Diapositiva 1

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Diapositiva 1
EPISTEMOLOGIA DEL PROGETTO
SILVANO TAGLIAGAMBE
DADU ALGHERO 9 NOVEMBRE 2016
IL CINQUECENTENARIO
DELLA PUBBLICAZIONE
DELL’UTOPIA (1516) DI
THOMAS MORE.
2
UTOPIA
L’Utopia di Thomas More: tra le altre cose l'opera contiene
un'aspra critica della società dell'epoca, specialmente inglese,
delle sue ingiustizie, della miseria del popolo a fronte del lusso dei
ricchi. In particolare vengono denunciate le conseguenze nefaste
delle enclosures, termine con il quale ci si riferisce alla recinzione
dei terreni comuni (terre demaniali) a favore dei proprietari terrieri
della borghesia mercantile avvenuta in Inghilterra tra il XVII e il
XIX secolo. Gli enclosure acts danneggiarono principalmente i
contadini, che non potevano più usufruire dei benefici ricavati da
quei terreni, a favore dei grandi proprietari: per le recinzioni era
necessario sostenere spese di tipo privato ma anche legali, che
scoraggiavano i piccoli proprietari: per produrre la lana occorre
allevare pecore che, scacciando i contadini dalle loro terre,
"divorano gli uomini", per riprendere la celebre formula di More.
Dall'altra parte, il testo offre la descrizione di una società
radicalmente diversa.
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STRUMENTI PER
PENSARE
4
Competenze e capacità necessarie per
inquadrare un problema e risolverlo
Le possiamo così schematizzare:
Analisi
Analogia
Astrazione
Induzione
Deduzione
Abduzione
5
Analisi
Può essere concepita in due modi differenti:
• Scomposizione di un problema
complesso nelle sue parti;
• Riduzione di un problema a un
altro
Astrazione
Si presenta sotto diverse forme e tipologie:
• Per estrazione
• Per soppressione
• Per ibridazione
• Per spostamento
dell’attenzione
Ibridazione
Y = 0,5x+3
P (0, 3)
P (1, 3,5)
P(2, 4)
P 3, 4,5 )
P …..
(P ( x, y)
Nella Géométrie Descartes tratta le curve
come ibridi geometrici-algebricinumerici che sono simultaneamente
configurazioni formate spazialmente,
equazioni algebriche con due incognite e
una serie infinita di coppie di numeri.
Ne consegue un’instabilità, perché questi tre diversi modi di trattare le curve non sono
equivalenti: ma questa instabilità conferisce alle curve una multivalenza che è la chiave
per la loro indagine e per il loro impiego nella fisica della seconda metà del XVIII secolo.
Spostamento dell’attenzione
A = A1 - A2 = ….
Prima della creazione del calcolo
infinitesimale, ci si concentrava solo
sugli aspetti geometrici del
problema di calcolare l’area di una
curva, e di conseguenza si riusciva a
risolverlo solo a costo di una notevole
ingegnosità.
Dopo l’invenzione del calcolo,
spostando l’attenzione sugli aspetti
algebrici del problema, la curva venne
considerata un’equazione e si poté
risolvere un problema con un
procedimento di routine e quasi
meccanico.
Deduzione
Premesse
Assiomi
E’ l’inferenza in cui un parlante sostiene che
la conclusione segue necessariamente
dalle premesse.
Enunciati
Regole di inferenza
Ipotesi
Premessa
Enunciato S
Conclusione
intermedia
Tesi: Conclusione ultima
K
Detto in termini più precisi,“per un qualsiasi
enunciato S, rispetto a un insieme di enunciati
K, la deduzione è una successione finita di
enunciati il cui ultimo elemento è S (quello di
cui diciamo, appunto, che è dedotto), e tale
che ogni suo elemento è un assioma o un
elemento di K, oppure segue da enunciati che
lo precedono nella successione grazie a una
regola d’inferenza.
Un termine sinonimo è ‘derivazione’.
Deduzione e sistema correlato
Premesse
Premesse
Sistema B
Sistema A
Enunciati
Ha senso dire che qualcosa
è una deduzione solo in
relazione a un particolare
sistema di assiomi e regole
d’inferenza.
Regole di inferenza
Regole di inferenza
Enunciati
Premessa
Conclusione
intermedia
Conclusione
intermedia
Tesi:
Conclusione S
Enunciato S
La deduzione è un concetto
relativo a un sistema.
Premessa
Conclusione
intermedia
Conclusione
intermedia
Tesi:
Conclusione S
La stessa esatta successione
di enunciati può essere una
deduzione in un sistema, ma
non in un altro”.
Deduzione vs dimostrazione
Premesse
Dimostrazione
Assiomi
Enunciati
Regole di inferenza
Ipotesi
Premessa
Conclusione intermedia
Conclusione
intermedia
Enunciato S
Tesi: Conclusione ultima
Il concetto di deduzione è una
generalizzazione del concetto di
dimostrazione.
Una dimostrazione è una successione finita di
enunciati, ciascuno dei quali è un assioma o
segue da enunciati che lo precedono nella
successione tramite una regola inferenziale.
L'ultimo enunciato della successione è un
teorema.
La deduzione e la dimostrazione sono gli
strumenti più efficaci di cui possiamo disporre
per cercare di controllare la validità del
ragionamento di un agente qualsiasi e i
risultati da lui ottenuti, anche se i
fondamentali risultati conseguiti a partire dal
1930 da Gödel, Church e Turing hanno posto
limiti ben precisi a questa possibilità.
Abduzione
E’ il processo che, dato un certo dominio, mira alla generazione di
spiegazioni di un insieme di eventi a partire da una data teoria, o legge,
o ipotesi esplicativa, relativa a quel dominio.
Premessa (causa)  Conclusione (effetto)
Esempio:
AB
B
È plausibile
Se la batteria è scarica  la
macchina non parte
La macchina non parte
? A ?
? La batteria è scarica ?
Conclusione (causa)  ? Premessa? (effetto)
Abduzione
Ecco un esempio di abduzione rispetto a una spiegazione:
A B (Spiegazione)
ragionamento causale
Premessa
Conclusione
A= Batteria
scarica
B =Macchina
non va
B , ?? A ?? (Abduzione)
Premessa
Conclusione
È plausibile che la
batteria sia scarica
B = La Macchina
non va
A = Batteria
è scarica ??
Abduzione
In questo caso la funzione dell’abduzione è la conservazione degli schemi
esplicativi. In passato si è riscontrato che un processo di inferenza da un
determinato effetto B a una causa A si è dimostrato efficace. Pur non potendo
escludere che, in circostanze diverse, B possa essere dovuto a una causa
differente, appare ragionevole partire anche in questo caso dalla causa A per
spiegare l’effetto B e saggiare la plausibilità di questa ipotesi esplicativa.
A B (Spiegazione)
ragionamento causale
Premessa
Conclusione
A= Batteria
scarica
B =Macchina
non va
B , ?? A ?? (Abduzione)
Premessa
Conclusione
È plausibile che la
batteria sia scarica
B = La Macchina
non va
A = Batteria
è scarica ??
Abduzione
Ma l’abduzione è anche il processo che ci consente di sostenere che
una certa congettura (o ipotesi), cioè che A sia vero, vale la pena di
essere presa in considerazione in quanto, grazie a essa, siamo in grado
di spiegare un fatto B del tutto inatteso e sorprendente.
B , ?? A ?? (Abduzione)
Premessa
Conclusione
A= Ipotesi
esplicativa
B = Fatto
Premessa
Conclusione
sorprendente
È plausibile che A
sia vera.
B = Fatto
sorprendente
A = Ipotesi
esplicativa
di B
Abduzione
In questo caso lo schema del ragionamento per abduzione è il
seguente:
1. Si osserva B, un fatto sorprendente.
2. Ma se A fosse vero, allora B sarebbe naturale.
3. C’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero.
B , ?? A ?? (Abduzione)
Premessa
Conclusione
A= Ipotesi
esplicativa
B = Fatto
Premessa
Conclusione
sorprendente
È plausibile che A
sia vera.
B = Fatto
sorprendente
A = Ipotesi
esplicativa
di B
Abduzione
Considerata da questo secondo punto di vista l’abduzione è il frutto del momento
inventivo, creativo dello scienziato, dell’attimo fortunato dell’immaginazione scientifica
che formula ipotesi esplicative generalizzate, le quali, se confermate, diventano leggi
scientifiche (pur sempre correggibili e sostituibili) e, se falsificate, vengono scartate. Ed
è proprio l’abduzione a far progredire la scienza, che avanza da una parte sulla direttrice
dell’inglobamento progressivo di fatti nuovi e insospettati che spingono per questo a
escogitare nuove ipotesi capaci di spiegarli, e dall’altra su quella di una unificazione
assiomatica delle leggi, attuata da quelle che si dicono le grandi idee semplici.
B , ?? A ?? (Abduzione)
Premessa
Conclusione
A= Ipotesi
esplicativa
B = Fatto
Premessa
Conclusione
sorprendente
È plausibile che A
sia vera.
B = Fatto
sorprendente
A = Ipotesi
esplicativa
di B
Induzione
E’ il processo in base a cui s’inferisce dal particolare
all’universale secondo il principio della generalizzazione.
Alla conclusione generale si può arrivare:
• a partire da parecchi casi
• a partire da un singolo caso
(Se un certo membro a di una classe Q ha una data proprietà
P, allora per un qualsiasi nuovo membro b della stessa classe
Q si ipotizza il possesso della medesima proprietà P).
Ogni corvo che ho osservato è nero  Ogni corvo è nero
Analogia
Varie nozioni di similarità:
• Per eguaglianza della forma
• Per eguaglianza della proporzione
• Per analogia di attributi essenziali
• Per possesso di alcuni attributi in comune
• Per possesso di alcuni attributi in comune pur in
presenza di tratti non in comune
(analogia positiva-negativa-neutra)
Argomento analogico
Premessa analogica:
il caso A e il caso B
hanno in comune
le caratteristiche
c1,…,cn
Premessa attributiva:
il caso A presenta l’ulteriore
caratteristica x
Conclusione: anche il caso B
presenta la caratteristica x
A
B
•c1,…,cn
•c1,…,cn
x
x
Inferenza induttiva e inferenza analogica
Sono connesse tra loro se si considera solo
l’analogia positiva, ma sono irriducibili l’una
all’altra se si considera anche l’analogia negativa.
In quest’ultimo caso questi due tipi di inferenza
risultano essere complementari tra loro e utili in
situazioni differenti.
Inferenza induttiva e inferenza analogica
L’inferenza induttiva è utile quando non sappiamo con
precisione come i casi osservati differiscano tra loro, e
quindi non ne conosciamo esattamente l’analogia
negativa, per cui un aumento del numero dei casi può
aiutarci a trarre qualche conclusione su di essi.
L’inferenza analogica è utile quando non abbiamo
osservato un numero elevato di casi, ma conosciamo con
sufficiente precisione tanto l’analogia positiva quanto
l’analogia negativa dei relativamente pochi casi osservati
per cui l’analogia osservata può aiutarci a trarre qualche
conclusione su di essi.
Induzione e analogia
Sono processi fallibili: procedere sulla base
di essi comporta la rinuncia alla certezza
propria della deduzione.
Quella che possiamo chiamare la logica della
scoperta ammette dunque il carattere
strutturale e ineliminabile della
incertezza e cerca di costruire su di esso.
Questa logica, pertanto, riconosce l’illusorietà dell’obiettivo di acquisire una
certezza assoluta e lo sostituisce con quello di disporre di strumenti per
l’estensione della nostra conoscenza fallibili ma corredati di procedure di
controllo che consentano di riconoscere le anomalie e di correggerle.
Rappresentazione Artificiale e Semplificata
Definizione di Modello
Il modello è una rappresentazione artificiale e
semplificata del dominio che rappresenta
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In un’accezione larga, il concetto di
modello è sovente utilizzato nella vita
quotidiana.
Ad esempio, quando diciamo che una
persona o un animale appartiene a
una determinata tipologia (la volpe è
astuta, l’imprenditore deve avere
attitudine al rischio) esprimiamo un
modello del loro comportamento che è
nella nostra mente e che consente di
prevederne le mosse in una certa
situazione.
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Vi sono anche i modelli “materiali”.
Esempi sono i modelli in scala ridotta di
un’opera artistica o architettonica, oppure
un modello in scala ridotta, come quello in
basso a sinistra, che replica con esattezza
gli effetti dell'abbattimento degli alberi, o i
prototipi che sono realizzati per effettuare
dei test di resistenza meccanica o
aerodinamica, come il provino di
calcestruzzo cilindrico qui in basso
sottoposto a una prova di compressione
monoassiale.
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IL MODELLO FISICO-MATEMATICO
Un modello di un sistema esprime la conoscenza di un fenomeno
e come tale consente di rispondere a domande sul sistema senza la
necessità di compiere un esperimento. Esso costituisce quindi un
potente mezzo di previsione e descrizione del comportamento
di un determinato sistema.
Tipicamente il modello matematico
di un sistema consiste in
un’equazione differenziale che
stabilisce una relazione tra
le variabili d’ingresso e le
variabili d’uscita del sistema
medesimo.
Equazione
differenzial
e
Variabile in
ingresso
Sistema
Variabile
in uscita
Questo tipo di descrizione è chiamata descrizione ingresso/uscita di un
sistema dinamico. Il calcolo matematico consente di determinare le uscite
a partire dagli ingressi e quindi di studiare la dinamica o il comportamento
di un sistema in un certo ambiente. Le relazioni funzionali ingresso-uscita
caratterizzano il sistema e ne definiscono il comportamento; esprimono
l’uscita come funzione dell’ingresso.
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Esempio: Modello matematico di un sistema idraulico
Il serbatoio in figura è caratterizzato dalla portata d’ingresso qi e
dall’altezza del battente idrico h che rappresenta la variabile
d’uscita.
Assumendo un serbatoio di sezione costante A, il volume di
liquido risulta: V = Ah.
Per la legge di conservazione
della massa (legge di continuità)
qi(t)
si ha che:
h
dV
dh
A
qi 
dt
dt
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La modellistica matematica
Problema reale
Modello
matematico
Analisi
qualitativa
Risoluzione al
calcolatore
Modellistica
numerica
Algoritmi
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La Modellistica Matematica
Con il termine modellistica matematica si intende dunque il
processo che si sviluppa attraverso l'interpretazione di un
determinato problema, la rappresentazione dello stesso problema
mediante il linguaggio e le equazioni della matematica, l'analisi di
tali equazioni, nonché l'individuazione di metodi di simulazione
numerica idonei ad approssimarle, e infine, I'implementazione di
tali metodi su calcolatore tramite opportuni algoritmi.
Qualunque ne sia la motivazione, grazie alla modellistica
matematica un problema del mondo reale viene trasferito
dall'universo che gli è proprio in un altro habitat in cui può essere
analizzato più convenientemente, risolto per via numerica, indi
ricondotto al suo ambito originario previa visualizzazione e
interpretazione dei risultati ottenuti.
Fonte: A. Quarteroni, La modellistica matematica: una sintesi fra teoremi e mondo
reale. Prolusione tenuta in occasione dell’inaugurazione del 136° anno accademico. Politecnico
di Milano, 3 ottobre 1998
Rapporto tra il Modello Matematico e la Realtà
Il modello non esprime necessariamente l'intima e reale essenza
del problema (la realtà è spesso così complessa da non lasciarsi
rappresentare in modo esaustivo con formule matematiche), ma
deve fornirne una SINTESI UTILE.
La matematica aiuta a vedere e a capire la natura intrinseca di un
problema, a determinare quali caratteristiche sono rilevanti e quali
non lo sono, e, di conseguenza, a sviluppare una
rappresentazione che contiene l'essenza del problema stesso.
Una caratteristica della sfera d'indagine matematica presente in
questo processo è l'ASTRAZIONE, ovvero la capacità di
identificare caratteristiche comuni in campi differenti, così
che idee generali possano essere elaborate a priori e applicate di
conseguenza a situazioni fra loro assai diverse.
Fonte: A. Quarteroni, La modellistica matematica: una sintesi fra teoremi e mondo reale.
