La lingua del diritto - Dispensa 2013-14 _I parte
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La lingua del diritto - Dispensa 2013-14 _I parte
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA UNIVERSITÀ DI PAVIA LA LINGUA DEL DIRITTO FORMAZIONE, USO, COMUNICAZIONE TESTI PER LE LEZIONI XI (DARIO MANTOVANI – LUIGI PELLECCHI) A.A. 2013/14 Parte Prima INTRODUZIONE I. Parallelismi e interferenze fra lingua e diritto. Cinque ragioni giustificano l’accostamento lingua - diritto. Le prime tre attengono ai due fenomeni considerati singolarmente, e alle loro caratteristiche (genetiche, strutturali e funzionali) comuni, che determinano una sorta di analogia o parallelismo: a- sono entrambi istituti spontanei, nati dalla convenzione sociale, ma in perpetuo riassetto e divenire storico. Questa prospettiva è stata particolarmente coltivata dalla Scuola Storica del Diritto tedesca, all’inizio del XIX secolo, in sintonia con le ricerche di Jacob Grimm (1785-1863) sulle fiabe come espressione irriflessa dello spirito popolare. Per Friedrich Karl von Savigny (1779-1861): “la vera sede del diritto è la coscienza del popolo”; “i rapporti organici del diritto con il carattere del popolo si verificano nel corso del tempo, e anche sotto questo profilo bisogna paragonarlo alla lingua”. Secondo Savigny, la pertinenza del diritto allo spirito del popolo si vede nelle fasi arcaiche del diritto romano; poi diventa una scienza particolare nelle mani dei giuristi, non diversamente da come la poesia popolare è sostituita da forme artistiche più raffinate (sono tesi finalizzate a contrastare la codificazione, considerata un abuso della concezione razionalista e positivista del diritto, che viola il rapporto del diritto con la storia della nazione; sarebbe come ‘inventare’ una lingua; rifiuto anche dell’importazione di modelli giuridici stranieri). Anticipazioni in Giambattista Vico (1668 – 1744): “tutto il diritto romano antico fu un serioso poema, che si rappresentava da’ romani nel foro, e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia” (La Scienza Nuova Seconda, libro IV, sez. 14, capo 2). b- lingua e diritto sono entrambi sistemi con una forte organizzazione interna; la lingua viene spesso descritta in termini normativi, ossia come istituzione sociale basata su un insieme di regole di vario livello (fonologia, morfologia, sintassi, lessico, testualità), accettato da una comunità di parlanti e scriventi (o per lo meno dalla stragrande maggioranza) in un determinato periodo e contesto storicoculturale (Giovanardi 2010). c- lingua e diritto permettono il sussistere della società attraverso le relazioni intersoggettive (funzione comunicativa, di scambio). Due ragioni attengono invece specificamente al rapporto fra lingua e diritto, al loro contatto o interferenza: d- La lingua può essere oggetto di disciplina giuridica. E’ il fenomeno della cd. Legislazione linguistica, cioè di quell’insieme di provvedimenti elaborati in materia di questioni linguistiche. Tali interventi possono riguardare temi come: (i) La prescrizione della lingua che deve essere usata in atti ufficiali: per il processo civile italiano, cfr. per es. l’art. 122 c.p.c. (“In tutto il processo è prescritto l’uso della lingua italiana”). (ii) La prescrizione della lingua che deve essere usata da parte di istituzioni pubbliche: per l’insegnamento scolastico negli Stati Uniti d’America cfr. la Preposition 203 (cd.“English for Children”). (iii) La fissazione della toponomastica e di norme relative all’onomastica: per la toponomastica altoatesina cfr. per es. la L. 473/1925, recante “Norme sulla lezione ufficiale dei nomi dei comuni e di altre località dei territori annessi”. (iv) La difesa della lingua nazionale dall’influsso di altre lingue: per il ventennio fascista e la campagna antidialettale e d’interdizione delle forme d’origine straniera, cfr. l’Indice dei provvedimenti legislativi e regolamentari allestito da G. Klein, La politica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986, pagg. 165-175 (v) La regolamentazione di vere e proprie riforme linguistiche: per la riforma ortografica tedesca, cfr. per es. la Gemeinsame Absichtserklärung zur Neuregelung der deutschen Rechtschreibung, sottoscritta il 1 