lavoro e lo studio impiegati nella realizzazione, la scelta dei materiali e delle tecniche al fine di
ottimizzare, tra le altre priorità, la ventilazione, l’isolamento e l’approvvigionamento idrico (la comunità
non è collegata all’acquedotto, diritto riservato alle limitrofe colonie, e l’approvvigionamento si realizza
tramite una canna in gomma da 2 cm di diametro, passibile di frequenti rotture e infiltrazioni). Entro in
quella che pare essere l’aula dei maestri (qui tutti uomini a differenza di Um Al Nasser) che, infatti, sono
quasi tutti presenti a discutere tra loro in maniera rilassata, non capisco se di argomenti didattici o meno.
Mi viene offerto del caffè e faccio due chiacchiere in inglese con qualcuno di loro chiedendo le materie
insegnate … è anche in allestimento un’aula di computazione! Nel cortile c’è un altalena senza sedili; pare
che il Mukhtar li faccia smontare alla sera dopo la chiusura della scuola, in quanto qualche bambino
potrebbe essere tentato di entrare fuori dagli orari scolastici per giocare : )
Viste le numerose condizioni avverse, il lavoro svolto da Alberto e dai suoi collaboratori risulta davvero
ancor più lodevole, ma è già tempo di rimontare sulla Mahmoud-mobile in direzione dell’altro
accampamento beduino di Khan Al Ahmar e la sua “Scuola di gomme”, costruita nel 2009 con duemila
pneumatici, argilla e legno e sotto perenne istanza di demolizione. Accoglie un centinaio di bambini e
bambine dai sei ai dieci anni, che altrimenti sarebbero costretti ad abbandonare gli studi. L’accesso al
villaggio è qualcosa di a dir poco avventuroso, in quanto praticamente chiuso dal passaggio della
superstrada :/ Vi entriamo quindi attraversandola a piedi , tra il passaggio di un auto e l’altra!
Al nostro arrivo è in pieno corso una grande festa; tutti i bambini, di diverse età, scorazzano, giocano,
cantano e ballano nel villaggio, tappezzato da bandiere palestinesi, in abiti tradizionali o in divisa scolastica
e campeggia all’ingresso un enorme cammello con baldacchino che servirà poi per le cerimonie finali. Una
bambina in divisa scolastica dallo sguardo sorridente e molto dolce si accosta subito incuriosita a noi, io
l’avvicino piegandomi verso di lei per salutarla e lei inaspettatamente mi da un bacio lasciandomi
totalmente sorpreso : ) Giriamo così un po’ spaesati, fino ad un “area congressi” dove ci dicono stia
parlando un membro del governo palestinese. Viene annunciata la nostra presenza, visitiamo le aule e
passiamo un po’ tempo coi bambini fino al momento, ancora, di dover salutare e a malincuore ritornare al
pulmino … ovviamente dopo aver ri-attraversato a piedi la superstrada :/
Muoviamo quindi in rapida successione verso il villaggio di Anata, dove il nostro Mahmoud fa il suo
ingresso e passaggio trionfale salutando tutti quanti; ci dice infatti di essere originario di qui. Visitiamo la
Cooperativa Femminile Silver Tent dove lavora anche Maria Luisa, altra operatrice di VDT. Visto l’orario, ormai
primissimo pomeriggio, pranziamo qui grazie ad Alberto che ci raggiunge con l’auto piena di … Maqluba!
(mentre qualcuno di noi comincia a mostrare, per quanto sempre squisito, sintomi di intolleranza al riso : )
).
