L`omissione di Dante

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L`omissione di Dante
COLLANA “BLACK & YELLOW”
L’omissione di Dante
di A.L. Ronin
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A.L. RONIN
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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni
Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni
L’omissione di Dante
di A.L.Ronin
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la
pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non
sia la sola lettura privata, devono essere inviate a:
CIESSE Edizioni Servizi editoriali
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ISBN 978-88-97277-98-9
Collana BLACK & YELLOW
http://www.ciessedizioni.it
NOTE DELL’EDITORE
Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi,
avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente
esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.
Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico
all’Autore.
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Ringraziamenti
Questo libro è nato per caso, il caso si chiama Gianni. È stato lui che ha stimolato la mia fantasia per scrivere, sempre Gianni è il colpevole del perché questo
romanzo è nelle vostre mani, ha detto subito che era bello e lui se ne intende, sicché… prendetevela con lui se non dovesse piacervi.
Ringraziatelo se vi piacerà.
Io lo faccio qui, a sua insaputa: Grazie “zio” Gianni.
Un ringraziamento speciale alla mia editor, Sonia Dal Cason, ne sa uno più di
quel Diavolo che era la mia insegnate d’italiano preferita: la prof Cavallotti, che
mi sgridava sempre anche se era chiaro che mi volesse bene. La prof mi regalò un
libro in II media che ancora conservo: I Malavoglia.
Sonia mi ha regalato l’agilità nel narrare.
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Biografia dell’autore
Antoine L. Ronin è nato a Marsiglia da padre francese e madre italiana. Attualmente vive a Cap d’Antibes con moglie e figlia. Si occupa dei suoi ristoranti ma non ha mai abbandonato la voglia di leggere. Da una piccola disputa con suo cognato, anch’egli appassionato
lettore di thriller/noir, disse che avrebbe scritto un romanzo altrettanto interessante come quelli dei maestri del brivido.
Ecco la storia della nascita de L’omissione di Dante, un gioco.
Ndr. Questo è quanto ha fornito l’autore stesso sulla sua vita
all’editore.
Bibliografia
Attualmente A. L. Ronin è al suo primo romanzo. Alla domanda se
si ritenga uno scrittore, ha risposto: se firmare cambiali e l’aver scritto i temi a scuola ci si può definire scrittore, allora lo sono. L’autore
ha pronto un seguito di questo libro, ma lo proporrà per un’edizione
solo nel caso che questo sia ben accolto dal pubblico.
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PROLOGO
L’inizio.
«Andate in pace.»
I pochi devoti che erano intervenuti alla messa in suffragio del
compianto amico e parente si fecero il segno della croce e
s’incamminarono all’uscita.
Dopo la messa mattutina delle sette del lunedì, don Matteo aveva
servito quella straordinaria delle dieci e quindici e, se ce ne fossero
stati, avrebbe ascoltato come al solito i pochi penitenti per poi dedicarsi a sé.
Di là c’era la sua stanza preferita.
Sebbene nessuno si dirigesse al confessionale desideroso di conforto spirituale, lui si avviò notando solo un paio di vecchiette che
s’attardavano con candele innanzi a una raffigurazione della Madonna. Forse si sarebbero fermate per recitare la preghiera di liturgia e
dopo aver chiesto le solite cose che mai si avveravano, sarebbero
andate via anche loro. Meglio così, si disse. Con fatica, poiché piuttosto corpulento, riuscì ad accomodarsi nel confessionale tirandosi le
ingombranti vesti. Entrare in quella celletta a raccattare parole inutili
era parte dei suoi obblighi. Nonostante avesse la mente occupata al
dopo, pensava: “Magari verrà una di quelle vecchie a elencarmi i suoi
cattivi pensieri, o le attese non ancora esaudite di una devota fedele.”
Mentre attendeva nello stretto spazio, le due anziane si volsero al
grande Crocefisso, fecero il segno della croce e uscirono in silenzio.
Lui scostò la tendina impaziente, sembrava non esserci nessuno.
Oscillava con il corpo per la contentezza, poteva lasciare il loculo.
Era pronto, appoggiò le mani per aiutarsi a uscire, ma la quiete e i
suoi pensieri furono rotti da una voce decisa.
«Mi perdoni padre, perché io peccherò.»
