scarica - ORDINE degli AVVOCATI di BENEVENTO

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Direttore editoriale
NICOLA DI DONATO
Direttore responsabile
DOMENICO ZAMPELLI
Segretaria di redazione
ANNALISA PELOSI
LUCIANA FESTA
Comitato di redazione
STEFANIA ANGELONE
UGO CAMPESE
VINCENZO CATALANO
ORESTE DE ANGELIS
NAZZARENO FIORENZA
ELENA MARIA GUIDA
ANTONIO LONARDO
FRANCO LUCIA
FRANCESCO LUONGO
ALBERTO MAZZEO
ROSANNA PAGLIUCA
ALEXIA PALUMBO
LEOPOLDO PAPA
LUISA VENTORINO
Illustrazioni
UMBERTO GIANTOMASI
Tutto il materiale pervenuto alla redazione potrà essere pubblicato anche su altri giornali o riviste o immesso in rete sul sito dell’Ordine degli Avvocati di Benevento o su altri siti.
Rivista associata all’USPI
(Unione Stampa Periodica Italiana)
UMBERTO GIANTOMASI
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Sommario
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Editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Parte Prima
PROFILI DOTTRINALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
LUCA COLETTA, ANNA GIANCASPRO, I recenti sviluppi giurisprudenziali
circa la giurisdizione in materia urbanistica e di espropriazione per pubblica utilità:
in particolare, il “tramonto” della cd. accessione invertita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
ALEXIAE PALUMBO, Le funzioni della responsabilità civile:
prospettive del danno risarcibile sul fronte del diritto europeo comune . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
NICOLA IZZO, Il nesso di causalità nei reati omissivi impropri:
il problema della “certezza processuale” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
Parte Seconda
OSSERVATORIO
GIURISPRUDENZIALE
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Tribunale Penale di Benevento n. 74/08
con nota di ANTONELLA MAFFEI, Istigazione all’uso di stupefacenti
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Commissione Tributaria Provinciale di Benevento, sez. II, n. 89/08
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Giudice di Pace di Benevento n. 1041/08 - Tribunale di Benevento n. 848/08
con nota di FRANCESCO LUONGO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
Parte Terza
VITA DELL’AVVOCATURA
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Calendario Formazione Permanente II sessione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
Calendario corso di formazione per praticanti avvocati
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Modifiche al Codice Deontologico Forense . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
SIMONA BARBONE, Il decreto Bersani contro la difesa dei “non abbienti”!
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LA VOCE DEL FORO - N. 1–2 - 2008
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Sommario
Editoriale
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Parte Quarta
ATTUALITÀ LEGISLATIVE
E GIURISPRUDENZIALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Legge 18 marzo 2008 n. 48 in materia di criminalità informatica
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Corte Costituzionale, 19-23 maggio 2008 n. 169
con nota di LUISA VENTORINO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 4 marzo – 8 aprile 2008 n. 9148
con nota di LEOPOLDO PAPA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 18 marzo 2008 n. 7295
con nota di STEFANIA ANGELONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144
Corte di Cassazione, Sezione III Penale, 17 gennaio 2008 n. 2475
Parte Quinta
LE RADICI DEL
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NOSTRO FUTURO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Processo a Quasimodo
Note sulle illustrazioni
Umberto Giantomasi
Notizie sugli Autori
La eterogeneità dei temi prospettati ai lettori nella Prima Parte trova convergenza negli obiettivi redazionali della Rivista di trattare quegli
argomenti di attualità e di interesse pratico sui quali si registra una svolta
o un nuovo indirizzo di impostazione o di soluzione. Ed è il caso della
nuova giurisprudenza in tema di occupazione acquisitiva che chiude l’epoca dell’accessione invertita, avversata dalla CEDU, difesa strenuamente dalla Corte di Cassazione (che ne fu genitrice e gelosa nutrice) ed infine seppellita dalla recente giurisprudenza amministrativa. L’argomento, trattato
da Luca Coletta e Anna Giancaspro, merita particolare attenzione non
solo per il modo in cui è svolto ma soprattutto per i riflessi che potrà avere nei rapporti tra la decisione del giudice ed il complesso procedimento
per l’attuazione in sede amministrativa della sentenza.
Ed è anche il caso delle prospettive del danno risarcibile sul fronte del diritto europeo, di cui si occupa con mente scientifica ed animo appassionato (come si coglie dallo stile) Alexiae Palumbo: il pregevole saggio, dopo un’esauriente sintesi delle problematiche relative al rapporto tra responsabilità civile e danno risarcibile e precisate le diverse funzioni della
responsabilità civile, richiama le esperienze giuridiche francesi, tedesche
e spagnole. Lo studio della Palumbo si inserisce nel nuovo ed impegnativo filone di allargamento dell’orizzonte giuridico sul fronte del diritto comune di cui sono, tra gli altri, esempi illustri e più recenti il Convegno
internazionale di studio svoltosi a Messina dal 28 al 30 settembre 2005
(del quale nel 2007 sono stati pubblicati gli atti a cura di D. Scalisi); la
monografia di S. Pitti, Diritto privato e codificazione europea, Milano, 2007;
lo scritto di D. Scalisi, Il nostro compito nella nuova Europa, in Europa e diritto privato, 2007, fasc. 2, pag. 239; l’articolo di A. Catricalà, La modernizzazione del diritto comunitario della concorrenza: tendenze e prospettive in
Italia, in Rivista di diritto industriale, 2006, fasc. 4-5, pag. 143; il volume di
A. Somma, Introduzione critica al diritto europeo dei contratti, Milano, 2007.
L’argomento trattato da Nicola Izzo, Il nesso di causalità nei reati
omissivi impropri: il problema della “certezza processuale”, si inserisce nel-
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Editoriale
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la tematica di cui la rivista si va occupando (si veda lo studio di P.
Piccialli, Nesso di causalità e colpa medica, nel fasc. 2-3 del 2007, pag.
106 e segg.).
Il principio guida della giurisprudenza in materia (al quale fanno capo i successivi pronunciati si vedano tra gli altri Cass. Penale IV, 20.2.2008
n. 22614; id., 26.6.2007 n. 37957; id., 28.6.2007 n. 41835; id., 7.6.2007
n. 36164; id., 24.5.2007 n. 35115; sez. V, 9.5.2007 n. 24271; sez. IV,
4.4.2007 n. 25486; id., 28.2.2007 n. 19353; id., 7.12.2006 n. 24812; id.
6.12.2006 n. 19334; sez. II, 25.10.2006 n. 1559; sez. IV 19.1.2006 n.
16995) è quello enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza 10.7.2002
(Franzese). Il problema trattato da N. Izzo trova un riferimento giurisprudenziale specifico in Cass. pen. IV, 7.6.2007 n. 36162, laddove si precisa, in riferimento alle condotte omissive ed alla stregua del principio già
affermato nella sentenza Franzese, che “l’individuazione del nesso causale non può avvenire in termini di certezza oggettiva, bensì di certezza processuale” (un richiamo alla “certezza processuale”si trova anche in Cass. IV,
3.5.2007 n. 22513). Le argomentazioni di N. Izzo vanno lette e collegate a Cass. IV, 26.3.2008 n. 17523, secondo cui “la prova del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento deve fondarsi sulla probabilità logica e non di quella statistica,… dovendosi piuttosto fare riferimento al
ragionamento inferenziale evocato in tema di prova indiziaria dall’art. 192,
comma secondo, cod. proc. pen., oltre che alla regola generale in tema di
valutazione della prova di cui al primo comma dello stesso articolo ed alla ulteriore regola della ponderazione delle ipotesi antagoniste, prevista
dall’art. 546, comma primo, lett. e), cod. proc.. pen.”.
Non si può disconoscere l’utilità di questi studi per l’attività professionale improntata a rigore scientifico e serietà di impegno. Non è
intento de’ La Voce del Foro fornire sentenze e massime utili per le
immediatezze quotidiane; a tanto adempiono con efficienza e tempestività le varie banche dati on line, con le quali non può competere
una Rivista a cadenza trimestrale (che a volta diventa semestrale). Ecco
perché si è voluto dare una rilevanza preminente alla parte dottrinale
ed alle novità legislative e giurisprudenziali, segnalando anche con
commenti e note le decisioni più significative o innovative.
La Parte Seconda accoglie, con nota di Antonella Maffei, una sentenza penale del Tribunale di Benevento che ha già avuto rilievo nazionale sul sito Altalex; nonché una decisione della Commissione Tributaria
Provinciale di Benevento, che fa applicazione in una fattispecie concreta
di un principio ormai pacifico; ed infine due pronunce (di primo grado
e di appello) in materia di condominio, con nota di Francesco Luongo.
La Parte Terza, oltre al Calendario per la formazione permanente
ad a quello del corso per i Praticanti, contiene la delibera 12.6.2008 del
Consiglio Nazionale Forense di approvazione di alcune modifiche al Codice
deontologico, nonché un articolo critico (ed a ragione) di Simona
Barbone sul c.d. Decreto Bersani relativamente alla riscossione degli onorari per la difesa dei non abbienti.
Nella Parte Quarta è riportata la L. 18.3.2008 n. 48, -di ratifica e
esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla Criminalità
informatica-, con la quale vengono aggiunti, sostituiti o modificati alcuni articoli del codice penale, del codice di procedura penale e di altre leggi particolari.
Segue la sentenza n. 169/2008 della Corte Costituzionale, annotata
con la solita puntualità da Luisa Ventorino, sulla illegittimità dell’art. 4,
co. 1, L. 898 1970 nel testo sostituito dall’art. 2, co. 3 bis, D.L. 35/2005
(conv. in L. 14.3.2005 n. 80), per irragionevolezza di rigidi criteri di competenza territoriale nelle cause di scioglimento o cessazione degli effetti
civili del matrimonio.