luglio 1996, che si riflette non solo in raccomandazioni, ma anche in positive azioni amministrative (es. programmi scolastici). Altre norme che interferiscono sulle funzioni linguistiche – seppure solo in ambito giuridico - sono quelle che regolano l’interpretazione (es. art. 12, 1° co., delle cdd. Preleggi: vd. sotto al pt. II.2). e- L’aspetto più significativo della interferenza tra lingua e diritto è dato però dal rapporto di consustanzialità (identità di sostanza), che molte teorie del diritto riconoscono, tra la disposizione giuridica e la sua espressione linguistica. Poiché la norma giuridica si esprime in un enunciato linguistico, ne discende che il linguaggio è un elemento costitutivo del diritto stesso. Il diritto – secondo queste teorie - si costruisce grazie alla lingua: per es., nella nostra società un reato è tale solo se lo instaura la legge, che è un prodotto linguistico; il che vuol dire che un comportamento si configura come reato esclusivamente in seguito a un atto di parola, il testo della legge, non per un sapere condiviso, non per tradizione, non in nessun altro modo. Anche in ambito processuale, un fatto della realtà extralinguistica, che possa avere la forma di un reato, ha bisogno, per divenire di pertinenza del diritto, di essere narrato (per es., dalle testimonianze) o descritto (per es., dalle perizie), altrimenti resta un fatto della realtà extragiudiziaria (Cortellazzo). Il fatto che il diritto si esprima attraverso enunciati linguistici, rende necessaria l’analisi del linguaggio per l’applicazione del diritto. In questa prospettiva, il diritto si presenta dunque come un linguaggio-oggetto, ossia come un insieme di enunciati di cui i giuristi e gli operatori del diritto in genere compiono l’analisi semantica e sintattica. Il discorso che gli interpreti producono in questo modo si configura perciò come un meta-linguaggio, un discorso di secondo grado. La consustanzialità di lingua e diritto è antica: “E il Signore parlò a Mosè e disse: … fate un’arca di legno … E nell’arca riporrai la legge, ch’io ti darò … E finiti questi ragionamenti sul monte Sinai, il Signore diede a Mosè due tavole di pietra contenenti la legge scritta dal dito di Dio … E Mosè scese dal monte portando in mano le due tavole della legge, scritte dall’una parte e dall’altra. E fatte di mano di Dio; la scrittura parimenti impressa nelle tavole era di Dio” (Esodo, 24,6 – 32,16). Anche i romani, nelle rappresentazioni retrospettive della loro storia giuridica, dopo l’anarchia prodottasi con la cacciata dei re e la desuetudine delle leges regiae, vedevano l’origo iuris nella composizione delle Dodici Tavole, affidata ai decemviri legibus scribundis: “In seguito, affinché ciò non durasse più a lungo (scil. di vivere in uno stato di incertezza legata a pratiche consuetudinarie, piuttosto che a un corpus legislativo) si decise di creare per autorità pubblica una magistratura di dieci persone, tramite i quali si mutuassero le leggi dalle città greche e la città fosse consolidata grazie alle leggi; le quali leggi, scritte per esteso su tavole d’avorio, essi le esposero davanti ai rostri, perché potessero essere meglio intese” (Pomponio, liber singularis enchiridii, D. 1.2.2.3). II. Riflessi dell’identificazione di diritto e espressione linguistica. II.1. Il mito illuministico della legge chiara e semplice Il mito del diritto che si identifica con la legge scritta anima la richiesta illuministica di codici redatti con esattezza, che – secondo questo mito – avrebbero escluso la necessità di interpretazione. Emblematico di questa posizione – che affonda le proprie radice nella teoria della separazione dei poteri di Montesquieu (1748) è il pensiero di Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene (1763): cap. 4 (Interpretazione delle leggi) “Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell'incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de' cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell'ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare gl'inconvenienti di un misfatto”. cap. 5 (Oscurità delle leggi): “Se l’interpetrazione delle leggi è un male, egli è evidente esserne un altro l’oscurità che strascina seco necessariamente linterpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l'esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico”. Della stessa visione era permeato Ugo Foscolo. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798) scriveva: “i pubblici atti e le leggi sono scritti in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le detta»” Pochi anni dopo, incaricato dal Ministero della Guerra della Repubblica Cisalpina di predisporre un Codice penale militare (1801), dichiarò di volerlo stendere “in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all’interpretazione delle parole”, osservando che “assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte”. S’impegnò infine a mantenere “una religiosa esattezza della lingua italiana”. Pochi anni prima, il Codice prussiano del 1794 (ALR) aveva sancito il divieto per il giudice di interpretare la legge (salvo rivolgersi, in casi dubbi, all’apposita Commissione legislativa). La medesima preoccupazione (e ideologia) trapela oggi dalle guide che le più varie istituzioni, nazionali e sovranazionali, adottano per la redazione dei testi normativi. Ad esempio, la “Guida pratica comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione di testi legislativi delle istituzioni comunitarie” (pubblicata nel 2000) raccomanda: “1.1. La redazione degli atti legislativi deve essere: - chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci; - semplice, concisa, esente da elementi superflui; - precisa, priva di indeterminatezze.” Afferma poi, secondo la medesima ideologia di cui era portatore il Foscolo, che: “1.2. Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti: - l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti, - la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.” Da questo punto di vista, l’Italia ha imboccato con molto ritardo una via battuta per primi dagli Stati Uniti, già verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, con l’Improving Government Regulations e il Federal Paperwork Reduction (1978-79). Da allora, quasi tutte le democrazie occidentali si sono dotate di organismi per promuovere l’uso del plain language nella comunicazione di interesse generale. In Italia, nel 1993, per volontà del ministro Sabino Cassese, esce il Codice di stile, seguito, quattro anni dopo, dal Manuale di stile: due libri, editi dal Dipartimento della Funzione Pubblica, contenenti raccomandazioni per rendere più semplici i testi amministrativi. Queste iniziative, unite a una serie di innovazioni legislative miranti alla sburocratizzazione, hanno fatto nascere una nuova sensibilità per la qualità della comunicazione col cittadino (per maggiori dettagli, vd. al termine della Parte II). II.2. La dimensione pragmatica del diritto. Accanto agli aspetti virtuosi di questa ricerca di intelligibilità, il vizio del mito illuministico della legge chiara e semplice è che le norme non sono pure enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare la sintesi d’un soggetto e d’un predicato, ma sono strumenti al fine della convivenza sociale. Il giurista deve perciò individuare i tipi di interesse che hanno formato oggetto di disciplina legislativa. Questi interessi si collocano nella vita sociale e sono dunque già intrinsecamente regolati, soggetta a certe sue leggi. Per interpretare un testo normativo, non basta dunque analizzarne la lingua; si deve altresì indagare sia la logica dei rapporti sociali sia la logica del loro trattamento giuridico. Insomma, la norma non è enunciato senza contesto, ma si inserisce in un contesto (non solo linguistico) che è sia suo contemporaneo sia coevo all’interprete e cade nel gioco di forze obiettive, fuori del quale avrebbe altro senso da quello che ha. Al di là del ricorrente riemergere di orientamenti di segno opposto (quale quello illuministico ricordato sopra), si tratta di una consapevolezza antica. Qualsiasi discorso – dicevano già i romani richiede infatti d’essere interpretato: Cicerone, De inventione, 2.140: Nullam rem neque legibus neque scriptura ulla, denique ne in sermone quidem cotidiano atque imperiis domesticis recte posse administrari, si unus quisque velit verba spectare et non ad voluntatem eius, qui ea verba habuerit, accedere. “Nessuna cosa può essere svolta correttamente in base