L’inaspettato e la sorpresa lo fecero ricadere sul sedile, si tirò indietro, lontano.
«Figliolo, mi hai fatto spaventare.»
Si pose la mano destra sul cuore, sentiva il battito accelerato. Deglutì e lentamente riuscì a rilassarsi e tornare ritto.
«Che cosa intendi dire con “Io peccherò” figliolo? Parliamo, apriti, troveremo una soluzione, abbi fiducia.»
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Attendeva una conferma, funzionava con tutti dare speranza, bastava poco, spesso una parola o un piccolo e titubante monosillabo
diventavano sufficienti per stabilire un dialogo.
«Non c’è soluzione prete. Ho riflettuto a lungo su ciò che intendo
fare. Devo farlo. Le persone non cambiano, diventano più furbe, più
accorte e continuano a fare del male. Io non posso permetterlo.»
Una lunga pausa di distacco completo calò tra i due.
Sul principio il filo di voce che usciva dal penitente gli fece confidare di esserci riuscito, ma quando questi aveva alzato il tono sempre
più deciso, cominciò a impensierirsi. Si avvicinò per cercare di vederlo meglio attraverso il séparé forato. Aprì la tendina che aveva davanti per fare luce, il lieve frusciare delle vesti e gli ansimi erano gli
unici suoni. N’era certo adesso, avrebbe dovuto passare parecchio
tempo con lui, avrebbe dovuto utilizzare altri mezzi per convincerlo
ad aprirsi. E se non fosse riuscito nell’intento, temeva che l’uomo
potesse commettere qualche sciocchezza. Non riuscì appieno nello
scopo di osservarlo in viso, tuttavia gli dava l'impressione di una persona posata. L’uomo vestiva di nero, ma manteneva lo sguardo
all’ingiù. C’era un che di familiare però, gli ricordava qualcuno, i capelli lisci castano corti…
In quel momento il viso dell’uomo cominciò a salire, il sopracciglio e il naso cominciavano a intravedersi e le palpebre erano
chiuse. Di colpo il volto si fermò, lasciando la fronte quadrata in
primo piano. Gli occhi cominciarono ad aprirsi lentamente. Quel
movimento ipnotizzò il prete, sembrava che non ci fossero iridi in
quegli occhi, vedeva solo il bianco dei bulbi che lo raggelava. Quando infine giunsero: blu, fredde e immobili, si fermarono fisse a guardarlo oltre quei buchi che li dividevano. Contemporaneamente, un
sorriso cattivo gli si disegnò sulle labbra. Lo riconobbe.
«Dio mio, tu?»
«Non sono il tuo Dio prete. Te lo avevo promesso!»
Il debole compensato traforato che li separava si aprì come carta,
il pugno guantato del penitente arrivò come un maglio sulla fronte
del religioso.
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Lunedì.
Era finita, finalmente mi trovavo alla guida. Mino, seduto al mio
fianco, non mostrava nessuna voglia di parlare.
Ogni occasione era buona per prendere la mia auto, mi piaceva
guidare e sentire il grintoso rumore del motore, mi aiutava a ragionare, ma oggi era difficile farlo. Non riuscivo a rimettere insieme le cose.
Quello che ci apparve non appena messo piede in chiesa, pareva
più l’inferno che un luogo di Dio. Dall’incredulità restammo attoniti
e senza parole, persi.
Il corpo nudo di un uomo grasso era appeso a testa in giù
all’inizio della navata centrale, era di schiena e illuminato da due potenti spot che dovevano essere puntati sul grande crocefisso. Era stato legato per le caviglie e si staccava dal pavimento per un buon metro. Sotto di lui c’era un lago di sangue e ceri rossi.
Don Matteo, ecco cosa farfugliava l’anziana ed esile donna che
sostava impietrita e piangente all’ingresso del tempio di fede. Pareva
inanimata come una scultura con le mani giunte in preghiera, se non
fosse stato per il continuo sibilare, poteva apparire un miracolo.
“La statua della Pia piangente”.
Mino si fermò con lei e sostenendola la convinse a sedere su di
una panca. Avevo solo inteso che fosse accaduto qualcosa di grave
nella chiesa, ma mai avrei immaginato di scoprire un macello simile.
Dissi a Mino di richiedere la scientifica, un’ambulanza e far bloccare l’accesso alla chiesa.
