12. PAOLA QUARENGHI Eduardo De Filippo. Filumena e il cinema1

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12. PAOLA QUARENGHI Eduardo De Filippo. Filumena e il cinema1
12. PAOLA QUARENGHI
Eduardo De Filippo. Filumena e il cinema 1
Una delle questioni di maggiore interesse, nello studio dei rapporti di Eduardo col cinema, mi
sembra essere la relazione realtà-finzione, così importante anche nella sua poetica teatrale.
Conviene tentare di esaminarla, sia pur brevemente, considerando sia la sua produzione che le
sue dichiarazioni di poetica.
Eduardo realizza Napoli milionaria (il film che in una lettera all’attrice francese, Valentine
Tessier, dichiara essere il primo della sua carriera di regista, ignorando le due prove precedenti)
nel 1950, in pieno neorealismo. Qualche critico provò a collocare il film tra i prodotti
appartenenti a quel movimento, altri gli rimproverarono un “difetto” in questo senso, ma a
guardarlo con occhi sereni ci si accorge di quanto esso sia estraneo a quella poetica. (Una certa
anticipazione delle tematiche neorealiste si può ritrovare invece nella commedia Napoli
milionaria, del 1945). È vero che Eduardo utilizza nel film una sorta di coro impersonato da
autentici napoletani dei vicoli di Spaccanapoli e Forcella, ma è anche vero che tutti i ruoli
principali sono affidati ad attori professionisti: Totò, lo stesso Eduardo, Titina, Delia Scala, Aldo
Giuffré... E la stessa soluzione Eduardo la adotterà tre anni più tardi, quando, nel film Napoletani
a Milano, affiancherà
interpreti presi dalla strada ad attori veri. Il segno più evidente di quanto
Napoli milionaria sia lontano dal neorealismo lo troviamo
nell’
uso che Eduardo regista fa delle
scenografie e degli ambienti. Secondo molte testimonianze, fu per ragioni produttive che
egli si
decise a girare il film in un teatro di posa - gli stabilimenti della Farnesina a Roma - piuttosto che
nei vicoli di Napoli, ma è
molto probabile che a motivare una simile scelta entrassero in gioco
ragioni artistiche prima ancora che organizzative. Per ricostruire il suo vicolo e il suo “basso” in
teatro, Eduardo racconta 2 di avere fatto scattare più di cinquemila fotografie documentando
angoli e luoghi caratteristici e di averne poi fatto, nel suo vicolo, una sintesi: le scale del
Pallonetto, il vicolo delle Paparelle...
Questo spazio finto, ma verosimile, è stato in seguito reso
vivo dalla presenza di napoletani veri che, come racconta Luigi De Laurentiis nella sua
intervista,3 trovarono queste costruzioni così famigliari e così vicine alla loro realtà, da decidere
di abitarci davvero per tutta la durata delle riprese. La commistione tra vero e finto, tra attori veri
e gente presa dalla strada, funziona; così come funziona in Napoletani a Milano, quando una
voce fuori campo presenta i personaggi e fra tanti attori-non-attori ingaggiati per interpretare i
poveri abitanti del Rione della Cunciaria, vediamo, a braccetto con due autentiche napoletane,
una graziosa, allora già diva Anna Maria Ferrero, nella parte di una piccola ragazza del popolo.
L’effetto di realtà è riuscitissimo: l’“attrice vera” non si stacca dal quadro, dal coro della “gente
vera”, un po’ per
la naturale disinvoltura di questi non-attori napoletani, un po’ anche perché
trucco, costume e modalità di ripresa (quasi documentaristiche) contribuiscono ad omologare la
figura dell’attore agli altri interpreti e quasi a stemperarla nella realtà dei veri esterni. Nella
seconda parte del film la “storia” (e in qualche caso anche la “macchietta”) prenderà troppo
decisamente il sopravvento sulla “realtà”, ma in questa prima parte il film può essere considerato
un buon esempio, forse il più riuscito fra gli esperimenti tentati da Eduardo, di matrimonio fra
realtà e finzione.
1
Da Paola Quarenghi, Lo spettatore col binocolo. Eduardo De Filippo dalla scena allo schermo, Kappa, Roma
1995, pp. 211-16. [6]
2
Cfr. l’intervista concessa a Riccardo Longone per «L’Unità», il 13 giugno 1950.
3
Cfr. P. Quarenghi, cit., p. 56 sgg.
