La corte italiana del Quattrocento

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La corte italiana del Quattrocento
La corte italiana
del Quattrocento
di Sergio Bertelli
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in La pittura in Italia, Il Quattrocento, vol. II, Electa,
Milano 1986 e 1987
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La geografia delle corti italiane presenta alcune
costanti, che incideranno profondamente nei costumi,
nelle abitudini, nei modi di pensare degli Italiani sino
alle soglie dell’età contemporanea. Si tratta di permanenze feudali o signorili che trascendono il succedersi,
sullo stesso territorio, di dinastie diverse. Cronologicamente, la piú antica di queste corti (a parte quella pontificia del Laterano), si situa, ai suoi inizi, in realtà,
fuori dal territorio peninsulare, al crocevia fra tre grandi culture: greca, latina e araba. È la corte normanna di
Palermo, splendida e raffinata sotto gli Svevi, da Federico II (†1250) a suo figlio Manfredi (†1266). La costante opposizione dei papi romani agli Hohenstaufen porterà alla distruzione della loro potenza in Italia (battaglia di Benevento) e, con Carlo I d’Angiò, ad una piú
stretta dipendenza feudale da Roma per il Regno di
Napoli, ora staccato dalla Sicilia, che passa a sua volta
agli Aragona di Spagna in seguito alla guerra del Vespro
(1282-1302). Annessa direttamente alla corona d’Aragona da Ferdinando I (1412), Palermo avrebbe visto
appannarsi la magnificenza della sua corte, entrando in
un lungo periodo di faide comunali. Scadrà al rango di
viceregno, quando Alfonso il Magnanimo (1442-1458)
riunificherà i due regni, sotto la corona di rex utriusque
Siciliae. Ma già sotto gli Angioini Napoli era emersa
come capitale di un regno, sia pure con una corte anco-
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ra di impronta medievale. Sarà con Aragona che quella
corte subirà una profonda trasformazione, diventando
un importantissimo modello di corte rinascimentale.
Possiamo ugualmente individuare delle lunghe permanenze, delle secolari continuità territoriali, al Nord
e al Centro. Si tratta di entità emerse da un mare di
feudi, tra l’XI e il XIII secolo. A Nord Ovest, dallo
smembramento della Marca degli Aleramici, assume una
sua propria configurazione, un’individualità rimasta
intatta per ben settecento anni, il marchesato del Monferrato, sorto agli inizi dell’anno Mille. Retto dalla dinastia dei Paleologi sino al loro estinguersi nel 1533, passerà ai Gonzaga (1536/59) e scomparirà come entità
autonoma solo coi trattati di Utrecht e di Rastadt del
1713-1714.
A Nord Est, nella marca Trevigiana, avanzano i da
Romano, i San Bonifacio, i Camposampiero, i Caminesi, i da Este. Di tutti questi casati, saranno gli Estensi
quelli che riusciranno a creare e a mantenere a lungo un
proprio stato territoriale, da Ferrara (vicariato di Niccolò III dal 1332) a Modena e Reggio e alla Garfagnana. Con alterne vicende raggiungeranno l’apice della
loro potenza con Borso (†1471) e con Ercole (†1493).
Piú rapide le esperienze signorili di Verona, con gli
Scaligeri, e di Padova, coi da Carrara, entrambi fagocitati dall’espansione veneziana. Mentre una dinastia che
riuscirà a mantenersi a lungo, sino alla sua naturale
estinzione, sui territori dominati, è quella dei Gonzaga.
Andati al potere nel 1328, dopo aver travolto i Bonacolsi, reggeranno sino al 1708 un territorio che dal 1433
diverrà marchesato e dal 1530 un ducato. Sue appendici, rette da rami collaterali, andranno considerate le
corti di Sabbioneta (la cui storia è strettamente legata a
Vespasiano Gonzaga, il suo rifondatore) e Guastalla.
Il ducato di Guastalla ha una sua propria lunga storia: dominato tra il 1307 e il 1346 dai da Correggio,
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quindi dai Visconti (1347-1402), è da questi ultimi eretto a contea nel 1428 e concesso in feudo a Guido Torelli. Passerà nel 1539 ad un ramo collaterale dei Gonzaga (Ferdinando I e suo figlio Cesare), arrivando autonomo all’estinzione della dinastia. Un’esistenza di quasi
quattro secoli e mezzo non può non lasciare una qualche traccia distintiva nei suoi abitanti, anche se, per cultura, Guastalla risentirà profondamente della vicinanza
della corte mantovana.
Chi perderà una propria individualità, che veniva
autonomamente delineandosi, saranno piuttosto Verona e Padova fagocitate all’interno di una piú ampia
«civiltà veneziana», dalla quale subiranno una vera e
propria acculturazione. Al contrario, in Padania, Ferrara e Mantova sapranno conservare una loro autonomia culturale (basti pensare alla «scuola ferrarese», da
Cosmè Tura a Dosso Dossi). Entrambe poste in posizioni nevralgiche per le comunicazioni (prevalentemente fluviali) della Padania, le due corti avrebbero
potuto piú facilmente subire influssi culturali esterni;
si mantennero invece sostanzialmente individue. Semmai, ebbero un punto di contatto – assai importante –
fra loro, grazie al rapporto matrimoniale tra Isabella
d’Este e Francesco Gonzaga.