CARATTERE INTERDISCIPLINARE
DELLA MODELLISTICA MATEMATICA
La presenza di laboratori sperimentali e di gallerie del
vento, di specialisti nell’analisi teorica, nell’informatica e
nelle scienze fondamentali, quali la fisica e la chimica, e
nei settori più spiccatamente tecnologici, e anche
nell’architettura, nella grafica avanzata e nel design, è
l’elemento distintivo di una CULTURA POLITECNICA e
può fungere da elemento catalizzatore e propulsivo di
una DISCIPLINA INTERSETTORIALE quale è la
modellistica matematica.
Fonte: A. Quarteroni, La modellistica matematica: una sintesi fra teoremi e mondo reale.
Scoprire e Inventare la matematica
Da dove viene la matematica.
Come la mente embodied dà origine alla matematica
G. Lakoff e R. E. Nunez, 2005
Metafore, schemi-immagine forniscono un ponte
tra il linguaggio e il ragionamento, tra il corpo e i
concetti
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SIMULAZIONE
Per simulazione si intende un modello della realtà che consente
di valutare e prevedere lo svolgersi dinamico di una serie di
eventi susseguenti all'imposizione di certe condizioni da parte
dell'analista o dell'utente. Un simulatore di volo, ad esempio,
consente di prevedere il comportamento dell'aeromobile a fronte
delle sue caratteristiche e dei comandi del pilota.Le simulazioni
sono uno strumento sperimentale molto potente e si avvalgono
delle possibilità di calcolo offerte dall'informatica; la simulazione,
infatti, non è altro che la trasposizione in termini logicomatematico -procedurali di un "modello concettuale" della realtà;
tale modello concettuale può essere definito come l'insieme di
processi che hanno luogo nel sistema valutato e il cui insieme
permette di comprendere le logiche di funzionamento del
sistema stesso.
SIMULAZIONE: ESEMPIO
La simulazione è uno strumento sperimentale molto
potente. Essa non è altro che la trasposizione in
termini logico-matematico -procedurali di un
"modello concettuale" della realtà
Programma che
permette di simulare
una popolazione di
piante, allo scopo di
mostrare come le
simulazioni possano
essere utili strumenti
per la riproduzione e
comprensione dei
sistemi complessi e
possano essere usate
come laboratori
didattici virtuali.
Nasce così una terza gamba della conoscenza
teo
ica
t
a
pr
ria
D=gt2⁄2
simulazione
2
LO SPOSTAMENTO
DEL BARICENTRO
40
NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL SAPERE
Kenneth Keniston, , direttore del “MIT India Program”
e del “Program in Science, Technology and Society”
al Massachusetts Institute of Technology:
CRISI DELL’ALGORITMO
DELL’INGEGNERE.
NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL SAPERE
Questa crisi è determinata dal fatto che non si può
più procedere “per sommatoria” accatastando l’uno
sull’altro, in modo casuale e senza un disegno
preciso e un progetto coerente, “pezzi” di formazione
diversi. Occorre invece procedere con una politica
sottile di intersezione, di incastro, organizzando e
mettendo in pratica processi formativi basati sul
confronto tra prospettive diverse e sperimentando,
anche nell’ambito di questi processi, strategie di
interazione complesse.
ALGORITMO DELL’INGEGNERE
“L’algoritmo degli ingegneri” è quel metodo di
soluzione dei problemi che si trova nel cuore stesso
dell’ingegneria, e quindi di un certo modo di
considerare la tecnologia. L’idea fondamentale, che
sta alla base di questo paradigma, “è quella che il
mondo esterno possa essere definito come una serie
di problemi, ognuno dei quali può essere risolto grazie
all’applicazione di teoremi scientifici e di principi
matematici. Attorno a questo primo principio si
raggruppano una serie di idee, che ne formano il
corollario.
ALGORITMO DELL’INGEGNERE
Questo algoritmo implica una divisione metafisica del mondo in
due regni. Il primo costituisce il regno dei ‘problemi’ che
possono essere ‘risolti’. Il secondo - definito in vari modi come
‘il resto della vita’, i ‘valori’ o la ‘società’- non può essere
definito secondo i parametri dei ‘problemi’ e quindi non ha
rilevanza per l’ingegnere in quanto tale.
Per quanto riguarda i ‘problemi’ degni del lavoro dell’ingegnere,
si tratta in generale di questioni di natura complessa, Ciò
significa che devono essere suddivisi - o analizzati
suddividendoli - in componenti e problemi parziali più semplici,
ognuno dei quali può essere risolto separatamente, applicando
principi
scientifici
e
idee
matematiche. Risolvendo
correttamente tutti i problemi parziali e integrando quindi fra
loro le soluzioni parziali, l’ingegnere arriva alla soluzione di
problemi più vasti e complessi.
ALGORITMO DELL’INGEGNERE
Grazie alle applicazioni del Digital manufacturing, cioè ai sistemi
integrati, basati su computer e sulle ICT, che comprendono
strumenti di simulazione, visualizzazione tridimensionale (3D),
analisi e collaborazione, con la finalità di creare simultaneamente
le definizioni del prodotto e del processo produttivo, la
progettazione degli artefatti viene realizzata non più per fasi e
suddividendo in maniera analitica un pezzo complesso qualunque
in componenti da realizzare separatamente e assemblare
successivamente, bensì attraverso una strategia complessiva
basata sullo scambio di informazioni relative al prodotto e la
stretta collaborazione fra i gruppi di progettazione e di produzione.
Si hanno così sistemi che consentono agli ingegneri di sviluppare
la definizione completa di un processo produttivo in un ambiente
virtuale e di effettuare la simulazione dei processi produttivi allo
scopo di riutilizzare le conoscenze disponibili e ottimizzare i
processi
prima
che
i
prodotti
vengano
fabbricati.
ALGORITMO DELL’INGEGNERE
Per fare un esempio concreto, una casa automobilistica ormai
prefigura e organizza l’intero processo produttivo a livello
digitale (attrezzature, lavorazioni, sequenze di assemblaggio e
layout della fabbrica) mentre i progettisti sviluppano in parallelo
una nuova serie di veicoli. In questo modo gli ingegneri di
produzione sono in grado di dare un riscontro immediato ai
progettisti in presenza di vincoli per la producibilità della parte.
Questo tipo di collaborazione fra ingegneri di produzione e
progettisti crea una visione completa della progettazione di
prodotti e processi che consente di associare, visualizzare e
sottoporre a modifiche immediate le informazioni relative a
prodotti, processi, impianti e risorse, con un approccio coerente
e
globale
alla
progettazione
della
produzione.
«Aiutami, Marcel, sennò divento pazzo!». È il 10 agosto 1912 quando
Albert Einstein spalanca la porta del suo grande amico Marcel
Grossmann – un matematico da poco divenuto rettore del Politecnico di
Zurigo, a soli 34 anni – e implora il suo soccorso. Di anni, Einstein, ne ha
uno in meno: il fisico tedesco è infatti nato nel 1879 a Ulm, una piccola
città del Baden-Württemberg. Ma di fama ne ha già molta di più.
Soprattutto da quando la sua teoria della relatività ristretta, elaborata nel
1905, è stata accreditata dal fisico più autorevole di quei tempi, Max
Planck. Con quella teoria un giovane e sconosciuto impiegato dell’Ufficio
Brevetti di Berna, Albert Einstein appunto, aveva mandato in soffitta i
concetti di spazio e di tempo assoluto e aveva dimostrato che energia e
materia sono due facce di una medesima medaglia. In poche settimane
di lavoro quel ragazzo di appena 26 anni aveva abbattuto alcuni dei
pilastri su cui, da un paio di millenni, si reggeva la filosofia occidentale e
su cui, da un paio di secoli almeno, si reggeva la fisica di Isaac
Newton. Eppure è solo due anni dopo, nel 1907, che nella mente di
Albert Einstein si accende la lampadina più luminosa e il giovane fisico
matura quella che lui stesso definisce «l’idea più felice della mia vita».
Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie
cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015.
È un’idea in apparenza banale. Un’immagine. Eccola, come la
racconta Einstein medesimo nel manoscritto intitolato
Grundgedanken und Methoden der Relativitätstheorie in ihrer
Entwicklung dargestellt (Concetti fondamentali e metodi della
teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo) da lui originariamente
preparato per rispondere all’invito rivoltogli nel 1919 dalla rivista
‘Nature’ di scrivere l’articolo di apertura di un numero dedicato
alla relatività, poi uscito il 17 febbraio 1921. Nel gennaio
dell’anno seguente l’articolo era pronto ma era così lungo che
dovette essere sostituito da uno molto più breve che alla fine fu
pubblicato.
Il manoscritto originale, che si trova ora alla Pierpont Morgan
Library a New York, è del massimo interesse perché, come
sottolinea Abraham Pais, “a un certo punto spiega come nel
1907, nel preparare un articolo di rassegna, fosse stato indotto a
chiedersi in quale modo la teoria newtoniana della gravitazione
dovesse essere modificata perché le sue leggi si accordassero
alla relatività ristretta”.
Cediamo dunque la parola ad Einstein:
“Fu allora che ebbi il pensiero più felice della mia vita, nella
forma seguente. Il campo gravitazionale ha solo
un’esistenza relativa, in modo analogo al campo elettrico
generato dall’induzione magnetoelettrica. Infatti per un
osservatore che cada liberamente dal tetto di una casa,
non esiste - almeno nelle immediate vicinanze – alcun
campo gravitazionale. In effetti, se l’osservatore lascia
cadere dei corpi, questi permangono in uno stato di quiete
o di moto uniforme rispetto a lui, indipendentemente dalla
loro particolare natura chimica o fisica (in questo genere di
considerazioni, ovviamente, si trascura la resistenza
dell’aria). L’osservatore di conseguenza ha il diritto di
interpretare il proprio stato come uno ‘stato di quiete’.
Grazie a questa idea, quella singolarissima legge sperimentale
secondo cui, in un campo gravitazionale, tutti i corpi cadono
con la stessa accelerazione, veniva improvvisamente ad
acquistare un significato profondo. Precisamente, se vi fosse
anche un solo oggetto che cadesse nel campo gravitazionale
in modo diverso da tutti gli altri, allora, grazie a esso, un
osservatore potrebbe accorgersi di trovarsi in un campo
gravitazionale e di stare cadendo in esso. Se però un oggetto
del genere non esiste, come si è mostrato sperimentalmente
con grande precisione, allora l’osservatore non dispone di
elementi oggettivi che gli consentono di stabilire che si trova in
caduta libera in un campo gravitazionale. Piuttosto ha il diritto
di considerare il proprio stato come uno stato di quiete e il
proprio spazio ambiente come libero di campi, almeno per
quanto riguarda la gravitazione.
L’indipendenza dell’accelerazione di caduta dalla natura
dei corpi, ben nota sperimentalmente, è pertanto un
solido argomento in favore dell’estensione del postulato
di relatività a sistemi di coordinate in moto non uniforme
l’uno relativamente all’altro”.
Questo pensiero, che porta Einstein a immaginare
idealmente il nostro Universo come privo di qualsiasi
gravità, è frutto, ancora una volta, di un’astrazione
spinta
fino
al
punto
estremo
di
liberarsi,
concettualmente, di aspetti ardui da affrontare per
stabilire il controllo cognitivo su ciò che resta. Solo dopo
essere riusciti a farlo ci si affida agli aspetti più semplici
per riannodare il filo con quelli difficili precedentemente
accantonati.
La chiave di questo processo di pensiero, come sottolinea Kip
Thorne, è costituita dalla riduzione dello spazio preso in
considerazione esplicitata dalla precisazione “nelle immediate
vicinanze”. Si immagina dunque che l’osservatore in caduta
libera dalla sua casa sia piccolo e che altrettanto ridotto sia il suo
“quadro di riferimento”, cioè il laboratorio ideale, contenente tutti
le attrezzature e gli strumenti di misurazione necessari per ogni
tipo di rilievo che si desideri effettuare. È evidente che quanto più
piccole sono queste dimensioni tanto minore sarà la differenza
della forza esercitata dall’attrazione gravitazionale sulle diverse
parti del corpo, in particolare su quelle esterne e sul centro, sino
a rendere insignificante e non rilevabile questa differenza. Se le
dimensioni sono quelle di una formica tutte le parti del corpo
saranno talmente vicine le une alle altre da far sì che la direzione
e la forza che l’attrazione gravitazionale esercita su questo corpo
saranno esattamente le stesse. Ecco perché non si avverte il
peso e la gravità sembra scomparsa, per cui la sensazione è
quella della caduta libera.
Quadri di riferimento piccoli e in caduta libera nel nostro Universo dotato di
gravità sono dunque equivalenti a quadri inerziali in un universo privo di
gravità, per cui è possibile uno spostamento dell’attenzione dalla forza di
gravità e dalla sua incidenza sul moto del laboratorio a quadri di riferimento
che si muovono liberamente grazie alla loro inerzia, non spinti né attratti da
alcuna forza e che pertanto continuano a procedere sempre in avanti nello
stesso stato di moto uniforme inerziale. Una volta acquisito il pieno
controllo su questo spostamento e sull’ibridazione che ne scaturisce tra il
linguaggio della gravitazione e quello in termini di quadri inerziali, e delle
immagini mentali associate all’uno e all’altro, che risultano interscambiabili
senza che ciò incida sulle previsioni formulate, è possibile ritornare al
livello di maggiore complessità ed esprimere in modo più profondo e
preciso il principio della relatività: “ogni legge fisica deve essere formulata
in termini di misurazioni effettuate in un quadro di riferimento inerziale. Poi,
una volta enunciata di nuovo in termini di misurazioni effettuate in qualsiasi
altro quadro inerziale, la legge fisica deve assumere esattamente la stessa
forma matematica e logica del quadro originario. In altre parole, le leggi
della fisica non devono fornire alcun mezzo per distinguere un quadro di
riferimento inerziale (uno stato di moto uniforme) da un altro”.
LE FORZE FITTIZIE
Per chi è a bordo di una vettura che sta accelerando e si versa un
bicchiere d’acqua la situazione non è la medesima di chi si trova
fermo a casa propria o a bordo di un aeroplano che vola a velocità
costante. L’acqua, infatti, non cadrebbe regolarmente, ma
formerebbe un arco la cui forma sarebbe determinata dalla
direzione e dall’intensità dell’accelerazione. Questo esperimento
molto semplice che ognuno può fare viaggiando in macchina
rileva senza ambiguità che l’auto non si sta muovendo a velocità
costante, ma sta accelerando.
Se si ipotizza invece che la vettura sia ferma bisogna postulare
l’esistenza di una forza misteriosa che spinge le cose a volte
verso il davanti e a volte verso il dietro della vettura medesima.
Forze di questo genere, che si manifestano solo in sistemi di
riferimento accelerati, sono chiamate fittizie e sono proporzionali a
m, a prescindere da come il sistema di riferimento acceleri e da
come l’oggetto si stia muovendo.
LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA
In questo caso la “forza di gravità” percepita da chi sta all’interno
della capsula è un esempio per eccellenza di forza fittizia, ma per
lui non ha nulla di fittizio: per lui è una forza reale, così come c’è
un pavimento reale e un soffitto reale ed è autentica la distinzione
tra su e giù.
A meno di riuscire a dare un’occhiata all’esterno della capsula
(cosa che violerebbe le premesse di questo esperimento mentale)
il viaggiatore non ha alcun modo di distinguere se la capsula sia in
accelerazione costante nello spazio vuoto o se sia immobile
all’interno del campo gravitazionale terrestre. Le due situazioni
sono indistinguibili.
Un sistema di riferimento accelerato non è di conseguenza
assolutamente distinguibile da un sistema stazionario immerso in
un campo gravitazionale.
LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA
Prima che il razzo che tira la capsula con una forza costante,
dando luogo a un’accelerazione costante, si metta in moto
l’occupante della capsula fluttua al suo interno e per lui non c’è
alcuna ragione per distinguere pavimento e soffitto.
Appena il razzo comincia a esercitare la sua spinta una delle
pareti della capsula si avvicina a lui che ci va a urtare rimanendoci
incollato, perché l’accelerazione costante dell’abitacolo ha rotto la
simmetria tra le pareti e ha messo fine alla possibilità di fluttuare
all’interno.
Se inoltre l’occupante gettasse in aria una matita questa
“cadrebbe” sul pavimento: questa situazione, vista dall’esterno, si
spiega con il fatto che il pavimento si muove verso la matita fino
alla loro collisione, mentre dall’interno essa è l’effetto della forza
gravitazionale.
LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA
Se ora l’occupante lascia andare due oggetti di peso molto
differente, come una matita e un’ipotetica palla di cannone, li
vedrebbe cadere fianco a fianco e colpire il pavimento nello
stesso istante.