L’occasione è sempre buona per discutere su quanto visto e ci circonda, sulle impressioni e i pensieri
personali, discorsi evidentemente al di sopra delle nostre esistenze che accendono però, sempre nei limiti
di un civile e costruttivo scambio di opinioni, l’animo di qualcuno. Finito di pranzare visitiamo la piccola
struttura e i laboratori dove le donne lavorano, a mano e con macchinari, consultiamo il catalogo e
prendiamo diretta visione degli articoli esposti a muro in una bacheca: orecchini, collane, pendenti,
braccialetti e altra bigiotteria. Ognuno di noi acquista qualche piccolo regalo per parenti ed amiche ed io
faccio in tempo anche a schiacciare una piccola e leggera pennichella post-prandiale sdraiato fuori su due
cubi di pietra : )
Ma la giornata è ancora lunga: lasciamo Anata alla volta di Kalandia, altro campo profughi fondato nel 1948
nei pressi di Ramallah dove vivono 20 mila persone sotto l’immancabile e costante pressione da parte dei
coloni. Qui visitiamo la cooperativa Peace Steps, progetto non profit cofinanziato da VDT insieme ad altre
istituzioni ed enti per la lavorazione del cuoio, specializzata nella produzione di sandali di qualità ... ma
anche borse, cinture, portachiavi. Questa microimpresa sociale utilizza macchinari provenienti dall’Italia e
impiega sei giovani palestinesi, formati sulle tecniche di pelletteria e sulla gestione d’impresa. Non è giorno
lavorativo e abbiamo così tutto l’agio per esaminare i prodotti e, naturalmente, anche qui fare incetta di
regali.
Lasciando Kalandia, in rapido incedere ci fermiamo nella vicina Ramallah per una camminata tra le
frenetiche e affollate vie del centro che si sviluppano intorno la principale Piazza dei Leoni e lungo le quali
spiccano i pittoreschi venditori di tè dotati, a mò di faretra, di “pratici” e giganteschi bricchi con valvola per
l’erogazione sul davanti. Un consueto succo dissetante prima di una veloce visita alla Muqata, il complesso
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immediatamente alle porte dalla città che ospita la tomba di Yasser Arafat, ornata di fiori e sorvegliata da
due guardie fisse ai lati. Siamo gli unici visitatori, almeno in questo momento, ma anche la gentilezza e la
disponibilità della giovane guardia all’ingresso, che comunque ci segue passo passo tenendoci sott’occhio,
denota che non ne passino molti e di frequente da queste parti.
Anche per la sera è in programma un suggestivo appuntamento culinario/istituzionale e cioè l’incontro con
cena presso il campo beduino di Harara. Con noi c’è anche Inam col novello marito e ritroviamo un po’
tutti i ragazzi di VDT conosciuti in questi giorni, Maria Luisa, Natalia, Alberto insieme a Giulia, Emanuela e
Dario, illustratori italiani anche loro presenti per un altro progetto rivolto alla formazione e allo scambio con giovani
illustratori palestinesi. C’è anche Suor Alicia delle Suore Comboniane di Betania, molto attive sul territorio.
Arriviamo sulla Mahmoud-mobile che ci scarica in pieno deserto quando ormai è l’imbrunire, il cielo
completamente stellato e le luci di Gerusalemme sono in lontananza; soffia una fresca e piacevole brezza
notturna e tutto il contesto ha qualcosa di magico. Il tempo di superare a piedi un paio di piccole dune in
compagnia di qualche ragazzo del campo (alcuni già incontrati a Khan Al Ahmar e in abiti rigorosamente
“occidentali”) e siamo al villaggio beduino, dove veniamo accolti tutti sotto una grande “tenda” (più che
altro una struttura in tubi e teli) appositamente eretta per l’occasione, dove ci sediamo tutti intorno in una
ampio cerchio sul manto di tappeti e veniamo subito rifocillati di caffé dai solerti e riguardosi ragazzi
beduini. Ci attende il Mukhtar locale, lui sì in Bisht e kefiah d’“ordinanza”, insieme a qualche suo
“collaboratore” e a Abu Suleiman, altro cooperatore locale di VDT che anche in questo caso fa da tramite (e
non solo) con la lingua inglese. Anche qui ci viene descritta un’esistenza a dir poco molto difficoltosa e ai