Note e drammatiche sono le vicende del ducato milanese, visconteo prima, sforzesco poi, annientato dall’invasione francese del 1500-1501, fugacemente risorto tra il 1526 e il 1535. Rimasto sostanzialmente intatto nei suoi confini, anche e nonostante le alterne spartizioni ereditarie subíte periodicamente sotto i Visconti, Milano aveva tuttavia fatto a tempo a dare un’impronta al proprio territorio, che, al contrario dei casi di
Verona e di Padova, sarebbe risultata indelebile e che
si sarebbe conservata anche sotto la dominazione spagnola, di Carlo V e di Filippo II, che non modificò i confini esterni del suo territorio.
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Al di sotto del Po, altri piccoli stati presentano, fra
Tre e Quattrocento, un’altrettanto eccezionale vitalità.
Tra Parma e Piacenza assumono una propria struttura
statuale i feudi dei Rossi, dei Landi, dei Pallavicino. Si
tratta d’una presenza costante di enclaves feudali, che
le pressioni espansionistico-accentratrici del ducato milanese (distruzione della potenza dei Rossi nel 1482) e il
sorgere del ducato farnesiano a metà Cinquecento poterono solo in parte ridimensionare.
Una piú breve storia di signorie presentano le Romagne: i Manfredi dominano su Faenza, da Astorgio I
(1377) a Galeotto (1488); i Malatesta su Rimini e Pesaro, da Malatesta II (†1312) a Sigismondo Pandolfo, alla
trasformazione dell’ultimo signore, Pandolfo V, in patrizio veneziano (1503). Si tratta di esperienze marginali,
provinciali, sulle quali la meteora di Pandolfo Sigismondo (1422-1468) e della sua committenza umanistica non riuscí ad incidere. Soprattutto perché il personale
al quale il principe si affidò per il suo programma urbanistico (dal castello al tempio) fu tutto d’importazione.
Altrettanto effimera la dominazione dei Bentivoglio
su Bologna, da Sante a Giovanni (1460-1506). Ma al
contrario di Rimini, in cosí breve arco di tempo il loro
mecenatismo fu talmente grande e l’impresa della costruzione della loro reggia cosí cospicua, da attivare in loco
una schiera di artisti, che lascerà un segno nella scultura e nella pittura bolognesi del tempo.
È scendendo verso il Centro che troviamo di nuovo
lunghe continuità di dominio. In Lunigiana i Malaspina,
dominanti dal XII secolo le alte valli appenniniche fra il
passo dei Giovi e la Garfagnana, pur divisi dal 1221 nei
due rami dello Spino secco e dello Spino fiorito, riescono ad insignorirsi di Sarzana nel 1334 e a creare il marchesato di Fosdinovo. Benché sottoposti alle continue
pressioni genovesi e fiorentine, riusciranno a giungere
indipendenti sino alla rivoluzione francese e oltre il con-
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gresso di Vienna. Il loro resterà, però, un caso di anacronismo politico. Reggeranno il proprio stato con criteri
feudali, anche in un’inoltrata età moderna.
Saltato il mare comunale toscano, un’altra costante
presenza feudale è dato rilevare in Maremma. La storia
degli Aldobrandeschi inizia nel 1200 ed è tutta intessuta di scontri col Comune di Siena che, tra il 1334 e il
1335, riesce ad impossessarsi della signoria di Grosseto. Una data che segna un severo ridimensionamento
della loro potenza. Nella seconda metà del Trecento i
discendenti di Ildebrandino di Bonifazio iniziano una
serie di vendite: Sassoforte, Casteldelpiano, Arcidosso,
Badia San Salvatore, Magliano, Scansano. Le ultime
roccaforti, Sovana, Samprugnano, Saturnia, Montauto
vengono espugnate dai Senesi nel 1410. Quando, nel
1438, scomparirà anche l’ultimo dei conti, Guido, le sue
tre figlie verranno fatte sposare dalla repubblica di Siena
ad Attendolo Sforza, al conte Galeazzo d’Arco e a un
patrizio senese, Bartolomeo di Tommaso Pecci, in modo
da disperdere definitivamente la casata.
L’eredità aldobrandesca è però raccolta e perpetuata
per un altro secolo ancora, nella contea degli Orsini di
Pitigliano, imparentati sin dal 1293 cogli Aldobrandeschi. Si tratta di una enclave feudale che scomparirà solo
nel 1577, inglobata dal granducato mediceo.
