Riccardo Venturi: reportage sociale

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Riccardo Venturi: reportage sociale
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PRIMO PIANO
GRANDI FOTOREPORTER
Riccardo Venturi: reportage sociale
©Riccardo Venturi, North Afghanistan 2002
ROMA – Forse a qualcuno il suo nome suonerà sconosciuto, ma di Ric-
cardo Venturi, fotoreporter nato a Roma nel 1966, tutti senz’altro avranno
ammirato almeno una delle tante fotografie apparse sulle più note testate
giornalistiche (La Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, Panorama,
Riccardo, com’è nata la tua passione per la fotografia?
“Bella domanda, perché da ragazzo
non avrei mai immaginato di fare
il fotografo. Oltretutto in famiglia
il vero appassionato era mio fratello, che usava il bagno di casa
come camera oscura, occupandolo per interi pomeriggi. Quindi la
fotografia quasi la odiavo. Poi a 15
anni rischiai di perdere la vista per
una grave infezione al nervo ottico
che mi costrinse a lunghe cure. Per
me fu uno choc e, riflettendoci ora,
forse la mia attrazione verso la visione nacque lì. Ma fu un percorso
del tutto inconscio, non certo una
scelta ponderata”.
I primi lavori?
“A Roma, nel mio quartiere, Monte
L’Espresso, Famiglia Cristiana, ecc.) vincitrici di vari premi internazionali,
fra cui il World Press Photo 1997 e 2011. Noi l’abbiamo incontrato al rientro
da uno dei suoi tanti viaggi in giro per il mondo, per farci raccontare la sua
professione, nonché il ruolo della fotografia nella società dell’immagine.
Sacro, che all’epoTu sei consideca presentava prorato uno dei più
blematiche sociali
grandi conoscitopiuttosto forti. Da lì
ri dell’Afghanistan.
a Napoli e poi pian
Guardandolo in TV
piano sulla scena
sembra un paese
di immani tragedie
del tutto insicuro
quali il terremoto in
e inospitale, è così?
Iran e lo tsunami in
“Non posso negare
Sri Lanka, nonché
che l’Afghanistan sia
Riccardo Venturi
nelle guerre di mezun posto insicuro, sozo mondo: Somaprattutto per un occilia, Striscia di Gaza, Liberia, Sierra
dentale, tuttavia debbo riconoscere
Leone e tanto, tanto Afghanistan.
che ho rischiato molto di più in altri
Com’è buffo il destino: avevo evicontesti, come ad esempio in Libia
tato il servizio militare per via del
durante la guerra civile del 2011”.
mio problema alla vista e poi mi
ritrovavo in una guerra vera arCome mai?
mato “soltanto” di una macchina
“Perché i miliziani libici erano del
fotografica.
tutto impreparati sul piano tattico
e militare. Seguendoli a bordo dei
loro pick-up, più di una volta eravamo noi fotoreporter a intuire che
stavano per cadere in un’imboscata
mortale tesa dagli uomini di Gheddafi. Oltretutto dove non ci sono
combattenti preparati quasi sempre
subentrano mercenari provenienti
da altri Paesi, che imbracciano un
fucile solo per soldi. Non puoi affidare la tua vita a chi uccide per denaro; è molto più sicuro collaborare
con soldati ceceni e afghani che la
guerra la sanno combattere”.
Afghani, gran combattenti...
“Per forza, sono in guerra dal 1979
e lì anche i bambini di sei anni imbracciano un kalashnikov. Ciò nonostante quello afghano è un popolo assai ospitale, curioso e aperto.
Difatti sono stato quasi sempre ben
accolto nei villaggi e nelle case dove
sono stato a mangiare e a dormire,
mentre mi sono sentito rifiutato di
rado e comunque sotto l’influenza
di certi eventi. Ricordo, ad esempio,
che nel 2011 mentre mi trovavo nel
mercato di Kandahar con dei colleghi stranieri, fummo costretti a fuggire sotto una fitta sassaiola di centinaia di persone che ci inseguivano
inferocite. Non stento però a comprenderne i motivi, visto che fino
a qualche ora prima gli americani
avevano bombardato le loro case”.
Che cosa ti affascina di più
dell’Afghanistan?