limiti (e oltre) del possibile e l’idea generale che mi faccio (anche dopo quanto già visto e sentito) è che le
comunità beduine “godano” di una considerazione ancora minore (per non dire meno del nulla) rispetto a
quelle palestinesi agli occhi dei governi mondiali, in primis israeliano e indirettamente degli altri. La vita di
queste comunità è un susseguirsi quotidiano di vessazioni, pressioni e negazioni dei più basilari diritti civili,
basti solo vedere come e dove vengono continuamente segregate territorialmente tagliandone ogni forma
elementare di approvvigionamento, di acqua prima di tutto. Anche l’assistenza medica è pressoché nulla e
lasciata all’esclusiva iniziativa di associazioni e affini. Anche VDT, insieme al comune di Milano, ha già
provveduto all'acquisto di una jeep per garantire gli spostamenti da queste comunità beduine verso i servizi
di base, soprattutto sanitari e di emergenza per l’appunto. C’è anche un altro progetto di un unità mobile
sanitaria, una vera e propria clinica mobile in questo caso, di cui il prototipo è in via di ultimazione. In caso
di emergenze (non rare viste le condizioni di vita) ovviamente devono essere richiesti (e motivati) vari e
lunghi permessi per poter recarsi negli ospedali attrezzati di Tel Aviv o Gerusalemme, burocrazia che
ovviamente fa a pugni, appunto, con l’urgenza delle richieste stesse, in alcuni casi spingendosi fino alle
estreme conseguenze per gli interessati :/
Ai beduini, in pratica, non è permesso prendere la benché minima iniziativa di qualsivoglia genere,
costantemente sotto controllo e minaccia (di terra ma anche aerea) del governo israeliano. Ci viene
spiegato che esistono persone stipendiate appositamente ed esclusivamente per girare quotidianamente
gli accampamenti e controllare, ed eventualmente segnalare e far abbattere immediatamente, qualsiasi
sorta di minima nuova edificazione; la stessa struttura dove siamo ospitati è stata eretta per l’occasione a
seguito di autorizzazione e, ci dicono, deve essere smantellata subito il giorno seguente. E a diretta nonché
tempista comprova di tutto ciò, ecco che sulle nostre teste sentiamo presidiare veloci almeno un paio di
elicotteri … evidentemente “qualcuno” ha a cuore le sorti del nostro incontro ; )
Siamo così coinvolti dai discorsi e le domande che comincia a farsi tardi per la cena, che infatti i solerti
ragazzi beduini ci servono quando ancora stiamo dibattendo … evidentemente anche il Mukhtar comincia
ad avere appetito : ) Ovviamente ci viene servito … Mansaf! … o comunque una pietanza a base di carne e
riso : )
Da tutti i discorsi fatti emerge con un po’ di sorpresa personale una realtà beduina a metà tra la tradizione
e la consapevolezza che, così come è sempre stata la loro esistenza, questa non potrà avere un lungo futuro
in questo contesto. Le gerarchie, infatti, sono sempre molto importanti: la posizione predominante del
Mukhtar e degli uomini anziani, il rispetto e l’obbedienza dei giovani, il ruolo delle donne all’interno dei
nuclei familiari (donne che infatti non vediamo in quanto, a detta dello stesso Mukhtar, lasciate
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volontariamente all’interno del villaggio), ma v’è anche la coscienza di dover dare un futuro diverso (pur nel
mantenimento delle radici) alle nuove generazioni e il desiderio di rendere a loro accessibili scuole,
università e una vita sociale anche all’interno delle stesse città.
Simpatico il siparietto, finita la cena e i discorsi, del Mukhtar che, incuriosito da Obe intento a rollarsi una
sigaretta, dopo averlo osservato attentamente per qualche minuto, si piega al suo fianco per imitarlo
seguendone le direttive con discreti risultati : )
Arriva così anche qui il momento del lungo e sentito commiato: il piccolo fuoco acceso dai giovani non
lontano dalla tenda risplende e scoppietta nel silenzio e nel buio della notte beduina, mentre uno di loro
accenna a qualche nota di flauto che, anche se timida e sgraziata, si intona perfettamente col momento
rievocando suggestivamente il sibilo del vento.