Viene inoltre segnalata, con una pungente nota a guisa di racconto di
Leopoldo Papa, la pronuncia delle Sezioni Unite civili (4 Marzo-8 Aprile
2008 n. 9148) che ha escluso la solidarietà passiva per le obbligazioni contratte nell’interesse del condominio per lavori di ristrutturazione, rifacimento o manutenzione dell’edificio, ed ha ritenuto la parziarietà delle stesse, rendendo più onerosa la posizione del creditore (la ditta esecutrice dei
lavori) che pretende l’adempimento.
Richiama l’attenzione il pronunciato della Cass., sez. lav., 18.3.2008
n. 7295, sulle conseguenze della inosservanza del termine finale per l’applicazione della sanzione disciplinare a carico del lavoratore. Alla sentenza segue la nota di Stefania Angelone. Delineato il quadro generale del-
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le garanzie del lavoratore in ordine all’istituto del licenziamento ontologicamente disciplinare e richiamata la posizione della giurisprudenza sul
punto, l’A. aderisce alla decisione annotata, che ha ritenuto la perentorietà del termine per l’irrogazione della sanzione disciplinare da parte del
datore di lavoro al dipendente.
Sorge qualche interrogativo. Questa pronuncia non mette in crisi il
concetto di “termine perentorio” come legislativamente definito dal comb.
disp. degli art. 152, co. 2, e 153, c.p.c.? Non è resa incerta la delimitazione tra i termini ordinatori e quelli perentori? Non si poteva pervenire alle stesse conclusioni senza ritenere “perentorio” quel termine?
In materia penale viene proposta alla considerazione dei lettori una
sentenza (Cass. III, 9.10.2007 n. 2475, depositata 17.1.2008) in tema di
molestie alle persone per emissione nell’ambiente esterno di esalazioni
odorose “nauseanti e puzzolenti”, in violazione dell’art. 674, cod. pen. Il
problema affrontato dalla Corte è tra i più travagliati dell’ultimo ventennio e riguarda la sfera di operatività e l’ambito di applicazione della norma codicistica (art. 674 cod. pen.) e della normativa speciale antinquinamento (ora D. Lgs. 3.4.2006 n. 152). La sentenza si segnala per la sintetica ma esauriente prospettazione dei due indirizzi giurisprudenziali incentrati sulla interpretazione dell’inciso contenuto nell’art. 674, secondo cui
il reato sussiste quando il getto di cose (e le immissioni di gas, fumo o vapori) avviene “nei casi non consentiti dalla legge” [il che faceva dire al
Maggiore, Diritto penale, Zanichelli, Bologna, 1953, Vol. II, tomo II, pag.
1113, che per la sussistenza della contravvenzione “Occorre il difetto di
consenso della legge (nel senso di qualsiasi norma giuridica). Al consenso
della legge è equiparato quello dell’autorità, ove la legge non provveda”].
Il problema della disciplina applicabile (art. 674 c.p. oppure legge speciale?) sorge soprattutto perché, tra le attività che immettono esalazioni nell’aria,
ve ne sono alcune che necessitano di autorizzazioni ed altre libere non bisognevoli cioè di alcun provvedimento autorizzatorio. Le prime sono assoggettate al rispetto di determinati parametri (livelli, valori, ecc.), cui non
sarebbero tenute le seconde. Dei due summenzionati orientamenti giurisprudenziali, il primo (affermatosi soprattutto negli anni novanta) aveva ritenuto che il reato dell’art. 674 c. p. si realizza quando le immissioni su-
perino la soglia fissata dalla normativa di settore, ed inoltre che, anche
quando avvengano su prevista autorizzazione amministrativa e nel rispetto dei limiti tabellari, la contravvenzione in parola è configurabile alla stregua dei criteri civilistici (tra le altre Cass. I, 21.1.1998 n. 739; Cass. III,
1.10.1999 n. 11295; Cass. I, 24.11.1999 n. 12497).
Il secondo orientamento, -che può ritenersi consolidato (tanto che è
stata disattesa l’istanza di rimettere la questione alle sezioni unite poiché
non sussiste alcun contrasto di pronunciati: ved., Cass. III, 11.5.2007 n.
21814) ed al quale aderisce la sentenza in esame-, ritiene necessario che
le immissioni, atte a molestare la persona, avvengano in violazione delle
norme che regolano l’inquinamento atmosferico (così Cass. III, 7.7.2000
n. 9094; id. 3.3.2004 n. 9757; id. 5.6.2007 n. 21814; Cass. I, 13.3.2002
n. 15717), ma non basta che esse superino i limiti fissati dalla normativa
speciale occorrendo che abbiano carattere effettivamente molesto (così già
Cass. I, 13.1.2003 n. 760).
Va ricordata, come punto di riferimento, Cass. I, 7.7.2000 n. 8094,
cui aderisce pienamente Cass. III, 21.1/3.32004 n. 9757 (nella quale ultima si legge: «l’espressione “nei casi non consentiti dalla legge” costituisce una precisa indicazione della necessità che l’emissione (di gas, vapori o fumi, atta a molestare le persone) avvenga in violazione di norme che regolano l’inquinamento atmosferico, per cui, poiché la normativa contiene una sorta di presunzione di legittimità di quelle emissioni che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia,
non basta -ai fini dell’affermazione di responsabilità in ordine al reato
previsto dall’art. 674 c. p.- la considerazione che le emissioni siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma “è indispensabile la puntuale e
specifica dimostrazione che esse superino gli standars fissati dalla legge”;
quando invece le emissioni, pur essendo contenute nei limiti di legge,
abbiano arrecato e arrechino concretamente fastidio alla persone, superando la normale tollerabilità, si applicheranno le norme di carattere civilistico contenute nell’art. 844 cod. civ.»).
Quid, nel caso in cui non esiste una predeterminazione normativa
sui limiti quantitativi e qualitativi delle emissioni? La Cassazione, con
numerosi pronunciati (tra i quali sez. III, 5.6.2007 n. 2184; id. 10.10.2006
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n. 33971; id. 31.3.2006 n. 1556), ha precisato che, in tali casi, “è affidata al giudice penale la valutazione della tollerabilità consentita, alla stregua
delle conseguenze che le emissioni producono sull’area esterna all’azienda e sulle persone che vi abitano o comunque vi operano, valutazione da operarsi secondo criteri di stretta tollerabilità” e non secondo l’art. 844 c.c. (inidoneo
a proteggere adeguatamente l’ambiente e la salute umana, avendo questa norma una “portata individualistica e non collettiva”: in tali sensi,
C. Cost. 23.7.1974 n. 247).
La sentenza qui pubblicata (Cass. III, 9.10.2007 n. 2475) aggiunge che
per “le molestie olfattive”, di cui all’art. 674 c. p., “non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite” (individuati solo dalla normativa di alcune Regioni) “in materia di odori e tale
materia è diversa da quella dell’inquinamento atmosferico” come definito dall’art. 268, co. 1, lett. a), D. Lgs. 152/2006, testualmente così formulato: “inquinamento atmosferico [è] ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o più sostanze in
quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per
la salute umana o per la qualità dell’ambiente oppure tali da ledere i beni
materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente”.
Dall’esame del quadro giurisprudenziale sull’argomento appare evidente lo sforzo di fissare gli argini di certezza alla fattispecie delle molestie olfattive di cui all’art. 674 c.p. rispetto a quella dell’inquinamento atmosferico, ma appare altrettanto evidente che si è ignorata totalmente la
strada (attraverso la quale il problema si sarebbe potuto risolvere e comunque avrebbe potuto avere una impostazione di maggiore chiarezza e
linearità) di indagare e definire con precisione e rigore da un lato l’oggetto
giuridico della tutela codicistica e dall’altro il bene tutelato dalla normativa sull’inquinamento atmosferico. Non soddisfa questa esigenza di chiarezza e di precisione concettuale la constatazione della sentenza di diversità di materia tra le cc. dd. “molestie olfattive” e l’inquinamento atmosferico: il problema è di stabilire dove finisce la sfera di una materia e comincia quella dell’altra, e comunque di verificare se le due sfere si intersechino (come sembra ritenere la giurisprudenza quando ammette il concorso tra l’art. 674 c.p. e la normativa antinquinamento).
L’argomento è di notevole rilevanza sociale e, pur non appartenendo
ai temi storici del diritto penale, non può restare in un orizzonte indefinito o in una penombra nella quale tutte le condotte possono essere connotate di ambivalenza ed apparire con l’iridescenza dell’art. 674 c. p. e/o
della normativa speciale. Si è ritenuto perciò opportuna dedicarvi un particolare richiamo.
La Parte Quinta è esclusivamente dedicata al Processo a Quasimodo. Di che si tratta? Il titolo suscita curiosità, che è bene lasciare intatta perché sia soddisfatta con la lettura del testo e della gustosa nota di
Leopoldo Papa.
Le illustrazioni sono tratte dalle opere di Umberto Giantomasi,
artista e poeta beneventano, il cui stile “estemporaneo e espressionista”
e la cui abilità “nel mescolare i colori e creare giochi di luce che conferiscono” ai suoi quadri un “contrasto tra l’ambiguità delle figure e
l’immediatezza espressiva dei colori stessi” sono riconosciuti da critici
ed intenditori.
La Redazione della Rivista attende ancora un contributo dei lettori
sulla riforma degli esami di Avvocato avanzata nell’editoriale del fascicolo 4/2007. Sarà anche questa una vana attesa?
Nicola Di Donato
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PARTE P RIMA
Profili dottrinali
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Profili dottrinali
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I recenti sviluppi giurisprudenziali
circa la giurisdizione in materia urbanistica
e di espropriazione per pubblica utilità:
in particolare, il “tramonto” della cd.
accessione invertita
Dopo le sentenze della Corte Cost. n. 204/04 e n. 191/06 in precedenti scritti avevamo previsto (vedi Voce del Foro n. 1/05 pagg. 75 ss. e
n. 1-2/2006 pagg. 337 ss.) un futuro di incertezze e confusioni in ragione delle inevitabili ricadute sul sistema di riparto di giurisdizione in tema
di occupazione appropriativa e/o accessione invertita.
