Non cogliere MAI un fiore in un campo o in un

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Non cogliere MAI un fiore in un campo o in un
“Non cogliere MAI un fiore in un campo o in un bosco.
Se mai compralo. Un fiore reciso muore
entro la sera: appassisce subito.
I fiori coltivati invece sono scelti
per la loro resistenza, ricevono cure particolari
e visto che quando sono in vendita
ormai sono recisi, tanto vale comprarli
e tenerli in casa per i giorni che restano loro
per fare profumo e splendere.
Ma i fiori di campo, i fiori in natura sono
tutt’altra cosa.
Sono di tutti, non li puoi rubare alla vista del mondo,
servono a mille insetti, servono a mille scopi,
sono vivi e possono e devono morire di una morte naturale,
giusta.
Mai coglierli, mai!”
da “Esergo!” di Carlo Maria Tarmini
Alle donne con i sandali con i tacchi
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Tafari aveva sete ma non poteva bere.
Aveva la bocca secca, impastata, amara e con un orribile
saporaccio; le labbra appiccicaticce, coperte come la lingua
da una patina leggermente biancastra, come di chi ha sete
perché sta male.
E lui aveva tanta, tanta, tanta sete.
Ma non poteva bere, non poteva e basta. Forse era semisveglio o semiaddormentato, come preferite, ma era nel
pieno di un bellissimo incubo. Bellissimo si fa per dire, naturalmente, bello nel senso che come incubo era perfetto, a
tutto tondo, un gran bell’incubo insomma: anche le cose
brutte quando sono veramente e perfettamente brutte hanno
una loro perfezione, pensate ai campi di concentramento, ai
lager e ai gulag, quali perfetti e bellissimi orrori sono stati. O
sono?
Non poteva bere e non capiva perché. Non è che nel
sogno ci fosse dell’acqua irraggiungibile o che la sete fosse
giustificata da qualcosa, dal caldo, dal deserto, no, nulla di
tutto questo. Un sogno notoriamente non ha nessun bisogno
di essere coerente: è emozione pura, pura comunicazione.
Il bisogno di bere era presente, onnipotente e distruttivo;
ma l’impossibilità di bere non era meno totale. Nel sogno era
a letto ma non dormiva e sapeva di essere sveglio; teneva gli
occhi chiusi perché sentiva che se li avesse aperti avrebbe
capito perché aveva tanta sete. E lui non voleva capirla quella maledetta sete, voleva solo soddisfarla, e non sapere da
cosa era causata.
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Tafari faceva di tutto per riuscire a non pensare al fatto che
aveva voglia di bere alcool: in particolare vino, e vino in
brick, un qualunque vinaccio da quattro soldi in cartone, se
possibile da meno di un euro, novantanove centesimi per un
litro di vino rosso, pesante e pastoso. Quello e non un altro;
quello e non i leggeri bianchi aromatici che tanto gli piacevano un tempo; quello perché se lo poteva permettere: con
poche ore di accattonaggio avrebbe trovato i soldi sufficienti
per comprarsene almeno due litri e due litri forse potevano
bastare a dormire, a dormire senza sognare, a non pensare, a
restare lì immobili, con la bocca impastata e gli occhi chiusi,
sperando che durasse all’infinito, sperando di poter continuare a sognare di se stesso che aveva sete e che sognava di se
stesso che non si voleva svegliare e che però beveva...
Cos’è che ci fa svegliare da un incubo? Se non veniamo
svegliati da qualcuno, da qualcosa di esterno che interrompe
il sonno, cos’è che fa sì che un incubo si interrompa? Forse
è sempre il fatto che il sogno è diventato insopportabile, più
della realtà che in qualche modo, da qualche parte, l’ha generato. Forse è il momento in cui il sogno diventa uguale alla
realtà, e allora tanto vale svegliarsi. O forse l’incubo è così
lontano dalla realtà e così orribile che quando sta per svelarsi, quando stiamo per capire cosa c’è dietro, quale quotidianità si nasconde dietro l’orrore che stiamo sognando, allora
preferiamo svegliarci. Non credo si sappia davvero, non
credo che si saprà mai davvero; forse bisognerebbe chiederlo a qualche psicologo, fra i molti che dicono di sapere;
ammesso però che ce ne sia qualcuno che lo sappia davvero.
