2014-01 III-01 ALPA GIURISTI ITALIANI CODICE CIVILE E LEGGI

Transcript

2014-01 III-01 ALPA GIURISTI ITALIANI CODICE CIVILE E LEGGI
Parte Terza
Storia dell’avvocatura
Guido Alpa
1938. I GIURISTI ITALIANI, IL CODICE
CIVILE E LE LEGGI RAZZIALI*
1. Alcuni anni fa il Consiglio nazionale forense organizzò una
mostra per documentare gli effetti della persecuzione degli avvocati ebrei in Italia. La mostra consentì di raccogliere documenti e
testimonianze, ed anche fotografie e ricordi di quella tragica stagione. La mostra includeva anche i pannelli allestiti per analoghe
finalità dall’Ordine degli avvocati di Berlino: si trattava delle fotografie e delle biografie degli avvocati ebrei che erano scampati alla
Shoah ed avevano continuato a combattere contro la dittatura nazista anche negli anni bui della Resistenza mettendo a repentaglio
la loro vita.
I documenti esposti riguardavano le iniziative che i diversi Ordini forensi avevano promosso, da un lato, per attuare leggi razziali, e dall’altro, per “discriminare” (questo era il termine usato
dalle leggi razziali) gli avvocati che, in quanto ebrei, dovevano essere cancellati, ma potevano essere riammessi se in possesso di
particolari requisiti, e continuare ad esercitare la professione, ma
non per i clienti di “razza ariana”.
Alcuni Ordini avevano risposto all’invito del Consiglio nazionale
forense, rivolto ad acquisire dati e informazioni. Altri documenti
erano stati offerti dalle famiglie degli avvocati perseguitati, insieme con le testimonianze orali che i discendenti avevano potuto
portare in quella occasione.
*
Dal Convegno: «Il giorno della memoria: il diritto di essere liberi» organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Firenze e dalla Fondazione forense in collaborazione con il Consiglio nazionale forense e con la Scuola superiore dell’Avvocatura, Firenze - 27 gennaio 2014.
Rassegna Forense - 1/2014
159
I giuristi italiani, il codice civile e le leggi razziali
Guido Alpa
La documentazione raccolta è molto importante perché colma
una lacuna delle analisi storiche in materia, con particolare riguardo al mondo forense.
L’aspetto delle limitazioni all’esercizio della professione da parte
di avvocati qualificati come “ebrei” sulla base di criteri stabiliti dalle leggi razziali è però solo una componente - certo non trascurabile - di una ricerca che si preoccupi di definire la reazione dei giuristi alla introduzione e alla applicazione delle leggi razziali.
Il mio intervento riguarda un argomento che è stato approfondito solo di recente, ossia quello relativo alle vicende dell’art. 1 del
codice civile, la disposizione con cui si apre il libro I del codice civile sulle persone.
Avevo approfondito questo tema proprio vent’anni fa in un libro
intitolato “Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali”: cercavo di capire come l’identità della persona
non sia un fatto “naturale” ma dipenda da un processo di costruzione, non solo culturale, sociale, economico, ma anche giuridico.
Ed essendo un processo che si conclude con la redazione di disposizioni che hanno forza di legge, la sua finalità coercitiva porta a
conseguenze molto rilevanti per il modo di essere, di considerare
di trattare la persona. A questo processo dànno il loro apporto i
giuristi, i quali dunque si accollano una grave responsabilità perché la costruzione delle identità implica sempre la costruzione di
strumenti di discriminazione, di violenza, di sopraffazione, di sfruttamento, di emarginazione.
2. Il tema del libro I è stato indagato di recente da due giovani
studiosi del diritto italiano, Ernesto De Cristofaro dell’Università di
Catania, e Stefano Gentile della Università Cattolica di Milano.
Aprendo oggi il codice civile ci possiamo avvedere che l’art. 1 è
privo di un comma, il terzo, abrogato dal decreto luogotenenziale
n. 25 del 1944; il comma abrogato era stato redatto non poco
tempo prima dell’entrata in vigore del codice, il 21 aprile 1942,
ma già da prima, perché il primo libro, dedicato alle persone, era
entrato in vigore il 1 luglio 1939.
Questa disposizione, normalmente non riprodotta nelle versioni
del codice oggi in commercio, recitava:
“La capacità giuridica”, comma 3: «Le limitazioni alla capacità
giuridica derivante dall’appartenenza a determinate razze sono
stabilite da leggi speciali».