Se infatti, all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale n.
204/04, si era ancora ritenuto non essere sufficiente ai fini del radicamento
della giurisdizione amministrativa, che il rapporto traesse origine da un
provvedimento o fosse inquadrabile nell’ambito di un procedimento amministrativo, essendo piuttosto necessario che la controversia investisse lo
svolgimento del potere estrinsecato in atti, oggi, dopo la sentenza della
Corte Costituzionale n. 191/06, dovrebbe risultare confermato che proprio l’art. 53, nella parte in cui prescrive la giurisdizione esclusiva sui comportamenti collegati all’esercizio del potere, vi include le condotte di occupazione acquisitiva.
Ad ogni modo, si può oramai ragionevolmente affermare che la giurisdizione ordinaria ha perso una larga fetta di contenzioso in materia
espropriativa, rimanendo ad essa attratte le sole controversie in materia di
indennità di espropriazione e di occupazione e qualche altra zona “grigia” nella quale, in buona sostanza, la p.a. commette un atto illecito completamente sganciato da un provvedimento amministrativo e dall’esercizio
di una funzione amministrativa.
Invece, resta confermata la giurisdizione esclusiva del g.a. in materia
di urbanistica ed edilizia (di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 80/98 e art. 53 del
D.P.R. n. 327/01, come incisi dalle sentenze della Corte Costituzionale
n. 204/04 e n. 191//06), quando la lesione del diritto di proprietà è cau.............................................................................................................................................................................................................................................................
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Profili
dottrinali
Profili dottrinali
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salmente riconducibile all’esplicazione di un pubblico potere, anche non
più “autoritativo” per l’annullamento o la sopravvenuta inefficacia della
dichiarazione di pubblica utilità disposta dalla legge per la mancata conclusione del procedimento espropriativo.
In altri termini, la lesione del diritto di proprietà avviene in presenza di un comportamento connesso all’esercizio della funzione pubblica
(comportamento per così dire “amministrativo”), esulando dalla giurisdizione esclusiva del g.a. quelle controversie aventi ad oggetto il risarcimento di danni derivanti da comportamenti meramente materiali della p.a., non riconducibili nemmeno in via indiretta e mediata all’esercizio del potere, in quanto posti in essere in carenza assoluta di potere
(“mero” comportamento).
Il problema della cd. occupazione acquisitiva e/o accessione invertita.
Una delle questioni più intricate e dibattute in materia di riparto
di giurisdizione è stata quella inerente gli effetti prodotti dell’apprensione di beni privati da parte della pubblica amministrazione, in assenza di un titolo abilitativo quale il decreto di esproprio ma sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità del bene (c.d. occupazione
appropriativa).
Ci si è chiesti: che cosa accade quando l’Amministrazione espropriante,
azionando una procedura ablatoria sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità divenuta inefficace, cui non ha fatto seguito l’adozione di formale decreto di esproprio, ha posto in essere un’attività esecutiva di apprensione del bene e di irreversibile trasformazione dello stesso qualificabile come comportamento materiale connesso con l’esercizio della funzione pubblica, vale a dire riconducibile nell’ambito di un’occupazione
divenuta solo successivamente illegittima “sine titolo”, essendo espressione
dell’esercizio di un potere amministrativo inizialmente autoritativo ed efficace?
Sul punto era emersa in giurisprudenza, l’affermazione che tale apprensione, pure illecita, produce comunque un effetto acquisitivo della
proprietà in capo alla p.a. una volta che il bene occupato venga irreversibilmente trasformato mediante la realizzazione dell’opera pubblica.
Invece, la giurisprudenza più recente in aderenza ai principi europei,
escludendo le c.d. “vie di fatto”, ritiene che tale effetto acquisitivo non sia
più da ammettere nel nostro diritto positivo e ciò anche in considerazione della previsione contenuta nell’art. 43, 1° co., T.U. Espropriazione, in
forza della quale la p.a. ha il potere di acquisire la proprietà del bene illecitamente occupato mediante un provvedimento c.d. di “acquisizione sanante”, sulla base di precise ragioni di interesse pubblico che devono essere esplicitate.
Più precisamente, alla luce del diritto e principi comunitari, deve ritenersi ormai espunta dal nostro ordinamento la figura giurisprudenziale
dell’“accessione invertita” o dell’“espropriazione indiretta” o “sostanziale”,
con consequenziale preclusione per la P.A. di acquisire a titolo originario
la proprietà di un’area altrui sulla quale sia stata realizzata un’opera pubblica o di interesse pubblico, per il semplice effetto della irreversibile trasformazione del fondo.
In particolare, la Giurisprudenza della CEDU ha più volte affermato
il contrasto con l’art. 1, prot. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, della prassi italiana per la quale l’Amministrazione diventerebbe proprietaria dei beni appresi pur in difetto di specifico formale atto espropriativo (Cfr. CEDU,
sez. IV 17/5/05 e 15/11/05 ric. 56578/00).
Quanto sancito dalla normativa e giurisprudenza comunitaria non
solo trova immediata rilevanza e applicazione nel nostro Ordinamento
in virtù di quanto prescritto dall’art. 117, co. 1 della Legge Fondamentale ma è stato ormai recepito dall’art. 43 del D.P.R. n. 327/01
cit. il quale, in coerenza con il principio di legalità affermato dall’art.
42 Cost. in tema di procedimento ablatorio, attribuisce all’Amministrazione, qualora all’avvio della procedura di esproprio non abbia fatto seguito l’adozione del decreto di esproprio, il potere di acquisire la proprietà dell’area altrui solo attraverso l’adozione di un
provvedimento c.d. “di acquisizione sanante”, sottraendosi così all’obbligo di restituzione, fermo restando comunque il diritto del proprietario al risarcimento del danno in relazione all’illecito permanente imputabile all’Ente espropriante.
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In ogni caso, anche alla luce della recente sentenza della Corte
Costituzionale n. 349 del 2007 - che ha dichiarato illegittimo l’art. 5 bis
del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, nella parte in cui non prevede
“un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da
parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene
occupato” – va riconosciuta al privato una forma di tutela per equivalente,
costituita dal ristoro integrale del danno sofferto a causa della perdita della proprietà privata, da quantificarsi sulla base del valore di mercato del bene oggetto dell’occupazione.
Invece, anche seguendo un ultimo e ormai radicato orientamento giurisprudenziale, in assenza di un atto formale di acquisizione del bene ai
sensi dell’art. 43 T.U.E., la restituzione dell’area, anche se essa sia ormai
irreversibilmente trasformata, risulta inevitabile quale forma di tutela specifica fermo restando il risarcimento del danno per il periodo di utilizzazione sine titulo del bene a far data, quindi, dalla scadenza dell’occupazione legittima.
La citata norma, quindi, eliminando l’istituto della c.d. accessione invertita prescrive questa possibilità, da parte dell’autorità che abbia utilizzato il bene immobile pur in assenza di un titolo valido ed efficace, di acquisizione dell’immobile stesso al proprio patrimonio indisponibile con
provvedimento discrezionale che, verso determinazione e preventivo pagamento della misura del risarcimento, comporta il trasferimento del diritto di proprietà.
Le suesposte argomentazioni trovano pacifico conforto nella prevalente
Giurisprudenza Amministrativa:
“(…) L’art. 43 cit. è espressione del principio per il quale, nel caso di occupazione sine titulo, vi è un illecito il cui autore ha l’obbligo di restituire il
suolo e di risarcire il pregiudizio cagionato, salvo il potere dell’Amministrazione
di far venire l’obbligo di restituzione ab extra, con l’atto di acquisizione del bene al patrimonio e che l’art. 43 stesso testualmente preclude che l’Amministrazione
diventi proprietaria di un bene in mancanza di un titolo previsto dalla legge.
Ciò in quanto l’art. 43 del D.P.R. n. 327 cit. presuppone la perdurante sussistenza del diritto di proprietà e di un illecito permanente dell’Amministrazione
che utilizza il fondo altrui, in assenza del decreto di esproprio, anche se è sta-
ta realizzata l’opera pubblica” (cfr. ex multis, C.d.S., Sez, IV, 21/05/07,
n. 2582; idem, 27/06/07, n. 3752; T.A.R. Lombardia-Milano, Sez. II,
23/01/08, n. 156);
“(…) E’ da escludere che la p.a. possa acquisire la proprietà di un fondo occupato in forza di un decreto di occupazione di urgenza a seguito dell’irreversibile trasformazione dell’area, atteso che tale modo di acquisto dell’area (per effetto del principio della c.d. accessione invertita) non è conforme ai principi della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, che hanno una diretta rilevanza
nell’ordinamento interno; l’acquisto della proprietà del terreno occupato ormai
può avvenire, oltre che per effetto di un decreto di espropriazione definitiva emanato nel periodo di occupazione legittima, solo in forza dell’art. 43 del D.P.R.
8 giugno 2001 n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), che prevede l’istituto della
c.d. acquisizione sanante. L’occupazione senza titolo di un terreno di un privato, per effetto della scadenza del termine previsto dal decreto di occupazione di
urgenza, rappresenta un illecito permanente, da cui non può, quindi, conseguire il passaggio della proprietà in capo alla P.A. espropriante; in tal caso, conseguentemente, non può decorrere il termine quinquennale di prescrizione del diritto al risarcimento del danno” (cfr. ex multis, T.A.R. Sardegna, Sez. II,
31/01/2008, n. 83).
