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EPISTEMOLOGIA DEL PROGETTO SILVANO TAGLIAGAMBE DADU ALGHERO 9 NOVEMBRE 2016 IL CINQUECENTENARIO DELLA PUBBLICAZIONE DELL’UTOPIA (1516) DI THOMAS MORE. 2 UTOPIA L’Utopia di Thomas More: tra le altre cose l'opera contiene un'aspra critica della società dell'epoca, specialmente inglese, delle sue ingiustizie, della miseria del popolo a fronte del lusso dei ricchi. In particolare vengono denunciate le conseguenze nefaste delle enclosures, termine con il quale ci si riferisce alla recinzione dei terreni comuni (terre demaniali) a favore dei proprietari terrieri della borghesia mercantile avvenuta in Inghilterra tra il XVII e il XIX secolo. Gli enclosure acts danneggiarono principalmente i contadini, che non potevano più usufruire dei benefici ricavati da quei terreni, a favore dei grandi proprietari: per le recinzioni era necessario sostenere spese di tipo privato ma anche legali, che scoraggiavano i piccoli proprietari: per produrre la lana occorre allevare pecore che, scacciando i contadini dalle loro terre, "divorano gli uomini", per riprendere la celebre formula di More. Dall'altra parte, il testo offre la descrizione di una società radicalmente diversa. 1 STRUMENTI PER PENSARE 4 Competenze e capacità necessarie per inquadrare un problema e risolverlo Le possiamo così schematizzare: Analisi Analogia Astrazione Induzione Deduzione Abduzione 5 Analisi Può essere concepita in due modi differenti: • Scomposizione di un problema complesso nelle sue parti; • Riduzione di un problema a un altro Astrazione Si presenta sotto diverse forme e tipologie: • Per estrazione • Per soppressione • Per ibridazione • Per spostamento dell’attenzione Ibridazione Y = 0,5x+3 P (0, 3) P (1, 3,5) P(2, 4) P 3, 4,5 ) P ….. (P ( x, y) Nella Géométrie Descartes tratta le curve come ibridi geometrici-algebricinumerici che sono simultaneamente configurazioni formate spazialmente, equazioni algebriche con due incognite e una serie infinita di coppie di numeri. Ne consegue un’instabilità, perché questi tre diversi modi di trattare le curve non sono equivalenti: ma questa instabilità conferisce alle curve una multivalenza che è la chiave per la loro indagine e per il loro impiego nella fisica della seconda metà del XVIII secolo. Spostamento dell’attenzione A = A1 - A2 = …. Prima della creazione del calcolo infinitesimale, ci si concentrava solo sugli aspetti geometrici del problema di calcolare l’area di una curva, e di conseguenza si riusciva a risolverlo solo a costo di una notevole ingegnosità. Dopo l’invenzione del calcolo, spostando l’attenzione sugli aspetti algebrici del problema, la curva venne considerata un’equazione e si poté risolvere un problema con un procedimento di routine e quasi meccanico. Deduzione Premesse Assiomi E’ l’inferenza in cui un parlante sostiene che la conclusione segue necessariamente dalle premesse. Enunciati Regole di inferenza Ipotesi Premessa Enunciato S Conclusione intermedia Tesi: Conclusione ultima K Detto in termini più precisi,“per un qualsiasi enunciato S, rispetto a un insieme di enunciati K, la deduzione è una successione finita di enunciati il cui ultimo elemento è S (quello di cui diciamo, appunto, che è dedotto), e tale che ogni suo elemento è un assioma o un elemento di K, oppure segue da enunciati che lo precedono nella successione grazie a una regola d’inferenza. Un termine sinonimo è ‘derivazione’. Deduzione e sistema correlato Premesse Premesse Sistema B Sistema A Enunciati Ha senso dire che qualcosa è una deduzione solo in relazione a un particolare sistema di assiomi e regole d’inferenza. Regole di inferenza Regole di inferenza Enunciati Premessa Conclusione intermedia Conclusione intermedia Tesi: Conclusione S Enunciato S La deduzione è un concetto relativo a un sistema. Premessa Conclusione intermedia Conclusione intermedia Tesi: Conclusione S La stessa esatta successione di enunciati può essere una deduzione in un sistema, ma non in un altro”. Deduzione vs dimostrazione Premesse Dimostrazione Assiomi Enunciati Regole di inferenza Ipotesi Premessa Conclusione intermedia Conclusione intermedia Enunciato S Tesi: Conclusione ultima Il concetto di deduzione è una generalizzazione del concetto di dimostrazione. Una dimostrazione è una successione finita di enunciati, ciascuno dei quali è un assioma o segue da enunciati che lo precedono nella successione tramite una regola inferenziale. L'ultimo enunciato della successione è un teorema. La deduzione e la dimostrazione sono gli strumenti più efficaci di cui possiamo disporre per cercare di controllare la validità del ragionamento di un agente qualsiasi e i risultati da lui ottenuti, anche se i fondamentali risultati conseguiti a partire dal 1930 da Gödel, Church e Turing hanno posto limiti ben precisi a questa possibilità. Abduzione E’ il processo che, dato un certo dominio, mira alla generazione di spiegazioni di un insieme di eventi a partire da una data teoria, o legge, o ipotesi esplicativa, relativa a quel dominio. Premessa (causa) Conclusione (effetto) Esempio: AB B È plausibile Se la batteria è scarica la macchina non parte La macchina non parte ? A ? ? La batteria è scarica ? Conclusione (causa) ? Premessa? (effetto) Abduzione Ecco un esempio di abduzione rispetto a una spiegazione: A B (Spiegazione) ragionamento causale Premessa Conclusione A= Batteria scarica B =Macchina non va B , ?? A ?? (Abduzione) Premessa Conclusione È plausibile che la batteria sia scarica B = La Macchina non va A = Batteria è scarica ?? Abduzione In questo caso la funzione dell’abduzione è la conservazione degli schemi esplicativi. In passato si è riscontrato che un processo di inferenza da un determinato effetto B a una causa A si è dimostrato efficace. Pur non potendo escludere che, in circostanze diverse, B possa essere dovuto a una causa differente, appare ragionevole partire anche in questo caso dalla causa A per spiegare l’effetto B e saggiare la plausibilità di questa ipotesi esplicativa. A B (Spiegazione) ragionamento causale Premessa Conclusione A= Batteria scarica B =Macchina non va B , ?? A ?? (Abduzione) Premessa Conclusione È plausibile che la batteria sia scarica B = La Macchina non va A = Batteria è scarica ?? Abduzione Ma l’abduzione è anche il processo che ci consente di sostenere che una certa congettura (o ipotesi), cioè che A sia vero, vale la pena di essere presa in considerazione in quanto, grazie a essa, siamo in grado di spiegare un fatto B del tutto inatteso e sorprendente. B , ?? A ?? (Abduzione) Premessa Conclusione A= Ipotesi esplicativa B = Fatto Premessa Conclusione sorprendente È plausibile che A sia vera. B = Fatto sorprendente A = Ipotesi esplicativa di B Abduzione In questo caso lo schema del ragionamento per abduzione è il seguente: 1. Si osserva B, un fatto sorprendente. 2. Ma se A fosse vero, allora B sarebbe naturale. 3. C’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero. B , ?? A ?? (Abduzione) Premessa Conclusione A= Ipotesi esplicativa B = Fatto Premessa Conclusione sorprendente È plausibile che A sia vera. B = Fatto sorprendente A = Ipotesi esplicativa di B Abduzione Considerata da questo secondo punto di vista l’abduzione è il frutto del momento inventivo, creativo dello scienziato, dell’attimo fortunato dell’immaginazione scientifica che formula ipotesi esplicative generalizzate, le quali, se confermate, diventano leggi scientifiche (pur sempre correggibili e sostituibili) e, se falsificate, vengono scartate. Ed è proprio l’abduzione a far progredire la scienza, che avanza da una parte sulla direttrice dell’inglobamento progressivo di fatti nuovi e insospettati che spingono per questo a escogitare nuove ipotesi capaci di spiegarli, e dall’altra su quella di una unificazione assiomatica delle leggi, attuata da quelle che si dicono le grandi idee semplici. B , ?? A ?? (Abduzione) Premessa Conclusione A= Ipotesi esplicativa B = Fatto Premessa Conclusione sorprendente È plausibile che A sia vera. B = Fatto sorprendente A = Ipotesi esplicativa di B Induzione E’ il processo in base a cui s’inferisce dal particolare all’universale secondo il principio della generalizzazione. Alla conclusione generale si può arrivare: • a partire da parecchi casi • a partire da un singolo caso (Se un certo membro a di una classe Q ha una data proprietà P, allora per un qualsiasi nuovo membro b della stessa classe Q si ipotizza il possesso della medesima proprietà P). Ogni corvo che ho osservato è nero Ogni corvo è nero Analogia Varie nozioni di similarità: • Per eguaglianza della forma • Per eguaglianza della proporzione • Per analogia di attributi essenziali • Per possesso di alcuni attributi in comune • Per possesso di alcuni attributi in comune pur in presenza di tratti non in comune (analogia positiva-negativa-neutra) Argomento analogico Premessa analogica: il caso A e il caso B hanno in comune le caratteristiche c1,…,cn Premessa attributiva: il caso A presenta l’ulteriore caratteristica x Conclusione: anche il caso B presenta la caratteristica x A B •c1,…,cn •c1,…,cn x x Inferenza induttiva e inferenza analogica Sono connesse tra loro se si considera solo l’analogia positiva, ma sono irriducibili l’una all’altra se si considera anche l’analogia negativa. In quest’ultimo caso questi due tipi di inferenza risultano essere complementari tra loro e utili in situazioni differenti. Inferenza induttiva e inferenza analogica L’inferenza induttiva è utile quando non sappiamo con precisione come i casi osservati differiscano tra loro, e quindi non ne conosciamo esattamente l’analogia negativa, per cui un aumento del numero dei casi può aiutarci a trarre qualche conclusione su di essi. L’inferenza analogica è utile quando non abbiamo osservato un numero elevato di casi, ma conosciamo con sufficiente precisione tanto l’analogia positiva quanto l’analogia negativa dei relativamente pochi casi osservati per cui l’analogia osservata può aiutarci a trarre qualche conclusione su di essi. Induzione e analogia Sono processi fallibili: procedere sulla base di essi comporta la rinuncia alla certezza propria della deduzione. Quella che possiamo chiamare la logica della scoperta ammette dunque il carattere strutturale e ineliminabile della incertezza e cerca di costruire su di esso. Questa logica, pertanto, riconosce l’illusorietà dell’obiettivo di acquisire una certezza assoluta e lo sostituisce con quello di disporre di strumenti per l’estensione della nostra conoscenza fallibili ma corredati di procedure di controllo che consentano di riconoscere le anomalie e di correggerle. Rappresentazione Artificiale e Semplificata Definizione di Modello Il modello è una rappresentazione artificiale e semplificata del dominio che rappresenta 27 In un’accezione larga, il concetto di modello è sovente utilizzato nella vita quotidiana. Ad esempio, quando diciamo che una persona o un animale appartiene a una determinata tipologia (la volpe è astuta, l’imprenditore deve avere attitudine al rischio) esprimiamo un modello del loro comportamento che è nella nostra mente e che consente di prevederne le mosse in una certa situazione. 28 Vi sono anche i modelli “materiali”. Esempi sono i modelli in scala ridotta di un’opera artistica o architettonica, oppure un modello in scala ridotta, come quello in basso a sinistra, che replica con esattezza gli effetti dell'abbattimento degli alberi, o i prototipi che sono realizzati per effettuare dei test di resistenza meccanica o aerodinamica, come il provino di calcestruzzo cilindrico qui in basso sottoposto a una prova di compressione monoassiale. 29 IL MODELLO FISICO-MATEMATICO Un modello di un sistema esprime la conoscenza di un fenomeno e come tale consente di rispondere a domande sul sistema senza la necessità di compiere un esperimento. Esso costituisce quindi un potente mezzo di previsione e descrizione del comportamento di un determinato sistema. Tipicamente il modello matematico di un sistema consiste in un’equazione differenziale che stabilisce una relazione tra le variabili d’ingresso e le variabili d’uscita del sistema medesimo. Equazione differenzial e Variabile in ingresso Sistema Variabile in uscita Questo tipo di descrizione è chiamata descrizione ingresso/uscita di un sistema dinamico. Il calcolo matematico consente di determinare le uscite a partire dagli ingressi e quindi di studiare la dinamica o il comportamento di un sistema in un certo ambiente. Le relazioni funzionali ingresso-uscita caratterizzano il sistema e ne definiscono il comportamento; esprimono l’uscita come funzione dell’ingresso. 30 Esempio: Modello matematico di un sistema idraulico Il serbatoio in figura è caratterizzato dalla portata d’ingresso qi e dall’altezza del battente idrico h che rappresenta la variabile d’uscita. Assumendo un serbatoio di sezione costante A, il volume di liquido risulta: V = Ah. Per la legge di conservazione della massa (legge di continuità) qi(t) si ha che: h dV dh A qi dt dt 31 La modellistica matematica Problema reale Modello matematico Analisi qualitativa Risoluzione al calcolatore Modellistica numerica Algoritmi 32 La Modellistica Matematica Con il termine modellistica matematica si intende dunque il processo che si sviluppa attraverso l'interpretazione di un determinato problema, la rappresentazione dello stesso problema mediante il linguaggio e le equazioni della matematica, l'analisi di tali equazioni, nonché l'individuazione di metodi di simulazione numerica idonei ad approssimarle, e infine, I'implementazione di tali metodi su calcolatore tramite opportuni algoritmi. Qualunque ne sia la motivazione, grazie alla modellistica matematica un problema del mondo reale viene trasferito dall'universo che gli è proprio in un altro habitat in cui può essere analizzato più convenientemente, risolto per via numerica, indi ricondotto al suo ambito originario previa visualizzazione e interpretazione dei risultati ottenuti. Fonte: A. Quarteroni, La modellistica matematica: una sintesi fra teoremi e mondo reale. Prolusione tenuta in occasione dell’inaugurazione del 136° anno accademico. Politecnico di Milano, 3 ottobre 1998 Rapporto tra il Modello Matematico e la Realtà Il modello non esprime necessariamente l'intima e reale essenza del problema (la realtà è spesso così complessa da non lasciarsi rappresentare in modo esaustivo con formule matematiche), ma deve fornirne una SINTESI UTILE. La matematica aiuta a vedere e a capire la natura intrinseca di un problema, a determinare quali caratteristiche sono rilevanti e quali non lo sono, e, di conseguenza, a sviluppare una rappresentazione che contiene l'essenza del problema stesso. Una caratteristica della sfera d'indagine matematica presente in questo processo è l'ASTRAZIONE, ovvero la capacità di identificare caratteristiche comuni in campi differenti, così che idee generali possano essere elaborate a priori e applicate di conseguenza a situazioni fra loro assai diverse. Fonte: A. Quarteroni, La modellistica matematica: una sintesi fra teoremi e mondo reale. CARATTERE INTERDISCIPLINARE DELLA MODELLISTICA MATEMATICA La presenza di laboratori sperimentali e di gallerie del vento, di specialisti nell’analisi teorica, nell’informatica e nelle scienze fondamentali, quali la fisica e la chimica, e nei settori più spiccatamente tecnologici, e anche nell’architettura, nella grafica avanzata e nel design, è l’elemento distintivo di una CULTURA POLITECNICA e può fungere da elemento catalizzatore e propulsivo di una DISCIPLINA INTERSETTORIALE quale è la modellistica matematica. Fonte: A. Quarteroni, La modellistica matematica: una sintesi fra teoremi e mondo reale. Scoprire e Inventare la matematica Da dove viene la matematica. Come la mente embodied dà origine alla matematica G. Lakoff e R. E. Nunez, 2005 Metafore, schemi-immagine forniscono un ponte tra il linguaggio e il ragionamento, tra il corpo e i concetti 36 36 SIMULAZIONE Per simulazione si intende un modello della realtà che consente di valutare e prevedere lo svolgersi dinamico di una serie di eventi susseguenti all'imposizione di certe condizioni da parte dell'analista o dell'utente. Un simulatore di volo, ad esempio, consente di prevedere il comportamento dell'aeromobile a fronte delle sue caratteristiche e dei comandi del pilota.Le