alla legge o a un qualsiasi altro testo, anzi neppure nel discorso quotidiano e nelle istruzioni domestiche, se ciascuno volesse fermarsi alle parole e non accedere alla volontà di colui che ha pronunciato quelle parole”. Si può anzi dire che oggi la consapevolezza dell’esistenza di una dimensione pragmatica nella quale calare gli enunciati legislativi è in qualche modo implicita nelle stesse rappresentazioni che la legge propone di se stessa e della sua applicazione. In questo senso, la distanza dall’ideologia illuministica può essere misurata mettendo a confronto le parole di Cesare Beccaria, commentate al pt. precedente, con l’art. 12 delle cd. Preleggi, dedicato, come recita la Rubrica della norma, alla Interpretazione della legge: «Nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». «Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge» (Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, cap. 4: Interpretazione delle leggi). Nell’applicare la legge, l’art. 12 prescrive dunque al giurista di associare a un’interpretazione dell’enunciato legislativo condotta su un piano grammaticale/letterale una interpretazione pragmatica. L’interpretazione grammaticale andrà condotta secondo le regole della semantica (studio delle relazioni tra segni e oggetti designati dai segni; come dice l’art. 12: «secondo il significato proprio delle parole») e secondo le regola della sintassi (studio delle relazioni tra segni: «secondo la connessione di esse»). Ma appunto perché non esiste testo senza contesto, il dato semantico (e sintattico) ricavato andrà ulteriormente disambiguato in ragione dei suoi contesti d’uso. La pragmatica (studio delle relazioni tra i segni linguistici e i parlanti, ossia dell’uso che i secondi fanno dei primi) costituisce dunque il necessario completamento della semantica e della sintassi. Nel riconoscere tale fenomeno (e nel disciplinarlo: vd. sopra al pt. I.d ), l’art. 12 presuppone che il contenuto di una norma possa essere più o meno ampio del contenuto testuale risultante dal testo della norma stessa. Il contenuto semantico è superato dalla considerazione del contenuto normativo, della scelta politica compiuta dal legislatore (secondo l’intenzione del legislatore), ricavata ad esempio da altre norme (cd. ratio legis o intenzione oggettivata). III. Obiettivo del corso III.1. L’antilingua La ragione del corso sta nelle caratteristiche specifiche che assume la lingua italiana quando viene impiegata – oralmente o per iscritto – nell’ambito giuridico. Che chi “parla di diritto” parli spesso in modo diverso da quello comune è intuitivo, come mostra una celebre pagina di Italo Calvino, scritta nel 1965: Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo. “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”. Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente”. (da: Italo Calvino, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1965) Lo stile comunicativo e il linguaggio inutilmente complicato attribuito da Calvino al nostro appuntato condivide molti dei tratti che caratterizzano il linguaggio delle corti e dei tribunali, come dimostra il breve estratto che segue: Cassazione Civile, II sezione, 14 novembre 1996, n.9980 – FAVARA Presidente - VOLPE Relatore PALMIERI P.M. - Ditta Cantine Manicor di Fabio Manicor (avv. Moser) – Toller (avv. Satta e Borgia): […] “L’esternazione del potere rappresentativo non richiede una espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, essendo sufficiente che il sottostante rapporto di procura sia appalesato al terzo contraente attraverso elementi univoci e concludenti dai quali risulti chiaramente che l’attività del soggetto agente si svolge, appunto, in attuazione di un potere rappresentativo a lui conferito (cd. contemplatio domini tacita)”. Questo semplice estratto condensa una serie di tratti tipici del linguaggio giuridico, su cui torneremo con un esame analitico. Basterà segnalare, a livello sintattico, la densità del discorso (ca. 60 parole, quando la lunghezza del periodo raccomandata per un testo pubblico non dovrebbe superare le 20) e l’accentuata ipotassi che ne deriva (una proposizione principale e una serie di subordinate di diverso livello che s’incastrano l’una nell’altra). Al livello