160
Rassegna Forense - 1/2014
Parte Terza
Storia dell’avvocatura
Come nasce questa disposizione? La Commissione reale del
1924 nominata per la revisione del codice civile, presieduta da Vittorio Scialoja, che due anni dopo sarebbe diventato Presidente del
Consiglio Nazionale Forense di nuova istituzione, aveva svolto i
suoi lavori in modo abbastanza lento.
Sotto la direzione di Scialoja nel 1927 era stato approvato un
progetto di codice italo-francese delle obbligazioni e alcuni anni
dopo la Commissione per la riforma del codice civile aveva ripreso
il suo lavoro; nel 1931 era stato predisposto un primo progetto
che riguardava soltanto le persone, non includeva ancora la famiglia, ma i problemi che allora si agitavano erano ben diversi da
quelli che poi risultarono presenti ai redattori al momento della
sua approvazione definitiva. Si discuteva cioè se si dovessero introdurre nel codice civile, tra le prime disposizioni, alcuni principi
di carattere generale, se si dovessero modificare i requisiti per il
riconoscimento di quella che allora si chiamava (non capacità, ma)
“personalità”, se per configurare l’esistenza della persona fisica
come subjectum iuris si dovesse conservare il requisito della vitalità, e altre questioni riguardanti le associazioni.
Il problema, però, della discriminazione allora ovviamente non
esisteva. Ciò anche perché il codice civile del 1865 non ne faceva
menzione e lo Statuto Albertino del 1848 aveva equiparato tutti i
cittadini, senza distinzioni di natura razziale: era sì un principio di
eguaglianza di carattere solo formale, ma era rivolto a superare
tutte le limitazioni che gli Ebrei avevano subito nelle epoche anteriori. Lo Statuto introduceva la libertà alle persone di rivestire
qualsiasi ruolo, di collocarsi a qualsiasi rango, compatibilmente
con le strutture sociali dell’epoca. Lo Statuto riconosceva ad ogni
cittadino (meglio, ad ogni regnicolo) una sua dignità, anche nel
caso di professione di una religione diversa dalla cattolica, e consentiva agli Ebrei di essere ammessi nei ruoli della pubblica Amministrazione e delle forze.
Per la verità il Codice e lo Statuto Albertino arrivava ben ultimo
rispetto a provvedimenti legislativi che in altri ordinamenti avevano disposto la soppressione delle forme di asservaggio e limitazioni alla capacità, residuo di una storia di privazioni e di sopraffazioni; anche il codice dell’Impero Austriaco del 1811 non prevedeva
limitazioni di carattere discriminatorio. Così il Codice Napoleonico
del 1804.
All’inizio degli anni Trenta del Novecento si registra un incrudelimento della situazione: a poco a poco si accredita l’idea che gli
Rassegna Forense - 1/2014
161
I giuristi italiani, il codice civile e le leggi razziali
Guido Alpa
esseri umani siano distinguibili in razze, che le razze abbiano un
fondamento biologico - questa era una corrente collegata con il
positivismo scientifico - si pensa che dal punto di vista politico sia
opportuno conservare la distinzione tra cittadinanza e nazionalità,
e che possano essere cittadini pleno iure soltanto coloro che appartengano alla tradizione culturale, religiosa, politica della maggioranza, essendo gli altri ascritti a minoranze prive di diritti, o
con diritti limitati, o addirittura essere considerati “stranieri in patria”. È insomma la codificazione del razzismo messa in opera in
Germania con l’avvento del nazismo e con le leggi di Norimberga
del 1935.
In Italia nello stesso periodo comincia ad emergere la cultura
razzista, che non risparmia il mondo del diritto: anche i giuristi
dànno il loro contributo. Viene fondata una rivista, intitolata “Il diritto razzista”, che si affianca ad un’altra rivista di carattere più
generale, “La difesa della razza” ed autorevoli magistrati e avvocati non si sottraggono, ma sostengono questo nuovo indirizzo.
Che cosa accade nell’ambito dei lavori della nuova codificazione?
Essendo ormai pronto il primo libro del codice civile, l’allora Ministro Guardasigilli, Arrigo Solmi, professore di storia del diritto
italiano, si pone il problema se vararlo nella versione in cui era
stato redatto, oppure se fare le integrazioni più appropriate per allineare la disciplina alle nuove categorie giuridiche elaborate dalla
scienza civilistica e introdurre nel testo regole che esprimano i
principi dell’ideologia imperante.