In definitiva l’art. 43 T.U.E., recependo la giurisprudenza più recente, prevede in capo alla p.a. il potere di acquisire la proprietà pubblica del
bene illecitamente occupato solo mediante un provvedimento espressamente rivolto a tal fine, sulla base di precise ragioni di interesse pubblico
che devono essere esplicitate e giammai attraverso le c.d. “vie di fatto”:
“Anche dopo la realizzazione dell’opera pubblica, la proprietà del bene rimane all’originario titolare finché non sia adottato un formale provvedimento di
acquisizione sanante (disciplinato dall’art. 43 del DPR 8 giugno 2001 n. 327)
con l’annessa liquidazione del risarcimento del danno. Trattandosi di uno strumento che regolarizza dall’esterno la procedura espropriativa e soddisfa le pretese risarcitorie dei privati in conformità a principi presenti da tempo nel diritto comune europeo, il provvedimento di acquisizione è utilizzabile indipendentemente dal confine temporale stabilito dall’art. 57 del DPR 327/2001. L’utilizzazione del fondo altrui ha natura di illecito permanente e quindi non con-
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sente il decorso del termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento” (cfr. T.A.R. Lombardia-Brescia, Sez. I, 22/02/2008, n. 140);
“L’art. 43 del DPR 8 giugno 2001 n. 327 (T.U. espropriazioni per p.u.)
sulla c.d. acquisizione sanante, è conforme ai principi della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, che hanno diretta rilevanza nell’ordinamento interno e per i
quali non è consentito privare un soggetto della proprietà in assenza di un idoneo
titolo previsto per legge, procedendo alla espropriazione indiretta o sostanziale; tale norma è stata emanata dal legislatore per consentire all’Amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Il teso e la ratio dell’art. 43 del
DPR 8 giugno 2001 n. 327 (T.U. espropriazioni per p.u.) impongono di ritenere che tale norma debba applicarsi a tutti i casi di occupazioni sine titulo e, quindi, anche a tutti quelli già verificatisi alla data di entrata in vigore del T.U., non
sussistendo la possibilità di opporre la prescrizione quinquennale della pretesa risarcitoria decorrente dalla trasformazione irreversibile dell’area o dalla realizzazione dell’opera” (cfr. C.d.S., Sez. IV, 4/02/2008, n. 303).
In definitiva, in considerazione della natura di sanatoria della citata
norma, la giurisprudenza ha, da ultimo, riconosciuto la sua applicazione
retroattiva:
“L’art. 43 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 sulla c.d. acquisizione sanante
(…), persegue una chiara finalità di sanatoria dei procedimenti ablatori illegittimi
(occupazioni senza titolo) dell’Amministrazione nella materia espropriativa. Come
ogni disposizione di sanatoria, essa è applicabile a qualunque situazione pregressa, con l’unico limite costituito dall’eventuale giudicato che riconosca al privato il
diritto alla restituzione del bene; in quest’ultimo caso, infatti, il provvedimento di
acquisizione ex art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001 non può più rimettere in discussione il diritto alla restituzione del bene” (cfr. TRGA Trentino Alto AdigeTrento, 27/03/08, n. 75).
Avv. Luca Coletta
Avv. Anna Giancaspro
Le funzioni della responsabilità civile:
prospettive del danno risarcibile sul fronte
del diritto europeo comune
Il cambiamento di centralità delle idee e dei valori forti dell’ordinamento è dimostrato dal mutamento e dall’evoluzione della responsabilità
civile. Da piú parti, si è sottolineata da tempo la necessità, da un lato, di
mettere ordine sulla definizione e delimitazione della dicotomia danno patrimoniale-danno non patrimoniale, dall’altro, di unificare la disciplina risarcitoria dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale, dall’altro ancora, di
avviare una attenta riflessione sull’introduzione nell’ordinamento italiano
dei c.dd. danni punitivi. È stato opportunamente rilevato che la fluidità
della materia rende difficile elaborare una definizione esaustiva di “danno
risarcibile”, là dove neppure in àmbito europeo la dottrina è riuscita ad
individuare una figura unitaria di danno, con conseguente inevitabile incertezza sui confini della relativa nozione1.
L’evoluzione della responsabilità civile è un’evoluzione che riguarda
tutto l’Ordinamento, il che mette in luce alcune cose, che non sono sfuggite alla dottrina e cioè il mutamento che è in atto, di collocazione di questo istituto della responsabilità nell’àmbito del sistema ordinamentale nel
suo complesso. Evidente che l’evoluzione della responsabilità civile deve
esigere l’evoluzione di altri istituti che sono strettamente collegati con essa come l’attività inibitoria, il sistema assicurativo, il sistema della sicurezza sociale cioè tutta una serie di istituti che devono fare corpo unico con
l’evoluzione della responsabilità civile.
È consuetudine soffermarsi sul concetto di risarcimento, di notevole
interesse lo scenario dell’indennizzo e della sanzione.
Generalmente, chi distingue il risarcimento del danno dall’indennizzo considera il primo quale rimedio a cui ricorrere nelle ipotesi di danno
derivante da atto illecito, e il secondo quale strumento per riparare i pregiudizi causati da attività lecite. Altro criterio utilizzato per giustificare la
distinzione tra i due concetti è quello dell’entità del danno, criterio volto
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a riconoscere ipotesi di risarcimento qualora venga liquidato non solo il
danno emergente, ma anche il lucro cessante, nelle ipotesi di indennizzo
nei casi in cui sia escluso il secondo. Tuttavia, entrambi i criteri appena
esposti non trovano sempre riscontro nella realtà. Vi sono, infatti, casi nei
quali anche i danni derivanti da atto illecito trovano rimedio nell’indennizzo; inoltre, non sempre il risarcimento comprende entrambe le componenti del danno emergente e del lucro cessante.
In dottrina2 è stato osservato che la nozione di indennizzo, che consiste nel rendere indenne il danneggiato, reintegrando pecuniariamente l’interesse leso, non pare differenziarsi da quella di risarcimento; ciò,
si ritiene, anche quando l’indennizzo rende solo parzialmente indenne il soggetto leso, poiché l’indennizzo parziale non è considerato
nient’altro che un risarcimento parziale. In quest’ottica si sostiene che
anche le ipotesi di indennizzo rientrano nel sistema della responsabilità civile, anche se, siccome nella maggioranza di queste ipotesi manca l’antigiuridicità, la responsabilità non riveste, eccezionalmente, natura sanzionatoria.
Inoltre, rileggendo l’insieme delle norme della responsabilità civile in una prospettiva unitaria, non si può fare a meno di ritenere che
il rimedio del risarcimento trova fondamento nell’ingiustizia del danno, a prescindere dalla natura lecita o meno dell’atto che ha dato vita
alla lesione dell’interesse protetto; per cui sembra opportuno confutare la tradizionale dicotomia risarcimento-indennizzo con correlata riconduzione del primo al fatto illecito e del secondo al fatto lecito dannoso. In questa prospettiva si sostiene la non esauribilità della responsabilità civile nel mero fatto illecito. L’ingiustizia del danno, elemento
fondamentale e fondante il giudizio di responsabilità non può dirsi limitato al fatto illecito; quindi, il rimedio del risarcimento dovrebbe
investire anche quelle ipotesi che tradizionalmente sono attribuite all’area
dell’indennizzo, limitato, invece, ai casi nei quali l’ordinamento riconosce un ristoro monetario ad un soggetto per la violazione di un suo
interesse, «a prescindere dalla valutazione della sua ingiustizia e della sua
prova»3. È necessario operare una rilettura dell’intero sistema della responsabilità civile in una prospettiva unitaria, riconoscendo così, che
sia il risarcimento sia l’indennizzo rientrano in tale sistema, e che entrambi sono volti a riparare il danno, pur essendo diversi i presupposti
che li caratterizzano4.
Il sistema della sanzione e del c.d. danno punitivo, invece, non attiene alla responsabilità civile: è un profilo di politica legislativa che, potremmo probabilmente definire deterrente e che rappresenta, quindi, un
fatto nuovo nel sistema che occorre esaminare con grande attenzione ma
anche con grande cautela. Tutto questo, legato anche all’evoluzione della
responsabilità contrattuale e non soltanto extracontrattuale, è di estremo
interesse, perché forse questa distinzione così netta tra queste due ipotesi
non esiste più, non ci deve essere o comunque in qualche caso è forse una
sovrastruttura rispetto alla realtà dei problemi.
Attualmente, il dibattito sulla funzione, rectius sulle funzioni della responsabilità civile e, quindi, del risarcimento, è accesso.
Se pensiamo che l’art. 2043 c.c. nasce come reazione e difesa al diritto di proprietà e in particolare al diritto di proprietà fondiaria per passare
attraverso i diritti reali, il diritto di credito, l’interesse legittimo ed esaurire, così, la sua funzione, tutto questo non è possibile, perché il cambiamento da una impostazione patrimonialistica dell’ordinamento ad una concezione personalistica, esige che nell’art. 2043 c.c., quindi nell’istituto unitariamente inteso della responsabilità civile, ci siano anche i danni alla persona, cioè quelle situazioni giuridiche che non sono patrimoniali ma hanno un contenuto squisitamente esistenziale.
In fondo dove è scritto che l’art. 2043 c.c. non si estende alle situazioni esistenziali? Certamente in un ordinamento come il nostro,
caratterizzato dalla gerarchia di valori espressi dalla Carta Costituzionale,
non si può fare a meno di assumere a fondamento delle regole della
responsabilità civile l’esigenza di tutela della persona; persona da considerarsi come supremo principio costituzionale, valore posto al vertice della suddetta gerarchia e che trova il suo precipuo fondamento
nell’art. 2 della Cost. In questa prospettiva, considerando la personalità umana quale interesse giuridicamente protetto e sempre rilevante
per l’ordinamento, si ritiene che la responsabilità civile debba estendersi a tutte le violazioni degli atteggiamenti soggettivi nei quali si può
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realizzare la persona, ciò in quanto si ritiene che nella clausola generale ricavabile dall’art. 2 Cost. rientrino tutti gli interessi nei quali si
realizza la personalità.