Facciamo ritorno al pulmino e all’Hotel. Lasciare di volta in volta queste persone e questi luoghi ci fa sentire
più ricchi umanamente, ma dopo quello che sentiamo e vediamo ci lascia sempre anche un senso di
amarezza e triste impotenza. Evidentemente la stanchezza è però ora predominante e ci corichiamo in vista
dell’ultima piena giornata di viaggio.
MARTEDI’ 30 APRILE
Oggi la sveglia è puntata strategicamente molto presto per tornare a visitare la Spianata delle Moschee,
rinviata i primi giorni visti i tempi ristretti, evitando la consueta lunga coda all’accesso. Sennonché, arrivati
a destinazione all’orario convenuto delle 8.00, troviamo comunque la stessa lunga coda che ci attende :/
Nasce una consultazione interna al gruppo, che così si divide tra quanti decidono di perseverare mettendosi
in coda e quanti (la maggioranza) avendola già visitata in precedenti viaggi optano per ripiegare su percorsi
alternativi ugualmente meritevoli lungo le mura fino alla Porta di Sion, per seguire alla Tomba di Davide e
al Cenacolo fino al Quartiere Armeno. Io sono tra i primi e dopo un’attesa di circa un’oretta e i consueti
controlli, accediamo alla Spianata delle Moschee per una veloce visita dato il poco tempo rimasto e il
serrato programma dell’ultimo giorno.
La superficie della Spianata è indubbiamente vasta, occupata da molti religiosi, religiose e gruppi di turisti.
Abbiamo solo il tempo di fare una rapida visita da fuori alle due grandi moschee presenti, la Al Aqsa (la più
grande di Gerusalemme che può ospitare circa 5.000 fedeli all'interno e attorno ad essa) e la Moschea di
Omar dalla cupola d’oro, altrimenti detta il "Duomo della roccia" e che domina lo scenario su un livello
rialzato. Il ritrovo è alla Porta di Giaffa, dove l’impeccabile Mahmoud già ci aspetta per muovere alla volta
di Hebron, distante pochi chilometri a sud di Gerusalemme.
Dopo il nostro ritorno in Italia, a chi mi chiede lumi sulla situazione socio-politica israelo-palestinese
consiglio sempre vivamente una visita in questa città per averne un’idea immediata e quanto più esplicativa
senza spendere troppe parole, soggettive e non sempre pienamente esaurienti. All’entrata in città Serena ci
mette già subito sull’avviso di non spaventarci nell’eventualità si vedano soldati armati sbucare magari dagli
stretti vicoli tra le costruzioni in pietra per poi scomparire apparentemente nel nulla : | Si avverte infatti un
clima un po’ più pesante e “caldo” del consueto … e non solo meteorologicamente parlando; qui più che
altrove, difatti, i due mondi musulmano ed ebraico risultano molto ravvicinati e sconfinanti uno nell’altro,
con tutti i comprensibili maggiori attriti del caso.
Dopo una breve camminata arriviamo infatti al cospetto della moschea locale, la Moschea di Abramo e,
tolte le scarpe e le donne intabarratesi in mantelle con cappuccio di “hobbitiana” memoria, entriamo
visitando le tombe dei patriarchi e delle matriarche (Abramo e Sara, Isacco e Rachele, Giacobbe e Lea),
mentre c’è chi, seduto o sdraiato sugli immancabili tappeti, è assorto in preghiera e nella lettura del
Corano. In particolare, nell’antro finale si arriva al cospetto di una piccola finestra inferriata dalla quale è
possibile solo vedere a breve distanza una grossa impalcatura funebre con drappo verde ornato d’oro: è la
Tomba di Abramo.