simulazioni sono uno strumento sperimentale molto potente e si avvalgono delle possibilità di calcolo offerte dall'informatica; la simulazione, infatti, non è altro che la trasposizione in termini logicomatematico -procedurali di un "modello concettuale" della realtà; tale modello concettuale può essere definito come l'insieme di processi che hanno luogo nel sistema valutato e il cui insieme permette di comprendere le logiche di funzionamento del sistema stesso. SIMULAZIONE: ESEMPIO La simulazione è uno strumento sperimentale molto potente. Essa non è altro che la trasposizione in termini logico-matematico -procedurali di un "modello concettuale" della realtà Programma che permette di simulare una popolazione di piante, allo scopo di mostrare come le simulazioni possano essere utili strumenti per la riproduzione e comprensione dei sistemi complessi e possano essere usate come laboratori didattici virtuali. Nasce così una terza gamba della conoscenza teo ica t a pr ria D=gt2⁄2 simulazione 2 LO SPOSTAMENTO DEL BARICENTRO 40 NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL SAPERE Kenneth Keniston, , direttore del “MIT India Program” e del “Program in Science, Technology and Society” al Massachusetts Institute of Technology: CRISI DELL’ALGORITMO DELL’INGEGNERE. NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL SAPERE Questa crisi è determinata dal fatto che non si può più procedere “per sommatoria” accatastando l’uno sull’altro, in modo casuale e senza un disegno preciso e un progetto coerente, “pezzi” di formazione diversi. Occorre invece procedere con una politica sottile di intersezione, di incastro, organizzando e mettendo in pratica processi formativi basati sul confronto tra prospettive diverse e sperimentando, anche nell’ambito di questi processi, strategie di interazione complesse. ALGORITMO DELL’INGEGNERE “L’algoritmo degli ingegneri” è quel metodo di soluzione dei problemi che si trova nel cuore stesso dell’ingegneria, e quindi di un certo modo di considerare la tecnologia. L’idea fondamentale, che sta alla base di questo paradigma, “è quella che il mondo esterno possa essere definito come una serie di problemi, ognuno dei quali può essere risolto grazie all’applicazione di teoremi scientifici e di principi matematici. Attorno a questo primo principio si raggruppano una serie di idee, che ne formano il corollario. ALGORITMO DELL’INGEGNERE Questo algoritmo implica una divisione metafisica del mondo in due regni. Il primo costituisce il regno dei ‘problemi’ che possono essere ‘risolti’. Il secondo - definito in vari modi come ‘il resto della vita’, i ‘valori’ o la ‘società’- non può essere definito secondo i parametri dei ‘problemi’ e quindi non ha rilevanza per l’ingegnere in quanto tale. Per quanto riguarda i ‘problemi’ degni del lavoro dell’ingegnere, si tratta in generale di questioni di natura complessa, Ciò significa che devono essere suddivisi - o analizzati suddividendoli - in componenti e problemi parziali più semplici, ognuno dei quali può essere risolto separatamente, applicando principi scientifici e idee matematiche. Risolvendo correttamente tutti i problemi parziali e integrando quindi fra loro le soluzioni parziali, l’ingegnere arriva alla soluzione di problemi più vasti e complessi. ALGORITMO DELL’INGEGNERE Grazie alle applicazioni del Digital manufacturing, cioè ai sistemi integrati, basati su computer e sulle ICT, che comprendono strumenti di simulazione, visualizzazione tridimensionale (3D), analisi e collaborazione, con la finalità di creare simultaneamente le definizioni del prodotto e del processo produttivo, la progettazione degli artefatti viene realizzata non più per fasi e suddividendo in maniera analitica un pezzo complesso qualunque in componenti da realizzare separatamente e assemblare successivamente, bensì attraverso una strategia complessiva basata sullo scambio di informazioni relative al prodotto e la stretta collaborazione fra i gruppi di progettazione e di produzione. Si hanno così sistemi che consentono agli ingegneri di sviluppare la definizione completa di un processo produttivo in un ambiente virtuale e di effettuare la simulazione dei processi produttivi allo scopo di riutilizzare le conoscenze disponibili e ottimizzare i processi prima che i prodotti vengano fabbricati. ALGORITMO DELL’INGEGNERE Per fare un esempio concreto, una casa automobilistica ormai prefigura e organizza l’intero processo produttivo a livello digitale (attrezzature, lavorazioni, sequenze di assemblaggio e layout della fabbrica) mentre i progettisti sviluppano in parallelo una nuova serie di veicoli. In questo modo gli ingegneri di produzione sono in grado di dare un riscontro immediato ai progettisti in presenza di vincoli per la producibilità della parte. Questo tipo di collaborazione fra ingegneri di produzione e progettisti crea una visione completa della progettazione di prodotti e processi che consente di associare, visualizzare e sottoporre a modifiche immediate le informazioni relative a prodotti, processi, impianti e risorse, con un approccio coerente e globale alla progettazione della produzione. «Aiutami, Marcel, sennò divento pazzo!». È il 10 agosto 1912 quando Albert Einstein spalanca la porta del suo grande amico Marcel Grossmann – un matematico da poco divenuto rettore del Politecnico di Zurigo, a soli 34 anni – e implora il suo soccorso. Di anni, Einstein, ne ha uno in meno: il fisico tedesco è infatti nato nel 1879 a Ulm, una piccola città del Baden-Württemberg. Ma di fama ne ha già molta di più. Soprattutto da quando la sua teoria della relatività ristretta, elaborata nel 1905, è stata accreditata dal fisico più autorevole di quei tempi, Max Planck. Con quella teoria un giovane e sconosciuto impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, Albert Einstein appunto, aveva mandato in soffitta i concetti di spazio e di tempo assoluto e aveva dimostrato che energia e materia sono due facce di una medesima medaglia. In poche settimane di lavoro quel ragazzo di appena 26 anni aveva abbattuto alcuni dei pilastri su cui, da un paio di millenni, si reggeva la filosofia occidentale e su cui, da un paio di secoli almeno, si reggeva la fisica di Isaac Newton. Eppure è solo due anni dopo, nel 1907, che nella mente di Albert Einstein si accende la lampadina più luminosa e il giovane fisico matura quella che lui stesso definisce «l’idea più felice della mia vita». Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. È un’idea in apparenza banale. Un’immagine. Eccola, come la racconta Einstein medesimo nel manoscritto intitolato Grundgedanken und Methoden der Relativitätstheorie in ihrer Entwicklung dargestellt (Concetti fondamentali e metodi della teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo) da lui originariamente preparato per rispondere all’invito rivoltogli nel 1919 dalla rivista ‘Nature’ di scrivere l’articolo di apertura di un numero dedicato alla relatività, poi uscito il 17 febbraio 1921. Nel gennaio dell’anno seguente l’articolo era pronto ma era così lungo che dovette essere sostituito da uno molto più breve che alla fine fu pubblicato. Il manoscritto originale, che si trova ora alla Pierpont Morgan Library a New York, è del massimo interesse perché, come sottolinea Abraham Pais, “a un certo punto spiega come nel 1907, nel preparare un articolo di rassegna, fosse stato indotto a chiedersi in quale modo la teoria newtoniana della gravitazione dovesse essere modificata perché le sue leggi si accordassero alla relatività ristretta”. Cediamo dunque la parola ad Einstein: “Fu allora che ebbi il pensiero più felice della mia vita, nella forma seguente. Il campo gravitazionale ha solo un’esistenza relativa, in modo analogo al campo elettrico generato dall’induzione magnetoelettrica. Infatti per un osservatore che cada liberamente dal tetto di una casa, non esiste - almeno nelle immediate vicinanze – alcun campo gravitazionale. In effetti, se l’osservatore lascia cadere dei corpi, questi permangono in uno stato di quiete o di moto uniforme rispetto a lui, indipendentemente dalla loro particolare natura chimica o fisica (in questo genere di considerazioni, ovviamente, si trascura la resistenza dell’aria). L’osservatore di conseguenza ha il diritto di interpretare il proprio stato come uno ‘stato di quiete’. Grazie a questa idea, quella singolarissima legge sperimentale secondo cui, in un campo gravitazionale, tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione, veniva improvvisamente ad acquistare un significato profondo. Precisamente, se vi fosse anche un solo oggetto che cadesse nel campo gravitazionale in modo diverso da tutti gli altri, allora, grazie a esso, un osservatore potrebbe accorgersi di trovarsi in un campo gravitazionale e di stare cadendo in esso. Se però un oggetto del genere non esiste, come si è mostrato sperimentalmente con grande precisione, allora l’osservatore non dispone di elementi oggettivi che gli consentono di stabilire che si trova in caduta libera in un campo gravitazionale. Piuttosto ha il diritto di considerare il proprio stato come uno stato di quiete e il proprio spazio ambiente come libero di campi, almeno per quanto riguarda la gravitazione. L’indipendenza dell’accelerazione di caduta dalla natura dei corpi, ben nota sperimentalmente, è pertanto un solido argomento in favore dell’estensione del postulato di relatività a sistemi di coordinate in moto non uniforme l’uno relativamente all’altro”. Questo pensiero, che porta Einstein a immaginare idealmente il nostro Universo come privo di qualsiasi gravità, è frutto, ancora una volta, di un’astrazione spinta fino al punto estremo di liberarsi, concettualmente, di aspetti ardui da affrontare per stabilire il controllo cognitivo su ciò che resta. Solo dopo essere riusciti a farlo ci si affida agli aspetti più semplici per riannodare il filo con quelli difficili precedentemente accantonati. La chiave di questo processo di pensiero, come sottolinea Kip Thorne, è costituita dalla riduzione dello spazio preso in considerazione esplicitata dalla precisazione “nelle immediate vicinanze”. Si immagina dunque che l’osservatore in caduta libera dalla sua casa sia piccolo e che altrettanto ridotto sia il suo “quadro di riferimento”, cioè il laboratorio ideale, contenente tutti le attrezzature e gli strumenti di misurazione necessari per ogni tipo di rilievo che si desideri effettuare. È evidente che quanto più piccole sono queste dimensioni tanto minore sarà la differenza della forza esercitata dall’attrazione gravitazionale sulle diverse parti del corpo, in particolare su quelle esterne e sul centro, sino a rendere insignificante e non rilevabile questa differenza. Se le dimensioni sono quelle di una formica tutte le parti del corpo saranno talmente vicine le une alle altre da far sì che la direzione e la forza che l’attrazione gravitazionale esercita su questo corpo saranno esattamente le stesse. Ecco perché non si avverte il peso e la gravità sembra scomparsa, per cui la sensazione è quella della caduta libera. Quadri di riferimento piccoli e in caduta libera nel nostro Universo dotato di gravità sono dunque equivalenti a quadri inerziali in un universo privo di gravità, per cui è possibile uno spostamento dell’attenzione dalla forza di gravità e dalla sua incidenza sul moto del laboratorio a quadri di riferimento che si muovono liberamente grazie alla loro inerzia, non spinti né attratti da alcuna forza e che pertanto continuano a procedere sempre in avanti nello stesso stato di moto uniforme inerziale. Una volta acquisito il pieno controllo su questo spostamento e sull’ibridazione che ne scaturisce tra il linguaggio della gravitazione e quello in termini di quadri inerziali, e delle immagini mentali associate all’uno e all’altro, che risultano interscambiabili senza che ciò incida sulle previsioni formulate, è possibile ritornare al livello di maggiore complessità ed esprimere in modo più profondo e preciso il principio della relatività: “ogni legge fisica deve essere formulata in termini di misurazioni effettuate in un quadro di riferimento inerziale. Poi, una volta enunciata di nuovo in termini di misurazioni effettuate in qualsiasi altro quadro inerziale, la legge fisica deve assumere esattamente la stessa forma matematica e logica del quadro originario. In altre parole, le leggi della fisica non devono fornire alcun mezzo per distinguere un quadro di riferimento inerziale (uno stato di moto uniforme) da un altro”. LE FORZE FITTIZIE Per chi è a bordo di una vettura che sta accelerando e si versa un bicchiere d’acqua la situazione non è la medesima di chi si trova fermo a casa propria o a bordo di un aeroplano che vola a velocità costante. L’acqua, infatti, non cadrebbe regolarmente, ma formerebbe un arco la cui forma sarebbe determinata dalla direzione e dall’intensità dell’accelerazione. Questo esperimento molto semplice che ognuno può fare viaggiando in macchina rileva senza ambiguità che l’auto non si sta muovendo a velocità costante, ma sta accelerando. Se si ipotizza invece che la vettura sia ferma bisogna postulare l’esistenza di una forza misteriosa che spinge le cose a volte verso il davanti e a volte verso il dietro della vettura medesima. Forze di questo genere, che si manifestano solo in sistemi di riferimento accelerati, sono chiamate fittizie e sono proporzionali a m, a prescindere da come il sistema di riferimento acceleri e da come l’oggetto si stia muovendo. LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA In questo caso la “forza di gravità” percepita da chi sta all’interno della capsula è un esempio per eccellenza di forza fittizia, ma per lui non ha nulla di fittizio: per lui è una forza reale, così come c’è un pavimento reale e un soffitto reale ed è autentica la distinzione tra su e giù. A meno di riuscire a dare un’occhiata all’esterno della capsula (cosa che violerebbe le premesse di questo esperimento mentale) il viaggiatore non ha alcun modo di distinguere se la capsula sia in accelerazione costante nello spazio vuoto o se sia immobile all’interno del campo gravitazionale terrestre. Le due situazioni sono indistinguibili. Un sistema di riferimento accelerato non è di conseguenza assolutamente distinguibile da un sistema stazionario immerso in un campo gravitazionale. LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA Prima che il razzo che tira la capsula con una forza costante, dando luogo a un’accelerazione costante, si metta in moto l’occupante della capsula fluttua al suo interno e per lui non c’è alcuna ragione per distinguere pavimento e soffitto. Appena il razzo comincia a esercitare la sua spinta una delle pareti della capsula si avvicina a lui che ci va a urtare rimanendoci incollato, perché l’accelerazione costante dell’abitacolo ha rotto la simmetria tra le pareti e ha messo fine alla possibilità di fluttuare all’interno. Se inoltre l’occupante gettasse in aria una matita questa “cadrebbe” sul pavimento: questa situazione, vista dall’esterno, si spiega con il fatto che il pavimento si muove verso la matita fino alla loro collisione, mentre dall’interno essa è l’effetto della forza gravitazionale. LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA Se ora l’occupante lascia andare due oggetti di peso molto differente, come una matita e un’ipotetica palla di cannone, li vedrebbe cadere fianco a fianco e colpire il pavimento nello stesso istante. Per gli osservatori esterni questo sarebbe ovvio: i due oggetti non si muovono, mentre è il pavimento che si sta muovendo “verso l’alto” per venire loro incontro: è quindi evidente che li colpirà nello stesso istante. Ma dal punto di vista dell’occupante della capsula il fenomeno si verifica perché la gravità possiede la proprietà fondamentale che Galileo fu il primo a dimostrare: cioè che tutti gli oggetti, quale che sia la loro massa, cadono con la stessa accelerazione. Per lui quindi la gravità non ha nulla di fittizio, ma è una forza reale. IL PRINCIPIO DI EQUIVALENZA Einstein chiamò “principio di equivalenza” questa nuova versione radicalmente estesa del principio di relatività. Con questo voleva dire che c’era un’impossibilità di distinguere la gravità dall’accelerazione. Supponiamo ora che la capsula sia sospesa 100 km sopra la Terra