Per gli osservatori esterni questo sarebbe ovvio: i due oggetti non
si muovono, mentre è il pavimento che si sta muovendo “verso
l’alto” per venire loro incontro: è quindi evidente che li colpirà nello
stesso istante.
Ma dal punto di vista dell’occupante della capsula il fenomeno si
verifica perché la gravità possiede la proprietà fondamentale che
Galileo fu il primo a dimostrare: cioè che tutti gli oggetti, quale che
sia la loro massa, cadono con la stessa accelerazione. Per lui
quindi la gravità non ha nulla di fittizio, ma è una forza reale.
IL PRINCIPIO DI EQUIVALENZA
Einstein chiamò “principio di equivalenza” questa nuova versione
radicalmente estesa del principio di relatività. Con questo voleva
dire che c’era un’impossibilità di distinguere la gravità
dall’accelerazione.
Supponiamo ora che la capsula sia sospesa 100 km sopra la
Terra mantenuta perfettamente immobile da un meccanismo. Per
l’occupante la forza gravitazionale permea la sua capsula
esattamente come lo farebbe sulla superficie della Terra con
l’unica differenza che a quella altitudine la gravità e un po’ minore.
Ma se a un tratto il meccanismo di ferma e lascia andare la
capsula che comincia a precipitare tutti gli oggetti al suo interno
cominciano a cadere nello stesso modo e con la stessa velocità.
Per l’occupante non esiste più un pavimento né un soffitto: egli
sperimenta l’assenza di peso, la sensazione di gravità zero e dato
che tutto sta cadendo verso la Terra alla stessa velocità per lui
nulla sta cadendo e tutto (compreso lui stesso) sta fluttuando.
L’EQUIVALENZA TRA MASSA ED ENERGIA
Allo stesso modo di tempo e spazio, o di campo elettrico e campo
magnetico, nella nuova meccanica si fondono anche i concetti di
energia e massa. Einstein si rese conto che esse sono due facce
della stessa entità: e comprese che la massa, da sola, non si
conserva, e l’energia, così com’era concepita allora, da sola non
si conserva.
L’una si può trasformare nell’altra: esiste una sola legge di
conservazione, non due. Quello che si conserva è la somma di
massa e di energia, non ciascuna delle due separatamente.
Un rapido calcolo gli permise anche di capire quanta energia si
ottenga trasformando un grammo di massa. Il risultato dato dalla
formula è strabiliante: l’energia che si ottiene è uguale a quella di
milioni di bombe che scoppino insieme, un’energia sufficiente per
illuminare le città e far girare le industrie di un Paese per mesi,
oppure per distruggere in un secondo una città come Hiroshima.
EFFETTI GRAVITAZIONALI SULLA LUCE
Immaginiamo ora che l’occupante della nostra capsula in
movimento accelerato accenda una torcia elettrica che emette un
raggio di luce perfettamente orizzontale, cioè parallela al
“pavimento” dell’abitacolo.
Gli osservatori all’esterno diranno che questo raggio si sposta in
direzione costante rispetto alle stelle lontane mentre la capsula
che lo circonda “sale” a velocità sempre maggiore. Da questa
accelerazione “verticale” costante della capsula segue che il suo
occupante all’interno vedrà il raggio di luce abbassarsi verso il
pavimento con rapidità sempre maggiore mentre attraversa la
capsula a una velocità orizzontale costante. In altre parole: per lui
il raggio di luce seguirà una curva e non una linea dritta.
EFFETTI GRAVITAZIONALI SULLA LUCE
Per il principio di equivalenza questo fenomeno che si osserva in
un sistema accelerato come la capsula dovrà osservarsi anche in
una laboratorio sulla terraferma immerso in un campo
gravitazionale.
Ciò condusse Einstein a fare previsioni di alcuni fenomeni celesti
fino ad allora neppure ipotizzati, come la minuscola deflessione
dei raggi luminosi provenienti da una stella lontana nel loro
passaggio vicino al Sole, il cui campo gravitazionale è forte.
Nel 1919, durante un’eclissi totale, una spedizione inglese guidata
dal fisico Arthur Eddington osservò effettivamente, da due isole
diverse nell’oceano Atlantico meridionale, questo fenomeno,
fornendo una precisa conferma sperimentale alla teoria di
Einstein.
3
NASCITA E SVILUPPO
DI UN PROGETTO
79
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
In queste note autobiografiche Le Corbusier parla dell’idea da
cui deriva il progetto di uno dei suoi più grandi capolavori, il
progetto e la realizzazione del tetto della chiesa di Ronchamp,
in Alsazia, costruita fra il 1950 e il 1955.
Egli racconta che, facendo una passeggiata lungo la spiaggia di
Long Island, vicino a New York, durante un soggiorno di lavoro
negli Sati Uniti nel 1946, restò colpito dalla forma di un guscio di
granchio vuoto. Lo raccolse dall’arenile e lo portò con sé,
appoggiandolo sulla sua scrivania dove rimase per anni, inerte e
silenzioso per molto tempo.
Anni dopo, nella sua mente, la forma naturale del carapace si è
“mescolata” e “ha fermentato” (termini usati dallo stesso Le
Corbusier) fino a farne emergere la soluzione di un problema
architettonico, il progetto del tetto della chiesa.
LA CONCHIGLIA E SOCRATE
Questo stimolo prodotto dalla conchiglia richiama alla mente un
testo che Le Corbusier conosceva bene. Si tratta di Eupalinos
ou l’Architecte dello scrittore, poeta e filosofo francese Paul
Valéry, pubblicato nel 1923, dialogo tra due personaggi
platonici, Socrate e Fedro. Nel testo troviamo il seguente passo:
“La conchiglia: strano oggetto trovato da Socrate lungo la riva
del mare, informe e bianco come pietra levigata dall’acqua; una
conchiglia che immediatamente fa nascere a Socrate un
ragionamento sugli oggetti prodotti dalla natura e quelli prodotti
dall’uomo; i primi raggiungono un grado del tutto più complesso
rispetto al grado dei particolari che lo compongono, mentre
l’uomo fabbrica per astrazione cioè produce oggetti che nel loro
insieme sono di grado inferiore a quello delle parti”.
PAUL VALÉRY, EUPALINOS OU L’ARCHITECTE
Il dialogo si snoda sulla base di una dicotomia che ne costituisce il
leitmotiv: la contrapposizione tra
Conoscere – idee – modelli ideali
Costruire – ricerca delle forme – realizzazione
Valéry reinventa la figura di Socrate proponendo un Anti-Socrate, il
costruttore, che rimpiange l’artista che ha lasciato perire in se stesso e
capisce di aver perseguito per tutta la vita un ideale fittizio che è
prevalso rispetto a quello più pratico, cioè quello della creazione di
forme. Introdotta questa sostanziale differenza viene fatta un’ulteriore
precisazione sull’architettura, intesa come arte che ricerca la
perfezione e l’armonia di oggetti creati dall’uomo e che può essere solo
paragonata alla musica, essendo due arti affini che “avvolgono” l’uomo
in leggi e volontà interiori.
PAUL VALÉRY, EUPALINOS OU L’ARCHITECTE
Parliamo d’architettura: Eupalinos è presente tra noi. «La cosa più
importante», dice Valéry, «è la distinzione tra quello che è veramente
l’architettura, che deve rispondere a una regola, a un canone, a una misura, e
quello che è soltanto décor de théatre. Per questo tra gli stili del passato
preferisco il classico greco-romano … L’architettura deve essere musica,
armonia tra le parti; corrispondenza a una misura, appunto come la musica. Le
fabbriche degli architetti moderni non m’ispirano mai la voglia di fermarmi un
momento per un croquis… Oggi l’architettura è solamente utilitaria, ed è
giusto; ma insieme con l’utile si deve anche soddisfare l’occhio. Si è
combattuto il vecchio decorativismo, ma non si è creata una decorazione
nuova… L’architettura moderna manca d’adattamento all’ambiente; un
architetto oggi disegna un progetto nel suo studio, senza pensare se la
costruzione dovrà essere fatta a Parigi o a Pechino. Le architetture
contemporanee si somigliano tanto tra loro in tutti i paesi, e in tutte le scuole,
che ad un critico o ad uno storico futuro sarà impossibile distinguere le opere
di un artista da quelle di un altro. E lo stesso si può dire per la pittura e per la
scultura…».
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
“Mescolamento” e “fermentazione” sono forme di astrazione:
astrazione, precisamente, per ibridazione.
É proprio l’ibridazione a operare il passaggio decisivo che
conduce alla trasfigurazione dell’oggetto, da trama-conchiglia a
trama-tetto, da oggetto consueto e familiare a oggetto
perturbante, che appare come estraneo e non più assimilabile al
modo tradizionale e consueto di vederlo.
La permanenza, inerte e silenziosa, per cinque anni del guscio
di granchio sulla scrivania dell’architetto esprime e simboleggia
un pensiero latente, che preesiste al pensare, un pensiero
selvatico e randagio in cerca di un pensatore che lo pensi,
dell’occasione giusta perché il pensatore riesca a coglierlo e a
pensarlo.
OGGETTI A REAZIONE POETICA
L’immenso patrimonio di schizzi, di disegni di progetto, di studi e
taccuini di viaggio che Le Corbusier ci ha lasciato è prezioso per
farci capire come avvenga, concretamente, il processo di
ibridazione sulla base della rappresentazione di oggetti definiti “a
reazione poetica” e per darci un’idea concreta dello sviluppo del
progetto, in tutte le sue fasi, da quella prettamente concettuale, a
quella più pratica, riferita alla realizzazione.
Secondo Le Corbusier “a reazione poetica” sono quegli oggetti
caratterizzati da una forte carica espressiva (oggetti naturali, come
conchiglie, frammenti di cortecce, radici, legni spiaggiati che il mare
ha levigato e decolorato sino a ridurli a scheletri inariditi, ma anche
rottami carichi di storia e parti meccaniche ricche di potenziale
estetico e immaginativo ecc.). Li fotografava, li disegnava più volte
per svelarne la bellezza della forma, la precisione del lavoro della
natura o dell’uomo e spesso ne riprendeva la struttura nelle sue
opere architettoniche.
Oggetti trovati per caso, scarti, rottami carichi di storia che fanno risuonare
qualcosa dentro di noi: questi sono gli oggetti a reazione poetica.
Questi oggetti diventavano poi elementi architettonici introdotti nelle sue case.
OGGETTI A REAZIONE POETICA GENERATI
Anche gli oggetti della produzione industriale sono il
risultato di un processo di selezione naturale formale
che ha origine dalle leggi della natura.
La
selezione
macchinista
della
produzione
standardizzata con le sue contingenze tecniche, legate
alla produzione in serie, detiene, consapevolmente e
inconsapevolmente, le leggi estetiche di economia,
funzionalità, ergonomia, coerenza forma-struttura che
la natura detiene spontaneamente.
OGGETTI A REAZIONE POETICA GENERATI
“L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei
VOLUMI nella luce”, e la luce rivela le forme primitive, le più
belle, quelle che hanno costruito le architetture dei tempi più
antichi, quelle che i nostri occhi riconoscono e misurano: la
sfera, il cubo, la piramide, il cilindro, il prisma, il cono; che
assemblati fra loro generano “oggetti a reazione poetica”.
Al concetto di volume si associa quello di SUPERFICIE, che
l’avvolge e modifica; e infine, la PIANTA, sintesi di tutto,
elemento generatore, senza cui ci sarebbe arbitrio e disordine.
L’architettura deve riscoprire la semplicità originaria e l’armonia
delle forme ma non ci si accorge che questa armonia è davanti
agli occhi dell’uomo, “occhi che non vedono”, nelle grandi opere
di ingegneria, che escono dal laboratorio o dalla fabbrica: le
automobili, gli aeroplani, i piroscafi.
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
Il caso del percorso seguito per portare a compimento questo
suo capolavoro può essere considerato esemplare in quanto Le
Corbusier in questi testi ci prende per mano e ci accompagna
nel percorso ideativo e realizzativo.
Si parte dagli schizzi preparatori, riguardo ai quali egli afferma:
“Si comincia con una risposta al sito. Le mura spesse, un
guscio di granchio a conferire curva ad una pianta statica.
V’inserisco il guscio di granchio: poggerò il guscio sulle mura
volgarmente spesse, ma utilmente; da Sud entrerà la luce. Non
ci saranno finestre, la luce entrerà ovunque, come uno sfavillio!”
Il guscio gli suggerisce una forma organica nuova che
caratterizza la struttura di copertura: un volume cavo all’interno,
composto da due membrane, separate l’una dall’altra da una
serie di travi reticolari.
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
Nei disegni successivi, uno in assonometria e
gli altri in sezione, ma anche in pianta, viene
analizzata nel dettaglio questa struttura
reticolare, caratterizzata da una maglia
composta da un’orditura principale di travi
metalliche, a sezione curvilinea, disposte in
parallelo e poggiate su pilastri singoli, nascosti
nello spessore delle murature, e una
secondaria, di collegamento.
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
A questa serie di schizzi a mano libera, piuttosto concettuali,
segue un disegno a riga e squadra molto importante:
rappresentato secondo il metodo della doppia proiezione
ortogonale, mette insieme il disegno della sezione, realizzato
lungo l’asse longitudinale, con quello della pianta, dove sono
riportate ribaltate le travi reticolari, in modo da controllare
tutti gli elementi nelle loro effettive dimensioni e forme. La
costruzione geometrica descrive con esattezza la forma della
copertura, che può essere definita come una superficie
rigata, realizzata attraverso una doppia membrana in
calcestruzzo, dello spessore di pochi cm., i cui elementi
principali di sostegno sono costituiti dalle travi reticolari
dell’altezza massima di 2,20 mt.
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
Nei successivi disegni, Le Corbusier definisce l’aspetto
esteriore dell’edificio: sul lato Est, la facciata si sviluppa
secondo due pareti curvilinee che si contrappongono,
traforate sul lato Sud da finestre di varia grandezza e
forma, sulla cui sommità si erge l’ampio volume della
copertura, anch’essa curvilinea; sul lato sinistro è
collocato uno dei campanili semicilindrici. Nel prospetto
Nord-Ovest la facciata è caratterizzata dalla forma
continua che si raccorda con la copertura e
dall’elemento del gocciolatoio che riversa l’acqua in un
recipiente, pieno di oggetti volumetrici semplici.
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
Il disegno della pianta, realizzato a riga e
squadra, detta le indicazioni precise
riguardo la collocazione delle pareti e dei
pilastri di sostegno della copertura, delle
pavimentazioni, nonché arredi.
LE CORBUSIER, TEXTES ET DESSINS POUR RONCHAMP
ED. COOPI, GINEVRA 1981
Il disegno assonometrico, attraverso uno
spaccato, mette in evidenza le pareti che,
nel loro andamento curvilineo, racchiudono
due cappelle raccolte, distinte dalla sala
liturgica; la parete a sud, vista dall’interno,
rivela la superficie traforata da bacature di
varia forma e grandezza.
LE CORBUSIER: LA MIA ESPERIENZA PROGETTUALE
“Io mi metto in trance, nessuno se ne accorge ma è
così”.
Présence du dénommé Abstrait, nota manoscritta del
1955, ora in A. Wogenscky, Le mani di Le Corbusier,
Roma, 2004, p. 124.
Parlando della sua modalità operativa Le Corbusier
racconta di come –affidatogli un progetto – non vi
lavorasse per mesi, fintanto che un giorno mediante
“un’iniziativa spontanea dell’essere intimo, si produce lo
scatto”. E aggiunge che non è necessario disegnare,
“ma vedere dapprima il progetto nel proprio cervello”,
giacché “è impossibile disporre i pezzi per chi non ha in
testa una forma globale” (Ibidem, p. 59).
LE CORBUSIER: LA MIA ESPERIENZA PROGETTUALE
“Quando nasce l’idea (in gergo l’ispirazione)? Prima o mentre
l’artista tiene la matita in mano? Dipende dagli individui, dalle
circostanze, da diverse condizioni, dal lavoro, dalla natura della
mente umana e anche dal comportamento. (…) Non ci sono
regole per l’arte: c’è il successo o il fallimento, essendo l’opera
d’arte il risultato di una incredibile, inconcepibile, inenarrabile
battaglia interiore. La matematica è solo uno degli elementi
costituenti, così come il colore, i valori, il disegno, lo spazio; così
come l’equilibrio, l’instabilità, la collera o la serenità. (…) Ci sono
cose che non riguardano tutti, per fortuna! Invece sembra proprio
che l’armonia sia desiderata da tutti. E la parola indica qui solo
una parte, le persone oneste. (…) Per concludere mi restano da
sistemare due fatti che possono essere veramente essere
l’espressione di due scuole di pensiero: la riga e il compasso”.