Avvicinatomi al corpo penzolante constatai che per quest’ultimo
era tardi.
Da vicino notai che i cinque ceri erano ancora accesi e parevano
galleggiare nel sangue, ma il peggio dovevo ancora vederlo, ero in
procinto di girarvi intorno e mi ero preparato ad assistere a uno
sventramento, coltellate, segni rituali scavati nelle carni. Invece era
stato evirato e, forse ancora in vita, costretto a riempirsi le fauci dei
suoi genitali. Distolsi lo sguardo. La bocca mi si riempì di saliva, non
riuscivo nemmeno a deglutirla tanto mi parve che avesse il sapore di
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sangue, presi un fazzoletto di carta dalla tasca e me ne liberai. Dovetti aggiungerne altri due per non permettere al liquido organico di girarmi per la tasca. Tornai a osservare il raccapriccio allontanandomi
di un passo. Il sangue era colato sul corpo grasso e, striando di rosso
i capelli canuti, aveva formato la pozza che avvolgeva i ceri. Il sangue si riversava sul marmo bianco dei tre gradini che portavano
all’altare tracciando rigagnoli cascanti in pozze più piccole. Quando
mi approssimai, vidi diverse intense stille che cadevano lentamente
dai suoi capelli e dal volto, coperti di quello che, se non fosse stato
per il forte odore metallico, poteva essere scambiato per salsa di
pomodoro.
I versamenti continuavano lentamente a rifornire gli agghiaccianti
vasi comunicanti.
Lui a testa in giù sui gradini, l’altare e, dietro, il Cristo appeso e
sostenuto da grossi cavi nel centro dell’abside: l’originario punto di
quegli spot direzionati sul prete.
Perlustrai all’intorno, sembrava non esserci nessuno, solo il cadavere, la perpetua e Mino. Guardai anche nei due piccoli confessionali, in uno avremmo potuto avere risposte. Arrivarono i nostri uomini
già pronti, vestivano la tipica tuta bianca e trasportavano attrezzature, andai loro incontro e ritornai con loro sulla scena. Dopo essersi
ripresi, ci volle un po’, cominciarono a disporre delimitazioni, cartellini numerati a terra e scattare fotografie. Dissi a uno del confessionale e mi allontanai.
Sentii l’ambulanza che si fermava e mi affrettai all’ingresso. Riuscii a bloccare i lettighieri sul portale della chiesa, li pregai di attendere all’esterno. Potevano compromettere prove e non c’era più nulla
da fare.
Ritornai verso il corpo. Un andirivieni inconsulto. A pensarci ora
mi sembra di aver fatto la figura del fesso. Ma quando mi abbassai
sulle ginocchia all’altezza del viso del prete e guardai verso il redentore da quella posizione, benché ci fosse l’altare nel mezzo, scoprii
che potevano guardarsi negli occhi. I due erano posti come in antitesi e mi volsi per fissare il viso del prete.
«Cazzo!» mi uscì.
Mi tirai su di scatto e guardai i colleghi dispersi alla ricerca di prove. Loro guardavano me un po’ sorpresi, forse per la mia espressio12
ne, quando feci notare a cosa fosse dovuta, fu solo giri di volti,
mormorio e nuovi urti di stomaco. Uno si affrettò a prendere un
sacchetto e si liberò della colazione infilandoci la bocca. Io presi altri
fazzoletti che appallottolai con all’interno la saliva e li misi in tasca.
Agli occhi del prete, che puntavano i ceri e il sangue, erano state
recise le palpebre. Avevo creduto che fosse il solo sangue proveniente dalle ferite e dai genitali quello sul volto del cadavere, invece scoprii mio malgrado che non era l’unica origine. Gli occhi aperti li avevo notati, ma la ritenevo una casualità. Quella notte sarebbe stato
difficile addormentarmi. Come se non bastassero i genitali tagliati e
messi in bocca, non appena chiudevo le palpebre rivedevo le strazianti ferite e un brivido mi correva lungo la schiena. Bel fenomeno
di empatia.
Sul ventre c’era un biglietto che nessuno aveva ancora rimosso,
era stato fissato con uno spillo. Dissi a un uomo della scientifica di
occuparsene e riacquistai la posizione che mi competeva, dare ordini.