Molto più probabilmente non c’è niente da sapere ed anche
gli incubi, come la vita spesso, non hanno senso, non molto
almeno: finiscono così come sono cominciati, finiscono perchè devono.
Così Tafari stava sognando di essere inseguito e di non
riuscire a scappare. Cani, jene, lupi, animali feroci, e anche
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animali orribili perchè indefiniti, innominabili e ululanti che
lo inseguivano, neri, scuri, sporchi, affamati, con la bava alla
bocca. E lui correva ansando e con la sensazione di non
riuscire a fare un passo, come si muovesse sott’acqua, o
meglio immerso in un’ambra liquida, densa, gialla e sempre
meno luminosa, un’ambra che si stava chiudendo su di lui
come fosse un insetto, per cui i cani e le jene lo avrebbero
raggiunto, morso e dilaniato e lui non poteva correre di più
perché era ubriaco!
Era completamente ubriaco, barcollava dall’ubriachezza,
era già pieno di vino, lo stava per vomitare tanto ne aveva
bevuto e questo non poteva essere vero, questo non doveva
accadere!
E quali che siano i motivi dei sogni, i loro perché ed i percome, fu proprio il pensiero di essere ubriaco che lo svegliò:
la cosa veramente intollerabile era quella.
Ormai l’ultima volta che era stato ubriaco risaliva a più di
un anno prima. Certo, era stata anche un’ubriacatura che
durava quasi ininterrottamente da due anni. Ma era quello il
suo incubo peggiore, anche da sveglio: tornare a essere un
barbone etiope (in realtà per tre quarti etiope e per un altro
quarto italiano) alcolizzato che viveva di elemosina, di accattonaggio fatto per avere i pochi soldi che servono per comprare vino cattivo e per restare sempre ubriaco.
Era scivolato con sorprendente rapidità e scioltezza giù
per la china della disperazione e dell’alcolismo perché... perché accade e basta. Accade a volte perfino facilmente: non
c’è bisogno dell’eroina per starsene fuori dal mondo, attutiti,
ovattati, imbozzolati; basta il vino, anzi, il vino è meglio,
dato che costa di meno e se ne trova tanto di più e soprattutto più facilmente; è per questo che in tutto il mondo il numero degli alcolisti cronici è venti volte superiore a quello degli
eroinomani e venti volte superiore è il numero dei morti causato dall’alcol.
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Tafari era fuggito in Italia anni prima, lasciando il suo
lavoro di professore di lingue, italiano in particolare, all’università di Addis Abeba, dopo l’ennesima crisi politica, violenta come tutte le altre, che aveva causato la morte di sua
moglie (morte a cui lui aveva assistito impotente).
Aveva scelto l’Italia per molti motivi: personali, di affinità,
per conoscenza e affetto. Sua madre era per metà italiana, e
lui pur avendo solo pochi, lontani parenti in Italia, l’aveva
frequentata da giovane, ci aveva studiato, vissuto. Conosceva
e amava l’Italia come una seconda patria.
E dopo la sua fuga, in Italia per un po’ aveva resistito,
conducendo una vita da rifugiato politico, attivo, autonomo,
normale; poi l’insostenibilità del ricordo della morte di sua
moglie, di una vita con un lutto troppo grande da metabolizzare, lo aveva piegato, spinto facilmente fra le braccia di
Bacco, come diceva all’inizio di quel percorso, quasi scherzando, atteggiandosi a scettico, a ubriaco simpatico; e il suo
indicibile passato lo aveva relegato in uno stato di quasi
coma etilico che era durato per due anni. Nel corso dei quali,
quasi intenzionalmente aveva dimenticato tutto di sé, le lingue che parlava, i suoi desideri e progetti. Era rimasta solo la
conoscenza dell’amarico, la sua lingua materna, e poco più.
Il vino è sdrucciolevole. Unto. Fa scivolare dolcemente, nemmeno fosse olio. Il vino inganna, perché è buono, gradevole, va
giù che è una bellezza. Tutti lo bevono, è dappertutto. Fa fico.