mantenuta perfettamente immobile da un meccanismo. Per l’occupante la forza gravitazionale permea la sua capsula esattamente come lo farebbe sulla superficie della Terra con l’unica differenza che a quella altitudine la gravità e un po’ minore. Ma se a un tratto il meccanismo di ferma e lascia andare la capsula che comincia a precipitare tutti gli oggetti al suo interno cominciano a cadere nello stesso modo e con la stessa velocità. Per l’occupante non esiste più un pavimento né un soffitto: egli sperimenta l’assenza di peso, la sensazione di gravità zero e dato che tutto sta cadendo verso la Terra alla stessa velocità per lui nulla sta cadendo e tutto (compreso lui stesso) sta fluttuando. L’EQUIVALENZA TRA MASSA ED ENERGIA Allo stesso modo di tempo e spazio, o di campo elettrico e campo magnetico, nella nuova meccanica si fondono anche i concetti di energia e massa. Einstein si rese conto che esse sono due facce della stessa entità: e comprese che la massa, da sola, non si conserva, e l’energia, così com’era concepita allora, da sola non si conserva. L’una si può trasformare nell’altra: esiste una sola legge di conservazione, non due. Quello che si conserva è la somma di massa e di energia, non ciascuna delle due separatamente. Un rapido calcolo gli permise anche di capire quanta energia si ottenga trasformando un grammo di massa. Il risultato dato dalla formula è strabiliante: l’energia che si ottiene è uguale a quella di milioni di bombe che scoppino insieme, un’energia sufficiente per illuminare le città e far girare le industrie di un Paese per mesi, oppure per distruggere in un secondo una città come Hiroshima. EFFETTI GRAVITAZIONALI SULLA LUCE Immaginiamo ora che l’occupante della nostra capsula in movimento accelerato accenda una torcia elettrica che emette un raggio di luce perfettamente orizzontale, cioè parallela al “pavimento” dell’abitacolo. Gli osservatori all’esterno diranno che questo raggio si sposta in direzione costante rispetto alle stelle lontane mentre la capsula che lo circonda “sale” a velocità sempre maggiore. Da questa accelerazione “verticale” costante della capsula segue che il suo occupante all’interno vedrà il raggio di luce abbassarsi verso il pavimento con rapidità sempre maggiore mentre attraversa la capsula a una velocità orizzontale costante. In altre parole: per lui il raggio di luce seguirà una curva e non una linea dritta. EFFETTI GRAVITAZIONALI SULLA LUCE Per il principio di equivalenza questo fenomeno che si osserva in un sistema accelerato come la capsula dovrà osservarsi anche in una laboratorio sulla terraferma immerso in un campo gravitazionale. Ciò condusse Einstein a fare previsioni di alcuni fenomeni celesti fino ad allora neppure ipotizzati, come la minuscola deflessione dei raggi luminosi provenienti da una stella lontana nel loro passaggio vicino al Sole, il cui campo gravitazionale è forte. Nel 1919, durante un’eclissi totale, una spedizione inglese guidata dal fisico Arthur Eddington osservò effettivamente, da due isole diverse nell’oceano Atlantico meridionale, questo fenomeno, fornendo una precisa conferma sperimentale alla teoria di Einstein. 3 NASCITA E SVILUPPO DI UN PROGETTO 79 LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 In queste note autobiografiche Le Corbusier parla dell’idea da cui deriva il progetto di uno dei suoi più grandi capolavori, il progetto e la realizzazione del tetto della chiesa di Ronchamp, in Alsazia, costruita fra il 1950 e il 1955. Egli racconta che, facendo una passeggiata lungo la spiaggia di Long Island, vicino a New York, durante un soggiorno di lavoro negli Sati Uniti nel 1946, restò colpito dalla forma di un guscio di granchio vuoto. Lo raccolse dall’arenile e lo portò con sé, appoggiandolo sulla sua scrivania dove rimase per anni, inerte e silenzioso per molto tempo. Anni dopo, nella sua mente, la forma naturale del carapace si è “mescolata” e “ha fermentato” (termini usati dallo stesso Le Corbusier) fino a farne emergere la soluzione di un problema architettonico, il progetto del tetto della chiesa. LA CONCHIGLIA E SOCRATE Questo stimolo prodotto dalla conchiglia richiama alla mente un testo che Le Corbusier conosceva bene. Si tratta di Eupalinos ou l’Architecte dello scrittore, poeta e filosofo francese Paul Valéry, pubblicato nel 1923, dialogo tra due personaggi platonici, Socrate e Fedro. Nel testo troviamo il seguente passo: “La conchiglia: strano oggetto trovato da Socrate lungo la riva del mare, informe e bianco come pietra levigata dall’acqua; una conchiglia che immediatamente fa nascere a Socrate un ragionamento sugli oggetti prodotti dalla natura e quelli prodotti dall’uomo; i primi raggiungono un grado del tutto più complesso rispetto al grado dei particolari che lo compongono, mentre l’uomo fabbrica per astrazione cioè produce oggetti che nel loro insieme sono di grado inferiore a quello delle parti”. PAUL VALÉRY, EUPALINOS OU L’ARCHITECTE Il dialogo si snoda sulla base di una dicotomia che ne costituisce il leitmotiv: la contrapposizione tra Conoscere – idee – modelli ideali Costruire – ricerca delle forme – realizzazione Valéry reinventa la figura di Socrate proponendo un Anti-Socrate, il costruttore, che rimpiange l’artista che ha lasciato perire in se stesso e capisce di aver perseguito per tutta la vita un ideale fittizio che è prevalso rispetto a quello più pratico, cioè quello della creazione di forme. Introdotta questa sostanziale differenza viene fatta un’ulteriore precisazione sull’architettura, intesa come arte che ricerca la perfezione e l’armonia di oggetti creati dall’uomo e che può essere solo paragonata alla musica, essendo due arti affini che “avvolgono” l’uomo in leggi e volontà interiori. PAUL VALÉRY, EUPALINOS OU L’ARCHITECTE Parliamo d’architettura: Eupalinos è presente tra noi. «La cosa più importante», dice Valéry, «è la distinzione tra quello che è veramente l’architettura, che deve rispondere a una regola, a un canone, a una misura, e quello che è soltanto décor de théatre. Per questo tra gli stili del passato preferisco il classico greco-romano … L’architettura deve essere musica, armonia tra le parti; corrispondenza a una misura, appunto come la musica. Le fabbriche degli architetti moderni non m’ispirano mai la voglia di fermarmi un momento per un croquis… Oggi l’architettura è solamente utilitaria, ed è giusto; ma insieme con l’utile si deve anche soddisfare l’occhio. Si è combattuto il vecchio decorativismo, ma non si è creata una decorazione nuova… L’architettura moderna manca d’adattamento all’ambiente; un architetto oggi disegna un progetto nel suo studio, senza pensare se la costruzione dovrà essere fatta a Parigi o a Pechino. Le architetture contemporanee si somigliano tanto tra loro in tutti i paesi, e in tutte le scuole, che ad un critico o ad uno storico futuro sarà impossibile distinguere le opere di un artista da quelle di un altro. E lo stesso si può dire per la pittura e per la scultura…». LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 “Mescolamento” e “fermentazione” sono forme di astrazione: astrazione, precisamente, per ibridazione. É proprio l’ibridazione a operare il passaggio decisivo che conduce alla trasfigurazione dell’oggetto, da trama-conchiglia a trama-tetto, da oggetto consueto e familiare a oggetto perturbante, che appare come estraneo e non più assimilabile al modo tradizionale e consueto di vederlo. La permanenza, inerte e silenziosa, per cinque anni del guscio di granchio sulla scrivania dell’architetto esprime e simboleggia un pensiero latente, che preesiste al pensare, un pensiero selvatico e randagio in cerca di un pensatore che lo pensi, dell’occasione giusta perché il pensatore riesca a coglierlo e a pensarlo. OGGETTI A REAZIONE POETICA L’immenso patrimonio di schizzi, di disegni di progetto, di studi e taccuini di viaggio che Le Corbusier ci ha lasciato è prezioso per farci capire come avvenga, concretamente, il processo di ibridazione sulla base della rappresentazione di oggetti definiti “a reazione poetica” e per darci un’idea concreta dello sviluppo del progetto, in tutte le sue fasi, da quella prettamente concettuale, a quella più pratica, riferita alla realizzazione. Secondo Le Corbusier “a reazione poetica” sono quegli oggetti caratterizzati da una forte carica espressiva (oggetti naturali, come conchiglie, frammenti di cortecce, radici, legni spiaggiati che il mare ha levigato e decolorato sino a ridurli a scheletri inariditi, ma anche rottami carichi di storia e parti meccaniche ricche di potenziale estetico e immaginativo ecc.). Li fotografava, li disegnava più volte per svelarne la bellezza della forma, la precisione del lavoro della natura o dell’uomo e spesso ne riprendeva la struttura nelle sue opere architettoniche. Oggetti trovati per caso, scarti, rottami carichi di storia che fanno risuonare qualcosa dentro di noi: questi sono gli oggetti a reazione poetica. Questi oggetti diventavano poi elementi architettonici introdotti nelle sue case. OGGETTI A REAZIONE POETICA GENERATI Anche gli oggetti della produzione industriale sono il risultato di un processo di selezione naturale formale che ha origine dalle leggi della natura. La selezione macchinista della produzione standardizzata con le sue contingenze tecniche, legate alla produzione in serie, detiene, consapevolmente e inconsapevolmente, le leggi estetiche di economia, funzionalità, ergonomia, coerenza forma-struttura che la natura detiene spontaneamente. OGGETTI A REAZIONE POETICA GENERATI “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei VOLUMI nella luce”, e la luce rivela le forme primitive, le più belle, quelle che hanno costruito le architetture dei tempi più antichi, quelle che i nostri occhi riconoscono e misurano: la sfera, il cubo, la piramide, il cilindro, il prisma, il cono; che assemblati fra loro generano “oggetti a reazione poetica”. Al concetto di volume si associa quello di SUPERFICIE, che l’avvolge e modifica; e infine, la PIANTA, sintesi di tutto, elemento generatore, senza cui ci sarebbe arbitrio e disordine. L’architettura deve riscoprire la semplicità originaria e l’armonia delle forme ma non ci si accorge che questa armonia è davanti agli occhi dell’uomo, “occhi che non vedono”, nelle grandi opere di ingegneria, che escono dal laboratorio o dalla fabbrica: le automobili, gli aeroplani, i piroscafi. LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 Il caso del percorso seguito per portare a compimento questo suo capolavoro può essere considerato esemplare in quanto Le Corbusier in questi testi ci prende per mano e ci accompagna nel percorso ideativo e realizzativo. Si parte dagli schizzi preparatori, riguardo ai quali egli afferma: “Si comincia con una risposta al sito. Le mura spesse, un guscio di granchio a conferire curva ad una pianta statica. V’inserisco il guscio di granchio: poggerò il guscio sulle mura volgarmente spesse, ma utilmente; da Sud entrerà la luce. Non ci saranno finestre, la luce entrerà ovunque, come uno sfavillio!” Il guscio gli suggerisce una forma organica nuova che caratterizza la struttura di copertura: un volume cavo all’interno, composto da due membrane, separate l’una dall’altra da una serie di travi reticolari. LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 Nei disegni successivi, uno in assonometria e gli altri in sezione, ma anche in pianta, viene analizzata nel dettaglio questa struttura reticolare, caratterizzata da una maglia composta da un’orditura principale di travi metalliche, a sezione curvilinea, disposte in parallelo e poggiate su pilastri singoli, nascosti nello spessore delle murature, e una secondaria, di collegamento. LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 A questa serie di schizzi a mano libera, piuttosto concettuali, segue un disegno a riga e squadra molto importante: rappresentato secondo il metodo della doppia proiezione ortogonale, mette insieme il disegno della sezione, realizzato lungo l’asse longitudinale, con quello della pianta, dove sono riportate ribaltate le travi reticolari, in modo da controllare tutti gli elementi nelle loro effettive dimensioni e forme. La costruzione geometrica descrive con esattezza la forma della copertura, che può essere definita come una superficie rigata, realizzata attraverso una doppia membrana in calcestruzzo, dello spessore di pochi cm., i cui elementi principali di sostegno sono costituiti dalle travi reticolari dell’altezza massima di 2,20 mt. LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 Nei successivi disegni, Le Corbusier definisce l’aspetto esteriore dell’edificio: sul lato Est, la facciata si sviluppa secondo due pareti curvilinee che si contrappongono, traforate sul lato Sud da finestre di varia grandezza e forma, sulla cui sommità si erge l’ampio volume della copertura, anch’essa curvilinea; sul lato sinistro è collocato uno dei campanili semicilindrici. Nel prospetto Nord-Ovest la facciata è caratterizzata dalla forma continua che si raccorda con la copertura e dall’elemento del gocciolatoio che riversa l’acqua in un recipiente, pieno di oggetti volumetrici semplici. LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 Il disegno della pianta, realizzato a riga e squadra, detta le indicazioni precise riguardo la collocazione delle pareti e dei pilastri di sostegno della copertura, delle pavimentazioni, nonché arredi. LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP ED. COOPI, GINEVRA 1981 Il disegno assonometrico, attraverso uno spaccato, mette in evidenza le pareti che, nel loro andamento curvilineo, racchiudono due cappelle raccolte, distinte dalla sala liturgica; la parete a sud, vista dall’interno, rivela la superficie traforata da bacature di varia forma e grandezza. LE CORBUSIER: LA MIA ESPERIENZA PROGETTUALE “Io mi metto in trance, nessuno se ne accorge ma è così”. Présence du dénommé Abstrait, nota manoscritta del 1955, ora in A. Wogenscky, Le mani di Le Corbusier, Roma, 2004, p. 124. Parlando della sua modalità operativa Le Corbusier racconta di come –affidatogli un progetto – non vi lavorasse per mesi, fintanto che un giorno mediante “un’iniziativa spontanea dell’essere intimo, si produce lo scatto”. E aggiunge che non è necessario disegnare, “ma vedere dapprima il progetto nel proprio cervello”, giacché “è impossibile disporre i pezzi per chi non ha in testa una forma globale” (Ibidem, p. 59). LE CORBUSIER: LA MIA ESPERIENZA PROGETTUALE “Quando nasce l’idea (in gergo l’ispirazione)? Prima o mentre l’artista tiene la matita in mano? Dipende dagli individui, dalle circostanze, da diverse condizioni, dal lavoro, dalla natura della mente umana e anche dal comportamento. (…) Non ci sono regole per l’arte: c’è il successo o il fallimento, essendo l’opera d’arte il risultato di una incredibile, inconcepibile, inenarrabile battaglia interiore. La matematica è solo uno degli elementi costituenti, così come il colore, i valori, il disegno, lo spazio; così come l’equilibrio, l’instabilità, la collera o la serenità. (…) Ci sono cose che non riguardano tutti, per fortuna! Invece sembra proprio che l’armonia sia desiderata da tutti. E la parola indica qui solo una parte, le persone oneste. (…) Per concludere mi restano da sistemare due fatti che possono essere veramente essere l’espressione di due scuole di pensiero: la riga e il compasso”. Le Corbusier, Il Modulo II, Milano 1974, pp. 215-216. LE CORBUSIER: LA MIA ESPERIENZA PROGETTUALE “Ho 77 anni e la mia morale si può riassumere così: nella vita è necessario agire! E con questo intendo agire con la modestia, con l’exactitude, con la precisione. La sola atmosfera possibile per la creazione artistica è la regolarità, la continuità, la perseveranza. Ho già scritto altrove che la costanza è una definizione della vita, poiché la costanza è naturale e produttiva. Per essere costanti bisogna essere modesti, bisogna essere perseveranti. È un segno di coraggio, di forza interiore, una proprietà della natura dell’essere”. Le Corbusier, Rien n’est transmissible que la pensée, in Oeuvre compléte, vol. 8, Zurigo 1970, p. 173. L’ESPERIENZA PROGETTUALE: PRIME CONSIDERAZIONI La vastissima maggioranza dei processi che vanno avanti nel nostro cervello non sono coscienti, ma procedono parallelamente, gli uni accanto agli