A. Esposito, A. Pollini
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A. Esposito, A. Pollini
Contextualising “early Colonisation”: Archaeology, Sources, Chronology and interpretative models between Italy and the Mediterranean SESSION 5A: THEORETICAL APPROACHES TO THE “COLONISATION” Arianna Esposito, Airton Pollini Post-colonialismo dall’America alla Magna Grecia. Questo contributo si inserisce in un dialogo di ricerca comune che condividiamo a cavallo fra « almeno » tre paesi, Italia, Brasile e Francia, e « almeno » due discipline, la storia e l’archeologia. In un certo senso era presumibile, per non dire inevitabile, che ciascuno di noi, in virtù della sua esperienza personale, biografica e intellettuale, « approdasse » ai cultural studies e si interessasse in particolare alla storiografia dei contatti interculturali in ambito coloniale. Questo rapido accenno introduttivo non serve solo a presentarci, ma anche a situare e a definire in modo più concreto la natura stessa dei nostri interrogativi nell’ambito di questo contributo. Vorremmo infatti intraprendere con la nostra comunicazione uno « state of art » della storiografia sulla colonizzazione occidentale a partire da questa prospettiva specifica che è la storiografia postcoloniale. Questo bilancio critico non tenterà di discutere e di esaurire l’argomento. La bibliografia è immensa ! Il suo scopo è semplicemente quello di richiamare, a partire da questa tradizione di studi, l’attenzione sul fertile campo di indagini che è la colonizzazione antica nel Mediterraneo centrale e suggerire alcuni problemi che sorgono e si presentano in relazione con essa. Sullo sfondo, il dialogo col continente americano, che è esplicitamente citato nel titolo del nostro contributo, appare come un leit motiv storiografico ricorrente per alcuni dei principali approcci della colonizzazione greca in Italia meriidonale e in Sicilia : così, quando nel 1974 Nathan Watchel consacra uno studio alla nozione di acculturazione, lo fa evocando il confronto fra colonizzatori e Indiani d’America. Le sue osservazioni trovano rapidamente una eco nelle ricerche di antropologi e storici che avanzano analisi su contesti comparabili ma non necessariamente simili : due anni più tardi, nel 76, l’articolo di Serge Gruzinski e Agnés Rouveret (S. GRUZINSKI et A. ROUVERET. « Ellos son como niños. Histoire et acculturation dans le Mexique colonial et l'Italie méridionale avant la romanisation », Mélanges de l'École Française de Rome. Antiquité, 1, 1976) sulla colonizzazione greca nell’Italia preromana e il Messico sancisce una svolta. Da allora quest’articolo è diventato un classico, un punto fermo per chiunque si interessi alle problematiche della interculturalità in Magna Grecia. Il libro di Richard White, The Middle Ground, che ha ispirato Irad Malkin (I. MALKIN, , «A colonial Middle Ground: Greek, Etruscan, and local elites in the Bay of Naples», in C. L.Lyons et J. K.Papadopoulos (éds.), The archaeology of colonialism, Los Angeles, The Getty Research Institute, 2002, p. 151-181) e la lettura avanzata dal ricercatore israeliano sulla Campania coloniale, si riferisce in origine al periodo (XVII-XIX secolo) di coabitazione fra bianchi e indiani d’America nella regione dei Grandi Laghi. Lo studio della frontiera in Magna Grecia e Sicilia si iscrive nella traiettoria inaugurata dalle ricerche di Turner su La frontiera nella storia americana : la nozione di « territorio aperto », impiegata dallo storico, ricopre la nozione di eremos chora della storiografia coloniale italiana (e non solo italiana). In seguito, sappiamo tutti quanto la letteratura di O. Lattimore abbia a sua volta influenzato l’emergenza della frontier history e gettato le fondamenta per il nuovo edifiico storiografico che avrebbe preso forma con E. Lepore e M. Finley. Il continente americano sta dietro alla nascita della historical archaeology d’oltre oceano, nell’America del Nord e in America latina, dove è comunemente riferita al periodo postpreistorico (dal XV secolo in poi), anche se ormai la disciplina è altrettanto diffusa in Australia. Essa ha permesso e incoraggiato l’emergenza di temi nuovi, dall’archeologia degli individui « senza storia », gli schiavi, i colonizzati, le donne, alla diaspora africana. Ed è interessante constatare come l’espressione stessa, diaspora, sia stata scelta per definire il tema del concorso di Agrégation e di CAPES in Francia sulla mobilità e la colonizzazione greca (Les diasporas grecques du Détroit de Gibraltar à l’Indus (VIIIe s. av. J.