Ma gli Orsini, che si vantano di discendere «per sangue paterno da Licaone re di Arcadia et per materno da
Alceste troiano» (Sansovino), al tempo della scomparsa
di Guido Aldobrandeschi avevano già esteso i loro dominii feudali sul Lazio settentrionale, col possesso di Bracciano, a loro concesso in vicariato da Martino V nel
1419. Il loro stato, sia pure privo di continuità territoriale, è davvero ragguardevole: dalle contee di Tagliacozzo, Alba e Carsoli in Abruzzo, scende attraverso il
territorio di Subiaco sino al mare, a Palo, attraversando tutta la Sabina e controllando cosí le vie di accesso
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a Roma. È con Napoleone Orsini che si forma a Bracciano la loro corte, con la trasformazione nel 1470 della
vecchia rocca dei prefetti di Vico nell’imponente castello che ancora oggi domina il lago. Il frazionamento territoriale e i molti rami nei quali il casato orsino si divise, prendendo nome dai feudi posseduti, impedí la formazione di quello che sarebbe altrimenti stato un potente stato territoriale centro-meridionale, e gli Orsini non
riuscirono a dare una fisionomia unitaria – per stile, per
cultura, per costumi – ai territori loro sottomessi.
Lo stesso va detto per i loro irriducibili avversari, i
Colonna. Patrizi romani, discendenti dai conti di Tuscolo, nel XIII secolo erano fortificati in Roma nel Mausoleo di Augusto e su Monte Citorio, possedevano Palestrina, Capranica e Zagarolo. L’elezione alla cattedra di
Pietro di uno di loro (Oddone, che prese il nome di Martino V) e le buone relazioni del papa con la regina Giovanna di Napoli, ampliarono i loro possedimenti, sia nel
Lazio meridionale che nel Regno dove, con Marcantonio del ramo di Paliano (†1584) ottennero la carica ereditaria di Gran Connestabile. Ridotti però nella loro
potenza territoriale nei Castelli romani dagli assalti di
Cesare Borgia (1500/1501), non riuscirono mai a darsi
un proprio assetto statuale.
Laddove Orsini e Colonna fallirono, riuscí invece,
sempre nell’Italia centrale, una famiglia discesa dai conti
di Carpegna e che dal possesso di San Leo (l’antica
Mons Feretri) prese il nome di Montefeltro. Buonconte otteneva infatti dall’imperatore Federico II Urbino e
il titolo di conte di Montefeltro nel 1213 (anche se,
materialmente, prese possesso di Urbino solo nel 1234);
nel 1388 Antonio aggiungeva ai vecchi feudi Gubbio e
nel 1393 Cantiano; Oddantonio, nel 1443, otteneva il
titolo ducale. Si rinsaldava, in tal modo, una struttura
statale che sarebbe andata oltre i destini terreni del
casato. L’ultimo dei Montefeltro, Guidobaldo, privo di
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eredi, adottò il nipote Francesco Maria della Rovere
(1504), salvando in tal modo l’individualità del ducato.
Un ducato che – al pari degli stati estense e gonzaghesco – seppe indubbiamente esprimere una propria cultura e divenire, sul declinare del Quattrocento, modello di vita, di stile, di etichetta.
Un discorso a parte va riservato alla corte romana,
insediata nei palazzi Lateranensi sino al Grande scisma
e alla «cattività avignonese», trasportata nei nuovi
palazzi Vaticani in piú momenti successivi, tra il 1445
(rifacimento del palazzo di Niccolò III da parte di Niccolò V) e il 1484/92 (demolizione e ricostruzione della
cappella magna da parte di Sisto IV, costruzione del Belvedere da parte di Innocenzo VIII). Di modello bizantino nel periodo lateranense, la corte subisce una profonda trasformazione lungo il Quattrocento, divenendo
uno dei piú importanti poli culturali ed artistici della
Penisola. Territorialmente, in questa età, il suo governo non si estende di molto oltre quello che veniva chiamato il territorio di San Pietro (grosso modo il Lazio settentrionale), anche se rivendica la propria sovranità feudale su buona parte dell’Italia centro-meridionale.
Esula da questo quadro – e meriterebbe un discorso
a parte – il ducato sabaudo, sorto come feudo borgognone con Umberto Biancamano (†1048). È infatti solo
con l’acquisto della contea di Asti, nella prima metà del
Cinquecento, che possiamo cominciare a considerare
quel ducato in un contesto peninsulare. E anche allora
la corte sabauda – pur dopo il suo trasferimento da
Chambéry a Torino con Emanuele Filiberto (†1580) –
restò essenzialmente, per cultura e per tradizioni, francese.
Voler tracciare uno sviluppo unitario e sincronico
per la storia delle molteplici corti italiane sarebbe impossibile. Non solo la loro evoluzione è fortemente diacro-
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nica, ma anche in un periodo abbastanza compatto per
sviluppo culturale – metà Trecento, Quattrocento – il
modo di darsi, ciascuna di esse, una residenza (che è poi
il luogo del governo, degli uffici amministrativi e giudiziari), denuncia differenti «culture urbanistiche». Queste si riallacciano, fondamentalmente, a due modelli piú
antichi e tra loro assai distanti, reinterpretati secondo i
nuovi modi di sentire architettonici e le mutate esigenze abitative.