altri, in maniera non esplicitabile o, se più ci piace, subsimbolica e pre-verbale. Solo alcuni di essi possono temporaneamente emergere nella coscienza. Da questo punto di vista si può assimilare ogni atto di coscienza a una specie di clessidra. Un complesso di eventi nervosi paralleli viene costretto per un breve istante a serializzarsi, per dar luogo a una presa di coscienza e all’eventuale progettazione di un’azione, ma subito dopo riguadagna il suo andamento parallelo necessario per il compimento dell’azione stessa, che richiede l’attivazione concertata di un certo numero di muscoli, che dev’essere a sua volta controllata in tempo reale attraverso un continuo flusso di percezioni che servono a monitorarne l’esecuzione. Il momento della coscienza corrisponderebbe quindi alla strozzatura della clessidra. Prima tutto è parallelo. Dopo, tutto ritorna parallelo. La contemplazione cosciente corrisponde al breve istante della serialità. L’ESPERIENZA PROGETTUALE: PRIME CONSIDERAZIONI Quanto dura questo istante? Secondo i casi, ha una durata compresa tra i 250-300 millisecondi e una ventina di secondi, con una media di 2-5 secondi. Un gran numero di esperimenti indicano che 250-300 millisecondi sono necessari perché un qualsiasi stimoli, interno o esterno, giunga alla coscienza e possa venire “interpretato”. Un episodio di coscienza non può quindi durare di meno. Ma non può nemmeno durare più di quanto possa essere sopportato dalla nostra memoria di lavoro, la cui estensione varia un po’ da persona a persona, ma non supera appunto la ventina di secondi. Questo è il tempo massimo durante il quale possono persistere nella nostra mene sensazioni, pensieri e ricordi che vi si sono affacciati. Si può quindi parlare di presente dinamico come collezione di episodi di coscienza, ciascuno dei quali rappresenta un atomo di tempo interno, una breve finestra temporale dai contorni sfumati. Si tratta di un processo dinamico che forgia sintatticamente e semanticamente la nostra percezione del mondo circostante e delle nostre azioni. L’ESPERIENZA PROGETTUALE: PRIME CONSIDERAZIONI Quella che noi chiamiamo coscienza, o vita interiore, è quindi una collezione di atomi di presente. Ogni atomo di presente inizia, si mantiene per qualche istante e decade, per lasciare spazio mentale a un altro atomo di presente. Noi non abbiamo consapevolezza di questa estrema frammentazione della nostra coscienza. Essa ci appare come un continuo, anzi come un continuo presente. Ciò è dovuto al supremo degli inganni orditi alle nostre spalle dalla corteccia cerebrale, la quale ci fornisce una visione sempre ‘ragionevole’, unitaria e continua, dei contenuti della nostra vita mentale interiore”. In realtà, però, quest’ultima è il risultato di una costruzione, di uno sforzo di tenere insieme, in un insieme il più possibile coeso e armonico, che proprio per questo assume i tratti di una continuità, un coacervo spezzettato di istanti differenti. Vista da questa prospettiva la coscienza è il frutto dell’accordo, della consonanza, del concerto fra componenti a se stanti, cioè di un continuo lavorìo di armonizzazione di questi ultimi e di disposizione all’interno di un mosaico che appaia il più possibile unitario e coeso. E l’attività di un buon psicologo, come di un buon insegnante, consiste, in buona parte, proprio nella capacità di accompagnare, sostenere, potenziare questo processo, dotando coloro che sono da essi seguiti e sostenuti nei loro sforzi di crescita e di maturazione degli strumenti più idonei a portarlo a compimento con successo. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA È interessante notare che la descrizione dello sviluppo del progetto proposta da Le Corbusier è in totale sintonia con il modo in cui Pauli, premio Nobel per la fisica del 1945, in un suo articolo dal titolo Teoria ed esperimento, (in ID.: Fisica e conoscenza, Boringhieri, Torino 1964, pp. 105-10). imposta, sulla base del prolungato scambio dialogico con Jung, la questione cruciale del rapporto tra osservazione e teoria, tra dati sperimentali e formulazione delle leggi scientifiche, operando un convincente raccordo tra questi due livelli. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA “Nel caso della situazione della conoscenza si tratta del rapporto tra il conoscibile e il conosciuto. Il punto di vista puramente empirico, che vuol far risalire ogni ‘spiegazione (Erklärung)’ a una ‘descrizione (Beschreibung)’ (anche se generale e concettuale) non prende in considerazione il fatto che ogni enunciazione di un concetto o di un sistema di concetti (e con ciò anche quella di una legge naturale) è una realtà psichica d’importanza decisiva. (Nella lingua tedesca ciò è espresso nella parola Erklärung = chiarimento, spiegazione, in quanto a qualcuno “diventa chiaro” qualcosa; sfumatura questa, che manca nella parola Beschreibun = descrizione). Per questa ragione, in accordo con la filosofia di Platone, vorrei proporre d’interpretare il processo della comprensione della natura (nonché la soddisfazione che l’uomo prova quando capisce, cioè quando diviene cosciente di una nuova conoscenza) come una corrispondenza, cioè come una sovrapposizione d’immagini interiori preesistenti nella psiche umana con gli oggetti esterni e il loro comportamento”. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA Ecco affacciarsi il problema dell’articolazione del processo conoscitivo in livelli differenti che deve indurre a prendere in considerazione non solo la presenza e l’incidenza della coscienza e del pensiero critico, ma anche di una base istintiva, costituita da “metafore del profondo, da tutto ciò che abbiamo incamerato e incorporato senza rendercene conto e che orienta e guida in modo inconsapevole le nostre scelte e i nostri ragionamenti. A volte si tratta di convinzioni ereditate dalla tradizione culturale nella quale siamo cresciuti: altre volte di tutto ciò che abbiamo incorporato dopo la costruzione delle teorie e che ci mette in condizione di avere reazioni immediate molto più profonde, sottili e articolate di quelle che avevamo in precedenza, in quanto sono il risultato di una consapevolezza che viene incamerata e che ci dà la possibilità di capire infinitamente meglio le difficoltà nelle quali il linguaggio comune e la logica si erano imbattute senza saperle districare. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA La presenza di questi due livelli dell’elaborazione teorica e di qualcosa che riesca a fare concretamente da raccordo e da ponte tra di essi, evitando che rimangano staccati e irrelati, è secondo Pauli cruciale per affrontare e risolvere in modo convincente la questione del passaggio dalle percezioni sensoriali ai concetti, superando e lasciandosi alle spalle la convinzione che le leggi della natura possano essere ricavate dal solo materiale dell’esperienza: “Tutti i pensatori ragionevoli hanno concluso che un tale collegamento non può essere effettuato tramite la pura logica. Sembra di gran lunga più soddisfacente postulare a questo punto l’esistenza di un ordine cosmico indipendente dal nostro arbitrio e distinto dal mondo dei fenomeni. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA Che si parli di ‘partecipazione delle cose di natura alle idee’ o di ‘proprietà delle entità metafisiche – ossia, reali in sé’, il rapporto fra percezione sensoriale e idea rimane conseguenza del fatto che tanto la mente di chi percepisce quanto ciò che viene riconosciuto mediante la percezione sono soggetti a un ordine pensato come oggettivo. Ogni riconoscimento parziale di un tale ordine naturale conduce alla formulazione di tesi che da un lato attengono al mondo dei fenomeni, dall’altro lo trascendono in quanto utilizzano, ‘idealizzando’, concetti logici universali. Il processo di comprensione della natura, come pure l’intensa felicità che l’essere umano prova nel capire, ossia nel prendere coscienza di una nuova verità, sembra basarsi su una corrispondenza, sulla concordanza tra le immagini interne preesistenti nella psiche umana e gli oggetti del mondo esterno con le loro proprietà”. W. Pauli, L’influsso delle immagini archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero, in Id. Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, p. 60. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA È proprio per mostrare la fecondità di questo approccio alla questione della scoperta scientifica, radicalmente alternativo rispetto a quello corrente, che Pauli affronta il caso di Keplero che, a suo giudizio, si presta in modo ottimale a esemplificare l’incidenza che, all’origine e nello sviluppo della scienza moderna, ebbero immagini simboliche e religiose che hanno radici in un livello del tutto inconscio e che rimangono inizialmente intrecciate al nascente “spirito scientifico”. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA Nell’opera di questo grande scienziato, infatti, “l’immagine simbolica precede la formulazione cosciente di una legge di natura”: a spingerlo alla ricerca delle leggi naturali e ad aiutarlo nella corretta formulazione di queste ultime sono immagini originarie, che la mente percepirebbe grazie a un ‘istinto innato’ e che ‘vengono da lui chiamate ‘archetipiche’”. Si tratta di immagini come quella di Dio in quanto sfera infinita, che risale storicamente al medioevale Liber XXIV Philosophorum, del XII secolo, e che ha comunque delle precedenti versioni filosofiche e antiche nel mondo greco, come pure mitiche e arcaiche, quella del cerchio, il numero tre, legato alla Trinità, “attorno alle quali storicamente e ‘preistoricamente’, sin dall’’infanzia’ dell’umanità, e invariantemente rispetto a differenti etnie e civiltà, si sono costellate una serie di idee e rappresentazioni che le hanno avute come ‘nuclei ordinatori’”. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA Un modello radicato nel profondo e assorbito senza il vaglio del pensiero critico impediva infatti a Keplero di pensare il movimento dei pianeti secondo orbite diverse da quella circolare. Lo attesta lui stesso ricordando, nella sua Astronomia nova, come il suo percorso di ricerca fosse stato a lungo frenato dalla tendenza a cadere in sempre nuovi labirinti in seguito alla forza trascinante di quello che egli chiamò poi “un ladro del mio tempo”, e cioè la credenza, appoggiata dall’autorità di molti filosofi, nei privilegi della circolarità, che lo spinse per molto tempo a condividere la convinzione di Brahe secondo la quale i pianeti si muovono in cerchi perfetti. Questa credenza “funziona tra le cose come un selettore la cui carica di verità è fuori discussione. Essa guida Keplero nel labirinto e Galilei nei territori piani e illuminati. Essa sembra destinata a sopravvivere per l’eternità”- IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA L’azione di questo “sottosuolo” ostacola il libero dispiegarsi delle strategie razionali, che vengono imprigionate e costrette in una sorta di “camicia di forza”, di “letto di Procuste”: per liberarsene, sottolinea Pauli, egli dovette rimuovere i contenuti inconsci e gli automatismi che fungevano da ostacolo al corretto inquadramento del problema di fronte al quale si trovava e alla soluzione da reperire. Ad aiutarlo in questa operazione di rimozione fu il fatto di aver notato che passando per determinati punti, da lui accuratamente registrati, l’orbita di Marte non poteva in alcun caso descrivere un cerchio. Così provò a scartare il cerchio per l’ellisse, e i calcoli confermarono la nuova ipotesi. Keplero inventò la soluzione trasportato la figura dell’ellisse dal campo geometrico e astratto delle coniche allo spazio concreto dell’astronomia, e dunque introducendo nel sistema astronomico un nuovo oggetto, il quale lo portò a ristrutturare quel sistema stesso. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA L’atto inventivo di Keplero fu quello di pensare al di là del campo delle conoscenze disponibili, vincendo la resistenza delle concezioni radicate (il cerchio come unica possibilità) e ridefinendo così il corpus delle leggi applicabili. E tuttavia questo “ladro del suo tempo” non ebbe soltanto quella funzione negativa che egli in seguito gli attribuì, dal momento che ha avuto comunque il merito di fungere da selettore che, collocato all’inizio dei calcoli, è risultato “fondamentale affinché quei calcoli possano avere inizio”. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA Pauli evidenzia dunque come, alla fine del XVI secolo e nella prima metà del XVII si abbia un complesso rapporto tra magia e tradizione alchimistica, da una parte, e spirito scientifico, dall’altra, che è insieme di mescolanza e intreccio e di contrapposizione e distinzione: in questa temperie intellettuale Keplero si presenta come un pensatore che per un verso reagisce all’universo misterico, con la sua forte carica di immagini qualitative e simboliche, in quanto assertore e portatore di un modo di pensare allora del tutto nuovo, scientifico e quantitativo, basato su un’inedita alleanza tra indagine empirico-induttiva e pensiero logico-matematico: per l’altro e contemporaneamente mostra di avere, verso quella tradizione, un debito molto profondo. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA “Il suo punto di vista non è, infatti, puramente empirico, ma contiene elementi essenzialmente speculativi, come l’idea che il mondo fisico sia la realizzazione di immagini archetipiche preesistenti”. Si viene così a realizzare una forte integrazione tra le due componenti, nell’ambito della quale il pensiero causale della scienza naturale prende avvio da “immagini dal forte contenuto emozionale, che non sono pensate, ma piuttosto intuite con immaginazione quasi pittorica». In quanto «espressione di uno stato di cose vagamente intuito ma ancora sconosciuto”, queste immagini “possono anche venire definite simboliche, secondo la definizione di simbolo proposta da Jung. In qualità di principi ordinatori e formativi di immagini in questo mondo di immagini simboliche, gli archetipi svolgono appunto la funzione di quel ponte da noi cercato tra percezioni sensoriali e idee e sono dunque una precondizione necessaria anche per la formazione di una teoria scientifica della natura”. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA Il riferimento all’inconscio collettivo e al patrimonio psichico di cui esso è depositario può metterci in condizione di capire e spiegare come spesso si arrivi alla genesi di un’ipotesi scientifica a partire da un primo stadio, contrassegnato dall’egemonia di un contenuto inconscio che non risulta né definibile, né razionalmente descrivibile, attraverso la formazione, come fase intermedia, di idee archetipiche che sono una ben definita rielaborazione di quello stato profondo della psiche. È proprio grazie a questa mediazione che quest’ultimo può cominciare a emergere a livello della coscienza: questo esito si deve anche al fatto che le idee archetipiche, a differenza degli archetipi propriamente detti, sono definibili e razionalmente descrivibili e proprio per questo soggette a correzioni, come infatti mostrò di poter fare Keplero, la cui ricerca “inizialmente si muove nella direzione sbagliata e sarà in seguito rettificata grazie ai risultati effettivi delle misurazioni”. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA A conclusione di questa sua analisi Pauli chiama in causa ancora una volta Jung rilevando come sia «interessante che la parola archetipo, che Keplero per esempio adopera per le immagini preesistenti (platoniche), venga ora usata da C. G. Jung anche per fattori ordinatori non intuitivi, i quali si manifestano sia psichicamente che fisicamente». Pauli mostra quindi di aver ben compreso e di condividere l’impianto complessivo della ricerca di Jung, sintetizzato, per quanto riguarda la sua applicazione al rapporto tra idee archetipiche e archetipi, e tra la dimensione fisica e quella psichica, da Morgan: “Se riusciamo a resistere alla tentazione di reificare le situazioni potenziali, di attribuire agli archetipi la responsabilità degli eventi, sia materiali che psichici e cominciamo a considerarli semplicemente come degli organizzatori della realtà, allora possiamo giungere a una più profonda comprensione della relazione orizzontale tra fenomeni psichici e fisici, nonché tra inconscio collettivo e coscienza. … Analizzando il concetto di sincronicità, Jung ha sottolineato la natura acausale della relazione tra stati psichici interni ed eventi esterni, evidente nei casi in cui gli eventi non sono sperimentati come pure coincidenze. Non intendeva con questo affermare che gli eventi interni causassero quelli esterni, o viceversa; riteneva piuttosto che gli eventi venissero sperimentati in maniera diversa a seconda del significato attribuito loro dalla coscienza”. 