-C. - fin du IIIe s. av. J.-C.), coll’intezione, apertamente dichiarata, di superare l’anacronismo di quest’ultimo termine, colonizzazione appunto, ritenuto per varie ragioni scomodo, ancora di più oggi in seguito ai dibattiti scaturiti dagli articoli di R. Osborne o D. Yntema. Il dibattito, tuttavia, rimane acceso. Anche, e soprattutto, su questo punto si intersecano posizioni radicalmente divergenti. E da un certo punto di vista l’America è ancora presente, almeno su un piano ideologico, se si considera, nell’ambito della storia più recente, il ruolo degli Stati Uniti come nuova superpotenza imperialista dopo la seconda guerra mondiale ed il nuovo ordine mondiale post guerra fredda, colla caduta del muro di Berlino e colle sue implicazioni di natura epistemologica nell’ambito della storia dei contatti culturali. Si tratta a monte quindi di una prospettiva comparatista, che cerca – in filigrana, nella misura del possibile, non senza ambiguità e talvolta con forzature, che bisogna ricalibrare in modo costante – di valutare i paralleli tra mondo antico e tradizioni sulla colonizzazione dei nuovi mondi. La situazione contemporanea – la guerra d’indipendenza delle colonie americane prima, l’imperialismo europeo poi e, in fine, la decolonizzazione del Terzo Mondo – ha avuto ogni volta, come lo ricordava D. Asheri (D. Asheri, “Colonizzazione e decolonizzazione”, in S. Settis (a c. di), I Greci, 1, Torino 1996, pp. 73-115), un impatto fondamentale sulla definizione stessa della questione. La nostra idea è che questo paragone è ovviamente anacronico sul piano storico, ma indubbiamente utile a livello storiografico. Ogni ragionamento sul passato dipende dalla storiografia precedente e, per parafrasare E. Greco, segue, principalmente, “le pulsioni che vengono, crocianamente, dalla storia contemporanea”. Ragion per cui ci sembra utile ripercorrere quella storia. In una quindicina d’anni, la situazione propria al dibattito sul “fatto coloniale” è cambiata in modo radicale. Senza ritornare in questa sede sul contesto d’emergenza della nozione di acculturazione, che abbiamo entrambi già avuto modo di evocare in altre occasioni, e su cui esiste ormai una bibliografia abbondante e una storiografia oltremodo puntuale, quello che è assodato è che a partire dagli anni 60-70 in poi, col fenomeno della decolonizzazione, assistiamo ad una forte e profonda ridiscussione critica del lessico coloniale. A partire dagli anni ’60-’70, ed in modo ancor piu decisivo nei due decenni successivi, assistiamo insomma alla crisi dei paradigmi epistemologici occidentali. Il bisogno di ridefinire i concetti – e insieme di cogliere e circoscrivere in senso storico-cronologico la loro portata semantica – non solo ha contribuito a mettere in causa il vocabolario tradizionale, ma ha anche significato una sorta di emancipazione da un certo numero di tabù legati in particolare al colonialismo e alla “cattiva coscienza” di un gran numero di paesi. Si parla allora di post-colonialismo. Ma anche questa parola e i concetti che con essa mobilizziamo non sono innocenti : l’ambiguità epistemologica del termine “postcoloniale” è da ricondursi al conflitto tra una accezione primaria, letterale, e una secondaria, metaforica. Da un punto di vista letterale, il termine sembra infatti riferirsi ad un presunto nuovo stadio storico, ad un periodo successivo al processo di decolonizzazione. In modo pertinente la studiosa