Un anno prima, l’aver assistito all’assassinio di una
donna (seguito da una crisi d’astinenza forzata, per tre giorni in una cella della questura di San Vitale, la questura
Centrale di Roma) lo aveva riportato alla realtà, alla coscienza di sé e a gran parte della sua memoria. Ma non ancora
tutta: ricordava quasi tutta la sua vita, ma a lampi improvvisi, parti rimosse della sua memoria apparivano di nuovo ed
erano particolari o brandelli significativi.
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La sua memoria era come un muscolo atrofizzato che
stenti a riprendere in pieno a funzionare; e la sensazione che
gli dava, a volte, era quella del formicolio che si sente quando si muove un braccio o una gamba dopo averli tenuti a
lungo in una posizione forzata, compressa: il sangue torna,
dà vita e prurito.
Dall’abisso nero di quella perdita di memoria, ancora i
ricordi continuavano ad affiorare, come relitti di un naufragio, pezzi di legno che galleggiano venendo da sotto, in
mezzo alle acque ancora sconvolte dall’inabissarsi di una
nave: ricordava quasi sempre se stimolato da qualcosa di
esterno, di visivo e, a volte, più intenso o importante era il
ricordo, più forte la fitta di dolore che lo accompagnava.
Come se ogni ricordo riprendesse il suo posto in un incastro
forzato che produceva scintille.
In quei dodici mesi che erano passati da allora si era ricostruito una vita ed era riuscito a trovare l’assassino di Eurosia
e le prove per condannarlo.
Proprio così: un barbone ultraquarantenne, etiope, ex
alcolizzato e praticamente se non clandestino, irregolare, era
riuscito a fare il detective, a Roma, e a trovare assassino e
prove. Sembra difficile, a dirlo, ma la cosa più difficile da
fare era stata smettere di bere: iniziare e continuare, per tutti
e dodici i mesi.
No, ubriaco no.
Tafari, ormai completamente sveglio, si rizzò a sedere,
ansando ancora per la corsa che non aveva fatto se non in
sogno.
Era l’alba, una diafana e celeste alba di fine aprile, le prime
luci filtravano dalla finestra nella sua stanza nel sottotetto dell’oratorio della ottocentesca chiesa di Sant’Eurosia, oratorio
annesso anche alla chiesa di San Filippo Neri, alla Garbatella.
L’edificio era della prima metà dell’Ottocento, una specie
di ponte fra la chiesa antica e quella nuova, costruita nel
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1952 quando il quartiere era, se non nuovo con i suoi trent’anni di storia, senza dubbio non vecchio e pieno dei bambini figli dei baby-boomers degli anni ’50.
Le due chiese e l’oratorio nel mezzo costituivano uno dei
centri del quartiere, la Garbatella, creato all’inizio degli anni
’20, allora e fino a pochi anni fa malfamato. Malfamato, a
detta di tutti gli abitanti, senza alcun motivo, tranne quello di
essere il primo quartiere-borgata completamente fuori delle
mura aureliane costruito a Roma; il che in quegli anni, l’inizio dei ’20, voleva dire essere in aperta campagna, a ridosso
delle paludi pontine che proprio allora venivano bonificate.
Campagna romana, con pecore e pecorai, orti, vigne, cacciatori, rovine romane o medioevali, boschetti di pini, lecci,
salici ed eucalipti. E tante cicale. Una borgata di cittadini di
una grande città quasi paracadutati nella campagna, con un
solo tram a collegare la borgata alla città dentro le mura. Nel
ricordo di tutti i sopravvissuti di allora, un periodo fra l’arcadico e la preistoria.
Eurosia, la donna assassinata, abitava lì, alla Garbatella,
anche se era stata uccisa a Colle Oppio, nel centro di Roma;
e lui lì era venuto per cercare tracce e risposte. Aveva trovato ospitalità da padre Aldo, il parroco, milanese, della chiesa
di San Filippo Neri; e come da tradizione dei padri filippini
insieme all’ospitalità aveva trovato un po’ di lavoro, e poi
altro, e senza che nessuno avesse detto per quanto ci poteva
stare, ci stava ancora.
Tafari sospirò di sollievo, come già altre volte aveva fatto
risvegliandosi da incubi simili a quello: di sollievo e di piacere per il ritrovarsi di nuovo fra le sue cose, in una stanza
pulita, ordinata, “sua”, per quanto possa essere tua una stanza nella quale sei ospite.