4 LA CATEGORIA DI PAESAGGIO: SPAZIO FISICO ESTERNO “FILTRATO” ATTRAVERSO L’UNIVERSO INTERIORE 138 IL CODICE URBANI Il Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002 n. 37” (meglio conosciuto come “Codice Urbani”) all’art. 131 definisce il paesaggio come “il territorio espressivo d’identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”. Viene così sancito che uno degli elementi costitutivi fondamentali e imprescindibili della categoria di “paesaggio” è il riferimento, oltre che alle caratteristiche ambientali, all’identità dei soggetti collettivi che lo abitano. Il protagonismo e il ruolo prioritario attribuito a questi ultimi si traduce in una differente interpretazione del territorio, la cui natura non è più definita riferendosi in via esclusiva o comunque prioritaria a specificità e a differenze oggettive, ma fa piuttosto perno sulle qualità soggettive che scaturiscono dalla relazione con attori geograficamente, storicamente e culturalmente definiti. IL CODICE URBANI Ne consegue che i processi di trasformazione territoriale sono il risultato dell’azione collettiva, della capacità locale di “contestualizzare” dinamiche economiche, sociali e politiche globali, ”ritagliandole” in conformità alle modalità di razionalità e di organizzazione proprie e mediandole con esse. Viene così esplicitamente affermato che il paesaggio è una categoria appartenente allo spazio intermedio tra oggettivo e soggettivo, in quanto risultato di un continuo passaggio dei segnali e degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno attraverso il filtro costituito dall’universo interiore del sistema osservante, nel nostro caso del sistema sociale che esprime, appunto, l’idea di paesaggio e si pone in relazione con esso. Da questo processo scaturisce quella continua ricomposizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, che alimenta e integra l’informazione ricevuta, arricchendola, e le conferisce una specifica impronta legata all’ identità e alla memoria del sistema osservante medesimo. IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE A conferma di questa idea di spazio intermedio c'è da chiedersi che paesaggio avesse davanti agli occhi se per tutta la vita dipinse la piana di Romanshorn, il piccolo villaggio che sul lago di Costanza, con campi ordinati, filari di pioppi, il nastro argenteo delle acque, sembra una premonizione di Gualtieri, se non tradissero l'illusione i monti incombenti come quinte a chiudere la vista e le architetture rustiche così lontane dalle corti padane, senza uso di legno e colori accesi, con mattoni, porte morte e portici con trafori in cotto a filtrare, disegnandola, la luce e l'aria. Un bambino di sesso maschile, registrato come Antonio Costa, nasce il 18 dicembre 1899 alle ore 21 e 40 minuti, a Zurigo, nell'Ospedale delle donne, allora un istituto tra clinica ginecologica, maternità e un luogo dove le ragazze madri andavano a partorire, lontano da occhi indiscreti, anticamera spesso dell'orfanotrofio. Sarà conosciuto come Antonio Ligabue. IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE Bonfiglio Antonio Domenico Laccabue era emigrato da Gualtieri, Reggio Emilia, nel 1894, ed era già in Svizzera nel 1897. Era nato nel 1867 a Pieve Saliceto, frazione di Gualtieri, dal sarto Federico Laccabue e da Genoveffa Mori, cucitrice a Boretto. In Svizzera esercitò per un certo periodo la professione di sarto. l 28 dicembre 1900 il procuratore del re di Belluno invia al comune di Vallada il doppio certificato di pubblicazione di matrimonio tra Bonfiglio Laccabue e Elisabetta Costa. Siamo ad un anno dalla nascita di Antonio. I due si sposarono ad Amriswil, cantone di Turgau. Forse Bonfiglio od entrambi lavoravano alla fabbrica di confezioni per uomini “Esco”, tuttora esistente in zona. Subito dopo le nozze la coppia si trasferì ad Hemmerswil, che oggi fa parte del comune di Amriswil. Ad Amriswil il 10 marzo 1901 Bonfiglio legittimò il piccolo Antonio, dandogli il proprio cognome e rendendolo cittadino di Gualtieri. IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE L'incapacità di adattarsi di Bonfiglio e la docilità della Costa si manifestano ben presto. Lui cambia continuamente lavoro e lei lo segue in una vita errabonda, da nomadi, inseguiti dalla miseria e probabilmente dall'inquietudine di lui che forse già allora sembrava trovare tregua solo con l'alcol. il piccolo Antonio fu adottato da un immigrato tedesco originario dell'Hessen (Assia), che si chiamava Johannes Valentin Göbel. Di religione cattolica faceva il carpentiere. Aveva sposato il 10 settembre 1883 Elise Hanselmann, una svizzera evangelica, che con il matrimonio aveva assunto la cittadinanza tedesca. La coppia era quindi costituita da due persone mature, che non avevano figli e che si presero cura del piccolo italiano, senza però legalizzare quella che possiamo considerare un'adozione di fatto. Anche questo nucleo famigliare, le cui condizioni culturali erano modeste e quelle economiche non certo brillanti, era nomade e cambiava residenza facilmente. Nel 1910 i Göbel sono a Tablat, un comunello del circondario di San Gallo. IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE A Marbach era in contatto con la natura. Gli era stato concesso di allevare animali, viveva in promiscuità con ragazzi e ragazze dai sei, sette anni ai quindici. Dal 18 maggio 1915 al 14 maggio 1917 si trasferisce nel comune di Thal, nella frazione di Staad, per lavorare presso un contadino di Haggenschwil. Abbandonò il lavoro inorridito per aver assistito all'uccisione di una capra. Il 15 maggio 1919 Ligabue fu espulso da Romanshorn e quindi dalla Svizzera. Il 23 maggio partiva da Zurigo ed il 2 giugno era portato a Chiasso e consegnato alla questura di Como. Il pittore non sapeva una parola d'italiano. Forse era anche impaurito ed incapace di comprendere ciò che gli accadeva intorno, deluso ed addolorato per ciò che era avvenuto. Di fronte alla lentezza burocratica il 2 luglio il prefetto di Como decide di affidare il giovane ai carabinieri, affinché sia “con l'ordinaria corrispondenza tradotto e consegnato” al sindaco di Gualtieri, di cui era formalmente cittadino, in seguito al riconoscimento di Bonfiglio Laccabue. IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE Gualtieri, nella bassa reggiana, era un centro prevalentemente contadino. Pochi i proprietari terrieri. La maggiore tenuta era quella dei conti Greppi, nobile famiglia di Milano, molti i giornalieri, che lavoravano pochi giorni all'anno. La solidarietà socialista fa sì che nel 1890 sorgono due cooperative, la principale a Santa Vittoria, una frazione con un proprio forte senso di autonomia con 322 braccianti che si associano. Nel 1900 sempre a Santa Vittoria i giornalieri fondano, primi a livello provinciale, una cooperativa che gestisce diversi fondi. La cooperativa braccianti, muratori, birocciai e affini fu cosa diversa e separata dalla anonima cooperativa agricola di Santa Vittoria fondata nel 1911, che acquistò la tenuta ed il palazzo Greppi, nel 1912. A Gualtieri nel 1890 invece sorse una cooperativa con 191 aderenti. «ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO A proposito del tempo dobbiamo ricordare l’idea di Kό, del tempo come esigenza e capacità di cogliere al volo le opportunità che si presentano sulla scena e che sfumano rapidamente, se non le si sa afferrare. Si tratta dunque di un concetto di tempo che presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si possano verificare l’innovazione e la trasformazione. I termini implicati nella relazione devono a tal scopo risultare non troppo vicini, affinché il pensiero e l’azione non siano travolti dal corso degli eventi, dall’effettualità che giunge a maturazione e si compie, ma neppure troppo lontani, per evitare che essi finiscano col perdere il contatto con il “potenziale della situazione”, per non uscire dal campo delle possibilità che si offrono e rischiare così di non essere pronti ad afferrarle al volo. «ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO Posidippo definisce Kό “pandamator”, ossia colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca. Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua di Lisippo, che traduceva in termini iconografici efficaci l’idea del momento debito che deve essere colto non appena ci si presenti di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nell’iconografia lisippea, si traduce nel Kό privo dell’appiglio della chioma. Nell’Etica Nicomachea (1096a 27) Kό è la declinazione del bene del tempo proprio perché “l’agire deve allora riferirsi al Kό al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione”). «ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO Parlare di “tempo opportuno e debito” significa, riferirsi allo sforzo e all’obiettivo di trarre vantaggio dalle circostanze, dalle occasioni: questa espressione sta cioè a indicare la pazienza di aspettare che la situazione evolva per cogliere al volo gli sviluppi favorevoli, la capacità di trovare tutte le opportunità che possono presentarsi nelle circostanze così come si sviluppano allo scopo di trarne vantaggio. Il termine “Kό esprime quindi una nozione di tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di compiutezza e di pienezza. Esso indica il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto – soprattutto in campo etico – dalla misura. «ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO Ma c’è una possibile derivazione etimologica alternativa di questa idea di tempo che ne fa emergere, con efficacia ancora maggiore, i tratti distintivi. Si tratta dell’idea di tempo come î, un termine dell’arte della tessitura. Tessere, tempo e fato erano idee spesso collegate. Un’apertura nella trama del fato può significare un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più compatto o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre il varco è aperto. «ESSERE È TESSERE» Non è certo un caso che la bellissima e sintetica espressione «Essere è tessere», adottata da Maria Lai per il suo progetto artistico di Aggius, sia stata scelta dalla Collezione Canclini come titolo della mostra "ESSERE È TESSERE. 100 fili d'artista” che è stata in esposizione nella sede della Fondazione Stelline di Milano dal 17 dicembre 2015 al 14 febbraio 2016. La mostra ha presentato opere di arte moderna e contemporanea, appositamente selezionate dall'ampia e raffinata Collezione dell’azienda Canclini di Guanzate (Co), che dal 1925 produce principalmente tessuti di lusso che nel tempo sono stati utilizzati da Dior, Zegna, Prada, Aquascutum. Sono stati proposti grandi artisti – da Arman ad Alighiero Boetti, da Chiristian Boltansky e Daniel Buren a Christo and Jean Claude, da Mario Della Vedova e Dorazio a Jannis Kounellis e Kimsooja, fino a Andy Warhol e alla stessa Maria Lai - in un viaggio suggestivo lungo l'evoluzione dell'arte tessile dall'antichità ai nostri giorni. «ESSERE È TESSERE» In mostra sono state anche opere antiche, in una sezione di approfondimento su episodi della storia del tessuto antico, precolombiano, afgano, asiatico o africano, insieme a documentazione d'archivio, esemplari rari di campioni d'epoca, oggetti e strumenti di lavoro divenuti icone di un mestiere arcaico, ancora oggi fonte d'ispirazioni per opere di grande fascino. Il percorso espositivo presentava anche due interventi site specific affidati a due giovani artisti in grado di interpretare alcuni oggetti d'epoca della Collezione, come la sequenza straordinaria dei bauli di Luis Vuitton o la raccolta preziosa di forbici da sartoria, in un nuovo e inedito dialogo fra antichità e arte contemporanea. Nella Collezione Canclini sono conservati, inoltre, molte opere realizzate su commissione, spesso nate dall'utilizzo di materiali forniti dall'azienda Canclini o ispirati al mondo della tessitura, come l’opera di Jannis Kounellis scelta come immagine guida della mostra. 5 LA NEGAZIONE DELLA RAPPRESENTAZIONE E DELLA SEMANTICA 182 Il “quadrato nero”, realizzato tra il 1914 e il 1915 rappresenta la sua prima opera suprematista. In una lettera indirizzata al compositore Matiušin, Malevič afferma: "Questo disegno avrà un’importanza enorme per la pittura. Rappresenta un quadrato nero, l'embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente. E' il progenitore del cubo e della sfera, e la sua dissociazione apporterà un contributo culturale fondamentale alla pittura…." “Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto”, spiega Kandinsky. Ecco, il bianco come assenza di suono. Come luogo della purezza, luogo del niente o luogo dell’invisibile… In “Quadrato bianco su fondo bianco” i limiti della figura geometrica sono appena percettibili e si distinguono solo attraverso la linea sottile del perimetro. Malevič arriva al culmine espressivo. LA SIMMETRIA ASSOLUTA Va a questo proposito ricordato che una simmetria assoluta, quale quella che si costituisce in seguito a un fondo del tutto omogeneo, nel quale viene fatta evaporare ogni distinzione, è il dominio dell’identico, del non percepibile, in quanto una simmetria è sempre ricostruita (e percepita) a partire dalla percezione di un’asimmetria. Ciò significa che non solo per rappresentare, ma anche per percepire è necessaria una rottura della simmetria assoluta, altrimenti non ci sarebbe niente di diverso, e quindi di definito. In qualunque tipo di metodologia, artistica o scientifica, i problemi di rappresentazione e riconoscimento sono fondamentali, in quanto forniscono il linguaggio simbolico e corrispondono all'operazione logica "uguaglianza/differenza". Una simmetria assoluta è la proiezione metaforica della totalità di un universo infinitamente esteso e assolutamente omogeneo, in cui sono potenzialmente contenuti tutti i significati possibili, e non è possibile farne emergere concretamente uno. UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE Con l’operazione di Malevič, pertanto, il piano della tela diventa contemporaneamente e indifferentemente Spazio e Oggetto, o SpazioOggetto o Oggetto-Spazio, e mai l’uno e l’altro come distinti che interagiscono. L’opera che ne risulta non è in grado di prefigurare un “altro” al quale riferirsi e con il quale ricongiungersi: eccoci dunque costretti a navigare in uno spazio nel quale l’oggetto è scomparso e dove, proprio nel punto in cui, presumibilmente, si è inabissato, si allarga una chiazza, un alone scuro che va gradatamente annullandosi nel bianco immacolato e indifferenziato della superficie. Da questo “gesto” del suprematismo nasce una concezione della pittura, e dell’arte in generale, radicalmente alternativa a quella tradizionale, espressa in modo esplicito dal filosofo di origini russe, ma naturalizzato francese, Alexandre Kojève, nipote di Wassily Kandinskij, in un saggio del 1936 dal titolo I dipinti concreti di Kandinsky, letto e approvato dallo stesso pittore (le sue annotazioni a margine sono riportate in nota nel testo) che peraltro ne era stato diretto committente. UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE In questo suo lavoro Kojève traccia uno schema dell'arte nelle sue varie specie, collocando i “dipinti non rappresentativi” di Kandinsky come secondo genere della pittura, totalmente altro rispetto a quello usuale. Quest’ultimo è rappresentativo, caratterizzato da astrattezza e soggettività: astratto in quanto il Bello viene “estratto” dal reale, in tutte le sue molteplici manifestazioni; soggettivo perché quest’operazione richiede la partecipazione attiva dell’artista, l’elaborazione delle sue impressioni, dei suoi stili percettivi, delle sue emozioni e dei suoi sentimenti. Kandinskij, al contrario, propone immagini "totali e assolute" che sono sia oggettive, perché non implicano un intervento né dell'artista né dell'osservatore, sia