indiana Ania Loomba, grande specialista della storiografia postcoloniale, sottolinea come il prefisso “post-” suggerisca implicitamente una duplice consequenzialità: innanzitutto temporale, nel senso di “venire dopo”, ma anche ideologica, nel senso di “prendere il posto”. Altri studiosi si chiedono se la decolonizzazione sia stata davvero la fine del colonialismo o se essa non designi piuttosto una nuova forma di rapporti coloniali delle politiche e delle relazioni internazionali. Una terza connotazione è quella che vede nel “post-coloniale” un senso di opposizione con tutto cio che è evocato dal termine “coloniale”. Quest’accezione mobilizza quindi un senso di rivolta e di ribellione al dominio dell’Occidente sul resto del mondo, ereditato dai movimenti di resistenza anticoloniale e dalle forme del discorso che questi hanno generato. Per l’archeologia, la questione non è cosi diversa da quanto si puo’ constastare nell’ambito storiografico della storia contemporanea. Questo situazione specifica alla nostra disciplina, in questa posizione simile ad altre scienze umanistiche, come la storia antica stessa, l’antropologia o l’etnologia, può essere facilmente compresa se si considera la sua promiscuità colla politica colonialista: negli anni dell’imperialismo, l’archeologia è stata infatti uno strumento ad uso del colonialismo, favorendo l’elaborazione di un immaginario sociale e storico peculiare. Contribuendo alla formulazione di un discorso sull’altro basato sulla superiorità occidentale, essa ha parallelamente contribuito a forgiare una certa idea di Europa. Ma questa osservazione puo’ essere declinata anche ad una scala più locale, nazionale : cosi gli scavi francesi in Algeria e l’esaltazione della romanità furono funzionali a giustificare la presenza della Francia nell’area, a legare idealmente i coloni francesi alla terra di presunti antenati, a creare nuove istituzioni culturali e nuovi ambiti di ricerca all’interno della disciplina stessa. Potremmo d’altronde raccontare una storia simile per la colonizzazione italiana, per esempio, evocando la retorica del regime fascista che loda il ripristino delle glorie di Roma antica negli scavi archeologici di Leptis Magna e di altri siti (cfr. i recenti libri di M. Munzi sulla Libia in generale o, in modo più specifico, sulla Tripolitania). Questo momento storico coincise in modo significativo anche con la temperie culturale della corrente filosofica francese del post-strutturalismo e, più tardi, a partire dagli anni 80, con la corrente postprocessualista dell’archeologia. Da questo punto di vista è interessante sottolineare il successo degli studi post-coloniali in ambito anglosassone (Stati Uniti, Autralia, Inghilterra) e, al contrario, la loro relativa rarità o discriminazione in ambito francofono. Lo « scarto » storiografico, politico e ideologico è significativo. La genesi e lo sviluppo del World Archaeological Congress (WAC) dal celebre congresso di Southampton (WAC-1) del 1986 si iscrive in questa stessa direzione postcoloniale. Il I° congresso internazionale di archeologia class ica del 1985, edito da Descoeudres nel 1990 (J.-P. Descoeudres, Greek Colonists and Native Populations: Proceedings of the First Australian Congress of Classical Archaeology held in honour of Emeritus Professor A. D. Trendall. Oxford: Clarendon Press, 1990. Canberra: Humanities Research Centre, 1990), rappresenta indubbiamente un’altra esperienza essenziale di questo percorso storiografico: in questa occasione colonizzazione greca e colonizzazione australiana sono evocate, in modo non poco artificioso, in parallelo, per celebrare insieme il Bicentenario della Australia e la carriera del grande archeologo australiano Trendall, professore a La Trobe University in Australia e specialista di ceramografia antica, soprattutto italiota. Per quel che concerne il mondo greco, una svolta essenziale è quella imposta dalla riflessione sulla « identità » greca ; riflessione che rappresenta