Quanto la concezione del cinema di Eduardo fosse sostanzialmente estranea ai principi del
neorealismo lo si può vedere, oltre che
dalla sua pratica di regista di cinema,4 da alcune sue
dichiarazioni programmatiche. Nel gennaio 1952, poco prima di iniziare a lavorare al suo primo
film di derivazione non teatrale, Ragazze da marito, Eduardo dichiara ad un giornalista che, così
come avviene in
teatro, dove gli spettatori accettano la convenzione («le scene di carta, il fuoco
fatto di riflettori e di carta stagnola, gli alberi di cartapesta, i fantasmi in carne ed ossa»5), anche
nel cinema, dove il principio di realtà non e poi così universale come si crede («voi
vedete che
quando due attori parlano in mezzo alla folla, la gente accetta che non si sentano i rumori della
strada [...]»6),
a poco a poco il pubblico accetterà ogni convenzione, purché questa vada a vantaggio dell’arte. E un giorno, un
giorno noi andremo al cinema, siederemo in platea, sullo schermo verrà proiettato un sipario di tela, questo si aprirà
ed usciranno gli attori a recitare: saremo tornati a1 teatro. 7
La dichiarazione, che non mancherà di far gridare allo scandalo alcuni critici cinematografici,
anticipa in modo singolarmente
letterale l’
esperimento di «documentario teatrale» che Eduardo
tenterà nel 1959 con Sogno di una notte di mezza sbornia e la produzione televisiva del suo teatro
negli anni Settanta.
Meno provocatoriamente, ma altrettanto decisamente, Eduardo si allontana dalla poetica
neorealista in un’altra dichiarazione, di
poco più tarda, in cui, pur riconoscendo l’importante
funzione avuta dal neorealismo nello scalzare «convenzioni e convinzioni» ormai superate,
individua negli stessi principi della poetica neorealista caratteri convenzionali che hanno poco a
che fare con
l’
automatica riproduzione del vero. Rifiutando la formula del neorealismo, Eduardo
si ricollega alla propria esperienza teatrale,
secondo la quale «compito e funzione dell’
arte è di
condensare e trasformare la realtà».8
«Lo spettatore - continua -, nel suo intimo, non si interessa a una piatta riproduzione del vero, ma
si appassiona al verosimile, ossia alla realtà
elaborata dalla fantasia».9
Anche nel cinema, prosegue Eduardo, i risultati più interessanti si sono ottenuti quando si è
ottemperato a questi principi: quando
si è cercato di dare allo spettatore il «verosimile» e non il
«vero». E anche per quanto riguarda la scelta degli interpreti (facce o attori), «ciò che conta è di
portare l’attore sempre più vicino all’uomo della strada e di renderlo sempre più capace di farsi
interprete della
sua verità poetica, e non già di portare l’uomo della strada sul piano
dell’attore». 10
Fondato su principi non molto lontani da questi sarà anche, per Eduardo, il rapporto
teatro/cinema. Anche qui il primo e più complesso problema che si pone nel confronto fra i due
media è, come ricorda Bazin in un saggio del 1951,11 ancora fondamentale sull’argomento, quello
4
È già indicativo in questo senso che solo tre dei film da lui diretti non siano tratti da opere teatrali (e anche in
questo caso, comunque, il teatro o la commedia, sia pure nella sua variante cinematografica, c’entrano in qualche
modo).
5
La dichiarazione è riportata nell’articolo di Enrico Nardini, La famiglia passaguai del teatro italiano, «la Settimana
Incom», 26 gennaio 1952.
6
Ibidem.
7
Ibidem.
8
La dichiarazione è riportata nell’intervista di Braccio Agnoletti, Portare l’attore all’uomo della strada, «Cinema»,
n. 84, 15 aprile 1952.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Teatro e cinema, in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1973.
relativo allo spazio. In fondo anche nel passaggio dal teatro al cinema si tratta - per dirla m modo
molto rozzo - di portare qualcuno in qualche luogo. Riassumendo all’ingrosso il pensiero di
Bazin al riguardo (e andando un po’ oltre le sue stesse conclusioni), le soluzioni del problema
possono essere due: o portare i personaggi del teatro nella stessa realtà degli spettatori (cosa che
il cinema può fare benissimo, vista la familiarità che ha con il reale): oppure portare lo spettatore
dentro la finzione dei personaggi. La prima via è apparentemente la più facile e la più praticata,
ma anche la più insidiosa, perché rischia di annullare la realtà artificialmente poetica dei
personaggi, la seconda è quella che impone al cinema una compromissione più forte col teatro,
una sorta di lotta corpo a corpo; col risultato - secondo Bazin - di costringere il cinema, per non
soccombere, a utilizzare tutte le proprie risorse specifiche. Alla base della seconda soluzione c’è
l’accettazione di un tacito postulato: che il teatro sia “reale”, anche se basato su statuti e regole
diversi dalla realtà corrente; e, per corollario, che questa sua realtà sia interessante, importante e
utile.