concrete, in quanto mondi completi e reali esistenti di per sé, autosufficienti e autoreferenziali. Ecco che la tela acquista, pertanto, una sua autonomia completa rispetto a qualsivoglia operazione di riferimento, che presuppone un necessario legame con un mondo diverso rispetto all’universo artistico in sé considerato. UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE Secondo Kojéve, dunque, l’arte di suo zio non è astratta, come generalmente si pensa, ma concreta. Basandosi sul presupposto che “l’oggetto nuoceva” ai suoi quadri , e che le forme e i colori non avevano bisogno di un contenuto per esprimere la loro bellezza, Kandinskij aprì un nuovo orizzonte, basato sulla possibilità di non rappresentare nulla e di dipingere, appunto, solo forme, !inee e colori, cioè non la bellezza del mondo, o di un universo di esperienze comunque definito, ma la bellezza allo stato puro. Cambia così radicalmente il significato della pittura: da quella rappresentativa tradizionale, impegnata ad “astrarre” dal mondo degli oggetti i motivi che raffigura, si passa a una forma d’arte che non “astrae” nulla dal mondo bensì crea, di suo, forme belle del tutto indipendenti da quelle esistenti nella realtà esterna. UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE Questa concezione generale, basata sull’idea di fondo che il bello non si copia, non si “estrae”, non si assimila per somiglianza o analogia, ma si crea ex novo, svincola totalmente l’arte dalla semantica, in quanto i quadri che ne risultano non sono “pitture di oggetti’, comunque intesi, ma “oggetti dipinti”, che hanno la stessa dignità e lo stesso significato degli oggetti del mondo reale, e che si collocano accanto a essi con una loro specifica modalità di presenza ontologica. Paradigmatico, in proposito, è celebre caso del Cerchio-Triangolo. Come sottolinea Kojève “il Cerchio-Triangolo non esiste prima, fuori, indipendentemente dal quadro; è stato creato nel quadro e tramite - o in quanto - quadro. Ed è solo in e per questa creazione del Cerchio-Triangolo che è stato creato il Bello che esso incarna. Anche questo Bello non esisteva prima del quadro e non esiste al di fuori di esso, indipendentemente da esso”. UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE Al fuori del quadro i soggetti di Kandinsky non hanno alcuna qualità; in un certo senso, essi sono persino più perfetti e concreti degli oggetti reali. Come annota lo stesso Kandinsky a margine dello scritto di Kojève, “l’albero reale ha un'infinità di aspetti visivi”, di cui il quadro Albero può raffigurarne soltanto uno: di fatto, “il quadro Albero ci mostra il ‘di fronte’ dell’albero, ma nasconde quello che sta ‘dietro’”. Ciò non accade invece nel caso della pittura di Kandinsky, dove “il Cerchio-Triangolo non è altro che l’aspetto visivo presentato dal quadro Cerchio-Triangolo”. Al contrario dell’albero, che si trova in uno specifico universo (“sul terreno, sotto il cielo, vicino ad altre cose”) e che, nel momento in cui viene raffigurato, deve essere “estrapolato” - e dunque “astratto” - dal suo contesto naturale, il Cerchio-Triangolo non rimanda ad altro (non è un “frammento”), ma è esso stesso “un Universo, completo e chiuso in sé”. Per questo motivo, il Cerchio-Triangolo non è nemmeno un’astrazione: indipendentemente dal suo artefice, esso “è in sé nella sua totalità”. 4 LA PERCEZIONE VISIVA E I CONFINI 194 Il mondo visivo delle specie che possono focalizzare la luce per formare immagini deve essere caratterizzato dalla presenza di figure segregate e ben distinte rispetto allo sfondo. Date le proprietà della luce, ci sono pochi modi per ottenere ciò. Un modo, generalissimo, è di ricavare margini o bordi laddove la stimolazione fisica rileva delle differenze. Il problema naturalmente è che in molte circostanze tali variazioni fisiche possono essere assai poco nette, per non dire indistinte, oppure possono essere presenti solo a tratti (pensate a un animale che si muove nel fitto del fogliame). Ecco allora che per mezzo della selezione naturale sono stati messi a punto dei meccanismi di interpolazione che, usando regole piuttosto semplici basate sulle regolarità statistiche dell’ambiente (similarità di colore, chiarezza e tessitura, continuità di direzione, movimento comune delle parti ecc.) estraggono, a uso e consumo dell’animale che ne ha bisogno, margini anche laddove non ve ne sono- “ VEDIAMO CON GLI OCCHI DELLA MENTE POSSIAMO SPOSTARE IL CONFINE TRA FIGURA E SFONDO, MA NON ELIMINARLO 197 POSSIAMO SPOSTARE IL CONFINE TRA FIGURA E SFONDO, MA NON ELIMINARLO 198 L’IMPOSSIBILITÀ DI VEDERE DUE FIGURE CONTEMPORANEAMENTE 199 IL RIBALTAMENTO TRA LA FIGURA E LO SFONDO 200 QUANDO LA FIGURA TENDE A OSCURARE I DETTAGLI 201 POSSIAMO ALTERARE LA RELAZIONE TRA PRIMO PIANO E SFONDO 202 POSSIAMO ALTERARE LA RELAZIONE TRA PRIMO PIANO E SFONDO 203 CI SONO TRUCCHI PER ALTERARE LE DIMENSIONI 204 CI SONO TRUCCHI PER ALTERARE LE DIMENSIONI 205 POSSIAMO ADDIRITTURA VEDERE L’IMPOSSIBILE IL RIBALTAMENTO TRA LA FIGURA E LO SFONDO 207 6 UDIBILE E VISIBILE LA PAROLA E L’IMMAGINE 208 L’IMMAGINE E LA VOCE “La voix, mais aussi les yeux. Les yeux, la voix”: così Gilles Deleuze nel saggio da lui dedicato al pensiero di Foucault (Foucault, Les Éditions de Minuit, Paris 1986) in cui compare un § intitolato “Les strates ou formations historiques: le visible et l’énonçable (savoir)” da cui è estratto il passo citato (p. 58). Si può credere che si parli di ciò che si vede, che si veda ciò di cui si parla e che le due azioni siano concatenate, dando per scontata la convergenza e la sintonia tra visibile e dicibile soltanto all’interno di una prospettiva rigorosamente empiristica che assuma come presupposto indiscutibile non solo l’esistenza delle cose, come la pipa, ma la possibilità di considerarle e osservarle in sé e per sé, indipendentemente da qualsivoglia mediazione linguistica. L’IMMAGINE E LA VOCE Se manca questo comune riferimento alle cose come mezzi sublinguistici neutrali, che garantiscono la possibilità di traduzione da un codice all’altro e la correttezza di questa traduzione, l’immagine e la voce si scoprono privi di relazione reciproca e irrelati: un visibile, l’immagine della pipa, che non potrà che essere visto e un enunciato, «Ceci n'est pas une pipe», che non potrà che essere detto, l’una senza rapporto con l’altro. È questa la Trahison des images che dà il titolo a questo dipinto a olio su tela del pittore surrealista belga René Magritte, realizzato nel 1928-29. L’IMMAGINE E LA VOCE Quello che Magritte chiama “tradimento delle immagini” è la presa d’atto del fatto che i due piani, quello della vista e quello della parola, vanno separati, disposti parallelamente senza alcuna possibilità di connessione e di interazione: abbiamo così una parola cieca e una visione muta: una parola che si trasforma in phoné, in pura e semplice emissione vocale, e un’immagine che diventa pura visione, e che cessa pertanto di essere espressione esteriore del pensiero e del linguaggio e loro estrinsecazione. Essa acquisisce una totale autonomia in virtù della quale si presenta come immagine in se stessa, puro visibile appunto, che esclude ogni riferimento ad altri codici. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Vale la pena di seguire questo processo che conduce alla regressione dalla parola alla voce come pura emissione fonetica prendendo in esame una delle sue tappe più significative. Si tratta della proposta di Tarski per venire a capo del classico paradosso del mentitore facendo ricorso a un linguaggio esterno (metalinguaggio), di livello superiore rispetto a quello in cui sono espressi gli enunciati in esame (linguaggio oggetto). Tarski dunque ritiene che la verità possa essere raggiunta più facilmente e più adeguatamente sostenuta e motivata attraverso una salita verso l’alto, e quindi valendosi di un sistema di piani paralleli tra loro e compiendo un’ascesa verso livelli superiori del linguaggio e del pensiero, gerarchicamente sovraordinati rispetti a quelli di cui va valutata la condizione rispetto alla nozione di verità. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Questa «mossa», a suo giudizio, consente di venire a capo con successo di un celebre insolubile della storia della filosofia: il paradosso del mentitore, appunto, la cui formulazione si deve a Eubulide, il quale, nel IV secolo a. C., fu famoso in tutta l’antichità per i suoi «argomenti dialettici», nei quali faceva grande uso di una tecnica confutatoria diretta a mostrare le lacune degli dottrine trionfanti di Platone e Aristotele, e specialmente contro i loro presupposti che il linguaggio fosse sempre in grado di tradurre in enunciati scientifici la realtà e che di una proposizione ben formulata fosse sempre possibile stabilire se essa fosse vera o, al contrario, fosse falsa. A quest’ultimo presupposto, in particolare, Eubulide oppose la seguente antinomia: «Un uomo dice: "Io sto mentendo”. Mente o dice il vero?» (Eubulide, 330 a.C.). Questa proposizione, palesemente, è vera se e solo se è falsa e falsa se e solo se è vera. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Nell’approccio di Tarski al problema della verità questo tipo di antinomia viene risolta in quanto si evita, con l'utilizzo di un linguaggio superiore, il meccanismo dell'autoriferimento causa del sorgere della difficoltà. Dislocare la proposizione in questione su due livelli, quello del linguaggio oggetto e quello del metalinguaggio, permette infatti di trasformarla in un’enunciazione del tutto innocua, depurata cioè della difficoltà precedente, e precisamente: “Io dico di me stesso che sto mentendo». Il germe della contraddizione esemplificata nella «antinomia del mentitore» viene così identificato nel fatto che il linguaggio ordinario è «semanticamente chiuso», con la conseguenza di dover contenere anche i nomi delle espressioni e i termini semantici riguardanti le espressioni del linguaggio stesso. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE La riformulazione tarskiana della verità modifica pertanto la concezione adeguazionista nella forma secondo la quale «l'enunciato (detto) /p/ è vero se e solo se p». Questo vuol dire che è possibile attribuire valori di verità soltanto se l'enunciare si svolge in una maniera che lo consenta. Così l'enunciato p sarà vero se, e solo se, si dà (nella realtà esterna) p, ossia se la realtà è come dice p. Resta, comunque, che la verità costituisce una relazione tra un rappresentante e un rappresentato o tra verificante e verificato che in tanto «adeguano» in quanto appartengono a piani diversi tra i quali non c'è interferenza né possibilità d'esser compresi in un unico livello. Il problema che va a questo punto affrontato e risolto è quello di stabilire come debbano esser fatti i due piani affinché la relazione di verità abbia senso e significato. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Nelle teorie tarskiane e post tarskiane il linguaggio è definito come contenente non un semplice insieme ma una successione ordinata di nomi (termini denotanti cose). In questo modo, le cose si adeguano all'intelletto in quanto vengono disposte in ordine (in serie) mediante nomi che le denotano e per poterne parlare è necessario che siano disposte in serie. L'essere delle cose, in altri termini, non consiste solo nel loro essere percepite, ma anche nel modo in cui le cose sono percepite. Così, la proposta, o la concezione tarskiana della verità assume, appunto, il suo aspetto caratteristico in forza del quale un enunciato vero è quello che dice che «lo stato di cose è questo-e-questo e lo stato di cose è proprio questo-e-questo», ad esempio l'enunciato p è vero se, e soltanto se, p; l'enunciato "la neve è bianca" è vero sse la neve è bianca. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Dalle cose dette risulta evidente che il problema della verità in Tarski rimanda alla definizione aristotelica del «vero» e, in modo ancora più preciso, a quella della verità come corrispondenza già stabilita da Tommaso, per il quale, com’è noto, la verità viene definita quale conformità [adaequatio] dell'intelletto e della cosa [intellectus et rei]. La problematicità di posizioni come questa, dal punto di vista logico ed epistemologico, va fatta risalire alla circostanza che esse si basano sulla definizione, ma lasciano nel definiendum un senso residuo che non si trova nel definiens. Infatti, l'intelligibile è nell'intelletto, la cosa-stessa è nella realtà ma il fatto della loro conformità o corrispondenza non appartiene né all'uno né all'altra. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Per capire ancora meglio il senso dell’approccio di Tarski occorre riferirsi alla sua idea che la verità possa essere catturata dal principio di devirgolettamento: «p» è vero se e solo se p, che consiste nella trasformazione di un enunciato citato in una dichiarazione reale che si ha con la disquotation, l’inversione del processo di quotazione o citazione, cioè con l’eliminazione dell’esplicita citazione di un enunciato. Egli non considera il principio di devirgolettamento, noto anche come schema di Tarski o schema T, una teoria in sé adeguata, ma solo una specificazione di cosa dovrebbe comportare ogni definizione adeguata. Il suo sistema mostra come dare una definizione esplicita della verità per tutti gli enunciati di certi linguaggi formali a partire dai referenti dei loro nomi e predicati primitivi. Si tratta della cosiddetta teoria semantica della verità. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Per rendersi conto in maniera ancora più approfondita del perché, a giudizio,di Tarski, il principio del devirgolettamento (disquotation) catturi la verità bisogna partire dal fatto che le occorrenze tra virgolette non sono in generale referenziali, cioè non dicono nulla di ciò a cui si riferiscono. Ad esempio l’asserzione: “Cicerone” contiene otto lettere non dice nulla di Cicerone e non regge al criterio di Frege per la sostitutività dell’identità. Infatti, pur essendo Tullio = Cicerone, per cui tutto ciò che è vero di Cicerone deve essere vero ipso facto di Tullio, sostituendo Tullio a Cicerone nella proposizione virgoletta abbiamo “Tullio” contiene otto lettere, che è un enunciato falso. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Per rendersi conto in maniera ancora più approfondita del perché, a suo giudizio, il principio del devirgolettamento (disquotation) catturi la verità bisogna partire dal fatto che le occorrenze tra virgolette non sono in generale referenziali, cioè non dicono nulla di ciò a cui si riferiscono. Ad esempio l’asserzione: “Cicerone” contiene otto lettere non dice nulla di Cicerone e non regge al criterio di Frege per la sostitutività dell’identità. Infatti, pur essendo Tullio = Cicerone, per cui tutto ciò che è vero di Cicerone deve essere vero ipso facto di Tullio, sostituendo Tullio a Cicerone nella proposizione virgoletta abbiamo “Tullio” contiene otto lettere, che è un enunciato falso. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Dal punto di vista della filosofia della mente l’estensionalismo (legato all’opera di Frege, Russell, Quine e alla filosofia analitica) ha la conseguenza di limitare la teoria del significato agli oggetti esistenti e a proprietà e a relazioni meccanico-materiali descrivibili in un linguaggio esclusivamente estensionale, la cui semantica si pone l’obiettivo di spiegare gli apparenti riferimenti a oggetti che non esistono in modo da eliminarli, oppure di dichiarare false tutte le predicazioni riferite a oggetti di questo tipo. L’ontologia che ne scaturisce si propone di eliminare o di ridurre a caratterizzazioni estensionali di stati neurfisiologici gli atteggiamenti proposizionali e gli stati mentali come “crede che…”, “teme che…”, e simili. È facile mostrare che la citazione è non-estensionale, in quanto non possiamo sostituire liberamente verità a verità e falsità a falsità all’interno di essa senza che ne risenta il valore di verità dell’enunciato più ampio di cui la citazione medesima costituisce una parte, come si evince chiaramente dall’esempio relativo a Cicerone e a Tullio. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Per rimuovere questo inconveniente dobbiamo eliminare le virgolette passando dalla citazione alla compitazione. In tal caso invece di: Eraclito disse «πάντα ῥεῖ» possiamo dire, seguendo Tarski: Eraclito disse pi-alfa-nu-tau-alfa-spazio-ro-epsilon-iota Ciò che abbiamo fatto in questo modo è utilizzare i nomi delle lettere insieme al trattino inteso come segno di concatenazione. Ora, mentre la versione virgolettata esibiva un enunciato (un enunciato greco) inserito in un enunciato più ampio, non così la versione basata sulla compitazione: qui abbiamo appunto la regressione dai significati alla pura emissione vocale, per cui la questione dell’estensionalità non si pone più. LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Questa sostituzione rende chiaro che ci si riferisce a un evento esterno, di fonazione e di scrittura, mediante una descrizione oggettiva della forma scritta osservabile o del suono pronunciato. È una descrizione che non è referenziale, che è tutta interna al linguaggio, alla sua struttura e a i suoi meccanismi, come risulta evidente dalla sostituzione della citazione con la compitazione, per cui questa descrizione è semanticamente vera se e solo se il filosofo greco, vissuto ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C., ha effettivamente sostenuto che «πάντα ῥεῖ». LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE Siamo pertanto di fronte all’ascesa da una situazione di opacità, in questo caso referenziale, a una condizione di trasparenza, che mira a eliminare qualsiasi ambiguità e ogni possibilità di equivoco e di fraintendimento attraverso il passaggio verticale da un livello nel quale compaiono le virgolette, e si ha quindi a che fare con una citazione, che è l’espressione del pensiero, del punto di vista e delle convinzioni di un determinato soggetto, e dunque del suo stato mentale - non-estensionale come si è visto - a uno superiore, nel quale la citazione è sostituita dalla compitazione e le virgolette sono eliminate (disquotation), con conseguente rimozione di qualsiasi riferimento a stati mentali e ad atteggiamenti proposizionali. 7 IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ 226 IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ Nella lettera di Pauli a Jung del 7 Novembre del 1948, il grande fisico e premio Nobel, rivolgendosi a Jung e a un loro scambio avvenuto il giorno prima, spiega il “principio di sincronicità” facendo ricorso a un’immagine che consiste nel “raffigurare la sezione trasversale di due fogli (da pensare ovunque come perpendicolari al piano del disegno) che in genere sono separati ma sono uniti nel loro punto centrale eccezionale (penetrando l’uno nell’altro) – a questo proposito i matematici sono molto generosi). Il numero dei fogli è arbitrario, e due è solo il caso più semplice. L’essenziale è che nel ruotare intorno al punto centrale (perpendicolare al piano del disegno) si passi dal foglio inferiore al superiore (e anche viceversa)”. IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ Viene così introdotto un piano di riflessione disposto non già parallelamente e sovraordinato gerarchicamente, bensì perpendicolarmente rispetto all’insieme di piani considerati, in modo che, mentre questo li attraversa, li lega sincronicamente l’uno all’altro, consentendo di passare da una moltitudine di aspetti privi di nesso a un’esperienza unica e integrale i cui elementi, pur non essendo legati da una relazione di causalità, hanno uno stesso o un analogo contenuto significativo La sincronicità diventa così la capacità di legare insieme piani differenti anche in assenza di un nesso causale. IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ A questa prima immagine se ne può far seguire una seconda, ricavata dalla possibilità di pensare a una nozione allargata di sincronicità, quella impiegata da Jung allorché “tra il sogno e l’evento esteriore intercorrono 2-3 mesi”, come scrive Pauli all’inizio della sua missiva. In questo caso basta immaginare il piano verticale come se fosse in grado di scorrere orizzontalmente, in modo che il legame tra piani differenti possa avvenire in istanti di tempo differenti. IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ Questa rappresentazione spaziale alternativa consente di far corrispondere ai piani disposti parallelamente, ma non sovraordinati gerarichicamente, l’inconscio e la coscienza, che vengono attraversati perpendicolarmente da contenuti archetipici tali che “da uno strato non individuato, più profondo, del tutto atemporale si accostino alla coscienza (fenomeno di raddoppiamento), sicché il problema della loro integrazione è divenuto attuale nella coscienza” determinando, appunto, l’effetto di sincronicità. In questo modo diventa non solo lecito, ma indispensabile, ai fini esplicativi, fare ricorso a “una causa simbolica, determinata dall’inconscio, dei relativi fenomeni ‘sincronici’, dei quali per es. il primo (foglio inferiore) consiste nel fatto che io faccio un sogno particolare, l’altro (foglio superiore) nel fatto che il signore o la signora x si ammala o muore. L’effetto che scaturisce dal punto centrale posto in uno strato intermedio riguarda innanzitutto la differenza tra ‘fisico’ e ‘psichico’ e rappresenta un ordine che si svolge al di fuori dello spazio e in parte anche al di fuori del tempo”. IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ Un ulteriore motivo d’interesse di questa soluzione di Pauli consiste nel fatto che essa consente di fronte a un problema che verrà evidenziato anno dopo da Bateson. Si tratta dell’esplorazione di quella sorta di “cortocircuito” tra comunicazione e metacomunicazione, senza il quale particolari forme di espressività, come il gioco e il rituale, non sarebbero realizzabili. Egli cita, a questo proposito, una sua esperienza diretta allo zoo di san Francisco: “Vidi due giovani scimmie che giocavano cioè erano impegnate in una sequenza interattiva, le cui azioni unitarie, o segnali, erano simili, ma non identiche, a quelle del combattimento. Era evidente, anche all’osservatore umano, che la sequenza nel suo complesso non era un combattimento, ed era evidente all’osservatore umano che, per le scimmie che vi partecipavano, questo era ‘non combattimento’. Ora questo fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi messaggi che portino il messaggio. ‘Questo è gioco’”. IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ Per lo più questi messaggi metacomunicativi rimangono impliciti: e, “specialmente durante le sedute psichiatriche, interviene un’altra classe di messaggi impliciti, concernenti l’interpretazione dei messaggi metacomunicativi di amicizia e ostilità”. Il riferimento alla metacomunicazione fa entrare in gioco, come componente imprescindibile del processo comunicativo, l’incidenza del contesto, chiamando in causa quello che può essere chiamato l’«effetto cornice»: “La cornice di un quadro dice all’osservatore che nell’interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di ragionamento che potrebbe impiegare per interpretare la carta da parati esterna alla cornice”. Questa distinzione sta a significare che nel rapporto tra il quadro e la sua cornice “l’inquadramento stesso diviene parte del sistema delle premesse. O l’inquadramento, come nel caso del gioco, è implicato nella valutazione dei messaggi che contiene, oppure semplicemente assiste la mente dell’osservatore nella comprensione dei messaggi contenuti, ricordandogli che questi messaggi sono mutuamente rilevanti e che i messaggi fuori di quell’inquadramento possono essere ignorati”. IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ Questo tipo di spiegazione è interessante e merita di essere approfondito in quanto evidenzia come la simulazione operata dalle due scimmie possa avere successo soltanto se i due livelli, quello del messaggio e della metacomunicazione, vale a dire, nel terminologia di Tarski, quello del linguaggio oggetto e quello del metalinguaggio, anziché essere tenuti separati su due piani paralleli vengono fatti interagire. Si determina così quello che può essere definito un “cortocircuito logico” che però in questo caso, anziché provocare un guasto della comunicazione o l’insorgere di situazioni di imbarazzo e rottura per quanto riguarda l’attribuzione del valore di verità all’enunciato, come nel caso dell’antinomia del mentitore dalla quale siamo partiti, determinata proprio dall’interferenza tra i due livelli in questione, è la condizione imprescindibile della riuscita del gioco. 8 I PRESUPPOSTI DEL PROGETTARE 239 SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Riepiloghiamo allora le diverse fasi di sviluppo di un progetto realmente innovativo. Esso, al pari di tutte le esperienze creative, nasce dalla capacità di avere con gli oggetti un rapporto intrecciato di onirismo, come quello che Le Corbusier riuscì a stabilire con il suo guscio di granchio vuoto. Per instaurare questo rapporto “il faut fendre les choses, les casser”, “ouvrir les mots, les phrases ou les propositions, pour extraire les énoncés”, come dice Deleuze nel suo saggio su Foucault, cioè spogliare le parole e le frasi dal riferimento ai loro significati consolidati e incrostati, che orientano verso una loro interpretazione unilaterale, schiacciata sul “senso della realtà”. SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Questa prima fase è descritta splendidamente da Giorgio De Chirico: “Pour qu’une oevre d’art soit vraiment immortelle il faut quell’elle sorte complètement des limites de l’humain: le bon sens et la logique y feront défaut. De cette façon elle s’approchera du rêve et aussi de la mentalité infantine. Je me rappelle qu’aprés avoir lu l’oevre immortelle de Nietzsche Ainsi parlait Zarathustra je sentis dans différents passages de ce livre une impression que j’avais déjà eprouvée, étant enfant, quand je lisais un livre italien pour les petits, qui a pour titre Le avventure di Pinocchio”. Pinocchio rappresenta dunque la possibilità di varcare i limiti dell’umano radicandosi nell’immaginario infantile che si dispensa dal rispetto delle leggi proprie del divenire adulto. Riconoscimento come reale di ciò che comunemente è dato considerare “immaginario”. SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Avere con gli oggetti un rapporto intrecciato di onirismo significa due cose: Fare in modo che il mondo degli oggetti divenga supporto di proiezione su di essi di contenuti psichici umani; attivare quella che Bion ha definito barriera di contatto, la funzione semipermeabile di separazione/unione fra coscienza e inconscio, due termini la cui convergenza rende bene l’apparente paradosso di una funzione che contemporaneamente separa e unisce, aspetto che per Bion è fondamentale per discriminare la realtà esterna dall’universo interiore e, nello stesso tempo, farli interagire. SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Avere con gli oggetti un rapporto intrecciato di onirismo significa due cose: Fare in modo che il mondo degli oggetti divenga supporto di proiezione su di essi di contenuti psichici umani; attivare quella che Bion ha definito barriera di contatto, la funzione semipermeabile di separazione/unione fra coscienza e inconscio, due termini la cui convergenza rende bene l’apparente paradosso di una funzione che contemporaneamente separa e unisce, aspetto che per Bion è fondamentale per discriminare la realtà esterna dall’universo interiore e, nello stesso tempo, farli interagire. SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Come scriveva nel suo saggio-manifesto del formalismo russo L’arte come artificio, pubblicato nel 1917, Viktor Šklovski nella percezione così come la pratichiamo usualmente: “L’oggetto passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è per il posto che occupa, ma ne vediamo solo la superficie. Per influsso di tale percezione, l’oggetto si inaridisce, dapprima solo come percezione, ma poi anche nella sua riproduzione… Ed ecco che per restituire il senso della vita, per ‘sentire’ gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come ‘visione’ e non come ‘riconoscimento’: procedimento dell’arte è il procedimento dello straniamento (ostranenie) degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di ‘sentire’ il divenire dell’oggetto, mentre il ‘già compiuto’ non ha importanza nell’arte”. SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Artista, dunque, è chi ha la capacità di lavare il mondo, che non fa che confondersi e impolverarsi, chi strofina lo specchio della coscienza, chi sa scrostare le parole e il linguaggio dai significati abituali ed egemoni, che sono sempre espressione di una passiva subordinazione al senso della realtà. Per stimolare e attivare il senso della possibilità, componente imprescindibile della trasfigurazione dell’oggetto, che da consueto e familiare diviene perturbante, occorre separare la parola dai suoi significati, regredire al livello della voce, che si fa cesura tra parola e cosa, tra linguaggio e logos. Accettare il perturbante significa essere disposti al sacrificio della propria stabilità interiore e accettare la sfida dell’ignoto. L’altra faccia della medaglia è che un equilibrio omeostatico troppo solido e rigido rende problematico ogni processo dinamico di cambiamento. Nessun seme nuovo può crescere in un ambiente crostificato. SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ Come ha lasciato scritto nel suo Manifesto testamentario “Quattro momenti su tutto in Nulla” Carmelo Bene (Appendice II Manoscritti inediti, Archivio della Fondazione l’Immemoriale di Carmelo Bene): “Nella rappresentazione disattesa, MANCATA…, questa voce è quanto si sottrae al linguaggio… ne spettina, ingarbuglia la comprensione intollerabile, come un timbro prodotto dalla “simultaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente”. Il lavoro della cavità orale provoca la spaccatura tra ATTORE e RUOLO … ma anche … al suo stesso interno: Questa VOCE vomita sulla scena l’abolizione del SENSO, del SOGGETTO … in una PLURIVOLATILITÀ del DIRE … che consente di sentire il MOLTEPLICE all’interno della parola. In questo modo il pensiero viene disintossicato dalla saturazione di pensieri già pensati. IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ Ma il progetto non può restare al livello dell’immaginazione, per essere artefice di un cambiamento non soltanto desiderato e sognato, ma effettivo e concreto deve saper incidere sulla realtà avere un effetto palpabile su di essa, da “trama conchigia” deve diventare “trama tetto” per tornare all’esempio del progetto della chiesa di Ronchamp, da immaginazione si deve trasformare in realizzazione. Il punto di svolta di questo ritorno al senso della realtà è ben colto da Le Corbusier, il quale parla, non a caso, di risposta al sito. Dopo essersi trasformata in voce per mettere in scena l’abolizione del significato e del riferimento, del soggetto e dell’ambiente in cui opera, la parola deve necessariamente riannodare il filo della sua relazione con il contesto nel quale viene pronunciata e con la comunità di cui è espressione. IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ Il segnale deve tornare a rivestirsi di significato per riacquistare la sua funzione di segno. Ciò può avvenire soltanto se esso viene contestualizzato, cioè se è inserito in un ambiente. Il colore rosso acquista il significato di arresto e di alt solo se è inserito all’interno di un codice, quello del semaforo, che esprime e sintetizza un’intera situazione ambientale. Lo stesso colore, inserito in un altro contesto, acquista un significato del tutto diverso e magari opposto. Per conferire significato ai nostri comportamenti è dunque essenziale il rapporto con l’ambiente: questa conclusione è in linea con il fatto che il nostro cervello è orientato alla sopravvivenza e a mantenere un rapporto di equilibrio con il contesto di riferimento e per farlo si vale di reazioni corporee che sono, in gran parte, del tutto automatiche e inconsce. IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ Se avverto un pericolo scappo o mi mimetizzo. I circuiti di sopravvivenza, dunque, non esistono per creare le emozioni o i sentimenti. Devono invece gestire le interazioni con l’ambiente come parte dello sforzo quotidiano di sopravvivere. Questi circuiti di sopravvivenza si attivano nelle situazioni in cui il benessere è