La Commissione reale, prima, la Commissione parlamentare,
di poi, discutono sulla opportunità di sostituire la nozione di personalità con quella di “capacità giuridica” tratta dalla dogmatica
tedesca. E se non convenga coordinare il codice civile con la legislazione speciale, in particolare con la legislazione razziale entrata in vigore nel frattempo. Insomma, il libro I era già pronto nel
1938, ma sempre nel 1938 erano state emanate le prime leggi
razziali.
Come erano state concepite le leggi razziali?
Le prime disposizioni riguardano le scuole. Il R.D.L. del 5 settembre 1938, n. 1390, il cui testo era stato esposto alla mostra
del Consiglio Nazionale Forense, e recava la firma di Vittorio Emanuele III, “dato in San Rossore”, perché in quel periodo il Re era
in villeggiatura nella tenuta toscana, reca i primi provvedimenti
per la “difesa della razza” nella scuola.
A questo proposito cosa possono osservare i giuristi?
162
Rassegna Forense - 1/2014
Parte Terza
Storia dell’avvocatura
Innanzitutto si può rilevare che in Italia il problema della razza
viene inteso come difesa della “purezza” della razza c.d. ariana rispetto alle contaminazioni portate dagli appartenenti ad altre razze, mentre in Germania queste disposizioni non sono viste soltanto come una tecnica di difesa della purezza della razza ariana, ma
anche come un mezzo di discriminazione di coloro che appartengono a razze diverse, in particolare gli Ebrei, e si codifica il principio della razza dal punto di vista biologico. Con le discriminazioni
cominciano le spoliazioni. Era dunque una questione economica
che si associava a quella politica, perché gli Ebrei in Germania,
salvo l’indirizzo politico e filosofico del Sionismo, erano “assimilati”, appartenevano anche a classi elevate, ed erano stati una delle
risorse più preziose per la costruzione del paese.
In Italia le leggi razziali vennero introdotte in modo “più discreto” e cioè nella prospettiva di difendere la famiglia e i minori - di
qui la legislazione scolastica - dalla “contaminazione” con “razze”
che si consideravano non soltanto diverse, ma addirittura pericolose se avessero avuto semplici contatti con gli appartenenti alla
“razza ariana”.
3. Per la verità i giuristi subito si pongono il problema del significato di razza, perché il legislatore non definisce la razza, dice
semplicemente in una disposizione che non è neanche un principio
di carattere generale, ma una sorta di norma di dettaglio, proprio
contenuta in questo primo provvedimento, e poi ripresa nel provvedimento di carattere generale del 17 novembre 1938, n. 1728,
sui provvedimenti per razza italiana, che si considerano di razza
non ariana, ed in particolare di razza ebraica, coloro che sono figli
di genitori appartenenti alla razza ebraica, o sono figli di madre
ebrea e di padre ignoto, o che sono iscritti al registro delle Unioni,
allora si chiamavano Unioni o Università israelitiche, o hanno fatto
espressione di ebraismo.
I primi problemi, quindi, che si pongono i giuristi sono di interpretare queste disposizioni e dare un significato a queste disposizioni.
Se è vero che non tutti i giuristi solidarizzano con il regime, è
anche vero che, quando si dovette modificare la prima disposizione del codice civile ben pochi giuristi protestano.
L’unico che protesta in modo vibrato è Mario Rotondi; però c’è
da osservare che Mario Rotondi apparteneva alla religione israelitica; fu un grande giurista e un professore coraggioso che rifiutò
di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo nel 1931, e per esRassegna Forense - 1/2014
163
I giuristi italiani, il codice civile e le leggi razziali
Guido Alpa
sere libero di insegnare chiese ed ottenne il trasferimento
dall’Università statale di Milano all’Università Cattolica, quindi poté
insegnare anche dopo il 1938, e dopo l’introduzione delle leggi discriminatorie, non fu obbligato a lasciare l’insegnamento, mentre
come ho precisato con il decreto del 5 settembre 1938 tutti i dipendenti dell’Amministrazione Pubblica, compresi, quindi, gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado furono allontanati
dall’insegnamento. Fra questi illustrissimi giuristi, anche il Preside
della Sapienza di Roma, il prof. Giorgio Del Vecchio.