Nel corso di tutta la sua attività di regista cinematografico, Eduardo ha in fondo sempre trattato con diverse soluzioni e con esiti più o meno felici - la questione del rapporto teatro-cinema. Per
rendersene conto si può dare una rapida scorsa ai film
da lui diretti. Il primo, In campagna è
caduta una stella, è tratto da una commedia di Peppino, già recitata in teatro dai fratelli De
Filippo; il secondo, Ti conosco, mascherina!, è l’adattamento di una pochade napoletana di
Eduardo Scarpetta. La teatralità convenzionale di questo film è evidente in tutto: nella
recitazione, nelle scenografie, nella inverosimiglianza delle dinamiche e degli snodi, che Eduardo
non si preoccupa di rendere plausibili (tutti i personaggi si trovano sempre, come sospinti da un
meccanismo ad orologeria, nel luogo e nel momento che sono imposti dal vertiginoso gioco
pochadistico, e il risultato è pienamente anti-realistico). Il terzo film è Napoli milionaria, di cui si
è detto. Qui Eduardo fa comunque uno sforzo, rispetto al film precedente, per rielaborare la
commedia in senso più cinematografico, dilatando il luogo e il tempo dell’azione e modificando
anche in chiave più realistica il destino di certi personaggi. 12 In questo
film Eduardo sente il
bisogno di incorniciare la vicenda, inserendola fra due sequenze speculari e opposte: all’inizio del
film la
macchina da presa inquadra un ampio panorama della città, per poi avvicinarsi in una
ideale zoomata al “particolare” della storia
che si appresta a raccontare, una storia di cui si
sottolinea, nel commento fuori campo, il carattere esemplare. Alla fine del film
la macchina
compie il percorso contrario, tornando ad un totale della città, mentre la stessa voce off “chiude”
il racconto. Questo
stilema voleva essere (e forse all’
epoca poteva sembrarlo) squisitamente
cinematografico e tendeva ad incoraggiare, attraverso le
parole del commento fuori campo, una
lettura in senso neorealistico: da una realtà vasta e complessa come quella di una città,
Napoli,
la macchina da presa seleziona un piccolo campione e lo propone allo spettatore. Ma la vicenda
narrata è un apologo, dice
ancora il commento: la famiglia Jovine non è solo la famiglia Jovine,
e Napoli non è solo Napoli, ma il mondo. Nessuna tranche de vie, dunque, ma una storia
conchiusa, esemplare, con un suo preciso significato morale, non molto lontana in fondo, anche
se con un aggiornamento in senso meno ottimistico (e quindi più “realistico”), da quella
raccontata in teatro. Anche la soluzione
adottata per segnalare i passaggi di tempo - e di regime
-, l’alternarsi su un attaccapanni di cappelli e berretti militari di varie
epoche e fogge, è una
soluzione assai poco neorealista. Come nota, con molta acutezza, il critico dei «Cahiers du
Cinéma» Michel
Mayoux in una sua recensione:
12
Per esempio quello di Amedeo, il figlio di casa Jovine, che nel film, diversamente dalla commedia, porta a
compimento il furto programmato e va a finire in prigione.