Questi modelli sono: la residenza/fortezza (trasposizione urbana del castello feudale), non a caso posta a
ridosso della cinta muraria; e la reggia, intesa come un
palazzo monumento, isolato nel tessuto urbano o,
meglio, come un complesso di edifici (una «città sacra»
ispirata a Bisanzio e al Laterano), separati dal mondo
urbano su cui la corte esercita il proprio dominio. Da
una parte, dunque, un possente edificio turrito e merlato, come cubiculum del dominus e accasermamento
della sua guardia, con un coinvolgimento della città nella
committenza per l’approvvigionamento della corte,
grande motrice di attività economiche, non soltanto
voluttuarie. Gli stessi funzionari, cortigiani e servitori
abitano in maggioranza fuori dal castello, dove si recano solo per espletare le loro funzioni diurne.
Dall’altra parte un palazzo o un sistema di palazzi
(talvolta tra loro collegati da passaggi aerei, da cortili
interni, da percorsi riservati), nei quali, oltre all’appartamento del signore, sono allestite le residenze dei funzionari, dei cortigiani e dei servitori, ai quali però raramente è consentito avere presso di sé la propria famiglia.
Questo tipo di corte è in genere autonomo, avendo al
suo interno tutte le attività e le botteghe artigianali
necessarie alla propria vita.
Rispondono al primo modello Ferrara (1385); Mantova (1395-1406); Rimini (1437-1446); Napoli
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(1444-1448); Urbino (1447-1465); Milano (1454-1468);
Bracciano (1470-1480). Rispondono al secondo modello Padova (1338, 1343-1347, 1370); Foligno
(1386-1406); Pesaro (1465-1466); Bologna (1460-1491);
Città di Castello (1487-1495). Si situano a metà, tra
l’uno e l’altro modello, Pavia (1348, 1391, 1415), per la
sua ragguardevole estensione, e Vigevano dopo la sua
ultima ristrutturazione (1492), non solo per l’estensione e il collegamento del castello con l’antica rocca, ma
anche per il coinvolgimento totale del borgo nel progetto
abitativo della corte di Lodovico il Moro.
Subirà una trasformazione, accettando il modello del
recinto sacro, su esempio patavino della reggia carrarese,
Mantova; ma bisogna dire che anche gli Estensi, in un
certo senso, erano andati nella direzione della reggia come
complesso di edifici, collegando con un ponte la nuova
residenza fortificata agli antichi palazzi comunali.
Anche quando il castello si trasformava, per successivi ampliamenti, in reggia, è sintomatico come si potessero avere stili di vita davvero distanti, tra corte e corte.
Dagli inventari del castello di Ferrara, del tempo di Lionello e di Borso, appare evidente come nella reggia vi
fossero spazi «privati», assegnati ai piú importanti di
grado o ai piú vecchi cortigiani; per lo stesso periodo,
nel castello di Porta Giovia, che aveva ormai raggiunto
una notevole dimensione, gli spazi del gineceo erano talmente ridotti, da impedire le piú intime attività (una
donzella della duchessa, Teodora Angelini, scriveva a
Isabella d’Este, nel gennaio 1493: «Per mia maledetta
sagura sono confinata a starmene quasi tutto il giorno a
quelle malenconiche stantie de la Illustrissima duchessa, che a me pare essere a casa del gran diavolo. Poi la
sera se radunamo dove me predisse Vostra Signoria, in
certe stantie in Rocheta, che hanno date a Madonna
Anna, dove non se potemo devoltare in far li bisogni
nostri, che ognuno non mi veda»).
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Tante e multiformi soluzioni alle esigenze abitative
d’una corte, non rispondevano solo al gusto del signore, (talvolta condizionato da edifici preesistenti, che
occorreva ristrutturare), ma erano dettate anche da un
diverso modo di porsi nei confronti dei sudditi, da un
diverso emergere sulla città dominata. Del resto, difformi erano anche le fonti dalle quali i signori italiani traevano la propria autenticazione.
Vassalli dell’Impero erano i Visconti per Milano
(infeudati come vicari imperiali dal 1294, titolo ducale
nel 1395), i Gonzaga per Mantova (1433) e Sabbioneta; vassalli a loro volta del duca di Milano erano i Torelli per la contea di Guastalla (1428), mentre i Paleologi
del Monferrato erano legati da vincoli dinastici all’Impero d’Oriente; vassalli imperiali – per Modena e Reggio (1452) – erano gli Estensi, che dipendevano invece
da Roma per il possesso di Ferrara (vicariato dal 1332,
erezione a ducato nel 1471); vassalli imperiali erano i
conti di Montefeltro per il loro feudo e per Urbino, ma
sottostavano alla Chiesa per Cagli (1371) e per Gubbio
(1384) e il loro stato, eretto in ducato nel 1443, avrebbe conosciuto un ultimo ampliamento coi Della Rovere, con la concessione in feudo, sempre da parte della
Chiesa, di Sinigaglia, Pesaro e Gradara (1513). Del
papa erano vassalli i signori delle Romagne e i re di
Napoli. Privi infine di qualsiasi titolo i Bentivoglio (se
non quello di «capo del Reggimento», concesso a Giovanni II, con riconoscimento ereditario della carica solo
nel 1473).