L’assunto secondo il quale la responsabilità civile assolve alcune funzioni fondamentali è accolto da gran parte delle analisi istituzionali dedicate a questo settore. La responsabilità civile, infatti, non ha un’unica funzione, può avere diverse funzioni:
- la funzione di reagire all’atto illecito dannoso, allo scopo di risarcire i
soggetti ai quali il danno è stato recato;
- la funzione di ripristinare lo status quo ante nel quale il danneggiato
versava prima di subire il pregiudizio;
- la funzione di riaffermare il potere sanzionatorio (o “punitivo”) dello
Stato;
- la funzione di deterrente per chiunque intenda, volontariamente o colposamente, compiere atti pregiudizievoli per i terzi.
A queste funzioni se ne affiancano poi alcune sussidiarie, che più propriamente attengono agli effetti economici della responsabilità civile:
- la distribuzione delle “perdite”;
- l’allocazione dei costi.
Sembra opportuno accogliere l’orientamento di quanti ritengono di
non poter individuare in astratto un’unica funzione del risarcimento e sostengono, piuttosto, la poliedricità di funzioni della responsabilità civile.
Tali diverse funzioni sono espressione delle svariate esigenze che si ricollegano al rimedio del risarcimento5. Con ciò non si vuole dire che la funzione perseguita non possa essere individuata, piuttosto, per ciascun caso
concreto «non si può che giungere ad individuare la precipua funzione anche complessa, che il risarcimento deve assolvere»6.
Va segnalato che il risarcimento del danno si avvia a vivere una nuova stagione; a conservare una posizione centrale all’interno del diritto
privato e, soprattutto, a garantire una piú equilibrata regolamentazione degli interessi in gioco. Come la revisione della parte generale del
contratto, in corso in diversi Paesi europei, è volta a garantire un contratto piú giusto o una “moralità” del diritto contrattuale, cosí la revisione dell’istituto del risarcimento del danno sembra orientata a un piú
efficace controllo dell’attività economica, diretto ad evitare squilibri e
abusi tra i consociati7.
Si pone attenzione sul dialogo tra giuristi e legislatori sulla base di tre
quesiti fondamentali: dialogo o braccio di ferro? Dialogo a senso unico o
a spinte alternate? Dialogo costruttivo o dialogo tra sordi?
Quanto al primo quesito, si fa riferimento ad un caso francese (arrêt
Perruche del 17.11.2000), relativamente al quale la Corte di Cassazione,
con una di quelle motivazioni molto brevi che contraddistinguono lo stile della giurisprudenza francese di legittimità, ha statuito la risarcibilità del
danno subíto dal nascituro per la lesione del suo diritto a non nascere. Il
Parlamento francese, avuta notizia di questa decisione, ha immediatamente anteposto alla trama normativa della legge in tema di responsabilità sanitaria un primo articolo dove categoricamente si è affermato che “nessuno può invocare il risarcimento del danno per il solo fatto della sua nascita”. È evidente che, qui, il rapporto tra giuristi e legislatore è stato di certo improntato
alla logica del braccio di ferro, piuttosto che a quella del dialogo.
Quanto al secondo quesito, si assume in considerazione la vicenda italiana del danno biologico, caratterizzata, inizialmente, da un dialogo a senso unico, perché la Cassazione ha incanalato le spinte innovative della giurisprudenza di merito nelle coordinate legislative offerte dal Codice civile. Con l’avvento del nuovo secolo, il dialogo ha cessato di essere a senso
unico per trasformarsi in uno a spinte alternate. Questa trasformazione si
è snodata attraverso varie fasi, giungendo a quella che oggi è caratterizzata da una spinta giurisprudenziale che mostra di reagire alla legge di settore e tende ad imbrigliare ogni danno non patrimoniale nelle maglie del
danno biologico8.
Si sottolinea l’esigenza di ritrovare un equilibrio tra compensazione e
deterrenza al fine di rimettere sui binari dell’ortodossia quella che, con il
linguaggio castronoviano, è stata definita la “nuova responsabilità civile”.
Dal punto di vista storico, inoltre, si pone la questione se nel corso del
XX secolo vi sia stata una discontinuità, nel senso che da una giustizia amministrata secondo legalità si sia pervenuti ad una giustizia amministrata in
base ad un criterio di equità individuale. Si sono individuati alcuni indizi di
discontinuità: il cambiamento sociale e una situazione di doppio binario. In
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ragione di ciò, da una parte, si ha una responsabilità per colpa basata sull’idea
che vi sia stata una condotta reprensibile e, dall’altra, si ha una responsabilità oggettiva riconducibile sostanzialmente all’idea della creazione del rischio. Tra una giurisprudenza fondata sulla legalità e una giurisprudenza di
equità soggettiva non vi è stata possibilità di dialogo. Nel settore della responsabilità civile è emersa la tendenza alla creazione di un diritto giurisprudenziale che ha inteso esprimere una logica di puro governo, o meglio
una logica di puro potere di governo, nei rapporti sociali; di ciò occorrerà
tenere conto per poter raggiungere una non semplice armonizzazione9.
Nella prospettiva europea, le linee comuni degli istituti afferenti alla
responsabilità civile sono diventate tra loro evanescenti e difficili da ricondurre ad unità. Si può dire, in termini descrittivi, che la responsabilità
civile da estrema propagine della tutela del diritto soggettivo ne sia diventata il fulcro, oppure, in termini valutativi può discorrersi, in maniera meno confortante, di quello che Remy chiama “droit barbare” e che Castronovo
definisce “nuovo medioevo del diritto”.
In Germania, ad esempio, la disciplina del danno immateriale, che un
tempo si rinveniva nelle norme specifiche sulla responsabilità civile, oggi
si ritrova nelle norme generali sul danno. Il significato di tale spostamento si coglie nel fatto che la disposizione contenuta nel § 253 BGB è ormai applicabile anche alle ipotesi di responsabilità aquiliana come pure in
quella derivante da attività pericolose10.
Si apre, cosí, la porta ai c.dd. danni punitivi fino a oggi considerati incompatibili con gli ordinamenti giuridici di civil law: molto chiara la norma dell’Avant-projet che, all’art. 1371 Code civil francese, dispone la condanna dell’autore del fatto, in caso di colpa lucrativa, al pagamento sia dei
danni “compensativi” sia di tipo “punitivi”11.
Notevoli spunti, in ordine allo studio della responsabilità civile, possono trarsi dall’ordinamento spagnolo. Particolare attenzione, si rivolge al
princípio della réparation integrale, che trova il suo remoto predecessore
nella restitutio in integrum romana. L’istituto mira ad ottenere una perfetta
equivalenza tra danno causato e riparazione, affinché il danneggiato consegua una situazione equivalente a quella nella quale si sarebbe trovato se
il danno non fosse stato causato12.
Attente riflessioni emergono anche in ordine al giudizio di responsabilità, che dovrebbe svolgersi in tre momenti costituiti da un giudizio sintetico seguíto da una verifica analitica dell’ingiustizia, del criterio di imputazione, della causalità e da una terza fase nella quale si procede agli adattamenti di ciascuno di questi elementi in funzione della corrispondenza
con il giudizio sintetico formulato in limine. Ma l’adeguamento del giudizio analitico a quello sintetico può talora non verificarsi. Cosí, con riguardo alla lesione del diritto di credito, la Cassazione, per affermare la risarcibilità del danno derivante da tale lesione, ha esportato il diritto di credito dalla relazionalità che lo ha da sempre caratterizzato, secondo il modello dell’obligatio, e ne ha affermato la tutelabilità in sede aquiliana, individuandone la natura di diritto che, in quanto parte della sfera giuridica
del soggetto danneggiato, deve essere tutelato alla stregua di ogni altro diritto.
Si è rilevato che quanto piú sarà sofisticata e completa la parte analitica tanto meno il giudizio sintetico avrà modo di essere arbitrario. Pertanto,
sul fronte del diritto europeo comune, una disciplina costruita sulle categorie fondamentali, dove la responsabilità civile si identifica con la modernità assistita dalla consapevolezza della loro relatività, si rivelerà altamente attendibile13.
Sempre in tema di giudizio analitico, si rileva che nel contesto dell’illecito, definito “modulare”, l’esito finale del processo aquiliano non sarebbe altro che il risultato di una serie di accertamenti analitici, ognuno
dei quali resterebbe sostanzialmente invariabile e irrilevante in vista dell’esame delle altre componenti della fattispecie. In vero i fattori che compongono l’illecito “modulare” non conoscono fra loro estraneità; ciascuno di
essi contribuisce a delimitare l’operatività degli altri e consente di cogliere il nucleo fondante l’illecito14.
Il naturale interagire degli elementi costitutivi dell’illecito civile e insieme la diversa sottolineatura or dell’uno or dell’altro sono il frutto della
logica propria della regola di responsabilità, la quale, in ogni tradizione
giuridica, sin dalla lex aquilia, ha adattato la regola al caso per far sí che essa fosse il più possibile fonte di un diritto giusto15.
Dott.ssa Alexiae Palumbo
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NOTE
1) A. Palumbo, Il Danno risarcibile, in Rassegna di Diritto Civile, 2008, pag. 1.
2) A. De Cupis, Il Danno, 1996, Giuffrè.
3) P.Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, in Rass. di diritto civile,
2004, pag. 4.
4) M. T. Grieco, Danno da lesione di interessi non patrimoniali e nuove prospettive nel sistema della responsabilità civile, 2007, pag. 39.
5) C. Salvi, La responsabilità civile; M. Libertini, Le nuove frontiere del danno risarcibile, 1987; A.
Di Majo, La tutela civile dei diritti, 1987.
6) P. Perlingieri, Il Diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991.
7) S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984; Busnelli/Patti, Danno e responsabilità
civile, Torino, 1997; S. Patti, La responsabilità degli amministratori:i il nesso causale, in Resp. civ.
prev., 2002.