[Il film] non è la cronaca della vita napoletana in un’epoca determinata, ma una favola poetica il cui luogo e
momento sono stati scelti fra mille altri possibili. I personaggi, come quelli della Commedia dell’Arte, tendono a
sfuggire alla normalissima realtà da cui li trae l’autore per diventare i protagonisti di una pantomima - o di un
balletto [...]. Il disagio che avverte lo spettatore nel passare dalla scenografia in teatro alle scene in esterni deriva
dalla nostra difficoltà ad adeguarci all’universo semplificato che ci propone Eduardo De Filippo.13
Lo stesso disagio si avverte in alcune scene in esterni nel film Filumena Marturano. Anche
Eduardo sembra avvertirlo, tanto è
vero che le riduce al minimo e “protegge”i suoi personaggi
con l’ausilio di una solidissima casa-set. Lo sforzo di adattamento qui è più timido che nel caso
precedente e il film si tiene un po’ a cavallo fra teatro e cinema: tra il carattere cinematografico
di
certe scene in cui lo spettatore “
vede”(e non “
sente”
) antefatti e situazioni che in teatro
venivano solo raccontati e non mostrati; e la teatralità di monologhi ai quali Eduardo non si è
sentito di rinunciare. Un esempio significativo si può ricavare dal finale del film. Si è finalmente
celebrato il matrimonio. La cerimonia è finita. I figli salutano Filumena e Domenico e li lasciano
soli. I due si affacciano al balcone per salutare i ragazzi, che dalla strada ricambiano il saluto. Gli
occhi di Filumena si inumidiscono. In quegli occhi c’è commozione, tenerezza, dolore per una
vita che avrebbe potuto essere diversa da come è stata, ma anche gratitudine per quella
conclusione che è la più altruistica, la più umana di tutte le conclusioni possibili. Domenico la
guarda: ora, solo ora, i due sono davvero marito e moglie. Tutto questo lo spettatore lo capisce da
quelle lacrime negli occhi di Filumena, che non sono ancora diventate pianto, e dallo sguardo di
Domenico; capisce senza bisogno che i personaggi parlino, ma
Eduardo non sa rinunciare a
quelle parole che in teatro erano state - come era naturale che fosse - il tramite per far arrivare
allo spettatore il senso di quel finale: così il commento di Domenico, che chiude il film,
sottolinea troppo ciò che già era intimamente chiaro allo spettatore, e vanifica in parte l’effetto
della bellissima scena.
Anche il film successivo, Marito e moglie (a cui segue nel corso dello stesso anno, il 1952,
l’episodio «Avarizia e ira», anch’esso in
realtà una specie di atto unico), è tratto, almeno nella
sua seconda parte, dal teatro, dall’atto unico Gennareniello, del 1932. Ma tutto il film,
interpretato da attori di teatro, risente le quinte e i fondali: basti pensare alla bella scena in cui
Tina Pica ci fa vedere, solo
con i gesti e con le espressioni del volto, il meraviglioso proliferare
dei pulcini che nasceranno dalle uova che ha deciso di far covare al marito. Anche in questo caso
poi il secondo episodio del film è incastonato dentro una cornice simile a quella già impiegata in
Napoli milionaria - questa volta, però, solo visiva: la macchina panoramica su un paesaggio di
case e si ferma su una finestra
che si apre all’
inizio e si chiude alla line dell’
episodio.
I due film che seguono. Ragazze da marito e Napoletani a Milano, sono, come si è detto, tratti da
soggetti originali, ma si tratta pur sempre di commedie, anche se cinematografiche, e non è un
caso che in entrambi fìgurino i nomi di Age e Scarpelli, padri della
commedia all’italiana.
Con Questi fantasmi! si ritorna a pieno titolo al teatro. Qui però, nonostante la presenza di nomi
illustri come Mario Soldati e Giuseppe Marotta come collaboratori alla sceneggiatura, il
matrimonio fra teatro e cinema non riesce. Buona parte della responsabilità va attribuita
senz’altro a scelte di cast non felici: un Rascel, bravo ma fuori parte, e una coppia di attori, Maria
Frau e
Erno Crisa, che sembrano piovuti dal pianeta dei drammi cinematografici d’
amore e
gelosia per distruggere con le loro faccione
inespressive la trama ironica, ambigua, amara della
commedia. Quella che poi era una delle qualità più interessanti del lavoro in
teatro, il gioco di
relazione fra il protagonista e l’invisibile e inudibile, ma vivissimo personaggio del professor
Santanna (identificabile con il pubblico), nel film forzosamente si perde. Anche in questo caso
13
Michel Mayou, «Cahiers du Cinéma», n. 4, luglio-agosto 1951.
Eduardo sceneggiatore non se l’è sentita di rinunciare completamente a un personaggio che aveva
avuto tanta fortuna sul palcoscenico, e se non lo fa vedere (è ovvio che non sapesse che faccia
dargli), ne fa però sentire la voce (la sua), sminuendo in questo modo un gioco che in teatro era di
grande suggestione e che nel cinema bisognava forse avere il coraggio di trasformare
completamente (magari facendo di Santanna un personaggio vero e proprio), oppure di eliminare.
