Il metodo antistronzi

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Il metodo antistronzi
LIBRO
IN ASSAGGIO
IL METODO
ANTISTRONZI
DI ROBERT I. SUTTON
INTRODUZIONE
Quando incontro una persona cattiva, la prima cosa che penso è: “Mamma mia, che
stronzo! “.
Scommetto che succede anche a voi. Ci sono tanti modi per chiamarli: prepotenti,
maleducati, cafoni, bastardi, aguzzini, tiranni, maniaci oppressivi, despoti,
egomaniaci... ma,
almeno per quanto mi riguarda, stronzo è la parola che meglio
di qualunque altra esprime la paura e il disprezzo che provo
per questi personaggi.
Ho scritto questo libro perché, sfortunatamente, prima o poi tutti noi ci troviamo a
dover fare i conti con gli stronzi sul posto di lavoro. Il metodo antistronzi mostra
innanzi tutto come queste personalità distruttive feriscono il prossimo e danneggiano
la produttività aziendale. Ma questo libro spiega anche come tenere i cafoni alla larga
dal vostro luogo di lavoro, come recuperare quelli che, vostro malgrado, vi ritrovate
tra i piedi, come liberarvi una volta per tutte di chi non riesce a (o non intende)
cambiare registro e, infine, come limitare i danni provocati da questi autentici
oppressori di professione.
La prima volta che ho sentito parlare del “metodo antistronzi” è stata più di quindici
anni fa, durante una riunione di facoltà all’Università di Stanford. Nel nostro piccolo
dipartimento c’era un clima di grande supporto reciproco e collegialità: cosa rara se si
pensa alla malignità spicciola ma implacabile che caratterizza quasi tutti gli ambienti
accademici. Quel giorno, il nostro preside Warren Hausman stava tenendo un dibattito
per decidere chi assumere come nuovo membro della facoltà.
Uno dei docenti propose di assumere un noto ricercatore di un’altra università e un
altro collega rispose: “Sentite, non mi importa se ha vinto il premio Nobel... Non
voglio stronzi a rovinare il nostro gruppo”. Lì per lì ci facemmo tutti una bella risata,
poi cominciammo a parlare seriamente di come tenere al di fuori della nostra cerchia
le persone oppressive, arroganti e villane. Da quel momento in poi, quando ci
trovavamo a discutere di nuove assunzioni in facoltà, ognuno di noi aveva il diritto di
contestare la decisione obiettando: “il candidato sembra sveglio, ma assumerlo non
sarebbe in contrasto con il metodo antistronzi?”. Inutile sottolineare che il
dipartimento diventò un posto ancora più piacevole.
In altri ambienti lavorativi il linguaggio è più garbato e si parla di regole contro i
“cafoni”, i “bastardi” o i “buffi”. Altre volte il metodo esiste ma non è esplicitato.
Qualsiasi forma esso assuma, io mi auguro di poter sempre lavorare in un luogo in cui
vige il “metodo antistronzi”: mai e poi mai vorrei trovarmi in una delle migliaia di
aziende che ignorano, tollerano o addirittura incoraggiano la prepotenza.
Non avevo programmato di scrivere questo libro. L’idea è nata da una proposta
semiseria che feci alla rivista «Harvard Business Review» nel 2003, dopo che la
caporedattrice Julia Kirby mi aveva chiesto dei suggerimenti per la lista di “Idee
rivoluzionarie” pubblicata annualmente sulla rivista. Dissi a Julia che la migliore
pratica aziendale che conoscessi era il metodo antistronzi. Ma la «Harvard Business
Review» era troppo rispettabile, troppo autorevole e, detto francamente,
troppo bacchettona per pubblicare una volgarità, anche se sulle sue pagine. Obiettai
che forme censurate o annacuate come “metodo anticafoni” o “metodo antiprepotenti”
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semplicemente non avrebbero avuto lo stesso sapore autentico o lo stesso impatto
emotivo: avrei scritto l’articolo soltanto avessero stampato la frase “metodo
antistronzi”.
Mi aspettavo che la «Harvard Business Review» declinasse gentilmente la mia
offerta. In segreto, non vedevo l’ora di lamentarmi della visione ingenua e
anestetizzata della vita aziendale presentata sulle pagine della rivista, e di come la
redazione non avesse avuto il coraggio di pubblicare una frase che rifletteva il vero
modo di pensare e di parlare della gente. Mi sbagliavo. Non solo la «Harvard
Business Review» pubblicò l’articolo (con il titolo More Trouble Than They’re
Worth, ovvero “Il gioco non vale la candela”) nella sezione “Idee rivoluzionarie” del
febbraio 2004, ma la parola “stronzo” venne ripetuta per ben Otto volte nel pezzo!
Tuttavia la sorpresa più grossa arrivò dopo la pubblicazione. Prima di allora avevo
scritto per la «Harvard Business Review» altri quattro articoli, a cui erano seguite una
manciata di e-mail, telefonate e interviste. Ma era poca cosa di fronte al diluvio che si
scatenò dopo l’articolo “antistronzi”, che pure era ben nascosto tra le altre diciannove
“Idee rivoluzionarie”. Ricevetti decine e decine di e-mail di risposta (e lo stesso
avvenne per il pezzo successivo, pubblicato su «CIO Insight») e ancora ne ricevo ogni
mese.