8) F. D. Busnelli, Figure controverse di danno alla persona nella recente evoluzione giurisprudenziale, 1990; Risarcimento del Danno alla Persona e Alternative Istituzionali. Studio di diritto comparato, Torino, 1999; Risarcimento del danno morale ai congiunti: quando?, in Responsabilità Civile e
Previdenza, 1994; Risarcimento del Danno alla Persona e Alternative Istituzionali, Torino, 1999.
9) A. Gambero, Jura et leges nel processo di edificazione di un diritto privato europeo , Seminario ,
2002 ; Gambero-Sacco, Sistemi giuridici comparati, 2008.
10) N. Jansen, Relazione Convegno ARISTEC, Il danno risarcibile, 2007.
11) P. Remy, Relazione Convegno ARISTEC, Il danno risarcibile, 2007.
12 F. F. De Bujàn, Relazione Convegno ARISTEC, Il danno risarcibile, 2007.
13) C. Castronovo, Dal danno alla salute al danno alla persona, 1996.
14) M. Bussani Causalità e dolo nel diritto comparato della responsabilità, in Revista Trimestral de
Direito Civil (Rio de Janeiro, Brasile), n. 27/ 6, 2007, p. 127 ss.
15) C. A. Cannata, Corso di istituzioni di diritto romano, II, 1, Giappichelli, Torino 2003.
***
Bibliografia
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in Resp. Civ. e prev., 1990; F.D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1953; D. Messinetti, Recenti orientamenti sulla tutela della persona. La moltiplicazione dei diritti e dei danni,in Rivista critica di diritto privato, 1992; C. Salvi, La responsabilità civile, Milano,
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G I U R I S P RU D E N Z A
Cassazione, Sez. Civ. 12.03.56 n. 720
Cassazione, 22.02.47 n. 242
Cassazione, 03.06.76 n. 2002
Cassazione, Sez. Unite civ. 21.03.73
Cassazione, 06.06. 81 n. 3675
Cassazione, 02.02.01 n. 1516
Cassazione, 12.05.03 n. 7281 – 7282 – 7283
Cassazione, 31 maggio 2003 n. 8827 – 8828
Cassazione, Sez. III 30 marzo 2005, n. 6732
Cassazione, Sez. III 10 febbraio 2005, n. 2704
Cassazione, Sez. III 9 febbraio 2005, n. 2639
Corte Costituzionale, 28 gennaio 2005 n. 58
Corte Costituzionale, 26 novembre 2004 n. 366
Corte Costituzionale, 12 dicembre 2003 n. 356
Corte Costituzionale, 11 luglio 2003 n. 233
Corte Costituzionale, 12 luglio 2002 n. 342
Corte Costituzionale, 7 novembre 2001 n. 356
Corte Costituzionale, 16 ottobre 2000 n. 423
Corte Costituzionale, 24 luglio 2000 n. 336
Corte costituzionale, 30 aprile 1999 n. 148
Tribunale I grado CEE, Sez. V, del 17 marzo 2005
Tribunale I grado CEE, Sez. IV, del 7 febbraio 2002
Tribunale I grado CEE, Sez. IV, del 31 gennaio 2001
Corte Giustizia CE Sez. II del 28 ottobre 2004
Corte Giustizia CE Sez. II del 10 giugno 2004
Corte Giustizia CE Sez. V del 29 aprile 2004
Corte Giustizia CE Sez. IV del 14 maggio 1998
Corte Giustizia CE Sez. II del 28 febbraio 1989
Il nesso di causalità nei reati omissivi impropri:
il problema della “certezza processuale”
Affinché un reato possa essere addebitato ad un soggetto non è sufficiente la presenza di una condotta e di un evento, ma è necessario che
l’evento sia conseguenza diretta della condotta, cioè che tra i due sussista
un nesso di causalità.
Il fondamento giuridico del nesso eziologico è da rinvenirsi nell’art.
27 della Costituzione, che riconoscendo la natura strettamente personale
della responsabilità penale, sancisce indirettamente che un fatto può considerarsi proprio quando fra condotta ed evento intercorra un rapporto di
causalità.
La norma “cardine” del nesso di causalità è costituita dall’art. 40 c.p.,
il quale sancisce che il danno o il pericolo penalmente rilevanti, possono
essere conseguenza sia di un’azione che di un’omissione; infatti “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo1”.
L’azione consiste in un comportamento attivo del soggetto, idoneo a pregiudicare l’interesse protetto dalla norma, l’omissione, invece, si concretizza nel mancato compimento di un’azione che il soggetto avrebbe l’obbligo giuridico di compiere se si trova nella posizione di poterla realizzare; l’essenza del reato omissivo è quindi rappresentata nel mancato compimento di un’azione doverosa2.
I reati omissivi si distinguono in: omissivi propri, che consistono nella semplice mancata ottemperanza a norme giuridiche e si perfezionano
anche senza il verificarsi di un evento materiale, ed omissivi impropri (o
commissivi mediante omissione), che si configurano nel caso in cui non
venga impedita la realizzazione di un fatto naturalistico e necessitano della verificazione dell’evento lesivo3.
Il reato omissivo improprio risulta essere ricostruito dal giudice in seguito all’unione della disposizione di cui all’art. 40 cpv. con le norme di
parte speciale che prevedono le ipotesi di reato commissivo, in seguito a
ciò il grado di tipizzazione risulta essere molto basso, rendendo difficile stabilire se il danno sia stato effettivamente una conseguenza dell’omissione.
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È proprio quest’ultima fattispecie di reato, quindi, che ha destato le
maggiori perplessità ed incertezze sia in dottrina che in giurisprudenza,
relativamente alla portata del nesso di causalità e alle caratteristiche necessarie affinché nascano, nei confronti del soggetto imputabile, le condizioni indispensabili per un corretto esercizio dell’azione penale.
Il nesso di causalità nei reati omissivi, ed in particolare nei reati omissivi impropri colposi, è interamente fondato sulle conseguenze che l’azione dovuta, omessa, avrebbe provocato nel caso in cui fosse stata correttamente e puntualmente eseguita, al fine di giudicare la rilevanza causale impeditiva dell’evento. In proposito sono state elaborate dalla dottrina
diverse teorie volte ad attribuire l’omissione all’evento: la più conosciuta è sicuramente la teoria della condicio sine qua non, per cui è causa qualsiasi antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. È punibile, perciò, ogni omissione che, in qualche modo, incide sulla realizzazione dell’evento dannoso o pericoloso. Da ciò consegue che il nesso
di causalità può escludersi solo se si verifica una causa autonoma, rispetto alla quale la precedente è da considerare tamquam non esset, trovando,
nell’attività dell’imputato, soltanto l’occasione per svilupparsi; tale teoria
è stata, però, soggetta a numerose critiche in quanto in molti casi giunge a conseguenze paradossali, in quanto ogni antecedente logico necessario diventa causa del pericolo o del danno4. La dottrina ha poi sviluppato altre teorie come quella della “causalità adeguata”, per cui è causa
l’omissione che, oltre ad essere condizione indispensabile per la causazione dell’evento, è, altresì, secondo un giudizio ex ante, idonea a provocarlo. Tale teoria esclude il nesso di causalità quando gli effetti della condotta non erano probabili secondo l’id quod plerumque accidit. La critica
che può essere fatta a questo tipo di assunto è che limita troppo il campo della responsabilità, non riconoscendo alla condotta i fatti improbabili non eccezionali. Anche la teoria cosiddetta della causalità umana, secondo la quale è causa la condotta dell’uomo che costituisce l’antecedente
necessario per la realizzazione dell’evento quando questo non si è verificato con il concorso di fattori eccezionali, è stata accusata di limitare troppo le occasioni di punibilità.
La teoria maggiormente seguita dalla giurisprudenza in tema di reati
omissivi è quella della sussunzione sotto leggi scientifiche, distinte in universali e statistiche5, per cui è causa l’azione che, secondo il miglior metodo scientifico e la migliore esperienza del momento storico, è in grado
di provocare l’evento con un’alta percentuale di probabilità6. Non essendo l’omissione un dato della realtà empirica, ma un concetto normativo,
il giudizio sul valore causale della condotta, continua ad essere fortemente problematico in quanto le modalità di analisi non potranno essere identiche a quelle seguite per i reati commissivi7. In ogni caso si tratta sicuramente di un giudizio probabilistico che dovrà, però, essere in grado di
supportare la responsabilità penale, risultando, quindi, fondamentale aumentare quanto più possibile il grado di “certezza” per cui l’azione doverosa avrebbe evitato l’evento pericoloso o dannoso.
Il suddetto grado di certezza è stato oggetto di sensibili alternanze nel
corso degli anni risultando a volte incomprensibilmente basso; per un periodo, la giurisprudenza, ha ritenuto, infatti, che per fondare la responsabilità sarebbe stato sufficiente anche solo il 30% di probabilità che la condotta omessa avesse impedito l’evento. Altra giurisprudenza, per riconoscere la responsabilità penale afferma che sarebbe indispensabile la prova
che la condotta cosiddetta alternativa del reo avrebbe evitato l’evento con
un alto grado di probabilità “prossimo alla certezza”, cioè una percentuale di casi “quasi prossima a cento”8. A dirimere tale contrasto giurisprudenziale è intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite con la fondamentale sentenza n. 30328/2002, meglio conosciuta come sentenza
Franzese, che, prendendo in esame la responsabilità omissiva del medico
ospedaliero, formula argomentazioni importantissime per la definizione
del nesso di causalità nei reati omissivi impropri. In particolare la Suprema
Corte afferma che “il nesso causale possa essere ravvisato quando, in virtù
di un giudizio controfattuale effettuato sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di legge scientifica, si accerti che ipotizzando realizzata dal medico la condotta impeditiva dell’evento hic et nunc, questo si sarebbe verificato in epoca significantemente posteriore o con minore intensità lesiva”. Le Sezioni Unite, in relazione al grado di probabilità richiesto, affermano che non è possibile una spiegazione causale di “tipo
deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica cer-
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tezza assoluta”9. L’interprete non può, però, neppure ritenere automaticamente sussistente il rapporto di causalità sulla base di soli coefficienti di
probabilità basati su dati statistici, ma deve valutare, al fine di ricavarne le
necessarie certezze, tutte le risultanze probatorie ed ogni circostanza oggettiva e soggettiva del caso concreto, onde dimostrare che la condotta
omissiva sia stata la condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o
elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”.