“Il suo essere un Giano bifronte:
un paese armato fino ai denti, non
scevro di gravi pericoli da un lato,
e un luogo che spinge fortemente
verso il misticismo dall’altro. Nemmeno nella foresta amazzonica ho
avvertito così forte la sensazione di
sentirmi fuori dal mondo, di vedere
tracce di una cultura antichissima
che pensavo ormai dimenticata. Ciò
grazie anche alla sua conformazione, trattandosi di un paese enorme,
in gran parte disabitato e ricoperto
da montagne meravigliose, quasi
una sorta di tetto del mondo dove
ti senti fuori dalla globalizzazione.
Un giorno arrivai in un villaggio incantevole, attraversato da canali
per l’acqua in legno e punteggiato
da mulini, dove, nonostante al potere vi fossero ancora i talebani, la
vita della comunità scorreva molto
serena. Lì fui ospite di un signore
che aveva lavorato per molti anni
in Occidente. “Vedi – mi disse – il
conflitto che può nascere da questa
linea antica con la vostra modernità
ci schiaccerebbe e a te impedirebbe
di vivere questo momento. Il nostro
è un mondo fragile e lo dobbiamo
difendere con delle regole che a voi
occidentali potrebbero sembrare assurde, ma se le sai rispettare poi ne
apprezzi anche i vantaggi”.
Con lo scrittore Eduardo del
Campo hai realizzato il libro
“Da Istanbul a Il Cairo”. Sembra cronaca di oggi e invece risale al 2009...
“Intuire in anticipo il mondo che
cambia è una delle doti che un buon
fotoreporter deve possedere. Allora – molto prima delle cosiddette
“Primavere arabe” che oggi sono
purtroppo diventate un’altra cosa –
©Riccardo Venturi, Kossovo
capimmo che il Medio Oriente stava
per trasformarsi. Quindi partimmo
per un lungo reportage da Istanbul
fino a Il Cairo, attraversando Siria,
Turchia, Libano, Giordania, Israele, Gaza ed Egitto, con l’intento
di capire e documentare l’identità
mediorientale prima che si sbriciolasse. Oggi, ad esempio, le foto
che feci in Siria rappresentano un
paese che non c’è e che forse non
ci sarà più”.
Hai vinto i premi “Marco Lucchetta” e “UCSI” con un reportage sulla tubercolosi nel mondo, realizzato in collaborazione
con l’Organizzazione mondiale
della Sanità. Ce ne parli?
“Tutto è nato da una richiesta di
collaborazione da parte di una mia
carissima amica, Anna Cataldi, che
lavora per l’ONU e che è testimonial
contro la tubercolosi nel mondo. Inizialmente andammo in Afghanistan,
poi in altre zone del pianeta con
una collaborazione più strutturata”.
Com’è il quadro?
“Sconfortante, perché nei primi
anni ‘90 con l’esplosione dell’Aids,
malattia molto più “mediatica” nelle società occidentali, sono stati
fatti enormi investimenti su questo fronte – con effettivi benefici
grazie ai moderni farmaci retrovirali – trascurando la tubercolosi i
cui farmaci sono fermi agli anni
‘70. Un altro aspetto preoccupan-
te è che si stanno diffondendo due
nuovi ceppi molto più aggressivi e
resistenti ai farmaci”.
Ti sei occupato anche degli incidenti sul lavoro. Perché?
“Perché ogni anno in Italia sul pocontinua a pag. 8
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sto di lavoro muoiono circa mille persone e quasi non se ne parla. Quindi, con una giornalista, ho
deciso di fare un lungo reportage
che mi ha fatto scoprire l’Italia più
modesta, quella che tira la cinghia
e che paga un doppio prezzo alla
crisi economica: non dimentichiamoci, infatti, che molte aziende pur
di far quadrare i conti tagliano con
maggior facilità sulla sicurezza dei
cantieri e degli operai anziché ottimizzare la produzione. Le immagini
che ho scattato sono diventate un
libro e una mostra che ha già all’attivo oltre 50 tappe, con il sostegno
anche dell’Associazione nazionale
fra mutilati ed invalidi sul lavoro. Il
progetto, inoltre, è stato proiettato anche nel salone del Quirinale,
alla presenza del Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano,
ricevendo molti apprezzamenti”.