Il pezzetto di carta aveva righe come quelle che si usano per i quaderni scolastici, l’agente l’aprì e lo direzionò per farmi leggere.
“Ho peccato e non merito il Tuo perdono. I miei occhi vedranno
per sempre l’inferno.”
Erano proprio in antitesi come supposi, e noi eravamo stati visitatori dell’inferno. Avremmo dovuto scoprire quale fosse il peccato
commesso da quell’uomo mite e di chiesa per meritarsi una fine così
violenta. Giunse il magistrato, poche parole e l’indagine mi fu assegnata, un impiccio l’aver ricevuto questa chiamata, pensai. In ogni
modo sarebbe comunque arrivata a me, era il mio lavoro l’omicidio.
Ma sarei potuto venirci dopo, quando tutto fosse stato rimosso.
Peccato.
L’intuito mi faceva registrare serie difficoltà per questo massacro.
La squadra della scientifica continuava a scattare fotografie e raccogliere indizi intorno al prete, sembrava un lavoro inutile. Tra le
messe di ieri e oggi non si sarebbe riuscito a capire quali potessero
essere le tracce dell’assassino, ma di sicuro la prossima funzione liturgica non sarebbe avvenuta a breve, forse mai. Le uniche tracce
utili potevano essere sul corpo e sulle corde usate per appenderlo
come uno squalo assassino e annodate alle colonne, oppure nel con13
fessionale. Era qui che lo aveva colpito per poi trascinarlo nella navata a completare il lavoro.
La perpetua cominciava ad alzare la voce. Mino si avvicinò e mi
domandò se non fosse il caso di mandarla in ospedale. C’era del lavoro anche per i volontari dell’ambulanza, gli dissi che poteva approfittare dei ragazzi rimasti all’esterno, ma di accompagnarla lui fuori.
Lo spettacolo non doveva aver nuovi testimoni, qualcun altro poteva
dare di stomaco. Aggiunsi anche di provvedere a un piantonamento
della signora, casomai l’avessero ricoverata.
Il magistrato assentiva alle mie disposizioni mentre era giunto il
patologo con un aiutante che spingeva una lettiga.
L’anziana aveva ritrovato la voce e non si dava pace, l’eco della
sua disperazione arrivava nel silenzio irreale dell’ampia chiesa, un
martellamento continuo proveniva da ogni direzione.
“Chi ha potuto fare questo, don Matteo era benvoluto da tutti,
chi?” ripeteva lei, i misteri della chiesa facevano lo stesso. Si sarà fatta cento segni della croce, povera donna.
Dovevo uscire da lì, ma non potevo. L’uomo della procura prese
a scrivere in piedi, si avvicinò all’altare, depositò la borsa a terra e sistemò dei fogli sul ripiano con una tranquillità invidiabile. Quando
ebbe finito, scostò gli occhialini di metallo dorato che aveva sul naso
e mi fece un cenno, toccava a me fare la comunione, ci andai. Vedevo parecchio nero in questa vicenda e non avrei voluto occuparmene.
Confermato lo svolgimento del nostro intervento, concluse la sua
apparizione rilasciando al patologo la procura per la rimozione del
cadavere e mi salutò raccomandandosi per l’indagine. Lo seguii fin
fuori al portale parlando delle difficoltà che avremmo incontrato, lui
diceva che avevo carta bianca, ma la mia era una scusa per raggiungere l’aria che mi mancava. Dovevo respirare. L’odore del sangue
misto a quello d’incensi e ceri che appestavano la chiesa mi si era
appiccicato agli abiti, mi penetrava nelle narici e tornava la salivazione. Quando uscimmo, accesi una sigaretta per confondere le esalazioni che salivano dai miei vestisti e per seccare le fauci: funzionava.
Lui si allontanò in fretta, forse perché pioveva, io restai poiché ero
tenuto a farlo. Cominciai a passeggiare all’aria, il fumo della sigaretta
mi entrò nel naso infastidendomi, guardai la brace e i pochi centime14
tri di filtro e tabacco avvolti nella cartina. “Sei l’ultima”, continuavo
a confermare a ognuna, ma mai odoraccio mi sembrò più piacevole.