La prima e-mail mi arrivò da un manager di una ditta che si occupava di riparazioni di
tetti: mi disse che l’articolo lo aveva convinto finalmente a prendere provvedimenti
contro un dipendente bravo ma maleducato. Poi i messaggi cominciarono a fioccare
da ogni parte del mondo, da persone che svolgevano le professioni più disparate: un
giornalista italiano, un consulente spagnolo, un contabile della Towers-Perrin di
Boston, il Ministro consigliere per la gestione degli affari dell’Ambasciata degli Stati
Uniti a Londra, il manager di un hotel di lusso a Shanghai, il responsabile delle risorse
umane di un museo di Pittsburgh, l’amministratore delegato della Mission Ridge
Capital, un ricercatore presso la Corte Suprema degli Stati Uniti e così via.
Forse, pensavo, i miei colleghi accademici che si occupavano di bullismo e
aggressioni sul lavoro avrebbero trovato la parola stronzo troppo cruda e rozza. Mi
sbagliavo. Molti, anzi, approvavano la scelta. Uno di loro addirittura mi scrisse: “Il
suo pezzo sul ‘metodo antistronzi’ ha certamente trovato una vasta eco in me e nei
miei colleghi. Anzi, spesso diciamo che potremmo calcolare una buona parte di
varianza nella job satisfaction di un individuo soltanto introducendo il ‘fattore
stronzo’. In poche parole, se potessimo chiedere a un dipendente se il suo capo è uno
stronzo, non avremmo bisogno di inserire altre domande nei questionari... Quindi
sono d’accordo sul fatto che il termine da lei usato, benché potenzialmente offensivo,
colga meglio di qualunque altro l’essenza di questo tipo di persona”.
Il mio breve pezzo sulla «Harvard Business Review» sfociò in una serie di comunicati
stampa, articoli e interviste su mezzi di informazione come la Natjonal Publjc Radio,
la rivista «Fortune Sma Business» e, soprattutto, in una rubrica curata da Aric Press,
caporedattore di «American Lawyer» che esortava gli studi legali a effettuare
“certificazioni contabili sugli stronzi”. Press si rivolgeva ai titolari degli studi: “Vi
suggerisco di porvi questa domanda: perché siete disposti a tollerare un
comportamento del genere? Se la risposta è 2500 ore lavoro in fattura, almeno avrete
individuato le vostre priorità senza sostenere i costi di una consulenza”
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Naturalmente gli avvocati e gli studi legali non Sono casi isolati. Persone sgradevoli si
trovano più o meno in ogni campo lavorativo e in ogni paese; ad esempio, espressioni
come arse (“coglione”), arsehole (“rompicoglioni”) e, più gentilmente, a nastry piece
of work (“deficiente”) vengono abitualmente usate in Gran Bretagna e farebbero
perfettamente al caso nostro come sinonimi di stronzo. Il termine asshat è una
variante leggermente meno volgare diffusa nelle community on line. Il termine
assclown invece è diventato popolare grazie alla star del wrestling Chris Jericho e alla
celebre serie tv inglese The Office in cui compare un capo stupido e autoritario.
Comunque vogliamo chiamarli, spesso questi personaggi non si rendono conto del
loro comportamento. Nei casi peggiori, ne vanno addirittura fieri. Altre Volte si
sentono in difficoltà e in imbarazzo per il loro modo di comportarsi, ma sembrano
incapaci di contenere o di controllare l’aggressività. Ciò che li accomuna, tuttavia, è la
tendenza a esasperare, sminuire e ferire colleghi, superiori, sottoposti e, a volte, anche
clienti e consumatori.
A convincermi a scrivere questo libro sono state la paura e la disperazione che ho
visto negli occhi delle persone, i trucchi escogitati per sopravvivere con dignità in
luoghi infestati da stronzi, le storie di vendetta che mi hanno fatto ridere a crepapelle,
e le mille piccole vittorie consumate ai danni dei persecutori. Ho scritto Il metodo
antistronzi anche per dimostrare che un clima lavorativo civile non è una pia illusione
ma una possibilità concreta, e che il disprezzo indiscriminato può essere spazzato via
e sostituito dal rispetto reciproco, se una squadra o un’organizzazione viene gestita
nel modo giusto (e un clima lavorativo civile, di solito, garantisce anche migliori
risultati). Spero che questo libretto apra una breccia nei cuori e sia di conforto per chi
si sente oppresso dagli stupidi arroganti con cui è costretto a lavorare, sia che siano al
suo servizio o che si sforzi egli di coordinarli. Spero inoltre che dia a tutti dei
suggerimenti utili per allontanare o per far rinsavire gli stronzi o, laddove ciò non sia
possibile, per limitare i danni che questi loschi personaggi provocano nei luoghi di
lavoro
© 2007 Elliot Edizioni s.r.l.
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