Riusciamo alla calura esterna, ripercorriamo la via di accesso alla Moschea e “giriamo l’angolo” trovandoci
al cospetto … della Sinagoga! : ) Ovviamente soliti tornelli e soliti controlli di rito, accediamo al piccolo
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parco antistante l’entrata (tra l’altro occupato da una milizia dell’esercito in divisa in quella che pare a tutti
gli effetti una “gita premio”) e saliamo la scalinata che porta all’ingresso. L’interno sembra quasi più una
biblioteca, con un patio semiaperto al centro e varie stanze con numerosi libri tutte intorno. Da dentro il
patio alzo lo sguardo in alto verso l’apertura al cielo e vedo, aldilà della rete protettiva … la mezzaluna
musulmana sulla cupola della contigua Moschea! : O Ciò non bastasse, entro in una stanza “al cospetto di
una piccola finestra inferriata dalla quale è possibile solo vedere a breve distanza una grossa impalcatura
funebre con drappo verde ornato d’oro”: esatto, è proprio la stessa Tomba di Abramo vista da dentro la
Moschea! : O
Lasciata anche la Sinagoga, percorriamo la stretta via del Souk arabo, dove il gruppo un po’ si disunisce e,
unica circostanza in tutto il nostro viaggio, alcuni ragazzi tentano con troppa insistenza di venderci souvenir
palestinesi seguendoci passo passo anche dopo aver acquistato (uno di loro ci seguirà fino a quasi dentro il
pulmino!). Uno ragazzo mi si avvicina e sembra più interessato a parlarmi piuttosto che a vendermi
qualcosa; nel suo discreto inglese tenta di spiegarmi le loro condizioni di vita invitandomi a rendere
testimonianza una volta tornato in Italia. In effetti, alzando lo sguardo, si nota una rete protettiva lungo
tutto lo stretto vicolo del Souk e sopra di questo le abitazioni dei coloni con tanto di onnipresenti bandiere
con la stella di David. Anche questa è una strategia consolidata e diffusa da parte dei coloni, ovvero quella
di occupare le abitazioni più alte per relegare sempre di più la comunità araba. Mi dice di seguirlo
infilandosi in un piccolo porticato laterale, affinché io possa prendere visione di dove e come sono costretti
a vivere. Da lì imbocca una scalinata e arriviamo davanti le porte di due piccole stanze (in una c’è anche un
uomo che dorme) dicendomi che lì vivono undici persone. Mi spiega che a queste famiglie vengono
“offerti” spesso delle somme in denaro affinché liberino questi locali e, a seguito del loro rifiuto, membri
dell’esercito israeliano, a loro totale discrezione, irrompono con la forza di tanto in tanto per essere più
convincenti. Senza accorgermene saliamo un’altra rampa di scalini e ci troviamo sul piccolo terrazzino sulla
cima, dove mi mostra la cisterna dell’acqua con fori di proiettile. Mi guardo intorno e, tra i tetti circostanti,
vedo un paio di torrette di controllo con guardia armata annessa. A questo punto realizzo, non senza un filo
di apprensione, che sono sulla cima di un’abitazione araba circondata da coloni e soldati armati israeliani,
per giunta insieme ad un arabo e, prima che a qualcuno di questi venga in mente di fare un’azione
dimostrativa (vista la facilità con la quale le intraprendono e visto che anche i miei tratti somatici
potrebbero trarre in inganno), mi affretto a ridiscendere le scale e raggiungere di nuovo il gruppo salutando
il mio nuovo amico.
Col pulmino ci spostiamo verso la parte più centrale della città, dove pranziamo al King of Falafel, takeaway di cucina locale.
Prima di lasciare la città sostiamo anche al Tamimi Ceramics, laboratorio di ceramiche tipiche
dell’artigianato locale, dove anche ci prodighiamo in acquisti e regali.