La mancanza pressoché totale di oggetti personali è uno
dei segni distintivi dei barboni, dei senzacasa veri. Per questo
tanti fra loro se ne vanno in giro con sacchi pieni di spazzatu-
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ra, di oggetti abbandonati e privi ormai del significato che gli
attribuivano i proprietari; quella massa di oggetti e di buste di
plastica che a volte a dozzine, a volte stipati perfino in un carrello di supermercato (ma poi perché perfino? In realtà sarebbe più giusto e adatto dire: perfettamente o appropriatamente
stipati in un carrello) i sunnominati disperati si portano
appresso ovunque vadano, costituiscono forse un disperato e
animalesco tentativo di crearsi un territorio intorno, di essere
come gli altri, di avere delle cose che ti definiscano, che ti
dicano chi sei, che ti diano tranquillità. Dev’essere una sorta
di bisogno biologico e ancestrale di oggetti, un bisogno radicato nei geni che distingue la nostra specie dalle altre. Siamo
umani perché creiamo e usiamo una quantità di oggetti.
Anche i primati nostri “cugini” lo fanno, ma raramente; non
collezionano nessun oggetto. Le gazze ladre sì e anche qualche altro animale; ma noi comunque di più. E dev’essere su
questo bisogno profondo che si innesta il consumismo. Alla
fin fine le case di tutti coloro che vivono nella parte ricca del
mondo sono piene di spazzatura solo un po’ più pulita, nuova
e funzionante di quella che è nelle buste di plastica dei senzacasa. Ma non tutti lo fanno e lui, da barbone, non aveva avuto
nient’altro che i vestiti che indossava, a strati, sporchi fino
all’inverosimile, che emanavano il tanfo della disperazione
anche a molti metri di distanza.
Tafari si alzò, prese il suo necessaire e si diresse al piccolo bagno esterno alla stanza, indossando una veste da
camera di seta, unico lusso vero che si permetteva. La vestaglia era stata un regalo, graditissimo, che gli aveva fatto la
sora Eulalia a Natale. Il Tafari d’antan non trascurava di
vestirsi elegante, anzi, un tempo era stato quasi un dandy e se
la cosa fosse dipesa solo dal suo desiderio di vestire elegantemente e non anche da un reddito adeguato, lo sarebbe stato
ancora. Ma aveva coscienza dei suoi limiti economici ed era
un risparmiatore nato; per cui si concedeva solo ciò che si
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poteva permettere. E con quello che guadagnava attualmente non si poteva permettere molto. Del resto preferiva jeans e
maglioni a giacche e cravatte quando doveva lavorare, qualunque fosse il lavoro che stava facendo: ora il cameriere e il
mediatore culturale, anche se un tempo faceva il professore
universitario di lingua e letteratura italiana all’Università di
Addis Abeba. Millenni e millenni prima.
Ma quella vestaglia era comoda. Era un oggetto anche
costoso, di seta vera, ed era bruttissima! A fiori, sgargiante,
perfettamente in linea con il gusto della sora Eulalia, la perpetua della parrocchia, popolana saggia e acuta, ma dal gusto
forse un po’ troppo kitsch. Eulalia voleva bene a Tafari, e lui
a lei, e quel regalo era stato evidentemente pensato, voluto;
come tale Tafari lo aveva accettato e apprezzato. Che non
fosse un capo di abbigliamento da portare in pubblico ne
aveva facilitato accettazione e uso e la parola definitiva l’aveva data il fatto che, appunto, era comoda: larga, calda e
morbida, avvolgente come i capi d’abbigliamento africani
che aveva tanto spesso indossato, pensati per il clima caldo e
spesso umido di quel continente, in fondo il suo. Anche se la
vestaglia adempiva a una funzione contraria in un clima
diverso. Insomma, era comoda.
Passò silenziosamente nel corridoio, su cui si aprivano le
stanze dove dormivano, ospiti in quei giorni, una mezza dozzina di ragazzi tedeschi di passaggio a Roma, spediti da qualche parrocchia bavarese, ed entrò nel bagno.