del lessico, si notano l’uso di latinismi (contemplatio domini tacita) l’uso di arcaismi/aulicismi (appalesato), il ricorso al participio passato con funzione sostantivale (il rappresentato), oppure l’impiego di sostantivi non comuni, quali il termine spendita, qui usato per di più in senso figurato (da spendere il nome di qualcuno). L’uso del termine Spendita segnala peraltro un distacco dalla lingua comune anche su un secondo livello, quello morfologico (e che attiene cioè alla costruzione delle parole); spendita è infatti un sostantivo deverbativo, derivato cioè da una forma verbale; allo stesso modo è deverbativo il sostantivo esternazione, che è un nome astratto d’azione (esprime cioè sotto forma di nome il significato del verbo da cui deriva, esternare). III.2. Le ragioni della lingua giuridica [a] Una ragione psicologica? «Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se “fiasco” “stufa” “carbone” fossero parole oscene, come se “andare” - “trovare” - “sapere” indicassero azioni turpi. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. (...). Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa». (da: Italo Calvino, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1965) [b] ovvero l’habitus linguistico di una comunità chiusa? Più analiticamente, la sociologia (in particolare, gli studi nella sociologia del campo sociale, promossa da Pierre Bourdieu) ha definito il sistema giuridico come un campo sociale relativamente autonomo, entro cui ha luogo una concorrenza per il monopolio di dire il diritto, forma per eccellenza della violenza simbolica legittima. L’interpretazione del diritto si realizza attraverso il confronto fra gruppi animati da interessi diversi (magistrati, avvocati, notai), in funzione della loro posizione gerarchica, che corrisponde al loro referente-cliente nella gerarchia sociale. L’antagonismo non esclude la complementarietà delle funzioni e consiste in una forma di divisione del lavoro di dominio simbolico. Il metodo giuridico è come la riserva di legittimità che garantisce l’autorità dei singoli atti d’interpretazione, come la banca centrale garantisce la moneta. Ciò spiega, ad esempio, la debole inclinazione dell’habitus giuridico alla innovazione e alla critica. Si instaura una catena di legittimità che, nel campo giuridico, va dal magistrato di cassazione fino al poliziotto. L’istituzione di un campo giuridico implica l’esistenza di una frontiera, che separa chi ne è escluso, in quanto privo di un sapere sovente eccentrico rispetto alle semplici raccomandazioni del senso comune. La differenza di visione fra il giurista e il non giurista non è accidentale, ma costitutiva di un rapporto di potere. L’appartenenza richiede l’assunzione di una “postura” globale, specialmente in materia di linguaggio. Se il linguaggio giuridico si può permettere di impiegare una parola per designare cose completamente diverse da quelle che designa nell’uso ordinario, è perché i due linguaggi sono associati a delle posture linguistiche distinte, al punto che è improbabile la collisione omonimica o il malinteso (che risultano dall’incontro nel medesimo spazio di due significati per una stessa parola). Il corso ha perciò l’obiettivo formativo di fornire allo studente maggiore consapevolezza teorica delle particolarità dell’espressione giuridica, intesa come risorsa essenziale per l’ingresso e l’efficace permanenza quale agente nel “campo giuridico”. Il fine pratico è consentire un migliore uso del linguaggio ed evitarne l’abuso, perché l’essenziale è non scadere nel giuridichese o nel burocratese, non rinunciare a un codice linguistico specifico, che è indispensabile per svolgere al meglio la propria funziona. Per es. è agli pseudo tecnicismi che si dovrà rinunciare, non ai tecnicismi. Al termine del corso non si smettere cioè di parlare per es. di nullità, come di una delle forme che può assumere l’invalidità del negozio giuridico, ma si potrà forse rinunciare a usare in sua vece il sostantivo caducazione; oppure si preferirà parlare di interrogatorio dei testimoni, rinunciando senza rimpianti alla (desueta) espressione escussione dei testi. Evitando di scadere nell’antilingua (di Calvino) si potrà (o almeno si cercherà di) di raggiungere quella