Fortunella, il film successivo, è un film eduardiano solo al 50% e felliniano per l’altra metà,
come è stato rilevato praticamente da tutti i critici. Nel film però il teatro entra come tema, se non
come opera fonte. Antiche memorie e qualche eco autobiografica risuonano infatti nel
personaggio interpretato da Eduardo: don Cesare Mattaroni il capocomico della «Tespi
Viaggiante», la compagnia alla quale Fortunella si aggrega alla fine della vicenda. E questa parte,
che riguarda il teatro è senz’altro una delle più ispirate del film.
Infine, di derivazione teatrale sono le ultime tre regie cinematografiche di Eduardo: Sogno di una
notte di mezza sbornia è un vero
e proprio «documentario teatrale» - così lo definì lo stesso
Eduardo; l’episodio «L’ora di punta» è l’adattamento di un atto
unico degli anni Trenta; e Spara
forte, più forte... Non capisco!, è ricavato dalla bella commedia Le voci di dentro.
Quest’ultimo
film, pur essendo artisticamente poco riuscito, è interessante perché costituisce il
tentativo più estremo, da parte di Eduardo,
di addentrarsi nell’
universo del cinema. Nella
sceneggiatura, scritta con Suso Cecchi D’Amico, la vicenda e i personaggi della commedia
vengono trasportati in una realtà che non è più solo quella, assai conflittuale, della famiglia
Cimmaruta, ma la realtà
di una Napoli dai misteri inconoscibili, in cui si sentono i presagi del
terremoto che finirà di lì a qualche anno per devastare le già disastrate strutture della città, una
realtà che continuamente sconfina nel sogno, ma un sogno vago, confuso, che non ha certo la
nitidezza dei sogni che i personaggi raccontano nella commedia. Lo sforzo compiuto da Eduardo
è coraggioso, e non privo di motivi interessanti, ma è come se i suoi personaggi e lui stesso si
fossero trovati così disorientati da questa realtà orribile, magmatica, senza ordine, da ritrarsene
all’ultimo momento, finendo per riproporcela non in primo grado, ma nei suoi stereotipi
cinematografici o nell’imitazione dei ritratti che altri artisti ne hanno
fatto (un certo fellinismo
di maniera, ad esempio, che è una delle cose meno felici del film).
Insomma, dalla panoramica complessiva dei film diretti da Eduardo, l’impressione che si ha è
quella di una certa diffidenza nei confronti della realtà, di un disagio al quale egli cerca di
rimediare ricoverando i suoi personaggi in interni, in esterni finti costruiti in teatri di posa, o
circoscrivendo la loro vicenda entro cornici narrative che sono come il boccascena o le quinte di
un teatro. Un esempio illuminante, in questo senso, si può avere dal confronto fra due film, tratti
dalla stessa commedia: Filumena Marturano, diretto da Eduardo, e Matrimonio all’italiana,
diretto da De Sica. Le esigenze del teatro guidano Eduardo fin dalla scelta dell’interprete. Luigi
De Laurentis (coproduttore del film) avrebbe voluto per la parte della protagonista Anna
Magnani, perfetta per il ruolo e molto appetibile dal punto di vista cinematografico. Ma Eduardo
decise per Titina, non sentendosela di sottrarre alla sorella il personaggio al quale aveva dato vita
sulla scena con tanta partecipazione e con tanto successo. Certo c’è da rimpiangere che la
Magnani non abbia avuto altra occasione di portare sullo schermo un personaggio così vicino alle
sue corde, anche se nell’interpretazione di Titina il film resta uno straordinario documento di
teatro, oltre che un buon prodotto cinematografico. Per il film di De Sica invece si fa subito il
nome della Loren; anzi, il film è costruito sulla sua misura, e un po’ anche “sulle sue misure”, nel
senso che produttore, regista, sceneggiatori, le adattano addosso il personaggio (una donna ormai
sfiorita), modificandolo in modo da salvaguardare l’immagine di sex simbol al quale l’attrice è
legata. Sono quindi esigenze cinematografiche
che guidano, fin dall’
inizio, la mano degli autori