Accese la luce, si tolse la vestaglia, adempì ai primi bisogni mattutini, mentre qualche allodola cominciava a cantare
sull’altissimo cipresso che svettava davanti alle finestre dell’ostello di San Filippo (come veniva chiamato il sottotetto
che da un anno ormai era casa sua; o meglio, casa anche sua).
Si lavò il viso e le mani, cominciò a farsi la barba con
l’acqua fredda (quella calda c’era solo in pieno inverno).
Tafari era sempre stato una persona pulita, prima di
dimenticarsene del tutto, ma ora, dopo quei due anni, il pia-
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cere di lavarsi, di sbarbarsi, di curare il proprio corpo si rinnovava ogni giorno come fosse il primo. Apprezzava la pulizia molto più di un tempo, come spesso accade per le cose
che si perdono e poi si ritrovano.
Per questo non usava la schiuma da barba spray, ma il
pennello e un sapone specifico, perché perdere quei minuti in
più allungava il piacere della rasatura. Come dopobarba
usava, altro piccolo lusso, un’acqua di colonia un po’ costosa della farmacia di Santa Maria Novella, che a Firenze produce profumi e belletti vari da più di due secoli e mezzo.
Tornò nella sua stanza, si vestì, controllò le cose che aveva
in programma sulla sua agenda. La meticolosità, la precisione, la programmazione, anche queste perse e ritrovate.
Era difficile riuscire a tenere tutto sottocontrollo: il lavoro come cameriere tuttofare in trattoria, al “Pot Pourri”; le
lezioni di italiano da dare ai suoi connazionali (e non solo a
loro) di passaggio a Roma, lezioni che teneva alla Villetta, la
vecchia sede del Partito Comunista della Garbatella, oggi
divisa fra DS e Rifondazione; il suo nuovo lavoro, da volontario, come mediatore culturale alla Circoscrizione, fondamentale ma tutto da inventare. E riuscire a stare appresso a
tutto, soprattutto salvaguardando i suoi impegni lavorativi
nella trattoria, perché quella era la sua unica fonte di reddito,
per precaria che fosse. Ma anche il resto era importante: le
lezioni di italiano, perché come diceva sempre ai suoi studenti la conoscenza della lingua degli indigeni è il miglior
veicolo per una vita più giusta e serena; per lui anche una
testimonianza e un aiuto da parte di chi era più fortunato; e
più che mai trovare il tempo per il lavoro di mediatore culturale, poco e quasi per nulla pagato per ora, perché quella sì
che era un’ottima strada per tornare ad essere... cosa?
Esitò guardandosi nello specchio. Quali erano i suoi progetti, quale il suo futuro?
Non certo tornare il professore universitario di un tempo.
Quello era praticamente impossibile: era tagliato fuori da
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anni, non aveva intenzione di tornare in Etiopia, non ancora.
Ma certo non solo il cameriere di oggi, detto con tutto il
rispetto per i camerieri.
Anzi come lavoro gli piaceva. Nel quartiere ormai era
conosciuto, a maggior ragione dopo l’episodio di Eurosia; la
trattoria era frequentata da garbatellesi ma anche da tutti
quelli che stavano (“purtroppo...” diceva padre Aldo, e con
lui molti garbatellesi) scoprendo il quartiere, sempre più alla
moda, per mille piccoli motivi: le discoteche e i pub di via di
Libetta, trattorie che diventavano ristorantini fighetti e trattorie che non cambiavano gestione da sessant’anni, con una
cucina a base di piatti romani quasi introvabili altrove; il
Palladium, il vecchio cinema del quartiere, diventato il
Teatro Ateneo di Roma Tre, la terza Università Statale della
capitale, con spettacoli d’alto livello. E di rimbalzo a questi
fatti la riscoperta da parte di tutti quelli che la visitavano dei
lotti, cioè della parte vecchia della Garbatella, arrampicata su
quelle che un tempo si chiamavano le colline di San Paolo:
gruppi di case completamente diverse fra loro, circondate da
muretti, senza traffico al loro interno, ma solo alberi, spesso
più alti degli edifici, con cicale d’estate e gatti pigri tutto
l’anno. Un pezzo di vecchia Roma a sei chilometri dal centro e venti dal mare, circondato su quattro lati da una spettacolare muraglia di orribili palazzoni costruiti negli anni ’60 e
’70 che nascondevano il quartiere alla vista. Per entrarci, nei
lotti, bisognava conoscerli, esserci portati. Arrivarci per caso
era difficile.