La sottile pioggia non m’impedì di arrivare alla delimitazione installata dai due agenti incaricati, amavo la pioggia e scrutare negli occhi interrogativi delle persone radunate lì intorno poteva farmi scaricare la mente. Rivedevo di continuo le immagini provocate dai flash
sul sangue e sul corpo del prete. Un capannello di gente si era riunito
e altri si accingevano a raggiungerlo. Vocii e domande cominciavano
a propagarsi nell’aria umida, ma non erano ancora dirette a me, a noi.
Erano bisbigli tra curiosi provvisti d'ombrelli colorati sopra vestiti
scuri, sembravano tanti corvi con un tocco malsano d’allegria. Solo
quando pioveva, sennò semplici beccamorti che calavano sulla vittima di turno per felicitarsi di non essere il centro dell'attenzione.
Guardai oltre quelle facce blu, arancio, nere e gialle, colorate dal nylon dei parapioggia. Vidi fermarsi un furgone scuro della tv. Mancavano solo loro, pensai. Il furgone parcheggiò sul marciapiede opposto del sagrato e ne discesero in due: quella che sembrava una bella
lei con un microfono e il suo cameraman al quale esortava di darsi
una mossa. Dopo aver provato invano a far parlare il magistrato che
saliva in macchina, si diressero verso il gruppo di uccellacci.
Io tiravo veloce dalla sigaretta, non provavo nessuna voglia di
rientrare, ma il dovere lo imponeva.
I due della Tv riuscirono a guadagnare la prima fila del nastro
bianco e rosso sorvegliato dai colleghi. Mentre li osservavo da vicino, lei mi ricordò qualcuno che avevo già visto, ma stranamente non
riuscivo a collocare dove e quando. Abbastanza insolito, una così
non potevo averla dimenticata, tanto meno il nome. Guardai in direzione del furgone, recava un’insegna bianca: Tv esse. Alta e con fare
sicuro, splendidi occhi verdi e lunghi capelli castani lisci. La sinuosa
figura fasciata in un tailleur grigio che, nonostante la pioggia, era impeccabile.
Una vera “Gazzella”. Per dare un senso a un uomo o a una donna che incontravo o suscitavano il mio interesse, li identificavo sempre con un animale brado, una pietra di paragone e d’ispirazione per
me.
«Ispettore» disse, «Ispettore Verso.»
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Mi conosceva per nome. Professionale, potevo scommettere
tranquillo che conosceva tutti i poliziotti della città. Mi avvicinai ai
due facendo finta che fosse del tutto casuale, dovevo percepirne
l’odore.
«Mi dica, signora.»
«Signorina.» ribatté sorridendo, un sorriso luminoso. I corvi
all’intorno sembravano dissolversi.
«Sono Lidia Castagna di Tv esse. Può dirci cosa è successo in
chiesa?»
«Mi dispiace, ma non sono in grado di rilasciare dichiarazioni, nel
pomeriggio alla centrale informeremo la stampa dell’accaduto.»
«È vero che hanno ucciso un uomo?»
«Non posso, davvero.» risposi compiaciuto.
Ecco dove dovevo averla vista, in tv.
Bella e veloce, l’auto lunga del patologo, gente, il furgone della
scientifica, l’uomo della procura...
Due più due, facile facile.
La precipitazione era aumentata, il cameraman le porse un ombrello e in quel momento mi accorsi che, sì, c’ero arrivato, mi ero
avvicinato fino a catturarne il profumo, ma entrambi eravamo inzuppati d’acqua. Diversi interessi?
Purtroppo dovevo lasciarla, ci sarebbe stata questa sera? Mi chiedevo speranzoso.
Mi riavviai verso la chiesa con la sua fragranza nel naso attendendo altre domande, ma non ce ne furono; tutto contro oggi, mi
sarei fermato volentieri per conoscerci un po’. La Gazzella doveva
applicarsi di più. Quando riaprii il portale, l’odore di morte mi fece
risalire nausea e salivazione.
Il patologo e l’aiutante erano intenti a recuperare il corpo del prete, mettendo alla prova l’equilibrio per non cadere nella pozza di
sangue, i tecnici della scientifica raccoglievano gli strumenti e i grossi
fari furono spenti.
Mi fermai a osservarli spostando la mente alla Gazzella lì fuori
per distrarmi, tra poco avrei potuto lasciare il luogo infernale.