Nel suo manuale di Istituzioni di Diritto Privato, Mario Rotondi,
proprio nel discutere la capacità giuridica cita le ingiuste leggi che
discriminano coloro che professano o appartengono alla religione
israelitica; gli altri autori non esprimono un commento critico. E
quindi - come dice uno dei giovani storici che citavo prima - l’art.
1 del codice civile può essere rappresentato come le Porte Scee,
attraverso le quali passano i giuristi o non passano a seconda della loro posizione.
Tra i commentatori che proprio pochi mesi dopo l’introduzione
delle leggi anti-ebraiche si trovano a dover illustrare il testo del
nuovo codice civile ed applicare il concetto di capacità giuridica, e
di limitazione alla capacità giuridica, possiamo registrare due diversi atteggiamenti: l’indirizzo solidale con il regime, solidale con
la concezione razzista dell’umanità, che propugna con l’applicazione fedele delle disposizioni di legge, e quello più cauto di chi
propone distinzioni, interpretazioni restrittive, valutazioni di natura
tecnica (e quindi, almeno apparentemente, neutrale).
Faccio due esempi del primo orientamento: uno è Degni che nel
fare il suo commentario sulle persone fisiche giustifica le leggi razziali dal punto di vista storico, dicendo che gli Ebrei erano sempre
stati discriminati e quindi occorreva dare una continuità a questa
tradizione storica e l’altro Barassi, che giustifica la legislazione
razziale.
Altri, invece, sono più cauti. Per esempio, Salvatore Pugliatti
nelle sue “Istituzioni” dice che non dobbiamo considerare le leggi
razziali come leggi che hanno una funzione discriminatoria, ma
sono leggi che, invece, difendono la tradizione dei valori della comunità, in particolare, della Nazione italiana.
Vi son altri ancora, che sono più propensi ad esaminare il problema dal punto di vista testuale. Messineo, - nel suo “Manuale”,
che ebbe poi una grande fortuna - discute nei dettagli dei contenuti delle leggi razziali ed in particolare delle modalità con cui il
164
Rassegna Forense - 1/2014
Parte Terza
Storia dell’avvocatura
legislatore aveva voluto definire le categoria di persone alle quali
riconoscere solo una limitata capacità giuridica, ma tuttavia garantire una idoneità ad essere titolari di diritti e di doveri; in effetti
all’inizio si era conservato qualche barlume di capacità, le leggi
razziali non impedivano agli ebrei di possedere qualunque cosa,
impedivano di essere titolari di imprese con un numero superiore
a cento dipendenti, impedivano di avere delle grandi estensioni
di terreno, impedivano l’esercizio delle professioni, la titolarità di
impieghi nello Stato, e così via: limitazioni molto gravose, che
non arrivavano all’annientamento della persona ed alla sua configurazione non più come persona, ma come sotto persona, come
“Untermensch”, come al contrario si era previsto in Germania. La
situazione cambiò radicalmente dopo l’8 settembre 1943: gli Ebrei
italiani furono considerati stranieri, perseguitati, deportati.
Nel 1942 il problema, dal punto di vista giuridico, è affrontato
in modo per così dire “tecnico” e discreto: nella relazione al Re il
nuovo Ministro Guardasigilli Dino Grandi si limita, riprendendo un
passo della relazione predisposta dal suo predecessore, Arrigo
Solmi, a dire: «È sembrato conveniente, infine, in armonia con le
direttive razziali del Regime, porre nel terzo comma dell’art. 1 una
disposizione con la quale si fa rinvio alle leggi speciali per quanto
concerne le limitazioni alla capacità giuridica, derivanti dall’appartenenza a determinate razze».
La formula usata nel testo contiene un’affermazione da decifrare in quanto sancisce il principio che l’appartenenza a determinate
razze può influire sulla sfera della capacità giuridica delle persone.
Come si vede è una frase che sembra apparentemente neutra
e questo è l’atteggiamento prevalente che ebbero i giuristi verso
le leggi razziali, e cioè una presa non di distanza, ma di indifferenza, come se si trattasse semplicemente di nozioni di carattere
tecnico che, quindi, non meritavano né una presa di distanza né
una critica.