del film. Anche il racconto si sviluppa, nei due casi, in modo diverso. In entrambi i
film si
perde, è ovvio, l’ambientazione unica (la stanza da pranzo in «stile Novecento» della casa di
Domenico Soriano); e l’antefatto (la finta malattia di Filumena e il matrimonio in extremis),
splendidamente omesso all’inizio della commedia ed evocato in
seguito solo dalle battute dei
personaggi, è invece sviluppato per esteso: più didascalicamente nel film di Eduardo, più ex
abrupto nella bella scena iniziale di De Sica (con una Filumena che viene portata a casa
semisvenuta, issata come una Madonna in processione su una specie di sedia gestatoria). E
ovviamente si perde, in entrambi i film, la perfetta simmetria della scena iniziale: lo scontro fra i
due protagonisti, Filumena e Domenico, replicati dai loro alter-ego Rosalia e Alfredo, disposti sul
palcoscenico come per una specie di gioco dei quattro cantoni. Nel film diretto da Eduardo il
racconto si sviluppa in modo lineare a partire dal risveglio di Filumena il giorno in cui ha deciso
di ricorrere all’inganno della finta malattia per farsi sposare (e qui la vediamo anche in alcune
belle scene, recitate dall’attrice con straordinaria misura, che ci mostrano il personaggio alle
prese con le fatiche e le responsabilità di tutti i giorni); a contrasto, vediamo il risveglio pigro e
sfaccendato di Domenico. La vicenda prosegue poi linearmente e senza flashback, pausata dai
racconti di Filumena. Nel film di De Sica, invece, con una soluzione più cinematografica (anche
se formalmente non molto elegante), tutta la narrazione dopo poche sequenze iniziali, si sviluppa
a partire da due lunghissimi flashback, uno di Domenico e uno di Filumena, in cui viene
raccontata visivamente la storia passata dei due protagonisti: l’incontro di lei adolescente con
Domenico, gli inizi e gli sviluppi della loro relazione, le visite di Filumena ai figli. Nel film di De
Sica è impossibile identificare il luogo dell’azione con un ambiente privilegiato, e i personaggi ci
vengono mostrati spesso anche in esterni. Nel film di Eduardo, invece, luogo principale
dell’azione resta la casa di Domenico, quella casa ricca ma di gusto discutibile, nella quale
Filumena si muove con la sicurezza di una padrona perché l’ha governata per venticinque anni, e
dalla quale l’arroganza di Domenico vorrebbe ora cacciarla come una serva diventata inutile. Nel
film ci sono, è ovvio, anche altri ambienti, e scene in esterni, ma il ricordo dello spettatore tende
naturalmente a identificare il luogo dell’azione con quello spazio; e negli esterni i personaggi si
muovono come a disagio: la sequenza (aggiunta rispetto alla commedia) in cui EduardoDomenico fa il galletto con la sua nuova fiamma in barca a vela è piuttosto kitsch; quella di
Domenico e Filumena che, per andare a sposarsi, attraversano Napoli in carrozzella potrebbe
essere realizzata con un
trasparente, tanto poco importanti sono in quel momento le immagini
che vediamo: l’attenzione dello spettatore è tutta rivolta al
dialogo.
Eduardo deve aver sentito che la casa era importante e l’ha realizzata (ancora una volta in teatro
di posa) con estrema cura,
quasi si trattasse di una casa vera. È interessante a riguardo la
testimonianza di un giornalista andato a visitarlo al teatro del Centro Sperimentale di
Cinematografìa durante le riprese:
Poche volte [...], forse mai, in uno studio cinematografico si è costruito e allestito un appartamento con tutta la cura
impiegata per dar vita alla casa di Domenico Soriano. [...] Eduardo ci teneva. E né lui né il produttore De Laurentiis
hanno lesinato il tempo e i mezzi necessari a ricostruire salotti, camere da pranzo, stanze da letto, anticamere, tinelli,
bagni e cucine, come ancora si possono trovare in qualche palazzo della vecchia borghesia napoletana. Forse è
entrata in gioco anche una passione di collezionista, specialmente per quanto riguarda gli arredi e i soprammobili.