La stessa ascesa al potere è tra loro difforme. Le
alterne vicende napoletane fanno rientrare il possesso
di quel Reame nel diritto di conquista, seguito dal riconoscimento di vassallaggio nei confronti di Roma; ma
per molti altri signori del centro-nord, la loro legittimazione è duplice: essi traggono la propria fonte d’autorità dall’acclamatio popolare e dalla successiva inve-
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stitura feudale. Di qui un interrogarsi continuo sulla
legittimità del loro potere, un discutere sui confini tra
«signore» e «tiranno». All’origine «popolare» della
signoria aveva certamente guardato Tommaso d’Aquino, quando aveva definito il tiranno in rapporto al
bonum communi; altrettanto aveva fatto Bartolo da
Sassoferrato (1313-1357), esaltando il momento dell’acclamatio quale fonte di autorità. Sul finire del Trecento, anche Coluccio Salutati si pose il problema, tracciando efficacemente il meccanismo dell’insorgere delle
signorie cittadine: «E poiché negli stati intimamente
discordi e turbati dalla frequenza delle lotte interne e
civili e di quotidiani contrasti, avviene assai spesso che,
al fine di por termine alla discordia o per stanchezza dei
mali presenti, si elegga un signore, o che talora, tumultuando il popolo, qualcuno venga, senza deliberazione
o scelta, inalzato a principe, o che, infine, venute le
fazioni alle armi, si deferisca per volontà della fazione
prevalente a un solo individuo la somma del governo,
potrà forse chiedersi da qualcuno se il potere per tal via
o in tal modo acquisito sia da ritenersi fondato su un
titolo legittimo. Al quale proposito dirò che, ove si
tratti di un popolo che, non avendo o non riconoscendo volontà superiore alla propria, sia signore di sé stesso, sarà senz’altro da starsi a ciò che la maggioranza del
popolo avrà deciso. E legittimo sarà senza dubbio il
governo, se in un popolo soggetto alla sovranità di un
principe, alla decisione popolare seguirà la conferma per
parte di questo.»
Per i signori italiani, la necessità di una duplice legittimazione (acclamatio e confirmatio) li poneva in una
condizione di inferiorità, rispetto ai principati d’Oltr’Alpe. Per tutti, fondamentale, l’assenza di unzione,
che sola ne poteva fare dei christomimètes. Di qui il tentativo di Martino Garati, un giurista lodigiano che dedi-
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ca il suo Tractatus de principatibus a Filippo Maria
Visconti, di conferire sacralità anche ai principi italiani
«inviati sulla terra dal Sommo Iddio, a premiare i buoni
e a castigare i malvagi». Garati è anche il primo a teorizzare – in ambiente visconteo – l’indissolubilità territoriale dello Stato: «il regno è qualcosa di indivisibile»,
anticipando di un secolo la tesi dei giuristi elisabettiani, sul doppio corpo regale: un corpo politico (Body politic), immortale, contrapposto al corpo fisico (Body natural), mortale. In un’età in cui era molto forte la venerazione per la sacralità del principe, l’originaria acclamatio, che stava alla base di moltissime dinastie italiane,
doveva essere sentita come una diminuzione di potestas.
Di qui la ricerca di una legittimazione dinastica precedente quell’atto popolare, il riallaccio ideale del principe e della sua stirpe con un passato mitologico, capace
di staccare la dinastia dalle sue vere origini vassallatiche
e/o comunali. Cosí i genealogisti estensi facevano risalire quella prosapia alla diaspora troiana, ad Antenore e
ad Aceste; cosí Durante Dorio faceva discendere i Trinci da Anchetros, mitico re di Dardania, fondatore di
Trevi; piú complicata ancora l’origine degli Orsini,
discesi da Calisto, figliola di Licaone re di Arcadia e
nipote di Aceste troiano, tramutata dagli dei in orsa;
meno fantasiosi invece i Vitelli, signori di Città di
Castello, che reclamavano come loro capostipite l’imperatore romano Vitellio; e piú modesti ancora i Baglioni, signori di Perugia, che riconoscevano come loro antenato Ballius, generale di Graziano.
Ma vi era anche un’altra possibilità di anoblissement:
quella di riallacciarsi idealmente agli uomini grandi del
passato, magari affiancandoli ai ritratti dei propri antenati.