Viviamo nel mondo delle immagini, ma le sappiamo leggere?
“Vero, da un lato c’è un tale bom-
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bardamento d’immagini che si corre
il rischio di non vederle nemmeno
più. D’altra parte, però, il pubblico
sta diventando sempre più scaltro
e competente. Quindi se uno riesce a trovare una formula visiva e
narrativa valida, questo muro, che
in effetti esiste, si può rompere entrando in comunicazione con tutti”.
Come vedi la produzione fotografica di questi ultimi anni?
“Come tante altre forme d’arte, anche la fotografia è diventata un po’
troppo autoreferenziale, autocelebrativa e troppo orientata verso l’estetica fine a se stessa. Penso che
oggi, anche per i tempi che viviamo,
la fotografia dovrebbe essere un’arte con una valenza sociale molto
più forte, com’era negli anni ‘60”.
La fotografia dovrebbe essere
insegnata a scuola?
“Molti la considerano ancora un
hobby, ma la fotografia è una disciplina artistica che andrebbe in-
©Riccardo Venturi, Kabul, 1996, una donna con il burka cammina fra le rovine
©Riccardo Venturi, Yemen, vittime dei trafficanti di esseri umani
segnata anche a scuola. Oltretutto,
ha il vantaggio di essere una forma
culturale molto democratica. Ben
pochi in vita loro avranno realizzato un dipinto o una scultura, ma chi
può dire di non aver mai scattato
una fotografia? Ciò nonostante c’è
scarsa consapevolezza circa il fatto
che la fotografia rappresenti uno
strumento per l’analisi della società
e talvolta addirittura di autoanalisi”.
Oggi tutti fotografano. La quantità pregiudica la qualità?
“La fotografia professionale esisterà sempre, solo che ne è cambiato
profondamente il ruolo. Un tempo la fotografia, gestita da un’élite,
era lo strumento attraverso il quale
l’uomo comune conosceva paesi e
popoli lontani. Oggi invece svolge
perlopiù un ruolo informativo, anche se il fotoreporter professionista non è più quello che arriva per
primo e mostra un aspetto inedito,
ma quello che ha capacità di analisi, di mettere insieme vari elementi eterogenei creando un racconto
strutturato e organico che offra una
visione dell’evento più profonda e
articolata rispetto al cosiddetto citizen journalism, quello prodotto dai
primi testimoni, comuni passanti o,
addirittura, dagli stessi protagonisti.
Ad esempio un video girato in Siria e postato in rete da un anonimo
non sappiamo assolutamente quanto possa essere vero e attendibile.
Solo un fotografo professionista, di
provata esperienza sul campo, può
offrirci la garanzia sul piano dell’attendibilità e veridicità di ciò che è
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©Riccardo Venturi, terremoto ad Haiti 2010. Il vecchio mercato coloniale
dato alle fiamme dagli sciacalli pochi giorni dopo il sisma.
ritratto. Ecco perché la fotografia
professionale non morirà mai”.
Consigli a un aspirante fotoreporter?
“Innanzi tutto di non lanciarsi in
prima linea. Purtroppo però, vista
anche la crisi che ha colpito l’editoria, è proprio ciò che sta avvenendo
da una decina d’anni, spesso con
rischi fisici e psicologici enormi
per l’aspirante fotoreporter, perché avventurarsi in zone di guerra
senza un’adeguata preparazione
“tattica” può davvero costare la
vita e anche trovarsi a documentare certe tragedie richiede, oltre a
una grande umanità, una profonda
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©Riccardo Venturi, Bengasi, Libia, marzo 2011. Una madre dopo aver identificato il corpo del figlio, un ribelle ucciso dalla milizie di Gheddafi
conoscenza di se stessi, altrimenti
c’è il pericolo di rimanere scioccati. Pertanto gli consiglio di svolgere
due o tre anni di sperimentazione
su un terreno conosciuto, cercando di scoprire storie interessanti da
raccontare non troppo lontano da
casa e dal proprio contesto socio-
culturale, calandosi nella realtà che
lo circonda con interesse vivo. Gli
raccomanderei, infine, di chiarirsi
subito le idee sul tipo di fotografo
che vuole diventare: se intende seguire le news, piuttosto che diventare uno storyteller”.
Johnny Gadler