Tafari si guardò allo specchio. Era alto un metro e settantacinque; ancora un pochino sovrappeso forse, per tutto l’alcol bevuto fino a un anno prima, ma ormai abbastanza asciutto; capelli neri, non ricci, portati corti, pelle color caffellatte
chiaro, compatta, di grana fine, lineamenti regolarissimi, da
etiope; occhi di colore cangiante, marroni, ma con molte
pagliuzze verdi, eredità di sua madre: il colore cambiava a
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seconda di ciò che indossava. Sospirò rilassato: stava bene, si
sentiva bene. Il barbone che era stato era morto, anche se
qualcosa aveva lasciato e qualcosa portato via.
Vestitosi uscì, passando prima un attimo in chiesoletta,
nome dato in quartiere alla chiesa di Sant’Eurosia, piccolissima. Rimase seduto alcuni minuti sui vecchi banchi di
legno, come sempre incerto se pregare o meno.
Tafari, come la maggioranza degli etiopi amhara era cristiano, anche se non cattolico: monofisita, per l’esattezza,
una eresia, o se vogliamo, una variante semi-ortodossa di 15
secoli prima. In buoni rapporti con la chiesa cattolica, però.
Tafari era cristiano nel senso che come tale era stato educato. Ma si sa, gli intellettuali diventano facilmente atei o
agnostici, è una specie di bonus obbligatorio dell’istruzione
superiore. E lui, fra i tanti ricordi che aveva recuperato a
metà, aveva l’impressione di esserlo diventato a sua volta.
Solo che ora sentiva uno strano senso di vuoto. In qualche
modo, con la sua esperienza di barbone, era morto e risorto.
Questo per lui, se ci si soffermava a pensare, non aveva particolari valenze mistiche; ma di sicuro non era più quello di
prima. E se quello di prima era un agnostico, ora cos’era?
In passato il crocifisso per lui era stato due cose: una
immagine da venerare come Dio quando era bambino, e successivamente un simbolo di una religione che non condivideva semplicemente in quanto religione. Una a quel punto
valeva l’altra, e in Etiopia ce n’erano molte a disposizione,
dall’Islam all’animismo.
Ma l’esperienza del dolore, del dolore profondo, lacerante, di un dolore che lo aveva portato quasi alla pazzia, un
dolore che andava annegato nel vino per poter essere quasi
dimenticato, quindi sopportato, lo aveva cambiato almeno
sotto un aspetto: adesso vedeva il crocifisso come simbolo
della sofferenza umana. Prima no, prima era solo un ricordo
infantile o una fredda esperienza intellettuale, quasi da antropologo.
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Ora era la evidente e fisica rappresentazione di un aspetto fondamentale della condizione umana, ché alla fine altro
non è che il crocefisso. E forse proprio in questa sua universalità risiede buona parte del fascino del cristianesimo.
Oltretutto Roma è piena di crocifissi bellissimi, vere
opere d’arte, non pure icone o puri idoli, ma uomini sofferenti, piegati e piagati: corpi dolenti.
La sua sofferenza così profonda lo aveva quasi annichilito; e quindi cambiato. E in questo suo nuovo essere persona
aveva notato nel crocifisso un elemento assolutamente naturalistico, che con la fede e il dogma non aveva niente a che
vedere. Ma che era una potente rappresentazione.
Non riusciva però ancora a pregare. Non voleva nemmeno tentare, in realtà. Comunque passare alcuni minuti in
quella chiesetta di campagna, di una campagna di 200 anni
prima, certo, ma che ancora aveva l’aria del granaio d’inizio
Ottocento riattato a chiesa, luogo di lavoro e di riflessione al
tempo stesso, beh, lo confortava. Forse anche questo è pregare, chissà...
Giunse alla trattoria Pot Pourri subito dopo l’arrivo di
Giorgio, il proprietario egiziano. Si salutarono e lui cominciò
subito a fare la sua parte di lavoro.