L’esempio era venuto da Napoli, da Castel Nuovo,
dove Giotto, ad istanza di Roberto d’Angiò (un conquistatore), aveva dipinto nella cappella palatina un ciclo
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di uomini famosi, in un sincretismo religioso che univa
mondo pagano e mondo biblico. Vi erano rappresentati Alessandro, Salomone, Ettore, Enea, Achille, Paride,
Ercole, Sansone e Cesare. Con loro le loro donne: Rossana, la regina di Saba, Andromaca, Didone, Polissena,
Elena, Deianira (o Jole oppure Onfale), Dalila, Cleopatra. Il ciclo precede di almeno tre anni il progetto petrarchesco del De viris illustribus (1337) e dovette essere di
esempio per tutti i successivi cicli di uomini famosi. Da
Galvano Fiamma sappiamo che un ciclo simile era stato
fatto dipingere da Azzone Visconti nel suo palazzo milanese nel 1339, troppo presto, dunque, per ipotizzare un
influsso da Petrarca. Questo è invece presente e dichiarato nella reggia che i da Carrara costruiscono a Padova a metà Trecento, autentica isola separata dalla città,
su modello bizantino e romano. Sono essi a compiere un
ulteriore passo avanti, affiancando al ciclo degli uomini
famosi i ritratti dei propri antenati. Subito imitati da
Can Signorio della Scala, che attorno al 1364 commissiona ad Altichiero, per la sala grande del suo nuovo
palazzo, un ciclo sulla conquista romana della Palestina,
«spartendo nelle facce di quella sala da ogni banda una
storia con un ornamento solo che la ricigne attorno
attorno. Nel quale ornamento pose dalla parte di sopra,
quasi per finire, un partimento di medaglie, nelle quali
si crede che siano ritratti di naturale molti uomini segnalati di que’ tempi, et in particolare molti di quei Signori della Scala» (Vasari). Un altro ciclo di uomini famosi
(con cartigli sintomaticamente attribuiti al Petrarca dal
panegirista Durante Dorio, ma in realtà dettati dal
vescovo Federico Frizzi) compare in una sala del palazzo di Ugolino Trinci, signore di Foligno (post 1386). Qui
sono raffigurati Carlomagno, Artú, Goffredo di Buglione, Cincinnato, Fabrizio, Torquato, Publio Decio, Tiberio, Marco Marcello, Scipione. Un simile ciclo comparira piú tardi, tra il 1435 e il 1440, nel castello della
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Manta, in un sincretismo religioso che mira ad accomunare le tre principali religioni: l’ebraica, la pagana e
quella cristiana. Un maestro prossimo a Giacomo Jaquerio vi dipinge infatti David, Giuda Maccabeo e Giosuè,
accanto a Ettore, Alessandro, Cesare per i gentili, Carlomagno, Artú, Goffredo di Buglione per i cristiani.
Con loro nove eroine: Delfila vincitrice di Tebe, Semiramide regina degli Assiri, Sinope, Ippolita regina delle
Amazzoni, Etiope, Lampeto, Tamiramide, Tenca, Pantesilea.
Giacomo Jaquerio aveva già compiuto una prova
simile nel castello di Fenis (1431-1433), ma con piú
complesse funzioni iniziatiche e di viatico per il visitatore, condotto attraverso un percorso elicoidale, controllato dall’alto da maschere apotropaiche, sino al cortile interno del castello, dove un’ideale salita del purgatorio portava all’incontro coi saggi, che introducevano
a loro volta l’ospite/pellegrino, attraverso una porta
magica, nella grande sala dalla finestra crucifera, alle cui
pareti erano affrescati messaggi sacri.
Tra il 1470 e il 1480 è la volta del castello di Bracciano, edificato sopra la medievale rocca dei prefetti di
Vico, prendendo a modello stilistico il napoletano Castel
Nuovo. Qui Antoniazzo dipinge, nella sala superiore
davanti all’appartamento dei principi, un fregio con quadri e medaglioni in cui rappresenta, a chiaroscuro su
fondo nero, i sovrani dell’antichità: Cesare, Alessandro
Magno, Maccabeo, David, Artú. A Bracciano l’accostamento con gli antenati non è immediato, ma ugualmente presente: nella sala sottostante, pendono infatti
dalle pareti 151 ritratti di casa Orsini.
Le false genealogie, mirate a scavalcare le origini feudali del casato, e i cicli degli uomini illustri nelle sale d’udienza, volti a ricordare l’ascendenza ideale del principe, erano solo surrogati di una sacralità che, non posse-
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duta, non poteva venire pubblicamente espressa, ma
solo allusa. Persino Cola di Rienzo, «tribuno romano e
cavaliere dello Spirito santo», era giunto ad attribuirsi
un’ascendenza illegittima, pretendendo d’essere figlio
naturale dell’imperatore, pur di dare una parvenza sacrale al suo comando.
Un’altra strada, per riallacciarsi alla figura del divus
imperator, era stata indicata da Castruccio Castracani,
che nel 1326 era entrato in Lucca su un carro trionfale,
facendosi precedere dai prigioni, come in un vero adventus romano. Cosí come per il ciclo giottesco degli uomini illustri, sarebbe stato però Francesco Petrarca a
diffondere daccapo il modello, questa volta coi suoi
Triumphi (d’Amore, di Pudicizia, della Morte, della
Fama, del Tempo, dell’Eternità), stesi tra il 1356/1360
e il 1374 e subito miniati in innumerevoli codici. Particolarità dell’iconografia dei Trionfi petrarcheschi è quella di presentare un carro, anziché il piú diffuso modello della biga, con due sole possibili ascendenze: i trionfi dei bassorilievi dell’arco di Costantino in Roma e dell’arco di Galerio a Salonicco, e il Carroccio comunale.