Tale certezza è denominata “processuale”10, poiché va dedotta dall’analisi sistematica e puntuale delle risultanze processuali, le quali devono consentire “oltre ogni ragionevole dubbio” la configurazione del nesso eziologico; l’attività del giudice non dovrà pertanto esaurirsi nell’acritica applicazione della regola scientifica, ma dovrà proseguire nella valutazione di
tutti gli elementi della fattispecie concreta da cui possa desumersi, attraverso un puntuale riscontro probatorio ed un giudizio di probabilità logica, l’attendibilità e la validità scientifica del parametro eziologico. Soltanto
qualora il giudice ritenga che nella fattispecie concreta siano presenti tutti quegli elementi che, ordinati secondo schemi scientifici e razionali, disegnino una consequenziale serie causale tra condotta ed evento, potrà
concludere nel senso dell’attribuibilità dell’evento legato alla fattispecie
omissiva al soggetto rimasto inerte. Quando, invece, a seguito dell’applicazione dell’enunciato modello interpretativo residuino dei ragionevoli
dubbi in merito all’attribuibilità dell’evento lesivo alla condotta omissiva,
sarà dovere del giudice escludere la sussistenza del nesso di causalità11.
Il giudice, in altri termini, deve verificare caso per caso che le risultanze probatorie siano in grado di condurre con certezza alla conclusione
che la condotta omissiva sia stata causa dell’evento lesivo, senza che alcun
rilievo possa essere attribuito a fattori alternativi o cause sopravvenute di
natura eccezionale, interruttive del nesso eziologico12, prendendo in esame tutte le circostanze di fatto disponibili ed evincibili dall’intera vicenda processuale13.
Utilizzando, quindi, unicamente le leggi statistiche non è possibile valutare gli elementi caratteristici della situazione reale, ma esse possono essere impiegate quale base di partenza del ragionamento giuridico anche se
non possono esaurirlo; in definitiva, non è in contrasto con la sentenza
“Franzese” dare rilievo anche alle leggi statistiche, come evidenziato recentemente dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12894/2006, a
condizione che esse rappresentino solo uno degli elementi che incide
sull’accertamento del nesso eziologico14.
Nonostante che le evoluzioni giurisprudenziali più recenti abbiano sicuramente contribuito a limare le questioni di contrasto più stridenti, il
problema dell’individuazione del nesso di causalità nei reati omissivi impropri resta un terreno scivoloso soprattutto per la facilità con cui possono essere lesi i principi fondamentali di determinatezza e di tassatività.
Sarebbe opportuno il ricorso a fattispecie di parte speciale, anziché ricorrere, come è avvenuto negli ultimi anni, sempre con maggiore frequenza all’art. 40 c.p.; il rimprovero penale, pertanto, non dovrebbe più
essere basato sul mancato impedimento dell’evento dannoso o pericoloso,
bensì sul non essersi attivato in presenza di condizioni e circostanze normativamente predeterminate15 che obbligavano al compimento dell’azione doverosa. Solo in tale ottica si ridurrebbe, in modo significativo, l’eccessivo arbitrio del giudice, senza correre il rischio di attribuire omissioni ad eventi sulla base di ragionamenti logico-deduttivi troppo severi o
troppo arditi16, con la conseguenza, rispettivamente, di aumentare o diminuire in modo non equo e nemmeno proporzionale le occasioni di punibilità; rendere tipiche le condotte doverose permetterebbe di colpire con
maggiore precisione quei comportamenti che siano effettivamente contrassegnati da un alto disvalore sociale, nel pieno rispetto del principio di
offensività17.
Dott. Nicola Izzo
NOTE
1) Sul punto dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che l’equivalenza tra “non
impedire” e “cagionare” di cui all’art. 40 c.p. sia il frutto solo di una scelta normativa in quanto è innegabile, sul piano fattuale, che “cagionare la morte di un uomo” non sia la stessa cosa
di “non impedirla”. Così: FIORE C. - FIORE S., Diritto penale parte generale, II ed. Torino, 2004
pp. 231-232; FIANDACA – MUSCO, Diritto penale parte generale, IV edizione, Bologna, 2004, p.
545; MARINUCCI, Il reato come azione, Napoli, 1999 pp. 96 ss.
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2) FIORE C. - FIORE S., Diritto penale parte generale, II ed. Torino, 2004 p. 229.
3) A titolo di esempio si consideri il caso di scuola di Tizio, dipendente delle Ferrovie dello Stato, che durante un viaggio omette di azionare il cambio provocando un disastro ferroviario.
4) DALIA, Le cause sopravvenute interruttive del nesso causale, Napoli, 1975.
5) Sono leggi universali quelle in grado di affermare che la verificazione di un evento è sempre e costantemente accompagnata dal verificarsi di un altro evento, la regolarità tra i due eventi soddisfa ampiamente le esigenze di certezza necessarie nel diritto penale. Le leggi statistiche,
invece, affermano solo che in seguito al verificarsi di un evento potrebbe verificarsene un altro
con una percentuale variabile di possibilità; FIANDACA – MUSCO, Diritto penale parte generale, cit.
pp. 200 ss.; STELLA, voce Rapporto di causalità, in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma.
6) STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale in diritto penale, Milano, 1975.
7) Sull’argomento: STELLA, I saperi del Giudice, Torino 2004. L’autore afferma che le frequenze nella successione di eventi che si ritengono esplicativi in rapporto al singolo evento lesivo non hanno, in realtà, affatto un potere esplicativo, costruite come sono su censimenti di
eventi che si susseguono uno dopo l’altro; la probabilità causale ex post è la probabilità specifica che la legge causale potenzialmente applicabile si è concretizzata, mentre la probabilità ex ante è una probabilità astratta ma slegata dalla verifica sul caso concreto
8) Cassazione penale, Sez. IV, 28-11-2000/9-3-2001, in Cass. Pen., 2002, p. 159, con nota di BLAIOTTA; STELLA, Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione di eventi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2002, pp. 1215 ss.
9) BLAIOTTA, Con una storica sentenza le Sezioni Unite abbandonano l’irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, nota a Cass.,
10 luglio 2002, ric. Franzese, in Cass. Pen., 2003, p. 1176.
10) Il giudice deve abbandonare “l’illusione di poter ricavare deduttivamente la conclusione sull’esistenza del rapporto di causalità da una legge scientifica che riproduca in laboratorio la
sua ipotesi di ricostruzione dell’evento e dovrà fare ricorso, sempre, alla ricerca induttiva verificando l’applicabilità delle leggi scientifiche eventualmente esistenti alle caratteristiche del caso
concreto portato al suo esame, tenendo in considerazione tutti i fattori specifici presenti e quelli interagenti e pervenendo quindi ad un giudizio di elevata credibilità razionale, secondo i criteri di valutazione della prova previsti da tutti gli elementi costitutivi del reato” Cassazione –
sez. IV – 10.06.2002 n. 22568.
11) Sull’argomento si è pronunciata recentemente la Corte di Cassazione, sent. n. 36162/2007,
che ha accolto il ricorso proposto da un sanitario che era stato assolto in primo grado dall’accusa di non aver tempestivamente diagnosticato una setticemia da stafilococco aureo che aveva
provocato il decesso di un suo paziente e, successivamente, condannato in appello per non essere stato neppure di sospettare la presenza di un problema di natura infettiva. La critica della
Corte rispetto alla sentenza di secondo grado poggia sull’assunto che nelle argomentazioni contenute nella stessa “non è possibile cogliere alcun aspetto del giudizio controfattuale, che rappresenta uno dei passaggi argomentativi centrali della sentenza Franzese, ma che arbitrariamente, e senza alcuna specifica valutazione, finisce con il ribaltare quei principi, sostituendo al con-
cetto di “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”, quello della semplice “possibilità” che, secondo le Sezioni Unite, non rileva in alcun modo in termini di efficienza causale della condotta omessa”.
12) In relazione alla specificità della sentenza Franzese, le Sezioni Unite hanno stabilito che
dovrà essere in concreto svolta un’opera di comparazione tra le leggi di copertura ed elementi
quali l’età, il sesso, le condizioni generali del paziente, la sensibilità individuale ad un determinato trattamento farmacologico e di tutte le altre condizioni che appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica.
13) In tal senso Corte di Cassazione n. 25233/2005.
14) Dello stesso avviso, ed ancora più recentemente, Cass. Pen. Sez. IV, sent. 20.09.2007 n.
35115 in cui: “il nesso di causalità tra omissione ed evento non può essere affermato sulla base
di un coefficiente di mera probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che deve a sua volta essere fondato sulle particolarità del caso
concreto”.
15) Sull’argomento: FIORE C. - FIORE S., Diritto penale parte generale, cit. p. 238.
16) In tal senso: MOCCIA, La promessa non mantenuta. Napoli, 2001.
17) MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale. II edizione, Napoli,
1997. I.D., Il diritto penale tra essere e valore. Napoli, 1992.
UMBERTO GIANTOMASI
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PARTE S ECONDA
Osservatorio
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Osservatorio giurisprudenziale
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Tribunale Penale di Benevento
Sentenza del 7 febbraio 2008 n. 74
Rito monocatico - Giudice dott. R. BAGLIONI
Il Giudice dr. Rosario Baglioni
con l’intervento del P.M. in persona del dr. Gaetana Rescigno V.P.O. Ha
pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente
SENTENZA
(artt. 544 e segg. 549 c.p.p.)
nella causa penale
CONTRO
C.D., elettivamente domiciliato c/o studio Avv. ***, Via ***, ***.