Le Corbusier, Il Modulo II, Milano 1974, pp. 215-216.
LE CORBUSIER: LA MIA ESPERIENZA PROGETTUALE
“Ho 77 anni e la mia morale si può riassumere così:
nella vita è necessario agire! E con questo intendo agire
con la modestia, con l’exactitude, con la precisione. La
sola atmosfera possibile per la creazione artistica è la
regolarità, la continuità, la perseveranza. Ho già scritto
altrove che la costanza è una definizione della vita,
poiché la costanza è naturale e produttiva. Per essere
costanti bisogna essere modesti, bisogna essere
perseveranti. È un segno di coraggio, di forza interiore,
una proprietà della natura dell’essere”.
Le Corbusier, Rien n’est transmissible que la pensée, in Oeuvre
compléte, vol. 8, Zurigo 1970, p. 173.
L’ESPERIENZA PROGETTUALE: PRIME CONSIDERAZIONI
La vastissima maggioranza dei processi che vanno avanti nel nostro
cervello non sono coscienti, ma procedono parallelamente, gli uni
accanto agli altri, in maniera non esplicitabile o, se più ci piace, subsimbolica e pre-verbale.
Solo alcuni di essi possono temporaneamente emergere nella
coscienza.
Da questo punto di vista si può assimilare ogni atto di coscienza a una
specie di clessidra. Un complesso di eventi nervosi paralleli viene
costretto per un breve istante a serializzarsi, per dar luogo a una presa
di coscienza e all’eventuale progettazione di un’azione, ma subito dopo
riguadagna il suo andamento parallelo necessario per il compimento
dell’azione stessa, che richiede l’attivazione concertata di un certo
numero di muscoli, che dev’essere a sua volta controllata in tempo reale
attraverso un continuo flusso di percezioni che servono a monitorarne
l’esecuzione. Il momento della coscienza corrisponderebbe quindi alla
strozzatura della clessidra. Prima tutto è parallelo. Dopo, tutto ritorna
parallelo. La contemplazione cosciente corrisponde al breve istante
della serialità.
L’ESPERIENZA PROGETTUALE: PRIME CONSIDERAZIONI
Quanto dura questo istante? Secondo i casi, ha una durata
compresa tra i 250-300 millisecondi e una ventina di secondi, con
una media di 2-5 secondi. Un gran numero di esperimenti indicano
che 250-300 millisecondi sono necessari perché un qualsiasi stimoli,
interno o esterno, giunga alla coscienza e possa venire “interpretato”.
Un episodio di coscienza non può quindi durare di meno. Ma non può
nemmeno durare più di quanto possa essere sopportato dalla nostra
memoria di lavoro, la cui estensione varia un po’ da persona a
persona, ma non supera appunto la ventina di secondi. Questo è il
tempo massimo durante il quale possono persistere nella nostra
mene sensazioni, pensieri e ricordi che vi si sono affacciati.
Si può quindi parlare di presente dinamico come collezione di episodi
di coscienza, ciascuno dei quali rappresenta un atomo di tempo
interno, una breve finestra temporale dai contorni sfumati. Si tratta di
un processo dinamico che forgia sintatticamente e semanticamente
la nostra percezione del mondo circostante e delle nostre azioni.
L’ESPERIENZA PROGETTUALE: PRIME CONSIDERAZIONI
Quella che noi chiamiamo coscienza, o vita interiore, è quindi una collezione di
atomi di presente. Ogni atomo di presente inizia, si mantiene per qualche
istante e decade, per lasciare spazio mentale a un altro atomo di presente. Noi
non abbiamo consapevolezza di questa estrema frammentazione della nostra
coscienza. Essa ci appare come un continuo, anzi come un continuo presente.
Ciò è dovuto al supremo degli inganni orditi alle nostre spalle dalla corteccia
cerebrale, la quale ci fornisce una visione sempre ‘ragionevole’, unitaria e
continua, dei contenuti della nostra vita mentale interiore”. In realtà, però,
quest’ultima è il risultato di una costruzione, di uno sforzo di tenere insieme, in
un insieme il più possibile coeso e armonico, che proprio per questo assume i
tratti di una continuità, un coacervo spezzettato di istanti differenti.
Vista da questa prospettiva la coscienza è il frutto dell’accordo, della
consonanza, del concerto fra componenti a se stanti, cioè di un continuo lavorìo
di armonizzazione di questi ultimi e di disposizione all’interno di un mosaico che
appaia il più possibile unitario e coeso. E l’attività di un buon psicologo, come di
un buon insegnante, consiste, in buona parte, proprio nella capacità di
accompagnare, sostenere, potenziare questo processo, dotando coloro che
sono da essi seguiti e sostenuti nei loro sforzi di crescita e di maturazione degli
strumenti più idonei a portarlo a compimento con successo.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
È interessante notare che la descrizione dello sviluppo del
progetto proposta da Le Corbusier è in totale sintonia con il modo
in cui Pauli, premio Nobel per la fisica del 1945, in un suo articolo
dal titolo Teoria ed esperimento, (in ID.: Fisica e conoscenza,
Boringhieri, Torino 1964, pp. 105-10). imposta, sulla base del
prolungato scambio dialogico con Jung, la questione cruciale del
rapporto tra osservazione e teoria, tra dati sperimentali e
formulazione delle leggi scientifiche, operando un convincente
raccordo tra questi due livelli.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
“Nel caso della situazione della conoscenza si tratta del rapporto tra il
conoscibile e il conosciuto. Il punto di vista puramente empirico, che
vuol far risalire ogni ‘spiegazione (Erklärung)’ a una ‘descrizione
(Beschreibung)’ (anche se generale e concettuale) non prende in
considerazione il fatto che ogni enunciazione di un concetto o di un
sistema di concetti (e con ciò anche quella di una legge naturale) è
una realtà psichica d’importanza decisiva. (Nella lingua tedesca ciò è
espresso nella parola Erklärung = chiarimento, spiegazione, in
quanto a qualcuno “diventa chiaro” qualcosa; sfumatura questa, che
manca nella parola Beschreibun = descrizione). Per questa ragione,
in accordo con la filosofia di Platone, vorrei proporre d’interpretare il
processo della comprensione della natura (nonché la soddisfazione
che l’uomo prova quando capisce, cioè quando diviene cosciente di
una nuova conoscenza) come una corrispondenza, cioè come una
sovrapposizione d’immagini interiori preesistenti nella psiche umana
con gli oggetti esterni e il loro comportamento”.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
Ecco affacciarsi il problema dell’articolazione del processo
conoscitivo in livelli differenti che deve indurre a prendere in
considerazione non solo la presenza e l’incidenza della coscienza
e del pensiero critico, ma anche di una base istintiva, costituita da
“metafore del profondo, da tutto ciò che abbiamo incamerato e
incorporato senza rendercene conto e che orienta e guida in
modo inconsapevole le nostre scelte e i nostri ragionamenti. A
volte si tratta di convinzioni ereditate dalla tradizione culturale
nella quale siamo cresciuti: altre volte di tutto ciò che abbiamo
incorporato dopo la costruzione delle teorie e che ci mette in
condizione di avere reazioni immediate molto più profonde, sottili
e articolate di quelle che avevamo in precedenza, in quanto sono
il risultato di una consapevolezza che viene incamerata e che ci
dà la possibilità di capire infinitamente meglio le difficoltà nelle
quali il linguaggio comune e la logica si erano imbattute senza
saperle districare.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
La presenza di questi due livelli dell’elaborazione teorica e di
qualcosa che riesca a fare concretamente da raccordo e da ponte
tra di essi, evitando che rimangano staccati e irrelati, è secondo
Pauli cruciale per affrontare e risolvere in modo convincente la
questione del passaggio dalle percezioni sensoriali ai concetti,
superando e lasciandosi alle spalle la convinzione che le leggi
della natura possano essere ricavate dal solo materiale
dell’esperienza: “Tutti i pensatori ragionevoli hanno concluso che
un tale collegamento non può essere effettuato tramite la pura
logica. Sembra di gran lunga più soddisfacente postulare a questo
punto l’esistenza di un ordine cosmico indipendente dal nostro
arbitrio e distinto dal mondo dei fenomeni.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
Che si parli di ‘partecipazione delle cose di natura alle idee’ o di
‘proprietà delle entità metafisiche – ossia, reali in sé’, il rapporto
fra percezione sensoriale e idea rimane conseguenza del fatto
che tanto la mente di chi percepisce quanto ciò che viene
riconosciuto mediante la percezione sono soggetti a un ordine
pensato come oggettivo. Ogni riconoscimento parziale di un tale
ordine naturale conduce alla formulazione di tesi che da un lato
attengono al mondo dei fenomeni, dall’altro lo trascendono in
quanto utilizzano, ‘idealizzando’, concetti logici universali. Il
processo di comprensione della natura, come pure l’intensa
felicità che l’essere umano prova nel capire, ossia nel prendere
coscienza di una nuova verità, sembra basarsi su una
corrispondenza, sulla concordanza tra le immagini interne
preesistenti nella psiche umana e gli oggetti del mondo esterno
con le loro proprietà”.
W. Pauli, L’influsso delle immagini archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero,
in Id. Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, p. 60.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
È proprio per mostrare la fecondità di questo approccio alla
questione della scoperta scientifica, radicalmente alternativo
rispetto a quello corrente, che Pauli affronta il caso di Keplero
che, a suo giudizio, si presta in modo ottimale a esemplificare
l’incidenza che, all’origine e nello sviluppo della scienza moderna,
ebbero immagini simboliche e religiose che hanno radici in un
livello del tutto inconscio e che rimangono inizialmente intrecciate
al nascente “spirito scientifico”.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
Nell’opera di questo grande scienziato, infatti, “l’immagine
simbolica precede la formulazione cosciente di una legge di
natura”: a spingerlo alla ricerca delle leggi naturali e ad aiutarlo
nella corretta formulazione di queste ultime sono immagini
originarie, che la mente percepirebbe grazie a un ‘istinto innato’ e
che ‘vengono da lui chiamate ‘archetipiche’”. Si tratta di immagini
come quella di Dio in quanto sfera infinita, che risale storicamente
al medioevale Liber XXIV Philosophorum, del XII secolo, e che ha
comunque delle precedenti versioni filosofiche e antiche nel
mondo greco, come pure mitiche e arcaiche, quella del cerchio, il
numero tre, legato alla Trinità, “attorno alle quali storicamente e
‘preistoricamente’,
sin
dall’’infanzia’
dell’umanità,
e
invariantemente rispetto a differenti etnie e civiltà, si sono
costellate una serie di idee e rappresentazioni che le hanno avute
come ‘nuclei ordinatori’”.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
Un modello radicato nel profondo e assorbito senza il vaglio del
pensiero critico impediva infatti a Keplero di pensare il movimento
dei pianeti secondo orbite diverse da quella circolare. Lo attesta
lui stesso ricordando, nella sua Astronomia nova, come il suo
percorso di ricerca fosse stato a lungo frenato dalla tendenza a
cadere in sempre nuovi labirinti in seguito alla forza trascinante di
quello che egli chiamò poi “un ladro del mio tempo”, e cioè la
credenza, appoggiata dall’autorità di molti filosofi, nei privilegi
della circolarità, che lo spinse per molto tempo a condividere la
convinzione di Brahe secondo la quale i pianeti si muovono in
cerchi perfetti. Questa credenza “funziona tra le cose come un
selettore la cui carica di verità è fuori discussione. Essa guida
Keplero nel labirinto e Galilei nei territori piani e illuminati. Essa
sembra destinata a sopravvivere per l’eternità”-
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
L’azione di questo “sottosuolo” ostacola il libero dispiegarsi delle
strategie razionali, che vengono imprigionate e costrette in una
sorta di “camicia di forza”, di “letto di Procuste”: per liberarsene,
sottolinea Pauli, egli dovette rimuovere i contenuti inconsci e gli
automatismi che fungevano da ostacolo al corretto inquadramento
del problema di fronte al quale si trovava e alla soluzione da
reperire. Ad aiutarlo in questa operazione di rimozione fu il fatto di
aver notato che passando per determinati punti, da lui
accuratamente registrati, l’orbita di Marte non poteva in alcun
caso descrivere un cerchio. Così provò a scartare il cerchio per
l’ellisse, e i calcoli confermarono la nuova ipotesi. Keplero inventò
la soluzione trasportato la figura dell’ellisse dal campo geometrico
e astratto delle coniche allo spazio concreto dell’astronomia, e
dunque introducendo nel sistema astronomico un nuovo oggetto,
il quale lo portò a ristrutturare quel sistema stesso.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
L’atto inventivo di Keplero fu quello di pensare al di là del campo
delle conoscenze disponibili, vincendo la resistenza delle
concezioni radicate (il cerchio come unica possibilità) e
ridefinendo così il corpus delle leggi applicabili. E tuttavia questo
“ladro del suo tempo” non ebbe soltanto quella funzione negativa
che egli in seguito gli attribuì, dal momento che ha avuto
comunque il merito di fungere da selettore che, collocato all’inizio
dei calcoli, è risultato “fondamentale affinché quei calcoli possano
avere inizio”.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
Pauli evidenzia dunque come, alla fine del XVI secolo e nella
prima metà del XVII si abbia un complesso rapporto tra magia e
tradizione alchimistica, da una parte, e spirito scientifico, dall’altra,
che è insieme di mescolanza e intreccio e di contrapposizione e
distinzione: in questa temperie intellettuale Keplero si presenta
come un pensatore che per un verso reagisce all’universo
misterico, con la sua forte carica di immagini qualitative e
simboliche, in quanto assertore e portatore di un modo di pensare
allora del tutto nuovo, scientifico e quantitativo, basato su
un’inedita alleanza tra indagine empirico-induttiva e pensiero
logico-matematico: per l’altro e contemporaneamente mostra di
avere, verso quella tradizione, un debito molto profondo.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
“Il suo punto di vista non è, infatti, puramente empirico, ma
contiene elementi essenzialmente speculativi, come l’idea che il
mondo fisico sia la realizzazione di immagini archetipiche
preesistenti”. Si viene così a realizzare una forte integrazione tra
le due componenti, nell’ambito della quale il pensiero causale
della scienza naturale prende avvio da “immagini dal forte
contenuto emozionale, che non sono pensate, ma piuttosto intuite
con immaginazione quasi pittorica». In quanto «espressione di
uno stato di cose vagamente intuito ma ancora sconosciuto”,
queste immagini “possono anche venire definite simboliche,
secondo la definizione di simbolo proposta da Jung. In qualità di
principi ordinatori e formativi di immagini in questo mondo di
immagini simboliche, gli archetipi svolgono appunto la funzione di
quel ponte da noi cercato tra percezioni sensoriali e idee e sono
dunque una precondizione necessaria anche per la formazione di
una teoria scientifica della natura”.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
Il riferimento all’inconscio collettivo e al patrimonio psichico di cui
esso è depositario può metterci in condizione di capire e spiegare
come spesso si arrivi alla genesi di un’ipotesi scientifica a partire
da un primo stadio, contrassegnato dall’egemonia di un contenuto
inconscio che non risulta né definibile, né razionalmente
descrivibile, attraverso la formazione, come fase intermedia, di
idee archetipiche che sono una ben definita rielaborazione di
quello stato profondo della psiche. È proprio grazie a questa
mediazione che quest’ultimo può cominciare a emergere a livello
della coscienza: questo esito si deve anche al fatto che le idee
archetipiche, a differenza degli archetipi propriamente detti, sono
definibili e razionalmente descrivibili e proprio per questo soggette
a correzioni, come infatti mostrò di poter fare Keplero, la cui
ricerca “inizialmente si muove nella direzione sbagliata e sarà in
seguito rettificata grazie ai risultati effettivi delle misurazioni”.
IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA OSSERVAZIONE E TEORIA
A conclusione di questa sua analisi Pauli chiama in causa ancora una volta
Jung rilevando come sia «interessante che la parola archetipo, che Keplero per
esempio adopera per le immagini preesistenti (platoniche), venga ora usata da
C. G. Jung anche per fattori ordinatori non intuitivi, i quali si manifestano sia
psichicamente che fisicamente».
Pauli mostra quindi di aver ben compreso e di condividere l’impianto
complessivo della ricerca di Jung, sintetizzato, per quanto riguarda la sua
applicazione al rapporto tra idee archetipiche e archetipi, e tra la dimensione
fisica e quella psichica, da Morgan: “Se riusciamo a resistere alla tentazione di
reificare le situazioni potenziali, di attribuire agli archetipi la responsabilità degli
eventi, sia materiali che psichici e cominciamo a considerarli semplicemente
come degli organizzatori della realtà, allora possiamo giungere a una più
profonda comprensione della relazione orizzontale tra fenomeni psichici e fisici,
nonché tra inconscio collettivo e coscienza. … Analizzando il concetto di
sincronicità, Jung ha sottolineato la natura acausale della relazione tra stati
psichici interni ed eventi esterni, evidente nei casi in cui gli eventi non sono
sperimentati come pure coincidenze. Non intendeva con questo affermare che
gli eventi interni causassero quelli esterni, o viceversa; riteneva piuttosto che gli
eventi venissero sperimentati in maniera diversa a seconda del significato
attribuito loro dalla coscienza”.
4
LA CATEGORIA DI
PAESAGGIO: SPAZIO
FISICO ESTERNO
“FILTRATO”
ATTRAVERSO
L’UNIVERSO
INTERIORE
138
IL CODICE URBANI
Il Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni
culturali e del paesaggio ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio
2002 n. 37” (meglio conosciuto come “Codice Urbani”) all’art. 131
definisce il paesaggio come “il territorio espressivo d’identità, il cui
carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro
interrelazioni”.
Viene così sancito che uno degli elementi costitutivi fondamentali
e imprescindibili della categoria di “paesaggio” è il riferimento,
oltre che alle caratteristiche ambientali, all’identità dei soggetti
collettivi che lo abitano. Il protagonismo e il ruolo prioritario
attribuito a questi ultimi si traduce in una differente interpretazione
del territorio, la cui natura non è più definita riferendosi in via
esclusiva o comunque prioritaria a specificità e a differenze
oggettive, ma fa piuttosto perno sulle qualità soggettive che
scaturiscono dalla relazione con attori geograficamente,
storicamente e culturalmente definiti.
IL CODICE URBANI
Ne consegue che i processi di trasformazione territoriale sono il
risultato
dell’azione
collettiva,
della
capacità
locale
di
“contestualizzare” dinamiche economiche, sociali e politiche globali,
”ritagliandole” in conformità alle modalità di razionalità e di
organizzazione proprie e mediandole con esse.
Viene così esplicitamente affermato che il paesaggio è una categoria
appartenente allo spazio intermedio tra oggettivo e soggettivo, in
quanto risultato di un continuo passaggio dei segnali e degli stimoli
provenienti dall’ambiente esterno attraverso il filtro costituito
dall’universo interiore del sistema osservante, nel nostro caso del
sistema sociale che esprime, appunto, l’idea di paesaggio e si pone
in relazione con esso. Da questo processo scaturisce quella continua
ricomposizione dell’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, che
alimenta e integra l’informazione ricevuta, arricchendola, e le
conferisce una specifica impronta legata all’ identità e alla memoria
del sistema osservante medesimo.
IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE
A conferma di questa idea di spazio intermedio c'è da chiedersi
che paesaggio avesse davanti agli occhi se per tutta la vita
dipinse la piana di Romanshorn, il piccolo villaggio che sul lago di
Costanza, con campi ordinati, filari di pioppi, il nastro argenteo
delle acque, sembra una premonizione di Gualtieri, se non
tradissero l'illusione i monti incombenti come quinte a chiudere la
vista e le architetture rustiche così lontane dalle corti padane,
senza uso di legno e colori accesi, con mattoni, porte morte e
portici con trafori in cotto a filtrare, disegnandola, la luce e l'aria.
Un bambino di sesso maschile, registrato come Antonio Costa,
nasce il 18 dicembre 1899 alle ore 21 e 40 minuti, a Zurigo,
nell'Ospedale delle donne, allora un istituto tra clinica
ginecologica, maternità e un luogo dove le ragazze madri
andavano a partorire, lontano da occhi indiscreti, anticamera
spesso dell'orfanotrofio. Sarà conosciuto come Antonio Ligabue.
IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE
Bonfiglio Antonio Domenico Laccabue era emigrato da Gualtieri,
Reggio Emilia, nel 1894, ed era già in Svizzera nel 1897. Era nato
nel 1867 a Pieve Saliceto, frazione di Gualtieri, dal sarto Federico
Laccabue e da Genoveffa Mori, cucitrice a Boretto. In Svizzera
esercitò per un certo periodo la professione di sarto.
l 28 dicembre 1900 il procuratore del re di Belluno invia al comune
di Vallada il doppio certificato di pubblicazione di matrimonio tra
Bonfiglio Laccabue e Elisabetta Costa. Siamo ad un anno dalla
nascita di Antonio.
I due si sposarono ad Amriswil, cantone di Turgau. Forse
Bonfiglio od entrambi lavoravano alla fabbrica di confezioni per
uomini “Esco”, tuttora esistente in zona. Subito dopo le nozze la
coppia si trasferì ad Hemmerswil, che oggi fa parte del comune di
Amriswil.
Ad Amriswil il 10 marzo 1901 Bonfiglio legittimò il piccolo Antonio,
dandogli il proprio cognome e rendendolo cittadino di Gualtieri.
IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE
L'incapacità di adattarsi di Bonfiglio e la docilità della Costa si
manifestano ben presto. Lui cambia continuamente lavoro e lei lo
segue in una vita errabonda, da nomadi, inseguiti dalla miseria e
probabilmente dall'inquietudine di lui che forse già allora sembrava
trovare tregua solo con l'alcol.
il piccolo Antonio fu adottato da un immigrato tedesco originario
dell'Hessen (Assia), che si chiamava Johannes Valentin Göbel. Di
religione cattolica faceva il carpentiere. Aveva sposato il 10
settembre 1883 Elise Hanselmann, una svizzera evangelica, che con
il matrimonio aveva assunto la cittadinanza tedesca. La coppia era
quindi costituita da due persone mature, che non avevano figli e che
si presero cura del piccolo italiano, senza però legalizzare quella che
possiamo considerare un'adozione di fatto. Anche questo nucleo
famigliare, le cui condizioni culturali erano modeste e quelle
economiche non certo brillanti, era nomade e cambiava residenza
facilmente. Nel 1910 i Göbel sono a Tablat, un comunello del
circondario di San Gallo.
IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE
A Marbach era in contatto con la natura. Gli era stato concesso di
allevare animali, viveva in promiscuità con ragazzi e ragazze dai sei,
sette anni ai quindici. Dal 18 maggio 1915 al 14 maggio 1917 si
trasferisce nel comune di Thal, nella frazione di Staad, per lavorare
presso un contadino di Haggenschwil. Abbandonò il lavoro inorridito
per aver assistito all'uccisione di una capra.
Il 15 maggio 1919 Ligabue fu espulso da Romanshorn e quindi dalla
Svizzera. Il 23 maggio partiva da Zurigo ed il 2 giugno era portato a
Chiasso e consegnato alla questura di Como. Il pittore non sapeva
una parola d'italiano. Forse era anche impaurito ed incapace di
comprendere ciò che gli accadeva intorno, deluso ed addolorato per
ciò che era avvenuto. Di fronte alla lentezza burocratica il 2 luglio il
prefetto di Como decide di affidare il giovane ai carabinieri, affinché
sia “con l'ordinaria corrispondenza tradotto e consegnato” al sindaco
di Gualtieri, di cui era formalmente cittadino, in seguito al
riconoscimento di Bonfiglio Laccabue.
IL PAESAGGIO DI ANTONIO LIGABUE
Gualtieri, nella bassa reggiana, era un centro prevalentemente
contadino. Pochi i proprietari terrieri. La maggiore tenuta era
quella dei conti Greppi, nobile famiglia di Milano, molti i giornalieri,
che lavoravano pochi giorni all'anno. La solidarietà socialista fa sì
che nel 1890 sorgono due cooperative, la principale a Santa
Vittoria, una frazione con un proprio forte senso di autonomia con
322 braccianti che si associano. Nel 1900 sempre a Santa Vittoria
i giornalieri fondano, primi a livello provinciale, una cooperativa
che gestisce diversi fondi. La cooperativa braccianti, muratori,
birocciai e affini fu cosa diversa e separata dalla anonima
cooperativa agricola di Santa Vittoria fondata nel 1911, che
acquistò la tenuta ed il palazzo Greppi, nel 1912. A Gualtieri nel
1890 invece sorse una cooperativa con 191 aderenti.
«ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO
A proposito del tempo dobbiamo ricordare l’idea di Kό, del
tempo come esigenza e capacità di cogliere al volo le opportunità
che si presentano sulla scena e che sfumano rapidamente, se
non le si sa afferrare. Si tratta dunque di un concetto di tempo che
presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra
pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si
possano verificare l’innovazione e la trasformazione. I termini
implicati nella relazione devono a tal scopo risultare non troppo
vicini, affinché il pensiero e l’azione non siano travolti dal corso
degli eventi, dall’effettualità che giunge a maturazione e si
compie, ma neppure troppo lontani, per evitare che essi finiscano
col perdere il contatto con il “potenziale della situazione”, per non
uscire dal campo delle possibilità che si offrono e rischiare così di
non essere pronti ad afferrarle al volo.
«ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO
Posidippo definisce Kό “pandamator”, ossia colui che domina
su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano
destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca.
Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua di
Lisippo, che traduceva in termini iconografici efficaci l’idea del
momento debito che deve essere colto non appena ci si presenti
di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del
momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nell’iconografia
lisippea, si traduce nel Kό privo dell’appiglio della chioma.
Nell’Etica Nicomachea (1096a 27) Kό è la declinazione del
bene del tempo proprio perché “l’agire deve allora riferirsi al
Kό al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito
quando esso viene a maturazione e decidere l’azione”).
«ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO
Parlare di “tempo opportuno e debito” significa, riferirsi allo sforzo
e all’obiettivo di trarre vantaggio dalle circostanze, dalle occasioni:
questa espressione sta cioè a indicare la pazienza di aspettare
che la situazione evolva per cogliere al volo gli sviluppi favorevoli,
la capacità di trovare tutte le opportunità che possono presentarsi
nelle circostanze così come si sviluppano allo scopo di trarne
vantaggio. Il termine “Kό esprime quindi una nozione di
tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di
compiutezza e di pienezza. Esso indica il momento ottimale per
ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale
per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque,
raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione
e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto –
soprattutto in campo etico – dalla misura.
«ESSERE È TESSERE» E LA CONCEZIONE DEL TEMPO
Ma c’è una possibile derivazione etimologica alternativa di questa
idea di tempo che ne fa emergere, con efficacia ancora maggiore,
i tratti distintivi. Si tratta dell’idea di tempo come î, un
termine dell’arte della tessitura. Tessere, tempo e fato erano idee
spesso collegate. Un’apertura nella trama del fato può significare
un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più
compatto o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta
attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il
momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo
limitato e il colpo va dato mentre il varco è aperto.
«ESSERE È TESSERE»
Non è certo un caso che la bellissima e sintetica espressione
«Essere è tessere», adottata da Maria Lai per il suo progetto
artistico di Aggius, sia stata scelta dalla Collezione Canclini come
titolo della mostra "ESSERE È TESSERE. 100 fili d'artista” che è
stata in esposizione nella sede della Fondazione Stelline di Milano
dal 17 dicembre 2015 al 14 febbraio 2016.
La mostra ha presentato opere di arte moderna e contemporanea,
appositamente selezionate dall'ampia e raffinata Collezione
dell’azienda Canclini di Guanzate (Co), che dal 1925 produce
principalmente tessuti di lusso che nel tempo sono stati utilizzati
da Dior, Zegna, Prada, Aquascutum. Sono stati proposti grandi
artisti – da Arman ad Alighiero Boetti, da Chiristian Boltansky e
Daniel Buren a Christo and Jean Claude, da Mario Della Vedova
e Dorazio a Jannis Kounellis e Kimsooja, fino a Andy Warhol e
alla stessa Maria Lai - in un viaggio suggestivo lungo l'evoluzione
dell'arte tessile dall'antichità ai nostri giorni.
«ESSERE È TESSERE»
In mostra sono state anche opere antiche, in una sezione di
approfondimento su episodi della storia del tessuto antico,
precolombiano, afgano, asiatico o africano, insieme a
documentazione d'archivio, esemplari rari di campioni d'epoca,
oggetti e strumenti di lavoro divenuti icone di un mestiere arcaico,
ancora oggi fonte d'ispirazioni per opere di grande fascino.
Il percorso espositivo presentava anche due interventi site specific
affidati a due giovani artisti in grado di interpretare alcuni oggetti
d'epoca della Collezione, come la sequenza straordinaria dei bauli
di Luis Vuitton o la raccolta preziosa di forbici da sartoria, in un
nuovo e inedito dialogo fra antichità e arte contemporanea.
Nella Collezione Canclini sono conservati, inoltre, molte opere
realizzate su commissione, spesso nate dall'utilizzo di materiali
forniti dall'azienda Canclini o ispirati al mondo della tessitura,
come l’opera di Jannis Kounellis scelta come immagine guida
della mostra.
5
LA NEGAZIONE
DELLA
RAPPRESENTAZIONE
E DELLA SEMANTICA
182
Il “quadrato nero”, realizzato tra il 1914 e il 1915 rappresenta la sua prima opera
suprematista. In una lettera indirizzata al compositore Matiušin, Malevič
afferma: "Questo disegno avrà un’importanza enorme per la pittura. Rappresenta un
quadrato nero, l'embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una
forza sorprendente. E' il progenitore del cubo e della sfera, e la sua dissociazione
apporterà un contributo culturale fondamentale alla pittura…."
“Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto”, spiega Kandinsky. Ecco, il
bianco come assenza di suono. Come luogo della purezza, luogo del niente o luogo
dell’invisibile…
In “Quadrato bianco su fondo bianco” i limiti della figura geometrica sono appena
percettibili e si distinguono solo attraverso la linea sottile del perimetro. Malevič arriva al
culmine espressivo.
LA SIMMETRIA ASSOLUTA
Va a questo proposito ricordato che una simmetria assoluta, quale
quella che si costituisce in seguito a un fondo del tutto omogeneo,
nel quale viene fatta evaporare ogni distinzione, è il dominio
dell’identico, del non percepibile, in quanto una simmetria è
sempre ricostruita (e percepita) a partire dalla percezione di
un’asimmetria. Ciò significa che non solo per rappresentare, ma
anche per percepire è necessaria una rottura della simmetria
assoluta, altrimenti non ci sarebbe niente di diverso, e quindi di
definito. In qualunque tipo di metodologia, artistica o scientifica, i
problemi
di
rappresentazione
e
riconoscimento
sono
fondamentali, in quanto forniscono il linguaggio simbolico e
corrispondono all'operazione logica "uguaglianza/differenza".
Una simmetria assoluta è la proiezione metaforica della totalità di
un universo infinitamente esteso e assolutamente omogeneo, in
cui sono potenzialmente contenuti tutti i significati possibili, e non
è possibile farne emergere concretamente uno.
UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE
Con l’operazione di Malevič, pertanto, il piano della tela diventa
contemporaneamente e indifferentemente Spazio e Oggetto, o SpazioOggetto o Oggetto-Spazio, e mai l’uno e l’altro come distinti che
interagiscono. L’opera che ne risulta non è in grado di prefigurare un
“altro” al quale riferirsi e con il quale ricongiungersi: eccoci dunque
costretti a navigare in uno spazio nel quale l’oggetto è scomparso e
dove, proprio nel punto in cui, presumibilmente, si è inabissato, si
allarga una chiazza, un alone scuro che va gradatamente annullandosi
nel bianco immacolato e indifferenziato della superficie.
Da questo “gesto” del suprematismo nasce una concezione della
pittura, e dell’arte in generale, radicalmente alternativa a quella
tradizionale, espressa in modo esplicito dal filosofo di origini russe, ma
naturalizzato francese, Alexandre Kojève, nipote di Wassily Kandinskij,
in un saggio del 1936 dal titolo I dipinti concreti di Kandinsky, letto e
approvato dallo stesso pittore (le sue annotazioni a margine sono
riportate in nota nel testo) che peraltro ne era stato diretto committente.
UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE
In questo suo lavoro Kojève traccia uno schema dell'arte nelle sue
varie specie, collocando i “dipinti non rappresentativi” di Kandinsky
come secondo genere della pittura, totalmente altro rispetto a quello
usuale. Quest’ultimo è rappresentativo, caratterizzato da astrattezza
e soggettività: astratto in quanto il Bello viene “estratto” dal reale, in
tutte le sue molteplici manifestazioni; soggettivo perché
quest’operazione richiede la partecipazione attiva dell’artista,
l’elaborazione delle sue impressioni, dei suoi stili percettivi, delle sue
emozioni e dei suoi sentimenti.
Kandinskij, al contrario, propone immagini "totali e assolute" che
sono sia oggettive, perché non implicano un intervento né dell'artista
né dell'osservatore, sia concrete, in quanto mondi completi e reali
esistenti di per sé, autosufficienti e autoreferenziali. Ecco che la tela
acquista, pertanto, una sua autonomia completa rispetto a
qualsivoglia operazione di riferimento, che presuppone un necessario
legame con un mondo diverso rispetto all’universo artistico in sé
considerato.
UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE
Secondo Kojéve, dunque, l’arte di suo zio non è astratta, come
generalmente si pensa, ma concreta. Basandosi sul presupposto
che “l’oggetto nuoceva” ai suoi quadri , e che le forme e i colori
non avevano bisogno di un contenuto per esprimere la loro
bellezza, Kandinskij aprì un nuovo orizzonte, basato sulla
possibilità di non rappresentare nulla e di dipingere, appunto, solo
forme, !inee e colori, cioè non la bellezza del mondo, o di un
universo di esperienze comunque definito, ma la bellezza allo
stato puro. Cambia così radicalmente il significato della pittura: da
quella rappresentativa tradizionale, impegnata ad “astrarre” dal
mondo degli oggetti i motivi che raffigura, si passa a una forma
d’arte che non “astrae” nulla dal mondo bensì crea, di suo, forme
belle del tutto indipendenti da quelle esistenti nella realtà esterna.
UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE
Questa concezione generale, basata sull’idea di fondo che il bello
non si copia, non si “estrae”, non si assimila per somiglianza o
analogia, ma si crea ex novo, svincola totalmente l’arte dalla
semantica, in quanto i quadri che ne risultano non sono “pitture di
oggetti’, comunque intesi, ma “oggetti dipinti”, che hanno la stessa
dignità e lo stesso significato degli oggetti del mondo reale, e che
si collocano accanto a essi con una loro specifica modalità di
presenza ontologica.
Paradigmatico, in proposito, è celebre caso del Cerchio-Triangolo.
Come sottolinea Kojève “il Cerchio-Triangolo non esiste prima,
fuori, indipendentemente dal quadro; è stato creato nel quadro e
tramite - o in quanto - quadro. Ed è solo in e per questa creazione
del Cerchio-Triangolo che è stato creato il Bello che esso incarna.
Anche questo Bello non esisteva prima del quadro e non esiste al
di fuori di esso, indipendentemente da esso”.
UNA CONCEZIONE ALTERNATIVA DELL’ARTE
Al fuori del quadro i soggetti di Kandinsky non hanno alcuna qualità;
in un certo senso, essi sono persino più perfetti e concreti degli
oggetti reali. Come annota lo stesso Kandinsky a margine dello
scritto di Kojève, “l’albero reale ha un'infinità di aspetti visivi”, di cui il
quadro Albero può raffigurarne soltanto uno: di fatto, “il quadro
Albero ci mostra il ‘di fronte’ dell’albero, ma nasconde quello che sta
‘dietro’”. Ciò non accade invece nel caso della pittura di Kandinsky,
dove “il Cerchio-Triangolo non è altro che l’aspetto visivo presentato
dal quadro Cerchio-Triangolo”. Al contrario dell’albero, che si trova in
uno specifico universo (“sul terreno, sotto il cielo, vicino ad altre
cose”) e che, nel momento in cui viene raffigurato, deve essere
“estrapolato” - e dunque “astratto” - dal suo contesto naturale, il
Cerchio-Triangolo non rimanda ad altro (non è un “frammento”), ma è
esso stesso “un Universo, completo e chiuso in sé”. Per questo
motivo, il Cerchio-Triangolo non è nemmeno un’astrazione:
indipendentemente dal suo artefice, esso “è in sé nella sua totalità”.
4
LA PERCEZIONE
VISIVA E I CONFINI
194
Il mondo visivo delle specie che possono focalizzare la luce per
formare immagini deve essere caratterizzato dalla presenza di
figure segregate e ben distinte rispetto allo sfondo. Date le
proprietà della luce, ci sono pochi modi per ottenere ciò. Un
modo, generalissimo, è di ricavare margini o bordi laddove la
stimolazione fisica rileva delle differenze. Il problema
naturalmente è che in molte circostanze tali variazioni fisiche
possono essere assai poco nette, per non dire indistinte, oppure
possono essere presenti solo a tratti (pensate a un animale che si
muove nel fitto del fogliame). Ecco allora che per mezzo della
selezione naturale sono stati messi a punto dei meccanismi di
interpolazione che, usando regole piuttosto semplici basate sulle
regolarità statistiche dell’ambiente (similarità di colore, chiarezza
e tessitura, continuità di direzione, movimento comune delle parti
ecc.) estraggono, a uso e consumo dell’animale che ne ha
bisogno, margini anche laddove non ve ne sono-
“
VEDIAMO CON GLI OCCHI DELLA MENTE
POSSIAMO SPOSTARE IL CONFINE TRA FIGURA E
SFONDO, MA NON ELIMINARLO
197
POSSIAMO SPOSTARE IL CONFINE TRA FIGURA E
SFONDO, MA NON ELIMINARLO
198
L’IMPOSSIBILITÀ DI VEDERE DUE FIGURE
CONTEMPORANEAMENTE
199
IL RIBALTAMENTO TRA LA FIGURA E LO SFONDO
200
QUANDO LA FIGURA TENDE A OSCURARE I
DETTAGLI
201
POSSIAMO ALTERARE LA RELAZIONE TRA PRIMO
PIANO E SFONDO
202
POSSIAMO ALTERARE LA RELAZIONE TRA PRIMO
PIANO E SFONDO
203
CI SONO TRUCCHI PER ALTERARE LE DIMENSIONI
204
CI SONO TRUCCHI PER ALTERARE LE DIMENSIONI
205
POSSIAMO ADDIRITTURA VEDERE L’IMPOSSIBILE
IL RIBALTAMENTO TRA LA FIGURA E LO SFONDO
207
6
UDIBILE E VISIBILE
LA PAROLA E
L’IMMAGINE
208
L’IMMAGINE E LA VOCE
“La voix, mais aussi les yeux. Les yeux, la voix”: così Gilles
Deleuze nel saggio da lui dedicato al pensiero di Foucault
(Foucault, Les Éditions de Minuit, Paris 1986) in cui compare un §
intitolato “Les strates ou formations historiques: le visible et
l’énonçable (savoir)” da cui è estratto il passo citato (p. 58).
Si può credere che si parli di ciò che si vede, che si veda ciò di
cui si parla e che le due azioni siano concatenate, dando per
scontata la convergenza e la sintonia tra visibile e dicibile
soltanto all’interno di una prospettiva rigorosamente empiristica
che assuma come presupposto indiscutibile non solo l’esistenza
delle cose, come la pipa, ma la possibilità di considerarle e
osservarle in sé e per sé, indipendentemente da qualsivoglia
mediazione linguistica.
L’IMMAGINE E LA VOCE
Se manca questo comune riferimento alle cose come mezzi
sublinguistici neutrali, che garantiscono la possibilità di traduzione
da un codice all’altro e la correttezza di questa traduzione,
l’immagine e la voce si scoprono privi di relazione reciproca e
irrelati: un visibile, l’immagine della pipa, che non potrà che
essere visto e un enunciato, «Ceci n'est pas une pipe», che non
potrà che essere detto, l’una senza rapporto con l’altro.
È questa la Trahison des images che dà il titolo a questo dipinto a
olio su tela del pittore surrealista belga René Magritte, realizzato
nel 1928-29.
L’IMMAGINE E LA VOCE
Quello che Magritte chiama “tradimento delle immagini” è la presa
d’atto del fatto che i due piani, quello della vista e quello della
parola, vanno separati, disposti parallelamente senza alcuna
possibilità di connessione e di interazione: abbiamo così una
parola cieca e una visione muta: una parola che si trasforma in
phoné, in pura e semplice emissione vocale, e un’immagine che
diventa pura visione, e che cessa pertanto di essere espressione
esteriore del pensiero e del linguaggio e loro estrinsecazione.
Essa acquisisce una totale autonomia in virtù della quale si
presenta come immagine in se stessa, puro visibile appunto, che
esclude ogni riferimento ad altri codici.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Vale la pena di seguire questo processo che conduce alla
regressione dalla parola alla voce come pura emissione fonetica
prendendo in esame una delle sue tappe più significative.
Si tratta della proposta di Tarski per venire a capo del classico
paradosso del mentitore facendo ricorso a un linguaggio esterno
(metalinguaggio), di livello superiore rispetto a quello in cui sono
espressi gli enunciati in esame (linguaggio oggetto).
Tarski dunque ritiene che la verità possa essere raggiunta più
facilmente e più adeguatamente sostenuta e motivata attraverso
una salita verso l’alto, e quindi valendosi di un sistema di piani
paralleli tra loro e compiendo un’ascesa verso livelli superiori del
linguaggio e del pensiero, gerarchicamente sovraordinati rispetti a
quelli di cui va valutata la condizione rispetto alla nozione di
verità.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Questa «mossa», a suo giudizio, consente di venire a capo con
successo di un celebre insolubile della storia della filosofia: il
paradosso del mentitore, appunto, la cui formulazione si deve a
Eubulide, il quale, nel IV secolo a. C., fu famoso in tutta l’antichità
per i suoi «argomenti dialettici», nei quali faceva grande uso di
una tecnica confutatoria diretta a mostrare le lacune degli dottrine
trionfanti di Platone e Aristotele, e specialmente contro i loro
presupposti che il linguaggio fosse sempre in grado di tradurre in
enunciati scientifici la realtà e che di una proposizione ben
formulata fosse sempre possibile stabilire se essa fosse vera o, al
contrario, fosse falsa. A quest’ultimo presupposto, in particolare,
Eubulide oppose la seguente antinomia: «Un uomo dice: "Io sto
mentendo”. Mente o dice il vero?»
(Eubulide, 330 a.C.). Questa
proposizione, palesemente, è vera se e solo se è falsa e falsa se
e solo se è vera.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Nell’approccio di Tarski al problema della verità questo tipo di
antinomia viene risolta in quanto si evita, con l'utilizzo di un
linguaggio superiore, il meccanismo dell'autoriferimento causa del
sorgere della difficoltà. Dislocare la proposizione in questione su
due livelli, quello del linguaggio oggetto e quello del
metalinguaggio, permette infatti di trasformarla in un’enunciazione
del tutto innocua, depurata cioè della difficoltà precedente, e
precisamente: “Io dico di me stesso che sto mentendo». Il germe
della contraddizione esemplificata nella «antinomia del mentitore»
viene così identificato nel fatto che il linguaggio ordinario è
«semanticamente chiuso», con la conseguenza di dover
contenere anche i nomi delle espressioni e i termini semantici
riguardanti le espressioni del linguaggio stesso.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
La riformulazione tarskiana della verità modifica pertanto la
concezione adeguazionista nella forma secondo la quale
«l'enunciato (detto) /p/ è vero se e solo se p». Questo vuol dire
che è possibile attribuire valori di verità soltanto se l'enunciare si
svolge in una maniera che lo consenta. Così l'enunciato p sarà
vero se, e solo se, si dà (nella realtà esterna) p, ossia se la realtà
è come dice p. Resta, comunque, che la verità costituisce una
relazione tra un rappresentante e un rappresentato o tra
verificante e verificato che in tanto «adeguano» in quanto
appartengono a piani diversi tra i quali non c'è interferenza né
possibilità d'esser compresi in un unico livello. Il problema che va
a questo punto affrontato e risolto è quello di stabilire come
debbano esser fatti i due piani affinché la relazione di verità abbia
senso e significato.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Nelle teorie tarskiane e post tarskiane il linguaggio è definito come
contenente non un semplice insieme ma una successione
ordinata di nomi (termini denotanti cose). In questo modo, le cose
si adeguano all'intelletto in quanto vengono disposte in ordine (in
serie) mediante nomi che le denotano e per poterne parlare è
necessario che siano disposte in serie. L'essere delle cose, in altri
termini, non consiste solo nel loro essere percepite, ma anche nel
modo in cui le cose sono percepite. Così, la proposta, o la
concezione tarskiana della verità assume, appunto, il suo aspetto
caratteristico in forza del quale un enunciato vero è quello che
dice che «lo stato di cose è questo-e-questo e lo stato di cose è
proprio questo-e-questo», ad esempio l'enunciato p è vero se, e
soltanto se, p; l'enunciato "la neve è bianca" è vero
sse la neve è bianca.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Dalle cose dette risulta evidente che il problema della verità in
Tarski rimanda alla definizione aristotelica del «vero» e, in modo
ancora più preciso, a quella della verità come corrispondenza già
stabilita da Tommaso, per il quale, com’è noto, la verità viene
definita quale conformità [adaequatio] dell'intelletto e della cosa
[intellectus et rei]. La problematicità di posizioni come questa, dal
punto di vista logico ed epistemologico, va fatta risalire alla
circostanza che esse si basano sulla definizione, ma lasciano nel
definiendum un senso residuo che non si trova nel definiens.
Infatti, l'intelligibile è nell'intelletto, la cosa-stessa è nella realtà ma
il fatto della loro conformità o corrispondenza non appartiene né
all'uno né all'altra.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Per capire ancora meglio il senso dell’approccio di Tarski occorre
riferirsi alla sua idea che la verità possa essere catturata dal
principio di devirgolettamento: «p» è vero se e solo se p, che
consiste nella trasformazione di un enunciato citato in una
dichiarazione reale che si ha con la disquotation, l’inversione del
processo di quotazione o citazione, cioè con l’eliminazione
dell’esplicita citazione di un enunciato. Egli non considera il
principio di devirgolettamento, noto anche come schema di Tarski
o schema T, una teoria in sé adeguata, ma solo una
specificazione di cosa dovrebbe comportare ogni definizione
adeguata. Il suo sistema mostra come dare una definizione
esplicita della verità per tutti gli enunciati di certi linguaggi formali
a partire dai referenti dei loro nomi e predicati primitivi. Si tratta
della cosiddetta teoria semantica della verità.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Per rendersi conto in maniera ancora più approfondita del perché,
a giudizio,di Tarski, il principio del devirgolettamento
(disquotation) catturi la verità bisogna partire dal fatto che le
occorrenze tra virgolette non sono in generale referenziali, cioè
non dicono nulla di ciò a cui si riferiscono. Ad esempio
l’asserzione:
“Cicerone” contiene otto lettere non dice nulla di Cicerone e non
regge al criterio di Frege per la sostitutività dell’identità. Infatti, pur
essendo Tullio = Cicerone, per cui tutto ciò che è vero di Cicerone
deve essere vero ipso facto di Tullio, sostituendo Tullio a
Cicerone nella proposizione virgoletta abbiamo “Tullio” contiene
otto lettere, che è un enunciato falso.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Per rendersi conto in maniera ancora più approfondita del perché,
a suo giudizio, il principio del devirgolettamento (disquotation)
catturi la verità bisogna partire dal fatto che le occorrenze tra
virgolette non sono in generale referenziali, cioè non dicono nulla
di ciò a cui si riferiscono. Ad esempio l’asserzione:
“Cicerone” contiene otto lettere
non dice nulla di Cicerone e non regge al criterio di Frege per la
sostitutività dell’identità. Infatti, pur essendo Tullio = Cicerone, per
cui tutto ciò che è vero di Cicerone deve essere vero ipso facto di
Tullio, sostituendo Tullio a Cicerone nella proposizione virgoletta
abbiamo “Tullio” contiene otto lettere, che è un enunciato falso.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Dal punto di vista della filosofia della mente l’estensionalismo (legato
all’opera di Frege, Russell, Quine e alla filosofia analitica) ha la
conseguenza di limitare la teoria del significato agli oggetti esistenti e a
proprietà e a relazioni meccanico-materiali descrivibili in un linguaggio
esclusivamente estensionale, la cui semantica si pone l’obiettivo di
spiegare gli apparenti riferimenti a oggetti che non esistono in modo da
eliminarli, oppure di dichiarare false tutte le predicazioni riferite a oggetti
di questo tipo. L’ontologia che ne scaturisce si propone di eliminare o di
ridurre a caratterizzazioni estensionali di stati neurfisiologici gli
atteggiamenti proposizionali e gli stati mentali come “crede che…”,
“teme che…”, e simili.