Alcune poltrone del «salotto buono» sono già pezzi di museo; come il ritratto di Masaniello che occupa un’intera
parete […] o un piccolo quadro del Palizzi che figura a parte sopra un cavalletto. Autentici i quadri religiosi appesi
attorno ai letti ed i trofei sotto campane di vetro posati sui cassettoni. Ma ciò che più ha stupito i visitatori che
durante la lavorazione sono stati ammessi ad assistere alla ripresa di qualche scena, è stata proprio la solidità della
casa. Tutto vero, secondo un vecchio sogno di Sardou. Vere le doppie porte di castagno massiccio con le maniglie
modellate appositamente e le serrature funzionanti, veri i muri, le tappezzerie, le imposte delle finestre. Veri i
pavimenti, alcuni in legno, altri a piastrelle fatte arrivare da Napoli. Vera la cucina, con l’armamentario di tutti gli
oggetti di cui può disporre uno scapolo che ha molta servitù e molto danaro; entro le sue pareti, per un paio di
settimane, sono arrivati polli, pezzi di manzo, fiaschi d’olio e verdure d’ogni tipo. In questa casa, ormai demolita,
mancavano i soffitti, per lasciar posto ai riflettori. Ma chiunque vi entrasse, al primo momento, riceveva una illusione
completa. Forse aveva finito con l’illudersi lo stesso Eduardo; il quale, prima di abbandonarla, volle cavarsi il gusto
di invitare un paio di dozzine di amici e trattenerli a cena. L’invito diceva: «Domenico Soriano e Filumena
Marturano sarebbero onorati di averLa a tavola con loro, venerdì alle ore 20, nell’appartamento di Via Tuscolana 832
14
(Centro Sperimentale di Cinematografia)».
Come leggere questa cura così minuziosa nell’allestimento della casa di Domenico Soriano?
Come un ossequio al bisogno di verità imposto dal cinema? O piuttosto come un tentativo di
camuffare, di rendere verosimile di fronte all’occhio implacabile della macchina da presa
qualcosa che comunque continua a restare finzione? Quel curioso invito per una cena di fìnelavorazione è, in questo senso, rivelatore: venite, - sembra dire Eduardo non solo a «un paio di
dozzine di amici», ma a tutti gli spettatori del suo film - entrate con me dentro questa finzione che
simula e raddoppia la realtà. E l’invito, naturalmente, non è diramato da Eduardo De Filippo, il
regista del film, ma da Domenico Soriano e Filumena Marturano.
Matrimonio all’italiana di De Sica è costruito con una concezione del tutto opposta. Se è vero
che il regista si è ormai molto
allontanato dall’
esperienza del neorealismo e che le esigenze
dello star system pesano sul film col loro gravame di convenzioni e stereotipi cinematografici, è
pur vero che nel rapporto cinema/realtà l’approccio di De Sica rimane opposto a quello di
Eduardo. Quest’ultimo cerca continuamente di “mettere al riparo” i suoi personaggi come se si
rendesse conto che a quelle creature nate per il palcoscenico l’aria vera può fare male. De Sica
tende invece a buttarle nel mondo, assieme alla gente vera, in paesaggi reali, proprio per
contagiarle con questo bagno di
realtà. Per De Sica il paesaggio è importante, non è un semplice
sfondo al dialogo dei personaggi. Nelle sue «lettere dal set»,
scritte alla figlia Emi durante la
lavorazione del film a Napoli, si lamenta con lei di non essere riuscito, per colpa della nebbia,
a
girare come voleva una scena (un dialogo tra Filumena e Alfredo), in cui «quello che era
interessante per me» era «il panorama di Napoli visto dall’alto dai due». 15 In queste pagine, molto
interessanti, si ha continuamente l’impressione di una città che cerca in tutti i modi di infrangere
le barriere, umane e materiali, che proteggono il set. Un coro di aspiranti comparse che con
spintoni e lusinghe tentano di entrare nel film (per istintiva narcisistica vocazione, ma soprattutto
per guadagnare un po’ di soldi). Nelle parole del regista si avverte il fastidio di un simile assalto,
ma anche il desiderio di non sottrarvisi troppo, perché da questa caotica invasione si può sempre
ricavare qualcosa di buono: una faccia, un’azione secondaria, piccoli suggerimenti che possono
dare il sapore della realtà ad una scena... Come nella sequenza in cui Filumena, uscita dalla studio
del notaio che le ha appena detto che il suo inganno non è servito a niente, che il matrimonio non
è valido, si specchia per caso nella vetrina di un negozio: ha in testa un cappello, messo per
l’occasione. Sorride ironicamente alla propria immagine, si toglie il cappello con gesto stanco e
lo butta in un cestino per le immondizie. 16 In una lettera alla figlia, datata 4 maggio, De Sica
racconta un piccolo episodio legato alle riprese di questa scena:
Passava in quel momento per caso un uomo con una grande corona di fiori bianchi e rossi. Mi è piaciuta
l’impressione che provoca Filumena che si toglie il cappello e dietro di lei il passaggio d’una corona da morto.