4. Che cosa accadde? Accadde quello che un grande studioso
della materia, Weisenberg, disse: “le vittime si dovettero trasformare in carnefici”, nel senso che - consentendo la legge di essere
“discriminati”, cioè di chiedere la disapplicazione nei propri confronti di questa disciplina vessatoria per motivi di militanza nel
partito fascista, di meriti di guerra o di benemerenze nei confronti
del regime, oppure per il fatto di essersi convertiti prima
dell’entrata in vigore delle leggi razziali - per queste ragioni molti
Rassegna Forense - 1/2014
165
I giuristi italiani, il codice civile e le leggi razziali
Guido Alpa
che appartenevano alla comunità israelitica e professavano la religione ebraica fecero l’istanza per sottrarsi alla disciplina oppressiva.
Sicché noi troviamo nelle delibere degli Ordini professionali le
previsioni con cui vengono cancellati gli avvocati e i procuratori e
contemporaneamente vengono iscritti come ebrei discriminati, in
una sezione speciale.
Evidentemente poi questi privilegi vengono a cadere nel 1943,
dopo l’8 Settembre e con l’istituzione della Repubblica di Salò per
quanto riguarda il Nord Italia.
Come dicevo, nel 1944 con l’abrogazione dell’Ordinamento corporativo e delle più importanti leggi fasciste, con il decreto luogotenenziale n. 25 del 1944 le leggi razziali vengono abrogate nel
Centro-Sud.
L’analisi del codice civile ci porterebbe lontano, perché le limitazioni riguardavano la celebrazione dei matrimoni misti, l’iscrizione
nel registro delle imprese, ed altre regole ancora.
Con la fine delle ostilità e con la ripresa della vita civile i giuristi
si interrogarono se non si dovesse abrogare il Codice Civile che
era stato espressione di una delle maggiori affermazioni della cultura giuridica dell’epoca ormai conclusa.
Qui nacque, appunto, questo grande dibattito, in particolare tra
Lorenzo Mossa e Giuseppe Ferri; Lorenzo Mossa sosteneva che il
codice civile nella sua architettura e nei principi di base era un codice fascista e quindi doveva essere abrogato in quanto tale, mentre Giuseppe Ferri che sosteneva che era sufficiente avere abrogato tutte le disposizioni che si riferivano alle Corporazioni e che
conveniva mantenere in vita un codice che riteneva essere frutto
dell’ingegno tecnico dei massimi giuristi dell’epoca.
La maggior parte degli autori che si sono occupati del tema generale e la gran parte della civilistica italiana condivide questa posizione.
Io appartengo ad una sparuta minoranza, ma con me - ricorrendo ad argomenti persuasivi ed avvalendosi di ricerche approfondite - anche Paolo Cappellini, che ha scritto un bellissimo saggio in uno dei Quaderni, diretti di Paolo Grossi, che raccolgono gli
atti di un Convegno riguardante, appunto, il rapporto tra la Scienza civilistica e il regime fascista, pubblicato nel 1999.
In altri termini ci siamo chiesti, con Paolo Cappellini, con Raffaele Teti (che si è occupato dei rapporti tra codice civile e regime
fascista, ed ha pubblicato alcuni anni fa sulla Rivista di diritto civile
documenti molto interessanti sulla preparazione del libro I e sui
166
Rassegna Forense - 1/2014
Parte Terza
Storia dell’avvocatura
carteggi tra Solmi e Mussolini) se fosse davvero un prodotto
esclusivo della tecnica, e se si dovesse davvero considerare questo atteggiamento di distacco della cultura civilistica come manifestazione della scelta di non assecondare il regime, e se la fuga
verso il mondo delle forme fosse davvero un modo di proteggersi
dalle influenze delle autorità del regime e un espediente per trovare un rifugio in cui potersi sentire liberi.
La realtà è stata un’altra, la realtà è non si levarono voci contro
le leggi razziali, non si levarono voci contro la fascistizzazione del
codice civile, vi fu un silenzio colpevole e una indifferenza imbarazzante.
In fin dei conti è vero che con la soppressione di tutte le disposizioni che recavano tracce di quell’epoca sono state rimossi
le più evidenti connessioni con il regime, ma è anche vero che
non dobbiamo dimenticare, è anche vero che non dobbiamo coprire, dobbiamo invece affrontare con coraggio quella realtà storica, commentarla criticamente e ricordare coloro che soffrirono,
furono perseguitati, combatterono per la libertà e sacrificarono la
vita per noi.
Rassegna Forense - 1/2014
167