L’ultimissima tappa del nostro lungo e intenso viaggio è riservata a Betlemme e alla Basilica della Natività,
dove giungiamo nel tardo pomeriggio. All’interno è in corso una cerimonia ortodossa e l’accesso a quello
che viene considerato il luogo della nascita di Gesù Cristo avviene attraverso un portone sulla parte destra
del colonnato, dove sostiamo in attesa diversi minuti prima dell’apertura insieme ad altre persone
radunatesi nel frattempo. Il portone dà su un altro androne appena a lato dell’altare principale e da lì si
scende (molto pazientemente visto il numero di persone) attraverso degli scalini passando per una stretta
apertura fino a un paio di stanze sotterranee. Qui, sotto un dipinto raffigurante la scena della natività e un
altro raffigurante l’avvento dei Re Magi, c’è un piccolo tabernacolo, sotto la cui cavità è raffigurata una
stella a 14 punte indicante proprio il presunto luogo dove giacque il Nazareno in fasce. Qui la gente si
accalca ma senza isterismi e si genuflette in adorazione.
Alcuni del gruppo, avendo già visitato in passato anche la Basilica, hanno preferito tuffarsi nel souk locale
per le ultime spese e ci si ritrova quindi tutti nell’ampio piazzale antistante la Basilica quando ormai è il
tramonto e il sole scende lentamente dietro il Minareto che, ovviamente, si staglia proprio di fronte alla
Basilica, sull’altro lato della città : )
Torniamo all’Hotel e i pochi irriducibili che ne hanno ancora le forze si danno appuntamento, dopo la doccia
e una veloce cena in albergo, per un’uscita finale prima dell’ultima atroce levata per essere all’aeroporto di
Tel Aviv per le 4.30 … le canoniche 3 ore prima del nostro volo delle 7.30, anche presagendo dei controlli
ancora maggiori rispetto all’andata. Ovviamente io sono del gruppo e ci rechiamo al ristorante Al Azhar
della prima sera per un’ultima Taybeh, l’unica birra prodotta in Palestina il cui lungimirante proprietario e
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concepitore allestisce perfino una vera e propria Oktoberfest con tutti i crismi proprio a Taybeh, città della
Cisgiordania che dista 30 km a Nord-Est di Gerusalemme.
Torniamo in albergo per concederci qualche ora di sonno prima del definitivo congedo. La sveglia è meno
terribile del previsto e in strada ci aspetta come sempre puntualissimo il grande Mahmoud col suo pulmino.
Percorriamo le buie e ancora deserte strade di Gerusalemme Est e all’aeroporto salutiamo sentitamente
Mahmoud scattando un paio di foto veloci con lui. I controlli, contrariamente alle previsioni, sono molto
meno puntigliosi del previsto, quantomeno ai bagagli. Il pre-controllo passaporto invece è più minuzioso,
col funzionario El Al che tiene la mia foto sul passaporto aperta a fianco del mio viso per meglio verificare,
fino a che, evidentemente non convinto, mi chiede di mostrargli anche la carta d’identità : )
L’avventura è davvero finita. A Malpensa ognuno prende la propria strada, ma credo ci sia la
consapevolezza in tutti noi di aver trovato dei formidabili compagni di viaggio e di aver vissuto
un’esperienza veramente per pochi. Molto spesso quello che abbiamo visto e sentito non ci è piaciuto, ma
sicuramente ora ognuno di noi ha preso coscienza in modo diretto e “sul campo” dell’annosa questione
israelo-palestinese. Nessuno di noi può prevedere come si svilupperanno le vicende in questo martoriato
fazzoletto di terra; l’unica cosa che credo abbiamo capito è che la soluzione può essere purtroppo soltanto
politica e deve necessariamente coinvolgere le maggiori potenze della terra, colpevolmente finte cieche e
sorde di fronte a decenni di continui soprusi nei confronti della popolazione palestinese.
Nel nostro piccolo, noi viaggiatori consapevoli possiamo “solo” portare la nostra testimonianza e divulgare
quanto più possibile quanto abbiamo visto e vissuto, col pensiero che va ai tanti volti incontrati e lasciati
laggiù; dai bambini ai coltivatori, dai pescatori ai beduini, nella triste consapevolezza che, come ci disse al
porto il rappresentante sindacale dei pescatori, “esiste un popolo in gabbia a cui si passa ogni tanto un pò
di cibo attraverso una fessura, tanto per non farlo morire di fame".
a cura di
con la collaborazione di
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e