«Fermate quell’uomo!», ho subito gridato. L’uomo è stato fermato e, stordito, sospinto dai segretari, è stato arretrato
di cinque o sei metri. È passato, ma troppo in fretta. «Ripeta!», ho gridato. E l’uomo, più stordito ancora, è tornato
14
Rodolfo Ricci, La seconda vita di Filumena Marturano, «Settimo Giorno», settembre 1951.
Vittorio De Sica, Lettere dal set, a cura di Emi De Sica e Giancarlo Governi, Sugarco, Milano 1987, p. 172.
16
Questa bella scena, di gusto molto cinematografico, era già presente nella prima versione della sceneggiatura,
scritta da Eduardo.
15
indietro, rinculando. «Ancora uno», ho detto e l’uomo, ai segretari, credendoli agenti in borghese: «Ma il morto
aspetta». «E fallo aspettà», hanno infierito gli altri. Finalmente la scena è stata girata e l’uomo, di corsa, ha
proseguito per la sua strada».17
Da quanto ho detto fin qui si potrebbe dedurre che Eduardo disprezzi la realtà o la rifiuti. Niente è
più falso. La realtà è la sua prima fonte di ispirazione ed è il referente di tutta la sua opera
d’autore. Egli ne è un osservatore attentissimo e la tanto decantata verità dei suoi personaggi
nasce proprio da una simile capacità di cogliere e ritrarre tipi, comportamenti, linguaggi,
situazioni. Ma tutto questo materiale reale viene da lui trasformato, essenzializzato, rielaborato, e
diventa teatro. Mayoux parla nella sua recensione a Napoli milionaria di un «universo
semplificato». Forse la definizione è riduttiva: non si tratta di un universo semplificato, ma di un
universo poetico, in cui vigono regole e leggi diverse da quelle che conosciamo nella vita di tutti i
giorni: le regole e le leggi del teatro. Il fatto è che questo universo fìnto per Eduardo è diventato,
in una vita di teatro, più vero del vero. La realtà dei suoi personaggi (che - va ribadito - ha origine
dall’osservazione della realtà “vera” e ad essa si indirizza, per trasformarla) gli interessa di più di
quella corrente, quella degli uomini che si alzano, vanno
in bagno, si lavano la faccia, fanno
colazione.... Come Oreste Campese, il capocomico dell’Arte della commedia, forse
anche
Eduardo si stupisce, nel battere un piede sull’
asfalto, di non sentire risuonare il vuoto del
sottopalco, e nell’appoggiarsi a un muro
o ad una colonna lo fa con circospezione come se
toccasse un fondale dipinto o una quinta di teatro. Nel cinema, un’arte che
pone davanti agli
occhi degli spettatori letteralmente la “visione del mondo” di un autore, questo risulta con
particolare evidenza.
Quando Eduardo, parlando con i suoi allievi del corso di drammaturgia
all’Università di Roma, dice che il cinema si deve servire
della parola, cioè del pensiero, non
più del paesaggio, parla del suo interesse per un cinema che riproponga non tanto la realtà del
mondo che ci circonda, con i suoi paesaggi naturali o artificiali, ma un altro tipo di paesaggio,
quello dell’anima. E quest’anima
può essere anche quella dei personaggi teatrali che lui stesso
ha creato (e degli attori che a questi personaggi hanno dato corpo).
In questo senso gli ultimi
cicli della sua attività televisiva sono la realizzazione più compiuta e coerente del suo progetto. In
essi
egli abbandona qualunque tentazione di pura sperimentazione nei confronti del mezzo di
cui si serve e dichiaratamente si dedica
a riproporre, o piuttosto a evocare, il teatro. La
sperimentazione semmai sarà una inevitabile conseguenza, non un a priori del suo
lavoro. Nel
corso della sua ultima attività televisiva egli utilizzerà la telecamera come una sonda per andare a
fondo nell’anima dei
personaggi.
17
Vittorio De Sica, Lettere dal set, cit., p. 190.