– Salam-aleikum – disse Tafari in arabo.
– Eheheh! Aleikum-salam – rispose Giorgio, rumoroso,
sorridente, sudato, grasso, allegro, ricciuto, molto arabo,
molto egiziano.
Tafari lavorava in quella trattoria ormai da otto mesi,
come cameriere ma anche come tuttofare: ad esempio quella
mattina c’erano da preparare le molte verdure che sarebbero
state cotte, condite e assemblate per la sera ed esposte nel
bancone coperto di sportelli di vetro vicino all’ingresso: sottaceti vari, cipolle al forno, funghi, melanzane grigliate, insalata di mais e di polpi, insomma l’insieme di self-service
vario che c’è ormai in tutte le trattorie e i ristoranti.
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RAS TAFARI DIREDAWA E IL FIORE RECISO
Al Pot Pourri lavoravano tre cameriere polacche, due
camerieri palestinesi, la cuoca, moglie di Giorgio, era filippina; e adesso c’era anche lui, un etiope. Nel menu figuravano tutti i piatti tipici delle trattorie romane, più le pizze, un
menu arabo comprendente cous-cous di pesce, i falafel più
buoni di tutta Roma, il puré di melanzane e altro ancora; di
tanto in tanto ci scappava anche qualche frittata di patate
polacca che ci stava benissimo. Più Pot Pourri di così...
A Tafari quel posto piaceva moltissimo. Non solo perché
era stato il primo vero lavoro che aveva trovato, mesi prima,
ma anche perché ci si trovava perfettamente a suo agio.
Roma è una città a due facce. Da un lato è italianissima, cattolicissima, con una sua identità forte e particolare, come
tutte le grandi città italiane, non fosse altro perché un tempo
sono state capitali di un qualche regno; ma al tempo stesso è
anche piena fino all’inverosimile di stranieri di passaggio,
dai preti di mezzo mondo che qui vengono ad limina, ai tre
milioni di turisti che ogni anno ci passano per qualche giorno, il che vuol dire che ogni mese, mediamente il 10% circa
della popolazione presente è formato da turisti di passaggio;
e poi tutti gli stranieri residenti per motivi di lavoro, dai
diplomatici doppi (un ambasciatore presso lo stato italiano e
uno presso la Santa Sede) e le varie organizzazioni internazionali dalla Fao ai Cavalieri di Malta.
Roma è uguale a se stessa da almeno trecento se non duemila anni, e al tempo stesso è una città che assiste indifferente all’arrivo di tutta questa gente: casa e foro, tradizione secolare o millenaria e novità di altri mondi, più o meno di passaggio e sempre
digerite e assorbite; ché questo fa Roma: assorbe e digerisce.
E la trattoria ne era un perfetto esempio. Molti di quelli
che ci erano venuti a lavorare da mezzo mondo avevano figli
ormai cresciuti che parlavano con un accento romanesco che
se li portava via, tifosi accaniti, ovviamente, della Roma o
della Lazio. Per dire...
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MASSIMO MONGAI
Il Pot Pourri era una possibile integrazione, una integrazione realizzata, fra persone di gruppi etnici (il che vuol dire
razze, si sa) culture e lingue diverse, una trattoria dove tutti i
locali da sempre cenavano o pranzavano e che da qualche
anno si stava riempiendo di stranieri non italiani, non europei perfino, di passaggio o residenti. Una bella pentola marcia, ché questo vuol dire davvero il nome della trattoria: è il
nome di un piatto a base di verdure varie, ceci e soprattutto
interiora di pecora, puzzolentissime, per l’appunto, e all’origine spagnolo, la olla podrida; ma anche francese, certo, solo
che in francese il termine ha finito (chissà come e perché) per
indicare appunto un contenitore pieno di pezzetti di vegetali
di tutti i tipi che emettono essenze diverse fra loro ma amalgamate tanto da essere gradevoli. Tafari amava le metafore e
quella della pentola marcia e puzzolente che diventa un odoroso pot pourri era quella che gli piaceva di più. Perché è una
metafora. O no?
Tafari dunque se ne stava lì, sbucciava melanzane, e filosofeggiava.
E mentre stava finendo di preparare il condimento per le
melanzane grigliate squillò il telefono.
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