«Cosa ne pensi?» mi chiese Mino, collega e amico alla omicidi, riportandomi indietro. C’era poco da ritenere certo, una vendetta per
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qualcosa avvenuto in passato pareva l’unica causa della macabra
messinscena.
«Non so cosa dire. Sai, avevo incrociato quel prete, sono cresciuto nel quartiere e l’oratorio era il posto di ritrovo di tutti i ragazzi.
Quando lui arrivò a sostituire don Ignazio, io avevo diciotto anni. Si
sostava e ci si ritrovava oltre quel muro.»
C’eravamo incamminati ed eravamo tornati all’aperto, con la mano gli indicavo dove si trovava l’oratorio, con gli occhi cercavo una
figura in tailleur che non c’era, «per poi andare anche in altri posti.
Lo incontrai poche volte, ma pareva una persona a modo, insegnava
il catechismo e organizzava i giochi per i più piccoli.»
Sostammo nel piccolo sagrato della chiesa nell’attesa che uscissero tutti. Per ultimi vennero fuori il patologo e l’aiutante che spingeva
la lettiga con il corpo del prete in una sacca nera. I due agenti apposero i sigilli al portale e lasciarono la delimitazione,
c’incamminammo.
L’unica apparente circostanza a favore era che nessun altro aveva
visto la scena del delitto, nemmeno gli agenti che avevano impedito
l’accesso alla chiesa, ma dovevamo cominciare un’indagine piuttosto
complessa. Prendemmo la mia macchina, Mino salì con me, avremmo seguito i colleghi della volante con cui era arrivato.
Il furgone della tv era ancora là, ma della Gazzella neanche
l’ombra. Facile che fosse all’interno a preparare un servizio, oppure
ad asciugarsi la splendida chioma. Il cameraman era sulla nostra destra quando uscimmo, aveva ripreso tutta la scena del patologo, corpo e caricamento dello stesso con destinazione obitorio nella lugubre
station wagon.
“Sì, signorina Castagna, c'è stato un morto come vedrà dalle sue
immagini.” pensai.
Arrivati in centrale ci informarono che la conferenza stampa era
prevista per le 17.30.
Avrei rivisto la “Gazzella”? Ne pregustavo il profumo. Non ricordavo bene in quale occasione l’avessi notata, forse nei tg: bella,
ma mai quanto dal vivo. Un’ottima motivazione per sopportare
quest’onere per la stampa. Forse la mia vecchia e piccola tv bianco e
nero andava sostituita.
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Dopo aver liberato Mino per la pausa pranzo saltata, mi recai al
laboratorio della scientifica: i tecnici confermarono quanto avevo
supposto io stesso. Ipotizzarono che l’assassino avesse indossato
guanti di pelle, sulla corda erano stati rinvenuti dei frammenti neri
che potevano essersi staccati da essi. Per il resto, tutto molto vago e
da esaminare attentamente, molteplici impronte di scarpe sovrapposte e capelli di diversi colori e lunghezza. Un guazzabuglio di tracce
indecifrabili, al momento.
Dai rilievi del confessionale si contava in qualcosa di più particolareggiato. Non ci speravo molto e anche loro lasciavano intendere che sarebbe stato difficile avere certezze.
«Provi a sentire il patologo.» aggiunse uno.
Telefonai al patologo come suggerito. Lui rispose che l’uomo era
morto per emorragia dovuta al taglio dei genitali e l’agonia doveva
essersi protratta per una ventina di minuti. Il decesso era avvenuto
tra le undici e le dodici. Sul corpo non sembrava esserci nessun indizio riconducibile all’assassino. Oltre alle ferite aveva riscontrato un
ematoma sulla fronte del prete, un colpo che ne aveva causato uno
stordimento iniziale, ma dalla quantità di liquido lacrimale doveva
essere sveglio al momento dell’evirazione totale. Delle palpebre nessuna traccia, pensava di scoprirle nella bocca, invece c’erano solo i
genitali con evidenti segni di morsi certamente forzati dall’assassino.
Segni sui polsi, come se fosse stato legato.
«Alla fine dell’autopsia, le invierò via fax il referto completo, ma
non credo che si discosti molto da quanto le ho raccontato
poc’anzi.» disse. Lo ringraziai e riagganciai.