È facile mostrare che la citazione è non-estensionale, in quanto non
possiamo sostituire liberamente verità a verità e falsità a falsità
all’interno di essa senza che ne risenta il valore di verità dell’enunciato
più ampio di cui la citazione medesima costituisce una parte, come si
evince chiaramente dall’esempio relativo a Cicerone e a Tullio.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Per rimuovere questo inconveniente dobbiamo eliminare le
virgolette passando dalla citazione alla compitazione. In tal caso
invece di:
Eraclito disse «πάντα ῥεῖ»
possiamo dire, seguendo Tarski:
Eraclito disse pi-alfa-nu-tau-alfa-spazio-ro-epsilon-iota
Ciò che abbiamo fatto in questo modo è utilizzare i nomi delle
lettere insieme al trattino inteso come segno di concatenazione.
Ora, mentre la versione virgolettata esibiva un enunciato (un
enunciato greco) inserito in un enunciato più ampio, non così la
versione basata sulla compitazione: qui abbiamo appunto la
regressione dai significati alla pura emissione vocale, per cui la
questione dell’estensionalità non si pone più.
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Questa sostituzione rende chiaro che ci si riferisce a un evento
esterno, di fonazione e di scrittura, mediante una descrizione
oggettiva della forma scritta osservabile o del suono pronunciato.
È una descrizione che non è referenziale, che è tutta interna al
linguaggio, alla sua struttura e a i suoi meccanismi, come risulta
evidente dalla sostituzione della citazione con la compitazione,
per cui questa descrizione è semanticamente vera se e solo se il
filosofo greco, vissuto ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C., ha
effettivamente sostenuto che «πάντα ῥεῖ».
LA PAROLA COME PURA EMISSIONE VOCALE
Siamo pertanto di fronte all’ascesa da una situazione di opacità, in
questo caso referenziale, a una condizione di trasparenza, che
mira a eliminare qualsiasi ambiguità e ogni possibilità di equivoco
e di fraintendimento attraverso il passaggio verticale da un livello
nel quale compaiono le virgolette, e si ha quindi a che fare con
una citazione, che è l’espressione del pensiero, del punto di vista
e delle convinzioni di un determinato soggetto, e dunque del suo
stato mentale - non-estensionale come si è visto - a uno
superiore, nel quale la citazione è sostituita dalla compitazione e
le virgolette sono eliminate (disquotation), con conseguente
rimozione di qualsiasi riferimento a stati mentali e ad
atteggiamenti proposizionali.
7
IL PRINCIPIO DI
SINCRONICITÀ
226
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
Nella lettera di Pauli a Jung del 7 Novembre del 1948, il grande
fisico e premio Nobel, rivolgendosi a Jung e a un loro scambio
avvenuto il giorno prima, spiega il “principio di sincronicità”
facendo ricorso a un’immagine che consiste nel “raffigurare la
sezione trasversale di due fogli (da pensare ovunque come
perpendicolari al piano del disegno) che in genere sono separati
ma sono uniti nel loro punto centrale eccezionale (penetrando
l’uno nell’altro) – a questo proposito i matematici sono molto
generosi). Il numero dei fogli è arbitrario, e due è solo il caso più
semplice. L’essenziale è che nel ruotare intorno al punto centrale
(perpendicolare al piano del disegno) si passi dal foglio inferiore al
superiore (e anche viceversa)”.
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
Viene così introdotto un piano di riflessione disposto non già
parallelamente
e
sovraordinato
gerarchicamente,
bensì
perpendicolarmente rispetto all’insieme di piani considerati, in
modo che, mentre questo li attraversa, li lega sincronicamente
l’uno all’altro, consentendo di passare da una moltitudine di
aspetti privi di nesso a un’esperienza unica e integrale i cui
elementi, pur non essendo legati da una relazione di causalità,
hanno uno stesso o un analogo contenuto significativo
La sincronicità diventa così la capacità di legare insieme piani
differenti anche in assenza di un nesso causale.
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
A questa prima immagine se ne può far seguire una seconda,
ricavata dalla possibilità di pensare a una nozione allargata di
sincronicità, quella impiegata da Jung allorché “tra il sogno e
l’evento esteriore intercorrono 2-3 mesi”, come scrive Pauli
all’inizio della sua missiva. In questo caso basta immaginare il
piano verticale come se fosse in grado di scorrere
orizzontalmente, in modo che il legame tra piani differenti possa
avvenire in istanti di tempo differenti.
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
Questa rappresentazione spaziale alternativa consente di far
corrispondere ai piani disposti parallelamente, ma non sovraordinati
gerarichicamente, l’inconscio e la coscienza, che vengono attraversati
perpendicolarmente da contenuti archetipici tali che “da uno strato non
individuato, più profondo, del tutto atemporale si accostino alla
coscienza (fenomeno di raddoppiamento), sicché il problema della loro
integrazione è divenuto attuale nella coscienza” determinando, appunto,
l’effetto di sincronicità. In questo modo diventa non solo lecito, ma
indispensabile, ai fini esplicativi, fare ricorso a “una causa simbolica,
determinata dall’inconscio, dei relativi fenomeni ‘sincronici’, dei quali per
es. il primo (foglio inferiore) consiste nel fatto che io faccio un sogno
particolare, l’altro (foglio superiore) nel fatto che il signore o la signora x
si ammala o muore. L’effetto che scaturisce dal punto centrale posto in
uno strato intermedio riguarda innanzitutto la differenza tra ‘fisico’ e
‘psichico’ e rappresenta un ordine che si svolge al di fuori dello spazio e
in parte anche al di fuori del tempo”.
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
Un ulteriore motivo d’interesse di questa soluzione di Pauli consiste nel
fatto che essa consente di fronte a un problema che verrà evidenziato anno
dopo da Bateson. Si tratta dell’esplorazione di quella sorta di “cortocircuito”
tra comunicazione e metacomunicazione, senza il quale particolari forme di
espressività, come il gioco e il rituale, non sarebbero realizzabili.
Egli cita, a questo proposito, una sua esperienza diretta allo zoo di san
Francisco: “Vidi due giovani scimmie che giocavano cioè erano impegnate
in una sequenza interattiva, le cui azioni unitarie, o segnali, erano simili, ma
non identiche, a quelle del combattimento. Era evidente, anche
all’osservatore umano, che la sequenza nel suo complesso non era un
combattimento, ed era evidente all’osservatore umano che, per le scimmie
che vi partecipavano, questo era ‘non combattimento’. Ora questo
fenomeno, il gioco, può presentarsi solo se gli organismi partecipanti sono
capaci in qualche misura di metacomunicare, cioè di scambiarsi messaggi
che portino il messaggio. ‘Questo è gioco’”.
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
Per lo più questi messaggi metacomunicativi rimangono impliciti: e,
“specialmente durante le sedute psichiatriche, interviene un’altra classe
di messaggi impliciti, concernenti l’interpretazione dei messaggi
metacomunicativi di amicizia e ostilità”.
Il riferimento alla metacomunicazione fa entrare in gioco, come
componente imprescindibile del processo comunicativo, l’incidenza del
contesto, chiamando in causa quello che può essere chiamato l’«effetto
cornice»: “La cornice di un quadro dice all’osservatore che
nell’interpretare il quadro egli non deve impiegare lo stesso tipo di
ragionamento che potrebbe impiegare per interpretare la carta da parati
esterna alla cornice”. Questa distinzione sta a significare che nel
rapporto tra il quadro e la sua cornice “l’inquadramento stesso diviene
parte del sistema delle premesse. O l’inquadramento, come nel caso del
gioco, è implicato nella valutazione dei messaggi che contiene, oppure
semplicemente assiste la mente dell’osservatore nella comprensione
dei messaggi contenuti, ricordandogli che questi messaggi sono
mutuamente rilevanti e che i messaggi fuori di quell’inquadramento
possono essere ignorati”.
IL PRINCIPIO DI SINCRONICITÀ
Questo tipo di spiegazione è interessante e merita di essere
approfondito in quanto evidenzia come la simulazione operata
dalle due scimmie possa avere successo soltanto se i due livelli,
quello del messaggio e della metacomunicazione, vale a dire, nel
terminologia di Tarski, quello del linguaggio oggetto e quello del
metalinguaggio, anziché essere tenuti separati su due piani
paralleli vengono fatti interagire. Si determina così quello che può
essere definito un “cortocircuito logico” che però in questo caso,
anziché provocare un guasto della comunicazione o l’insorgere di
situazioni di imbarazzo e rottura per quanto riguarda l’attribuzione
del valore di verità all’enunciato, come nel caso dell’antinomia del
mentitore dalla quale siamo partiti, determinata proprio
dall’interferenza tra i due livelli in questione, è la condizione
imprescindibile della riuscita del gioco.
8
I PRESUPPOSTI DEL
PROGETTARE
239
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Riepiloghiamo allora le diverse fasi di sviluppo di un progetto realmente
innovativo.
Esso, al pari di tutte le esperienze creative, nasce dalla capacità di
avere con gli oggetti un rapporto intrecciato di onirismo, come quello
che Le Corbusier riuscì a stabilire con il suo guscio di granchio vuoto.
Per instaurare questo rapporto “il faut fendre les choses, les casser”,
“ouvrir les mots, les phrases ou les propositions, pour extraire les
énoncés”, come dice Deleuze nel suo saggio su Foucault, cioè
spogliare le parole e le frasi dal riferimento ai loro significati
consolidati e incrostati, che orientano verso una loro
interpretazione unilaterale, schiacciata sul “senso della realtà”.
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Questa prima fase è descritta splendidamente da Giorgio De Chirico:
“Pour qu’une oevre d’art soit vraiment immortelle il faut quell’elle
sorte complètement des limites de l’humain: le bon sens et la
logique y feront défaut. De cette façon elle s’approchera du rêve
et aussi de la mentalité infantine. Je me rappelle qu’aprés avoir lu
l’oevre immortelle de Nietzsche Ainsi parlait Zarathustra je sentis
dans différents passages de ce livre une impression que j’avais
déjà eprouvée, étant enfant, quand je lisais un livre italien pour les
petits, qui a pour titre Le avventure di Pinocchio”.
Pinocchio rappresenta dunque la possibilità di varcare i limiti
dell’umano radicandosi nell’immaginario infantile che si dispensa
dal rispetto delle leggi proprie del divenire adulto.
Riconoscimento come reale di ciò che comunemente è dato
considerare “immaginario”.
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Avere con gli oggetti un rapporto intrecciato di onirismo significa due
cose:
Fare in modo che il mondo degli oggetti divenga supporto di proiezione
su di essi di contenuti psichici umani;
attivare quella che Bion ha definito barriera di contatto, la
funzione
semipermeabile di separazione/unione fra coscienza e
inconscio, due termini la cui convergenza rende bene l’apparente
paradosso di una funzione che contemporaneamente separa e unisce,
aspetto che per Bion è fondamentale per discriminare la realtà esterna
dall’universo interiore e, nello stesso tempo, farli interagire.
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Avere con gli oggetti un rapporto intrecciato di onirismo significa due
cose:
Fare in modo che il mondo degli oggetti divenga supporto di proiezione
su di essi di contenuti psichici umani;
attivare quella che Bion ha definito barriera di contatto, la
funzione
semipermeabile di separazione/unione fra coscienza e
inconscio, due termini la cui convergenza rende bene l’apparente
paradosso di una funzione che contemporaneamente separa e unisce,
aspetto che per Bion è fondamentale per discriminare la realtà esterna
dall’universo interiore e, nello stesso tempo, farli interagire.
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Come scriveva nel suo saggio-manifesto del formalismo russo L’arte
come artificio, pubblicato nel 1917, Viktor Šklovski nella percezione così
come la pratichiamo usualmente: “L’oggetto passa vicino a noi come
imballato, sappiamo che cosa è per il posto che occupa, ma ne
vediamo solo la superficie. Per influsso di tale percezione, l’oggetto si
inaridisce, dapprima solo come percezione, ma poi anche nella sua
riproduzione… Ed ecco che per restituire il senso della vita, per ‘sentire’
gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama
arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come
‘visione’ e non come ‘riconoscimento’: procedimento dell’arte è il
procedimento dello straniamento (ostranenie) degli oggetti e il
procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata
della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è
fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di
‘sentire’ il divenire dell’oggetto, mentre il ‘già compiuto’ non ha
importanza nell’arte”.
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Artista, dunque, è chi ha la capacità di lavare il mondo, che non fa
che confondersi e impolverarsi, chi strofina lo specchio della
coscienza, chi sa scrostare le parole e il linguaggio dai significati
abituali ed egemoni, che sono sempre espressione di una passiva
subordinazione al senso della realtà.
Per stimolare e attivare il senso della possibilità, componente
imprescindibile della trasfigurazione dell’oggetto, che da consueto
e familiare diviene perturbante, occorre separare la parola dai
suoi significati, regredire al livello della voce, che si fa cesura tra
parola e cosa, tra linguaggio e logos.
Accettare il perturbante significa essere disposti al sacrificio della
propria stabilità interiore e accettare la sfida dell’ignoto. L’altra
faccia della medaglia è che un equilibrio omeostatico troppo
solido e rigido rende problematico ogni processo dinamico di
cambiamento. Nessun seme nuovo può crescere in un ambiente
crostificato.
SENSO DELLA REALTÀ E SENSO DELLA POSSIBILITÀ
Come ha lasciato scritto nel suo Manifesto testamentario “Quattro
momenti su tutto in Nulla” Carmelo Bene (Appendice II Manoscritti
inediti, Archivio della Fondazione l’Immemoriale di Carmelo
Bene): “Nella rappresentazione disattesa, MANCATA…, questa
voce è quanto si sottrae al linguaggio… ne spettina, ingarbuglia la
comprensione intollerabile, come un timbro prodotto dalla
“simultaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente”.
Il lavoro della cavità orale provoca la spaccatura tra ATTORE e
RUOLO … ma anche … al suo stesso interno: Questa VOCE
vomita sulla scena l’abolizione del SENSO, del SOGGETTO … in
una PLURIVOLATILITÀ del DIRE … che consente di sentire il
MOLTEPLICE all’interno della parola.
In questo modo il pensiero viene disintossicato dalla saturazione
di pensieri già pensati.
IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ
Ma il progetto non può restare al livello dell’immaginazione, per
essere artefice di un cambiamento non soltanto desiderato e
sognato, ma effettivo e concreto deve saper incidere sulla realtà
avere un effetto palpabile su di essa, da “trama conchigia” deve
diventare “trama tetto” per tornare all’esempio del progetto della
chiesa di Ronchamp, da immaginazione si deve trasformare in
realizzazione.
Il punto di svolta di questo ritorno al senso della realtà è ben colto
da Le Corbusier, il quale parla, non a caso, di risposta al sito.
Dopo essersi trasformata in voce per mettere in scena l’abolizione
del significato e del riferimento, del soggetto e dell’ambiente in cui
opera, la parola deve necessariamente riannodare il filo della sua
relazione con il contesto nel quale viene pronunciata e con la
comunità di cui è espressione.
IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ
Il segnale deve tornare a rivestirsi di significato per riacquistare la
sua funzione di segno. Ciò può avvenire soltanto se esso viene
contestualizzato, cioè se è inserito in un ambiente. Il colore rosso
acquista il significato di arresto e di alt solo se è inserito all’interno
di un codice, quello del semaforo, che esprime e sintetizza
un’intera situazione ambientale. Lo stesso colore, inserito in un
altro contesto, acquista un significato del tutto diverso e magari
opposto.