ormai uno dei filoni principali nella ricerca contemporanea sulla storia e sulla colonizzazione greca. Il dibattito si è più particolarmente concentrato attorno a qualche lavoro. Semplificando molto i termini di una ricca e complessa storiografia, potremmo evocare alcuni dei lavori essenziali e le loro conseguenze. Irad Malkin ha, fra i primi, cercato di definire quale percezione i Greci avevano di sé stessi e della loro identità. Questo ha, a sua volta, implicato una interrogazione più profonda sulla formazione e sull’evoluzione di questa identità. Riassumendo e schematizzando in modo un po’ frettoloso e perciò forzato : i Greci del V e del IV secolo elaborano la loro identità a partire da una opposizione binaria – i Greci e i non-greci, con la cristallizzazione della nozione di « barbaro ». Ma i Greci confrontati con la colonizzazione e, più tardi, all’epoca ellenistica, con le conquiste di Alessandro, entrano in contatto in modo diretto e concreto con le altre società e integrano allora una nozione più dinamica della cultura che rende conto anche della sua « trasferibilità » (cfr. K. Lomas, « Hellenism, Romanization and Cultural Identity in Massalia », in : Lomas, K, éd. (2004) : Greek Identity in the Western Mediterranean. Papers in Honour of Brian Shefton, Leiden-Boston, 2004, p. 475-498, p. 476). L’altra faccia della medaglia sono ovviamente gli indigeni, i « senza voce » dell’archeologia coloniale italiana. Pressoché assenti nella letteratura, anche se il loro ruolo era stato considerato dalla storiografia di ispirazione nazionalista (le cui premesse sono contenute nell’opera di E. Pais), in seguito da quella meridionalista e, più tardi, da quella marxista, a partire naturalmente da presupposti ogni volta totalmente differenti. L’articolo di Whitehouse-Wilkins del 1989 (“Greek and Natives in South-East Italy: Approaches to the Archaeological Evidence,” in T. Champion, ed., Centre and Periphery: Comparative Studies in Archaeology, Londra, 1989, p. 102-137) è in questo senso rivelatore. Dal punto di vista della storiografia relativa alle società locali, possiamo discernere due approcci alternativi. Un primo, che potremmo definire diffusionista, ha parzialmente prevalso nel dibattito soprattutto durante gli anni Settanta e, in parte, Ottanta. Esso consisteva ad enfatizzare il ruolo delle influenze esterne dal Mediterraneo, attraverso la colonizzazione greca : si parlava allora per esempio di « penetrazione greca », di « assi di penetrazione », opponendo in modo sistematico paralia e mesogaia, cultura greca e cultura indigena. A partire dalla fine degli anni Ottanta e, in particolare, negli ultimi quindici anni, la maggior parte degli studiosi sembra ormai unanime nel riconoscere l’importanza fondamentale dei processi locali di lunga durata iniziati già nel corso dell’età del Bronzo, e più evidenti dalla fine dell’età del Bronzo/inizio dell’età del Ferro : classici esempi in questo senso sono ormai considerati i casi della Sibaritide e del Salento. Per cercare di mostrare in cosa la nostra visione è cambiata, ci concentreremo in modo più specifico su alcuni studi recenti che permetteranno di illustrare, a partire da una prospettiva comparativa, questa storiografia a cavallo fra storia contemporanea e archeologia. Ci soffermeremo allora su alcuni dei problemi al centro del dibattito recente e sulla discussione che essi hanno suscitato. Cercheremo insomma di “contestualizzare”, per riprendere il titolo del convegno, la “postcolonizzazione” in modo critico, coll’intenzione di identificarne gli apporti principali. Saranno infine evidenziati alcuni aspetti importanti della problematica che suggeriscono ulteriori direttrici di sviluppo delle ricerche. Nuovi spunti potranno, lo speriamo, scaturire nel corso della discussione. Arianna ESPOSITO MCF, archéologie classique, Université de Bourgogne – Dijon [email protected] Airton POLLINI MCF, histoire grecque, Université de Haute Alsace – Mulhouse [email protected]