«E fin qui ci siamo, manca solo un reo confesso ed è fatta!» confermai.
Tra incertezze e dubbi il tempo si era trascinato veloce. Non avevo neanche pranzato, due caffè e due brioches presi al distributore
all’ingresso erano ciò che avevo mandato giù. Convocai la mia squadra, tra mezz’ora ci sarebbe stata la conferenza stampa e nessun indizio, prova o testimone. Nell’attesa verificavo di cosa fossimo in
possesso: niente. Le uniche certezze erano le evidenze: un morto
ammazzato senza scrupolo e un assassino. Quest’ultimo doveva possedere un sangue freddo eccezionale, come pure un odio viscerale
nei confronti del prete. Questa sua avversione restava la sola traccia
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evidente. Si era organizzato con cura, sapeva e conosceva alla perfezione ogni movimento del sacerdote. Ma sarebbe stato di vitale importanza avere prove che lui fosse stato là, se mai fossimo riusciti a
individuare un sospetto.
Mino, Fabrizio e Simona arrivarono nel mio ufficio insieme. La
squadra omicidi. Fabrizio aveva appena ritirato le foto della scena e
le dispose sul ripiano della mia scrivania deglutendo un poco, se fosse stato lì con noi, avrebbe potuto consumare un’intera scatola di
fazzoletti. Mi ricordai che avevo i miei riavvolti su loro stessi in tasca
e me ne liberai gettandoli nel cestino. In quelle fotografie nessuno di
noi riuscì a scorgere particolari utili che potessero suggerirci qualcosa
d’incisivo. Simona cercava di evitare di guardarle troppo, la turbavano, per Mino e io che eravamo intervenuti, mostravano immagini
sbiadite di un palese e inequivocabile castigo.
Un rapporto di una sola pagina raccontava che dalla chiesa non
mancava nessun oggetto. Gli abiti della vittima erano stati rinvenuti
tra le panche a destra della navata, erano stati tagliati per svestirlo.
Anche il portafoglio era lì, come da foto allegata. Pareva non mancasse nulla.
«Niente.» ribadii loro ciò che ritenevo evidente.
«Nessun indizio, solo il biglietto scritto a mano in stampatello e,
come presumo, sarà confermato che la carta è comune così come la
penna usata.» aggiunsi: «Indagare nella vita privata di don Matteo è
priorità. Potrebbe essere stato chiunque, un parrocchiano insoddisfatto delle omelie, un ammazza preti, un rito satanico... uno psicolabile, insomma. Ma per il modo in cui l’assassino ha agito, appare
più una vendetta, una punizione e non un’azione impulsiva. Il guaio
sarebbe che ci trovassimo di fronte a un killer spietato e sicuro inviatogli da altri.»
Dissi ai miei tre ciò che riflettendo non volevo che fosse, ma
sembrava l’unico motivo accettabile. Difatti, loro non si pronunciarono altrimenti.
«Simona ti occuperai dei trascorsi della vittima: dove ha prestato
opera prima di Milano, quale seminario ha frequentato, la famiglia e
la sua storia, tutta. Manterrai i contatti con la scientifica e il patologo,
annota qualsiasi nuova informazione, anche se appare inutile. Domattina Mino e io andremo dalla perpetua che è stata ricoverata in
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stato di shock. Fabrizio, tu andrai alla chiesa, rintraccia il sagrestano
se ce ne fosse uno. Non ci sono altri preti, l’unico era lui: don Matteo. Il quartiere si sta spopolando e molte attività che prima erano
svolte sono state dislocate in altre parrocchie. Anche l’oratorio è
chiuso da anni. Sono rimasti soprattutto anziani che seguono le sole
messe.»
Disposizioni di routine per le notizie raccolte sul posto, e queste
rimanevano le uniche cose da fare e cercare: moventi e possibili motivati. Poi, Mino chiese.
«Cosa dichiariamo alla stampa?»
«Ci parlerò io. Narrerò tutto ciò che sappiamo al momento: nulla.
È la verità, in fondo. Si è riusciti a contenere le notizie, continuiamo
in questo modo per la nostra tranquillità nell’indagine, d’accordo?»
I tre assentirono, la seduta si scioglieva per un’altra scomoda, mi
rivolsi a Mino e Fabrizio: «Andiamo.»
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