Per conferire significato ai nostri comportamenti è dunque
essenziale il rapporto con l’ambiente: questa conclusione è in
linea con il fatto che il nostro cervello è orientato alla
sopravvivenza e a mantenere un rapporto di equilibrio con il
contesto di riferimento e per farlo si vale di reazioni corporee che
sono, in gran parte, del tutto automatiche e inconsce.
IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ
Se avverto un pericolo scappo o mi mimetizzo. I circuiti di
sopravvivenza, dunque, non esistono per creare le emozioni o i
sentimenti. Devono invece gestire le interazioni con l’ambiente
come parte dello sforzo quotidiano di sopravvivere. Questi circuiti
di sopravvivenza si attivano nelle situazioni in cui il benessere è
potenzialmente messo a rischio o potenziato. La risposta
complessiva del cervello e del corpo che ne risulta è uno stato
organismico globale. Per esempio, l’attivazione di un circuito
difensivo di sopravvivenza dà origine a uno stato motivazionale
difensivo. Questo tipo di stato coinvolge tutto l’organismo (cioè il
corpo e il cervello) come parte del compito di gestire le risorse e
massimizzare le possibilità di sopravvivenza in situazioni in cui ci
sono sfide e opportunità. Il cervello, di colpo, sembra prorompere
in uno schema di attività globale su larga scala.
IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ
L’organismo vivente è un sistema aperto, in continuo scambio di
energia, materia, quantità di moto ecc., col mondo in cui è
inserito. I sistemi aperti sono perciò anche detti sistemi dissipativi.
Il mondo o ambiente, ha il ruolo di “serbatoio” per il sistema. In
esso il sistema trova la sorgente di energia cui attingere, se di
energia ha bisogno nella sua evoluzione, e il deposito in cui
versare l’energia di cui debba disfarsi.
Il fatto che i segnali, per acquisire un significato ed essere
decodificati e interpretati, debbano necessariamente essere
contestualizzati ci dice che il rapporto con l’ambiente è
fondamentale e imprescindibile non solo per la sopravvivenza
dell’organismo vivente, ma anche, e a maggior ragione, per lo
sviluppo del processo di conoscenza che lo caratterizza,
qualunque sia il livello in cui esso esso si attesta.
IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ
D’altro canto, il formalismo matematico, detto canonico, in cui
sono formulate le teorie di cui disponiamo attualmente, è limitato
a sistemi chiusi, quelli che possono essere considerati come
isolati, sottratti a ogni interazione con altri corpi e sistemi. Da
questi limiti scaturisce il fatto che, per poter applicare ai sistemi
dissipativi il formalismo di cui disponiamo, dobbiamo
necessariamente prendere in considerazione il sistema aperto,
oggetto di studio, unitamente all’ambiente in cui è immerso, in
una sorta di unidualità tra sistema medesimo e ambiente, in modo
tale che il tutto, costituito appunto dall’unione del sistema
considerato e del suo ambiente, costituisca un sistema chiuso,
cui poter quindi applicare il formalismo di cui disponiamo.
IL RITORNO AL SENSO DELLA REALTÀ
Se prendiamo, ad esempio, un sistema qualunque A, dal punto di
vista del bilanciamento dei flussi, per esempio di energia, tra esso e
il suo ambiente, quest’ultimo può essere considerato nel suo
complesso come un sistema che riceve da A, quanto da A esce, e
cede ad A quanto A riceve: “out” per A è “in” per l’ambiente, e
viceversa, “in” per A e` “out” per l’ambiente. In termini formali questo
“scambio” in  out è descritto invertendo il segno del tempo nella
descrizione dell’ambiente, che allora risulta essere l’immagine
“invertita nel tempo”, o se si vuole l’immagine nello “specchio del
tempo” del sistema A. Poiché l’ambiente rappresenta ciò che bilancia
i flussi per il sistema A (cioè relativamente al sistema A, o “dal punto
di vista” del sistema A), esso è detto il Doppio di A. Lo stato del
sistema unitario costituito da A e dal suo ambiente risulta essere uno
stato coerente in cui queste due componenti sono inscindibilmente
intrecciate l’una all’altra, in conformità al principio di entanglement
della meccanica quantistica.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Per approfondire il senso di questo viaggio di andata dal senso
della realtà al senso della possibilità e di ritorno da quest’ultima
alla prima è necessario rintracciarne i presupposti, andandoli a
cercare nelle conseguenze della distinzione tra due possibili
interpretazioni della mimesis (dal verbo miméomai, che significa
imitare e rappresentare, riprodurre imitando.
Secondo la più nota, risalente, com’è noto, al Sofista di Platone,
mimesi è l’attività dell’artista e dell’artigiano come riproduzione,
rappresentazione riproduttiva “somigliante” alla realtà esterna.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Da questo punto di vista la mimesi è imitazione,
rappresentazione, immagine, ritratto, rappresentazione teatrale
(Aristofane). Come sottolineava con acume un altro scrittore, C.E.
Gadda, il prevalere di questa prima accezione ha portato
all’egemonia del metodo, concepito come “l’insieme de’ canoni
con cui il noto viene imitato e riprodotto (…) Questa mimesi o
epitome o metodo è quindi soltanto un battere strade già note,
dopo l’angusta e laboriosa recognitio che il reale opera,
originalmente deformandosi e invenendo (invenire latino).
Proprio per questa sua connotazione, questa prima modalità di
intendere il termine in questione è alla base della concezione
della percezione come assimilazione in qualche modo passiva, da
parte del nostro apparato sensoriale prima e cognitivo poi, delle
forme e strutture della realtà esterna.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Ma c’è un’accezione alternativa del termine medesimo, che può
essere fatta risalire a uno strato più arcaico dell’evoluzione
culturale, nel quale la mimesi, invece, “si riferiva alla danza e
aveva un significato del tutto diverso: significava cioè
l’espressione dei sentimenti e la manifestazione delle esperienze
attraverso il movimento, il suono e le parole”.
Secondo questa interpretazione, la mimesi risale alla tradizione
della danza e del rito dionisiaco e avrebbe il significato di una
forma espressiva incarnata nel gesto fisico e nell’azione, che
coinvolge l’intera corporeità, e che può essere considerata in
qualche modo l’origine dell’idea, secondo la quale le relazioni tra
percezione e azione costituiscono un modello privilegiato per lo
studio delle funzioni del sistema nervoso. In base a questa idea,
quando noi percepiamo il mondo così come lo percepiamo,
spesso tendiamo a dimenticare che noi abbiamo agito in modo da
percepirlo come tale.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Abbiamo così una contrapposizione tra lo strato concettuale,
astraente, simbolico della rappresentazione, e lo strato più
arcaico dell’espressione, che riemerge nella gestualità fisica, nei
rituali della danza e della mimica e, più in generale, in tutti i
processi nei quali “il livello del controllo della coscienza desta
cede il passo a un più profondo livello di en-actement. La
manifestazione del gesto mimetico non rappresenta, ma appunto
esprime con tutto l’essere corporeo, al di là di ogni controllo
intenzionale e di ogni dominio della volontà costruttiva”.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Il problema che viene così sollevato e posto al centro
dell’attenzione è quello del differente statuto tra le due possibili
accezioni e idee di mimesis che si riferiscono, rispettivamente, al
concetto di rappresentazione e a quello di azione. Questa
differenza si manifesta, in via prioritaria, nel fatto che, a differenza
della prima, quest’ultima non sta per qualcos’altro, come nel caso
dei segni, ma è una presenza, il risultato della capacità del corpo
di esprimere direttamente propri impulsi interiori, sotto forma, per
esempio, di danza o di musicalità della poesia, cioè di quella
sonorità, anche elementare che il poeta ascolta nella propria voce
e trasmette all’ascoltatore e che ha sempre immancabilmente una
tonalità fuori dall’ordinario; il poeta vuole trascinarci a un ascolto
fuori dal contesto abituale della lingua.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Attraverso questa seconda accezione di mimesis emerge così
un legame strettissimo tra danza e poesia di cui è spia l’uso del
termine “piede” per indicare un sistema di misura dei versi poetici,
in particolare del verso classico, quello greco e latino. La scelta di
tale nome venne, come noto, dall’abitudine che avevano gli
antichi di battere il tempo sollevando e abbassando il piede a
terra per tenere il numero delle sillabe lunghe o brevi pronunciate
durante la recitazione. Recitazione e danza erano parte
integrante di un ‘unica rappresentazione e pertanto anche il
pronunciare le parole poetiche richiedeva uno sforzo notevole e
un ritmo particolare in cui tutto il corpo si ritrovava coinvolto.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Possiamo dunque dire che il primo significato di mimesis, quello
accreditato dal Sofista di Platone, esalta l’importanza dei segnali
che i corpo riceve dall’ambiente esterno e che danno luogo a
quella che possiamo chiamare una logica a base riflessa, fatta
per lo più, almeno nella fasi iniziali, di risposte automatiche.
Questa idea di logica a base riflessa emerge, in particolare,
dall’approccio di LeDoux alla questione del rapporto tra coscienza e
meccanismi inconsci.
Il leitmotiv di questi studi è che sentimenti come la paura e l’ansia
siano certamente consci, ma che il sentimento consapevole di paura
vada separato dalle reazioni corporee inconsce suscitate, ad
esempio, dalla visione di immagini minacciose, come l’aumento
della sudorazione, l’accelerazione del battito cardiaco e la
dilatazione delle pupille; ciò mostra che la rilevazione della minaccia
e la risposta connessa sono indipendenti dalla consapevolezza
conscia: sono manifestazioni corporee che non presuppongono
l’intervento della mente.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Sentimenti, come quello di paura, sorgono quando acquistiamo
coscienza del fatto che il nostro cervello ha inconsapevolmente
rilevato un pericolo. Tutto inizia quando uno stimolo esterno,
elaborato dai sistemi sensoriali del cervello, è classificato, a
livello non consapevole, come una minaccia. Gli output dei
circuiti di rilevamento delle minacce innescano un aumento
generale dello stato di eccitamento del cervello e l’espressione di
risposte comportamentali e di cambiamenti fisiologici del corpo. I
segnali provenienti dalle risposte comportamentali e fisiologiche
del corpo sono inviati al cervello, dove diventano parte della
risposta non conscia al pericolo. L’attività cerebrale viene quindi
monopolizzata dalla minaccia e dagli sforzi per affrontare i danni
che essa preannuncia. La minaccia aumenta la vigilanza:
l’ambiente viene monitorato per capire perché siamo eccitati in
questo modo specifico.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Ciò che chiamiamo emozioni sono dunque sentimenti consci
assemblati cognitivamente, vale a dire costrutti psicologici
elaborati a partire da reazioni corporee inconsapevoli e da
meccanismi e automatismi per rilevare e rispondere alle minacce.
I sistemi cerebrali che rilevano gli stimoli minacciosi e controllano
le risposte comportamentali e fisiologiche indotte da questi stimoli
non devono pertanto essere descritti in termini di paura come
sentimento conscio.
Per questo al fine di conferire significato ai nostri comportamenti
e trasformare in informazione i segnali che riceviamo è
essenziale il rapporto con l’ambiente: il nostro cervello è
orientato alla sopravvivenza e a mantenere un rapporto di
equilibrio con il contesto di riferimento e per farlo si vale di
reazioni corporee che sono del tutto automatiche e inconsce.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Il secondo significato della mimesis corrisponde invece a quello
che possiamo considerare un processo di proiezione all’esterno
dei moti e delle reazioni intrinseche del nostro corpo, che non
sono una risposta a segnali provenienti dal di fuori, da ciò che ci
circonda, ma costituiscono invece l’espressione delle specifiche
modalità di organizzazione interna e di funzionamento autonomo
di quel sistema complesso che è il nostro corpo, aperto
certamente e in costante interazione con l’ambiente esterno, ma
anche in grado di esprimere e mantenere una propria specifica
forma di equilibrio dell’ambiente interno.
IL DUPLICE SIGNIFICATO DELLA MIMESIS
Questi due significati della mimesis e i relativi processi di cui
sono espressione vanno certamente distinti, in quanto, come si è
visto, procedono in direzioni opposte, ma non possono essere
tenuti separati e considerati privi di relazione reciproca.
Vanno pertanto individuate le modalità della loro interazione: e il
progetto può essere considerato l’anello di congiunzione ideale
tra questi due processi, in quanto ciò che conta in esso non è
soltanto il prodotto al quale perviene, ma anche il prodursi
dell’artefice. Progettare è progettarsi: per diventare provetti
progettisti bisogna lavorare non solo sull’ambiente esterno, ma
anche e prima di tutto sul proprio universo interiore, che deve
essere portato a un livello tale da metterlo in grado di saper
affrontare la sfida che lo attende.
Senza disporre di un’adeguata cassetta degli attrezzi, fatta degli
strumenti per pensare che abbiamo enucleato, nessuna attività di
progettazione può riuscire.
IL GIOCO DEL ROCCHETTO
D’altra parte, come ci ha insegnato Freud, fin dalla sua infanzia
l’uomo impara a trasformare i processi che è costretto a subire
senza poterli modificare in scenari in cui diventa protagonista
attivo.
Tipica espressione di questa trasformazione è il gioco del
rocchetto di un bambino, nel quale egli, in Al di là del principio del
piacere, ravvisa il nucleo della creazione artistica. In questo gioco
l’apparire e la scomparsa del rocchetto di filo sintetizzano
l’intervento attivo del bambino in una situazione altrimenti
insostenibile per lui: le situazioni di provvisorio abbandono e di
ritorno della madre. Nel gioco è il bambino stesso a dirigere gli
eventi e non a subirli.
IL GIOCO DEL ROCCHETTO
Con il gettare via il “rocchetto” attaccato ad un filo e nel farlo
ricomparire, il bambino metteva in scena il dramma vissuto per
l’angoscia destata dall’allontanamento della madre.
Ed è interessante notare che quando l’azione di gioco fa
emergere emozioni ed affetti profondi, comparare un
coinvolgimento del gesto vocale, che indica con la risonanza
delle sue esclamazioni la profondità emotiva vissuta nel gioco.
Dunque la parola che si fa voce, che si libera da ogni riferimento
ai significati, e per loro tramite al contesto esterno, si fa interprete
autentica e diretta dei processi di maggior coinvolgimento che
provengono dall’universo interiore.
Analizzando il gioco del rocchetto Freud, non a caso, sottolinea
l’importanza dell’abbinamento della voce con il gesto.
IL GIOCO DEL ROCCHETTO
Il testo di Freud, come detto, inizia con la descrizione del gioco di
un bambino di un anno e mezzo che mette in scena la propria
angoscia d’abbandono per l’allontanamento della madre. Tramite
l’azione di gioco con un rocchetto legato ad un filo rivelava la
propria reazione emozionale all’evento traumatico.
Oltre la ripetuta azione del buttare via l’oggetto e ritirarlo a sé,
Freud coglie anche le espressioni sonore del fenomeno. Sono
gesti di gioco e suoni ripetuti che esprimono un vissuto
complesso. Nell’esempio del bambino si coglie proprio il rapporto
tra gesto di gioco e gesto verbale. Le esclamazioni come “fort”,
inteso dalla madre come “vai via”, o “dà” come “eccolo”, fino ad
arrivare all’esclamazione finale “oh…oh…oh” in cui il bambino
tramite il gesto di buttare il rocchetto legato al filo fuori dalla
sponda del suo lettino e farlo riapparire, sembra esprimere la
soddisfazione di un ritorno da lui gestito.
IL GIOCO DEL ROCCHETTO
Sia i gesti corporei che sonori descrivono la sparizione e la
riapparizione. La ripetizione dello stesso suono in corrispondenza
di ogni gesto descritto indica che è in atto una riflessione che
unisce il gesto e il suono ricorrente. In quel ripetere dell’azione di
gioco (con il rocchetto legato a un filo) e del suono si manifesta un
prendere possesso e controllare un’emozione di perdita
angosciante. Nei gesti del bambino, come nei suoni che li
accompagnano, si manifesta sia il dramma vissuto ma anche
l’indicazione di una prima risposta possibile.
Questa prima risposta con la capacità, di cui è espressione, di
trasformare una situazione nella quale ci si trova a essere,
forzatamente, spettatore passivo in uno scenario nell’ambito del
quale si diventa capaci di esercitare, almeno simbolicamente, una
propria funzione di controllo della successione degli eventi,
acquisendo il potere di gestirla, può essere considerata, senza
forzature, una originaria e già significativa manifestazione di una
competenza progettuale.
Alanis Morissette 1998