Fu probabilmente da questa iconografia che Alfonso
il Magnanimo trasse ispirazione (con la sua corte di
umanisti), per il trionfo del 26 febbraio 1443. Si deve
proprio a quegli intellettuali e ai loro scritti, se il modello sacrale dell’adventus fu subito diffuso in ambiente
cortese italiano. Il Porcelio (Giannantonio de’ Pandoni)
scrisse un Triumphus regis Aragoniae devicta Neapoli; il
Panormita (Antonio Beccadelli), un De dictis et defactis
Alphonsi regis; Bartolomeo Facio un De rebus gestis ab
Alphonsi primi Neapolitanorum rege commentarium, tutti
insistendo sul trionfo come momento di legittimazione
regia. E del Panormita la migliore descrizione/spiegazione dei vari momenti di questa cerimonia, che vide il
re d’Aragona protagonista in prima persona, assiso su un
carro coperto dal baldacchino (simbolo della volta cele-
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ste) e avendo di fronte a sé, ai suoi piedi, una fiamma,
scelta come propria divisa (il Siti perillos o Sitio pericoloso si rifaceva al romanzo cavalleresco di re Artú. Alla
tavola dei suoi cavalieri era rimasto sempre un posto
vuoto, perché il mago Merlino aveva predetto che
chiunque vi si fosse seduto sarebbe stato divorato da una
fiamma, ad eccezione di un solo eroe. Quando alla corte
di Artú si presentò Don Galaz, sollevato il panno che
ricopriva il seggio, apparve la scritta «Esto es el asiento de Galaz», riconoscendo in lui l’eroe pronosticato da
Merlino. La scelta di questa divisa paragonava perciò
Alfonso al cavaliere Galaz e fu affiancata dal motto: “In
dextera tua salus mea, Domine”).
Prima di salire sul carro, il re aveva creato alcuni
cavalieri, ancor piú sottolineando l’immagine di sé che
intendeva offrire; si era quindi spogliato e rivestito (un
rito di ingresso proprio di ogni iniziazione sacrale) con
una «roba larga» di velluto cremisi foderata di martora
calabrese. Aveva però rifiutato la corona d’alloro che gli
era stata offerta, «credo – spiega il Panormita – pro singulari animi ejus modestia ac religione, Deo potius coronam deberi, dejudicans, quam cuipiam mortali».
Attorno al carro, coi volti coperti da maschere, un
gruppo di soldati catalani mimava una rivolta («simul
rissantes» li dice un altro testimone oculare), con riferimento alla violenza rituale connessa all’interregno
(Alfonso non sarebbe stato infatti re sacrato, se non
dopo la cerimonia religiosa in duomo). Altri carri seguivano quello del re, con figuranti nelle vesti di Cesare,
delle virtú cardinali; baroni del Reame, ambasciatori e
l’esercito chiudevano il corteo trionfale.
Se l’episodio di Castruccio era rimasto un «esempio
dell’antico», privo di valenze sacrali, per i principi italiani del Quattrocento questo ingresso di un re conquistatore nel suo nuovo regno sarebbe divenuto centrale nel problema, esistenziale, della loro sacralità,
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Dieci anni dopo l’ingresso di Alfonso il Magnanimo,
un’altra città, Milano, si apprestava ad accogliere il suo
conquistatore. Come scrivono Bernardino Corio e il
Simonetta, il 25 marzo 1453 «i Milanesi havevono eletti li principali della città che ricevessino il duca. Et
acciò che l’entrata fussi piú honorata, havevano preparato un carro trionfale, con baldacchino di drappo d’oro
bianco. Et cosí gran moltitudine aspettavano i Principi dinanzi alla porta. Ma Francesco Sforza per sua
modestia ricusò il carro et lo baldacchino, dicendo queste cose essere superstitiose de’ Re et de’ gran Prencipi. Il perché entrando, andò al sacro et massimo tempio di Maria Vergine, et fermò innanzi alle porte, si
vestí di drappo biancho insino a pié. La quale veste era
di consuetudine che se vestissino i Duchi quando pigliavano la signoria».
Il condottiero figlio d’un uomo d’arme (Attendolo),
sente dunque che avrebbe commesso un sacrilegio, se
fosse montato sul carro ricoperto dal baldacchino, non
essendo né re né gran principe. Compie tuttavia un
gesto che lo rende, lui pure, in un qualche modo, sacro:
la svestizione/vestizione prima dell’ingresso in duomo.
In quello stesso anno, chi non aveva timore di salire
sul carro, per celebrare la presa di possesso d’una nuova
città, Reggio, era Borso d’Este, ricevuto dalla statua del
patrono, san Prospero (un gesto del quale, però, non
resta iconografia, dal momento che i trionfi di Schifanoia sono daccapo quelli petrarcheschi).
Che l’esempio si diffondesse rapidamente è provato
dal dono che nel 1457 il re d’Ungheria faceva a Carlo
VII di Francia, di un «chariot branlant et moulte riche»,
che alla sua morte, nel 1461, sarebbe stato usato per il
«trionfo» dell’effige regale, nell’entrée a Parigi.
Si direbbe che il carro avesse un riferimento immediato agli attributi divini del conquistatore. Lo si può
dedurre dal fatto che quando il pontefice Giulio II rien-
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trò a Roma dalla spedizione militare del 1507, salí
anch’egli su un carro, celebrando il proprio trionfo in
forma solenne; e che due anni dopo, quando il re di
Francia, Luigi XII, entrò in Cremona, appena conquistata ai Veneziani, i suoi abitanti lo ricevettero «selon
l’ancienne coustume des Romains».