potenzialmente messo a rischio o potenziato. La risposta complessiva del cervello e del corpo che ne risulta è uno stato organismico globale. Per esempio, l’attivazione di un circuito difensivo di sopravvivenza dà origine a uno stato motivazionale difensivo. Questo tipo di stato coinvolge tutto l’organismo (cioè il corpo e il cervello) come parte del compito di gestire le risorse e massimizzare le possibilità di sopravvivenza in situazioni in cui ci sono sfide e opportunità. Il cervello, di colpo, sembra prorompere in uno schema di attività globale su larga scala. IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ L’organismo vivente è un sistema aperto, in continuo scambio di energia, materia, quantità di moto ecc., col mondo in cui è inserito. I sistemi aperti sono perciò anche detti sistemi dissipativi. Il mondo o ambiente, ha il ruolo di “serbatoio” per il sistema. In esso il sistema trova la sorgente di energia cui attingere, se di energia ha bisogno nella sua evoluzione, e il deposito in cui versare l’energia di cui debba disfarsi. Il fatto che i segnali, per acquisire un significato ed essere decodificati e interpretati, debbano necessariamente essere contestualizzati ci dice che il rapporto con l’ambiente è fondamentale e imprescindibile non solo per la sopravvivenza dell’organismo vivente, ma anche, e a maggior ragione, per lo sviluppo del processo di conoscenza che lo caratterizza, qualunque sia il livello in cui esso esso si attesta. IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ D’altro canto, il formalismo matematico, detto canonico, in cui sono formulate le teorie di cui disponiamo attualmente, è limitato a sistemi chiusi, quelli che possono essere considerati come isolati, sottratti a ogni interazione con altri corpi e sistemi. Da questi limiti scaturisce il fatto che, per poter applicare ai sistemi dissipativi il formalismo di cui disponiamo, dobbiamo necessariamente prendere in considerazione il sistema aperto, oggetto di studio, unitamente all’ambiente in cui è immerso, in una sorta di unidualità tra sistema medesimo e ambiente, in modo tale che il tutto, costituito appunto dall’unione del sistema considerato e del suo ambiente, costituisca un sistema chiuso, cui poter quindi applicare il formalismo di cui disponiamo. IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ Se prendiamo, ad esempio, un sistema qualunque A, dal punto di vista del bilanciamento dei flussi, per esempio di energia, tra esso e il suo ambiente, quest’ultimo può essere considerato nel suo complesso come un sistema che riceve da A, quanto da A esce, e cede ad A quanto A riceve: “out” per A è “in” per l’ambiente, e viceversa, “in” per A e` “out” per l’ambiente. In termini formali questo “scambio” in out è descritto invertendo il segno del tempo nella descrizione dell’ambiente, che allora risulta essere l’immagine “invertita nel tempo”, o se si vuole l’immagine nello “specchio del tempo” del sistema A. Poiché l’ambiente rappresenta ciò che bilancia i flussi per il sistema A (cioè relativamente al sistema A, o “dal punto di vista” del sistema A), esso è detto il Doppio di A. Lo stato del sistema unitario costituito da A e dal suo ambiente risulta essere uno stato coerente in cui queste due componenti sono inscindibilmente intrecciate l’una all’altra, in conformità al principio di entanglement della meccanica quantistica. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Per approfondire il senso di questo viaggio di andata dal senso della realtà al senso della possibilità e di ritorno da quest’ultima alla prima è necessario rintracciarne i presupposti, andandoli a cercare nelle conseguenze della distinzione tra due possibili interpretazioni della mimesis (dal verbo miméomai, che significa imitare e rappresentare, riprodurre imitando. Secondo la più nota, risalente, com’è noto, al Sofista di Platone, mimesi è l’attività dell’artista e dell’artigiano come riproduzione, rappresentazione riproduttiva “somigliante” alla realtà esterna. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Da questo punto di vista la mimesi è imitazione, rappresentazione, immagine, ritratto, rappresentazione teatrale (Aristofane). Come sottolineava con acume un altro scrittore, C.E. Gadda, il prevalere di questa prima accezione ha portato all’egemonia del metodo, concepito come “l’insieme de’ canoni con cui il noto viene imitato e riprodotto (…) Questa mimesi o epitome o metodo è quindi soltanto un battere strade già note, dopo l’angusta e laboriosa recognitio che il reale opera, originalmente deformandosi e invenendo (invenire latino). Proprio per questa sua connotazione, questa prima modalità di intendere il termine in questione è alla base della concezione della percezione come assimilazione in qualche modo passiva, da parte del nostro apparato sensoriale prima e cognitivo poi, delle forme e strutture della realtà esterna. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Ma c’è un’accezione alternativa del termine medesimo, che può essere fatta risalire a uno strato più arcaico dell’evoluzione culturale, nel quale la mimesi, invece, “si riferiva alla danza e aveva un significato del tutto diverso: significava cioè l’espressione dei sentimenti e la manifestazione delle esperienze attraverso il movimento, il suono e le parole”. Secondo questa interpretazione, la mimesi risale alla tradizione della danza e del rito dionisiaco e avrebbe il significato di una forma espressiva incarnata nel gesto fisico e nell’azione, che coinvolge l’intera corporeità, e che può essere considerata in qualche modo l’origine dell’idea, secondo la quale le relazioni tra percezione e azione costituiscono un modello privilegiato per lo studio delle funzioni del sistema nervoso. In base a questa idea, quando noi percepiamo il mondo così come lo percepiamo, spesso tendiamo a dimenticare che noi abbiamo agito in modo da percepirlo come tale. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Abbiamo così una contrapposizione tra lo strato concettuale, astraente, simbolico della rappresentazione, e lo strato più arcaico dell’espressione, che riemerge nella gestualità fisica, nei rituali della danza e della mimica e, più in generale, in tutti i processi nei quali “il livello del controllo della coscienza desta cede il passo a un più profondo livello di en-actement. La manifestazione del gesto mimetico non rappresenta, ma appunto esprime con tutto l’essere corporeo, al di là di ogni controllo intenzionale e di ogni dominio della volontà costruttiva”. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Il problema che viene così sollevato e posto al centro dell’attenzione è quello del differente statuto tra le due possibili accezioni e idee di mimesis che si riferiscono, rispettivamente, al concetto di rappresentazione e a quello di azione. Questa differenza si manifesta, in via prioritaria, nel fatto che, a differenza della prima, quest’ultima non sta per qualcos’altro, come nel caso dei segni, ma è una presenza, il risultato della capacità del corpo di esprimere direttamente propri impulsi interiori, sotto forma, per esempio, di danza o di musicalità della poesia, cioè di quella sonorità, anche elementare che il poeta ascolta nella propria voce e trasmette all’ascoltatore e che ha sempre immancabilmente una tonalità fuori dall’ordinario; il poeta vuole trascinarci a un ascolto fuori dal contesto abituale della lingua. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Attraverso questa seconda accezione di mimesis emerge così un legame strettissimo tra danza e poesia di cui è spia l’uso del termine “piede” per indicare un sistema di misura dei versi poetici, in particolare del verso classico, quello greco e latino. La scelta di tale nome venne, come noto, dall’abitudine che avevano gli antichi di battere il tempo sollevando e abbassando il piede a terra per tenere il numero delle sillabe lunghe o brevi pronunciate durante la recitazione. Recitazione e danza erano parte integrante di un ‘unica rappresentazione e pertanto anche il pronunciare le parole poetiche richiedeva uno sforzo notevole e un ritmo particolare in cui tutto il corpo si ritrovava coinvolto. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Possiamo dunque dire che il primo significato di mimesis, quello accreditato dal Sofista di Platone, esalta l’importanza dei segnali che i corpo riceve dall’ambiente esterno e che danno luogo a quella che possiamo chiamare una logica a base riflessa, fatta per lo più, almeno nella fasi iniziali, di risposte automatiche. Questa idea di logica a base riflessa emerge, in particolare, dall’approccio di LeDoux alla questione del rapporto tra coscienza e meccanismi inconsci. Il leitmotiv di questi studi è che sentimenti come la paura e l’ansia siano certamente consci, ma che il sentimento consapevole di paura vada separato dalle reazioni corporee inconsce suscitate, ad esempio, dalla visione di immagini minacciose, come l’aumento della sudorazione, l’accelerazione del battito cardiaco e la dilatazione delle pupille; ciò mostra che la rilevazione della minaccia e la risposta connessa sono indipendenti dalla consapevolezza conscia: sono manifestazioni corporee che non presuppongono l’intervento della mente. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Sentimenti, come quello di paura, sorgono quando acquistiamo coscienza del fatto che il nostro cervello ha inconsapevolmente rilevato un pericolo. Tutto inizia quando uno stimolo esterno, elaborato dai sistemi sensoriali del cervello, è classificato, a livello non consapevole, come una minaccia. Gli output dei circuiti di rilevamento delle minacce innescano un aumento generale dello stato di eccitamento del cervello e l’espressione di risposte comportamentali e di cambiamenti fisiologici del corpo. I segnali provenienti dalle risposte comportamentali e fisiologiche del corpo sono inviati al cervello, dove diventano parte della risposta non conscia al pericolo. L’attività cerebrale viene quindi monopolizzata dalla minaccia e dagli sforzi per affrontare i danni che essa preannuncia. La minaccia aumenta la vigilanza: l’ambiente viene monitorato per capire perché siamo eccitati in questo modo specifico. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Ciò che chiamiamo emozioni sono dunque sentimenti consci assemblati cognitivamente, vale a dire costrutti psicologici elaborati a partire da reazioni corporee inconsapevoli e da meccanismi e automatismi per rilevare e rispondere alle minacce. I sistemi cerebrali che rilevano gli stimoli minacciosi e controllano le risposte comportamentali e fisiologiche indotte da questi stimoli non devono pertanto essere descritti in termini di paura come sentimento conscio. Per questo al fine di conferire significato ai nostri comportamenti e trasformare in informazione i segnali che riceviamo è essenziale il rapporto con l’ambiente: il nostro cervello è orientato alla sopravvivenza e a mantenere un rapporto di equilibrio con il contesto di riferimento e per farlo si vale di reazioni corporee che sono del tutto automatiche e inconsce. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Il secondo significato della mimesis corrisponde invece a quello che possiamo considerare un processo di proiezione all’esterno dei moti e delle reazioni intrinseche del nostro corpo, che non sono una risposta a segnali provenienti dal di fuori, da ciò che ci circonda, ma costituiscono invece l’espressione delle specifiche modalità di organizzazione interna e di funzionamento autonomo di quel sistema complesso che è il nostro corpo, aperto certamente e in costante interazione con l’ambiente esterno, ma anche in grado di esprimere e mantenere una propria specifica forma di equilibrio dell’ambiente interno. IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS Questi due significati della mimesis e i relativi processi di cui sono espressione vanno certamente distinti, in quanto, come si è visto, procedono in direzioni opposte, ma non possono essere tenuti separati e considerati privi di relazione reciproca. Vanno pertanto individuate le modalità della loro interazione: e il progetto può essere considerato l’anello di congiunzione ideale tra questi due processi, in quanto ciò che conta in esso non è soltanto il prodotto al quale perviene, ma anche il prodursi dell’artefice. Progettare è progettarsi: per diventare provetti progettisti bisogna lavorare non solo sull’ambiente esterno, ma anche e prima di tutto sul proprio universo interiore, che deve essere portato a un livello tale da metterlo in grado di saper affrontare la sfida che lo attende. Senza disporre di un’adeguata cassetta degli attrezzi, fatta degli strumenti per pensare che abbiamo enucleato, nessuna attività di progettazione può riuscire. IL GIOCO DEL ROCCHETTO D’altra parte, come ci ha insegnato Freud, fin dalla sua infanzia l’uomo impara a trasformare i processi che è costretto a subire senza poterli modificare in scenari in cui diventa protagonista attivo. Tipica espressione di questa trasformazione è il gioco del rocchetto di un bambino, nel quale egli, in Al di là del principio del piacere, ravvisa il nucleo della creazione artistica. In questo gioco l’apparire e la scomparsa del rocchetto di filo sintetizzano l’intervento attivo del bambino in una situazione altrimenti insostenibile per lui: le situazioni di provvisorio abbandono e di ritorno della madre. Nel gioco è il bambino stesso a dirigere gli eventi e non a subirli. IL GIOCO DEL ROCCHETTO Con il gettare via il “rocchetto” attaccato ad un filo e nel farlo ricomparire, il bambino metteva in scena il dramma vissuto per l’angoscia destata dall’allontanamento della madre. Ed è interessante notare che quando l’azione di gioco fa emergere emozioni ed affetti profondi, comparare un coinvolgimento del gesto vocale, che indica con la risonanza delle sue esclamazioni la profondità emotiva vissuta nel gioco. Dunque la parola che si fa voce, che si libera da ogni riferimento ai significati, e per loro tramite al contesto esterno, si fa interprete autentica e diretta dei processi di maggior coinvolgimento che provengono dall’universo interiore. Analizzando il gioco del rocchetto Freud, non a caso, sottolinea l’importanza dell’abbinamento della voce con il gesto. IL GIOCO DEL ROCCHETTO Il testo di Freud, come detto, inizia con la descrizione del gioco di un bambino di un anno e mezzo che mette in scena la propria angoscia d’abbandono per l’allontanamento della madre. Tramite l’azione di gioco con un rocchetto legato ad un filo rivelava la propria reazione emozionale all’evento traumatico. Oltre la ripetuta azione del buttare via l’oggetto e ritirarlo a sé, Freud coglie anche le espressioni sonore del fenomeno. Sono gesti di gioco e suoni ripetuti che esprimono un vissuto complesso. Nell’esempio del bambino si coglie proprio il rapporto tra gesto di gioco e gesto verbale. Le esclamazioni come “fort”, inteso dalla madre come “vai via”, o “dà” come “eccolo”, fino ad arrivare all’esclamazione finale “oh…oh…oh” in cui il bambino tramite il gesto di buttare il rocchetto legato al filo fuori dalla sponda del suo lettino e farlo riapparire, sembra esprimere la soddisfazione di un ritorno da lui gestito. IL GIOCO DEL ROCCHETTO Sia i gesti corporei che sonori descrivono la sparizione e la riapparizione. La ripetizione dello stesso suono in corrispondenza di ogni gesto descritto indica che è in atto una riflessione che unisce il gesto e il suono ricorrente. In quel ripetere dell’azione di gioco (con il rocchetto legato a un filo) e del suono si manifesta un prendere possesso e controllare un’emozione di perdita angosciante. Nei gesti del bambino, come nei suoni che li accompagnano, si manifesta sia il dramma vissuto ma anche l’indicazione di una prima risposta possibile. Questa prima risposta con la capacità, di cui è espressione, di trasformare una situazione nella quale ci si trova a essere, forzatamente, spettatore passivo in uno scenario nell’ambito del quale si diventa capaci di esercitare, almeno simbolicamente, una propria funzione di controllo della successione degli eventi, acquisendo il potere di gestirla, può essere considerata, senza forzature, una originaria e già significativa manifestazione di una competenza progettuale. Alanis Morissette 1998