felice esattezza additata da Carlo Emilio Gadda (1893-1973): “Talune lettere tecniche, o contratti di cessione di terreni, o d’ipoteche, o di forniture d’energia elettrica, o stipulazioni commerciali, o atti statutari di enti e società, o stesure di sentenze de’ tribunali d’appello o del tribunale di cassazione, o altri atti d’ogni occasione o maniera, vengono paragrafati con una così diligente e felice esattezza, con una così appassionata cura, che la lor lettera ne risfolgora viva e diabolica, quanto avviene resulti invece imprecisa, e a stagnare perniciosa, o girovagante e generica ed avasiva la prosa di certi flàmini del dio Atramentatore” (da: Carlo Emilio Gadda, Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche [1929], ora in SGF I.481) Lettura aggiuntiva Ludovico Antonio Muratori, Dei difetti della giurisprudenza, Cap. XVIII (Se sia da preferire il metodo de’ Greci e Latini nell’agitar le cause civili e criminali, o pure quel de’ moderni) Per conto poi delle allegazioni suddette, e dell’altre fatture de’ moderni legisti italiani, bramerebbono alcuni, che fosse men barbara e rozza la loro latinità. Miriamo teologi, filosofi, medici, ed altri professori di scienze ed arti scrivere oggidì con pulizia ed eleganza di stile latino. Ma ne’ nostri giurisconsulti dura tuttavia l’orrido de’ secoli barbarici, senza studio alcuno della lingua latina, e nè pur della volgare, di cui talvolta si servono. Nè può negarsi: un tale ornamento, che comparisce ne gli scritti del nostro Alciato, del Cuiacio, del Fabro, e di tanti altri, massimamente stati pubblici lettori di giurisprudenza, sarebbe molto da lodare anche nel nostro Foro. Non già perchè la pulizia del linguaggio possa punto influire a conseguir il fine, che si propone il legista; ma perchè la leggiadria è una veste, che dà o accresce vaghezza a tutte le fatture de gli uomini. Si ridono alcuni legisti de’ grammatici; ma anche i grammatici fan le risate dietro a certi legisti; e queste sarebbe bene il risparmiarle. Disputavano un dì due miei amici, pretendendo l’uno, che litera si avesse da scrivere con un sola t e l’altro con due. Sopragiunse un dottorone di prima riga, che intesa la lor quistione, ex tribunali pronunziò, aver torto amendue, dovendosi scrivere lictera. E chi negasse, ch’egli avesse ragione, sappia che gli si sfodererà in faccia l’autorità del buon Cardinale de Luca, che scriveva così. Occorre egli di più dopo un sì classico autore? Ardisco di dire ancora, che una qualche dosa di eloquenza starebbe pur bene in chiunque s’applica all’esercizio delle leggi. Non già per formar delle Orazioni studiate ed ingegnose, nè per far delle vane crie, o delle giovanili amplificazioni, che fan perdere il tempo a chi dice, e a chi ascolta. Il forte di chi si dà alla giurisprudenza dee consistere nel ben sapere le leggi, e nel saperle acconciamente applicare a i casi proposti, e nel buon uso del raziocinio, per indagar le ragioni delle cose, o favorevoli all’una parte, o nocive all’altra, e saper conghietturare onoratamente e naturalmente la volontà de’ testatori e contraenti senza stiracchiature e sofisticherie. Ma in oltre giova non poco al conseguimento della palma nelle liti il saper ben ordinare, e proporre con chiarezza e con forza le ritrovate ragioni, di maniera che i giudici senza fatica se le sentano penetrar nell’intendimento, e le gustino. Però almen tanto di eloquenza, che possa dare buon garbo al raziocinio legale. Nè io condannerei que’ novizzi della giurisprudenza, che in privata adunanza sotto la disciplina di qualche sperto maestro si esercitassero, secondo l’uso de gli antichi declamatori, in finti contradittorj, sempre nondimeno coll’unico fine ed amore del vero e del giusto. Si addestrerebbono essi in questa guisa per tempo ad un mestiere, a sapere il quale per lo più oggidì arrivano, sol quando son provetti in età, o pur quando è tempo di finir di parlare. Il punto sta a guardarsi dal pericolo di avvezzarsi anche a sostener cause spallate ed ingiuste. Colla sperienza nelle scuole ho imparato a conoscere Lettori, che esercitavano i discepoli a questo mestiere con proporre conclusioni strane e paradosse, più per dar pascolo al bell’ingegno, che propriamente per cercare la verità e la giustizia.