Ancora su un carro sembra salisse (almeno tale è la
tradizione iconografica tramandataci) l’imperatore Carlo
V, circondato da figuranti nelle vesti degli antenati, al
suo ingresso a Gand.
È comunque certo che, per tutto il Quattrocento e il
primo Cinquecento, il problema del trionfo divenne cosí
importante, quasi ossessivo, da coinvolgere tutte le corti.
Chi non poté avere un proprio trionfo, lo volle almeno
raffigurato. Agostino di Duccio, nel 1454, scolpiva il
trionfo di Scipione per l’arca degli antenati di Sigismondo Pandolfo Malatesta; nel 1457/1459 Biondo Flavio stendeva la Roma triumphans; attorno al 1472 Piero
della Francesca dipingeva il trionfo di Federico da Montefeltro e di Battista Sforza; tra il 1474 e il 1478 Mantegna, su sollecitazione di Lodovico Gonzaga, incideva
la serie del trionfo romano; nel 1499 un trionfo compariva nelle illustrazioni della Hypnerotomachia Poliphili di
Francesco Colonna... A sua volta anche il baldacchino
assumeva un significato sacrale e poteva essere usato
solo in particolari contesti e circostanze. Alludendo alla
volta celeste, esso spettava soltanto a chi avesse diritto
al riconoscimento del titolo di divus. Il Quattrocento
conosce infatti un altro tipo di adventus, senza carro, ma
a cavallo sotto un baldacchino. Questa seconda cerimonia ripeteva, in sostanza, quella, molto piú antica, dell’incoronazione pontificia e della successiva cavalcata di
«possesso» della diocesi romana (in quell’occasione, il
popolo romano assaliva il corteo pontificio, si impadroniva del baldacchino e, facendolo a pezzi, lo trasformava in innumeri reliquie). Questo tipo di adventus sareb-
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be stato usato per l’incoronazione di Alfonso II di Napoli, e sarebbe divenuto abbastanza comune per tutte le
«entrate» del secolo successivo.
Il trend iniziato a metà Quattrocento dai principi italiani, per la loro affermazione in quanto divi, fu interrotto dalle guerre d’Italia, seguite alla calata di Carlo
VIII (un re che fece anch’egli il suo ingresso in Napoli,
sotto un baldacchino). L’ultima, grande sfilata d’incoronazione si situa, non a caso, all’uscita da quel periodo: è quella del 1530, quando cavalcarono assieme a
Bologna, sotto un unico baldacchino, il pontefice e l’imperatore. Ma a quella data, i principi italiani non travolti
dal terremoto politico, potevano solo sperare di mantenere i loro possessi, senza piú ambire a riconoscimenti
nella sfera del sacro.
Nota bibliografica
Per un quadro di riferimento generale alla corte si
veda: A.G. Dickens ed., The Courts of Europe. Politics,
Patronage and Royalty, 1400-1800, London 1977; S.
Bertelli, F. Carini, E. Garbero Zorzi, Le corti del Rinascimento, Milano 1985 (trad. ingl. London, 1986);
Patronage and Public in the Trecento, Proceedings of the
Saint Lambrechk Symposium, V. Moneta ed., Firenze 1986; nonché i numerosi volumi pubblicati nella
collana «Europa delle corti», dell’editore romano Bulzoni.
Sul cerimoniale di corte si veda A. Pertusi, «Quedam regalia insignia»: ricerche sulle insegne del potere
ducale a Venezia durante il medioevo, in «Studi veneziani», 7, 1965, pp. 3-123; R. Elze, I segni del potere
ed altre fonti dell’ideologia politica del medioevo, in Atti
del Congresso Int. Fonti medievali e problematica storiografica, 1977; M. Dykmans, L’oeuvre de Patrizi Picco-
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lomini ou le Cérémonial papal de la première Renaissance, Città del Vaticano 1980 (Studi e testi 293).
Sul doppio corpo regale: E. Kantorowicz, The Kings
Two Bodies, Princeton NJ 1957 (rist. 1966).
Sull’acclamatio: E. Kantorowicz, Laudes Regiae,
Univ. of California Press 1947 (rist. 1958).
Sui cicli di uomini illustri: G. De Blasiis, Immagini di
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D’Ancona, Gli affreschi del castello di Manta nel Saluzzese, in «L’Arte», VIII, 1905; M. Salmi, Gli affreschi del
palazzo Trinci a Foligno, in «Bollettino d’arte», XIII,
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Quattrocento Venice, in «Art Bulletin», LVIII, 1976;
M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed «exemplum».
I primi cicli umanistici di uomini famosi, in Memoria
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Sul trionfo: E. Kantorowicz, The «King’s Advent»
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Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un
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de l’entrée à Paris au Moyen Age, in «Annales E.S.C.»,
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Per i possessi pontifici, la migliore fonte da consultare rimane F. Cancellieri, Storia de’ solenni possessi de’
sommi pontefici detti anticamente processi o processioni,
dopo la loro coronazione dalla basilica Vaticana alla Lateranense, Roma 1802.
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