LIBERO – CONTUMACE
Difeso di fiducia dall’Avv. ***, Via ***, ***.
IMPUTAZIONE
del reato p. e p. dall’art. 73 1 bis e 1° comma, D.P.R. 309/90, perché concorreva mediante istigazione all’illecita coltivazione di sostanze stupefacenti da parte dei minori M.F., M.L., L.V. E P.R.; invero, a seguito di perquisizione in una vecchia costruzione utilizzata abusivamente dai predetti minori veniva accertata l’esistenza di una coltivazione di “cannabis indica” posta in essere sulla base di depliants forniti a mezzo posta da C.D.
Quale titolare di “T.H.S.”; ovvero venivano ritrovate due piantine alte circa 10 cm e due bustine che prima contenevano semi di cannabis indica.
Accertato il 7/7/05 in Circello.
CONCLUSIONI:
Il P.M. chiede la condanna al minimo della pena.
Il difensore dell’imputato chiede sentenza di assoluzione.
MOTIVAZIONE
A seguito di rinvio a giudizio disposto dal G.U.P. con decreto del
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Osservatorio
giurisprudenziale
Osservatorio giurisprudenziale
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13/02/2007, si è proceduto nei confronti di C.D., chiamato a rispondere
del reato a lui ascritto in rubrica.
Aperto il dibattimento in contumacia dell’imputato, all’udienza del
20/06/2007 le parti hanno articolato le rispettive richieste di prova, orali e documentali, tutte virtualmente ammesse; in particolare, oltre atti irripetibili (verbale di sopralluogo e rilievi fotografici, verbali di perquisizione e sequestro della sostanza stupefacente), sono stati acquisiti, su richieste della difesa, la visura camerale della ditta facente capo all’imputato, la home-page del sito internet gestito da quest’ultimo, il verbale di analisi dell’Arpac, la sentenza emessa dal Tribunale per i Minori di Napoli nei
confronti di M.L., M.F., L.V. E P.R., nonché i verbali di sommarie informazioni rese dai predetti ai Carabinieri di Colle Sannita.
Esaminati, di seguito, i testi di lista, all’esito dell’istruttoria, dichiarata
utilizzabili tutti gli atti legittimamente acquisiti al fascicolo del dibattimento, il P.M. ed il difensore hanno concluso nei termini in epigrafe trascritti.
Il Giudice ha, infine, deciso come da dispositivo del quale ha dato lettura in udienza.
Nel merito, C.D. va mandato assolto dal reato a lui ascritto per non avere
commesso il fatto.
Venendo in concreto ai fatti di causa, va subito evidenziato che le due
piantine di cannabis sono state rinvenute, unitamente ad alcuni semi della stessa specie, a seguito di una perquisizione effettuata in una vecchia costruzione utilizzata abusivamente dai minori indicati in premessa.
La predetta circostanza, emersa pacificamente dai rilievi topografici
prodotti dal P.M. e dai verbali di sequestro, ha trovato conferma nelle dichiarazioni rese dai testi escussi e nella sentenza emessa dal Tribunale di
Napoli che ha proceduto nei confronti dei predetti.
In sostanza, M.L., M.F., L.V. E P. R., hanno acquistato on-line, dal sito internet gestito dall’imputato, alcuni semi di cannabis.
I ragazzi hanno piantato i semi, utilizzando una vecchia costruzione abbandonata, ed hanno ricavato due piantine dell’altezza di circa 10 centimetri (complete, di radici, fusto, foglie ed infiorescenze, come meglio evidenziato nel verbale di analisi redatto dall’Arpac), poi sequestrate dai Carabinieri.
La vendita dei semi, peraltro mai contestata dalla difesa, è stata documen-
tata attraverso la copia dell’involucro del pacco spedito dalla ditta venditrice
ed attraverso le pagine riproducenti i prodotti venduti on-line dall’imputato.
Nessun dubbio può, quindi, sorgere in merito alla dinamica dei fatti
ed alle qualità e quantità della sostanza stupefacente in sequestro.
Il problema va, quindi, affrontato esclusivamente sotto il profilo giuridico.
Un primo aspetto va messo in evidenza.
La contestazione riguarda specificamente non tanto la messa in vendita dei semi di cannabis, quanto piuttosto l’istigazione all’illecita coltivazione posta in essere in concreto dai minori.
Ed infatti, non costituisce condotta penalmente rilevante la vendita dei
semi di canapa indiana, seppure effettuata tramite sito internet, in quanto
secondo la legislazione internazionale (vedasi in particolare la convenzione unica sugli stupefacenti) il termine canapa è riferibile unicamente alle
sommità fiorite o fruttifere della pianta ad esclusione dei semi e delle foglie non accompagnate dalle relative sommità.
La vendita di semi non è idonea, quindi, a ledere il bene giuridico protetto in linea generale dalla legislazione sugli stupefacenti, non potendo ai predetti essere attribuito il benché minimo effetto drogante.
All’imputato viene, quindi, imputato di aver di fatto indotto (di qui la contestazione di istigazione) i minori a coltivare piante di canapa mediante la vendita
dei semi idonei a tal fine.
In realtà, nella vicenda che ci occupa, è facile rilevare l’assoluta insussistenza dell’ipotizzato concorso posto in essere nelle forme dell’istigazione (a prescindere dal problema della sussistenza di una mera attività di
coltivazione domestica (attraverso la quale il soggetto si l imita a fra
crescere in casa in vasi o nel giardino della propria abitazione un esiguo
numero di piante da cui è possibile ricavare un quantitativo di droga modesto e bastevole per esclusivo uso personale), ovvero di vera e propria
attività di coltivazione tecnico-agraria, consistita nella semina, nella
preparazione del terreno, nel governo delle piante, elementi questi incompatibili con la destinazione ad uso personale del prodotto in quanto
idonei ad accrescere effettivamente e significativamente la provvista di-
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Osservatorio
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sponibile di sostanza stupefacente e, quindi, certamente dimostrativi di una
destinazione finale, o eventualmente anche parziale, sul mercato).
Il possesso delle piante risulta, infatti, chiaramente ascrivibile, solo ed esclusivamente ai minori e non all’odierno imputato, il quale deve ritenersi del tutto estraneo all’attività di coltivazione.
Rientra, comunque, nell’attività costitutiva del concorso nel reato non
solo quella che si concretizza nella partecipazione all’esecuzione materiale del reato stesso, ma anche quella morale che esplicandosi sotto il profilo soggettivo nella consapevole opera di determinazione istigazione o rafforzamento della volontà di un determinato reato nell’autore materiale di esso, ne costituisca, sotto il profilo oggettivo, adeguata concausa efficiente.
Nella vicenda che ci occupa l’imputato, tuttavia, al di fuori
della mera vendita effettuata on-line, non ha posto in essere alcuna concreta attività istigativa.
La predetta circostanza si ricava proprio dalla home page del sito internet
attraverso la quale è segnalato specificatamente che, pur non potendo i
semi di canapa essere considerati come sostanza stupefacente, la coltivazione di
piante di cannabis è espressamente vietata dagli artt. 28 e 73 del D.P.R. 309/90 e
che i semi potranno essere utilizzati per finalità che non siano in contrasto con la legge.
Vè di più.
Tra i richiami effettuati dal venditore c’è, sia pure implicitamente, l’invito a desistere dal consumo della droga!
Manca, pertanto, qualsiasi forma di concreta istigazione non potendosi la stessa ravvisare puramente e semplicemente nella vendita dei semi
in contestazione (dovendosi altrimenti ritenere configurata l’istigazione in
tutti i casi di vendita di beni pericolosi e potenzialmente lesivi per la collettività: si pensi, ad esempio, alle armi, ai veleni, ecc.).
La mancanza, quindi, di un qualsiasi elemento idoneo ad integrare gli estremi del concorso di persone del reato, C.D. va
mandato assolto dal reato a lui ascritto per non aver commesso
il fatto.
P.Q.M.
Letto l’art. 530 c.p.p. Assolve C.D. dal reato a lui ascritto per
non aver commesso il fatto. Motivazione in giorni trenta.
Istigazione all’uso di stupefacenti
La sentenza del Tribunale di Benevento affronta in maniera lineare e
tranciante argomenti in apparenza complessi.
Le tematiche in oggetto sono molteplici e, in primis, riguardano la vexata quaestio sul concetto di induzione, che secondo l’art. 82 D.P.R. 309/90,
si manifesta anche con le forme dell’istigazione e del proselitismo.
Una lettura, pertanto, metodologicamente corretta dell’articolo individua le distinte ipotesi secondo cui:
1. si concretizzi un’opera di persuasione all’assunzione di sostanze stupefacenti nei confronti di soggetti che non ne hanno mai fatto uso;
2. si esorti al consumo di droga, assumendolo come valore positivo;
3. si condizionino soggetti indeterminati ad assumere comportamenti antidoverosi della volontà1.
Tutte queste manifestazioni si inseriscono nel quadro generale del concorso di persone nel reato, e precisamente nel concorso psichico.
Secondo la concezione dominante dottrinaria occorrono, comunque,
dei requisiti minimi per potersi parlare di progetto adesivo ad un pactum
sceleris.
Innanzitutto, per quanto sembri ultroneo e banale sottolinearlo, occorre la commissione di un reato, o perlomeno gli estremi oggettivi di un
tentativo2.
Oltre al precedente requisito, si richiede che il soggetto abbia recato
un contributo causale al verificarsi del fatto criminoso3, ma, e questo è
importante sottolinearlo, avendo la volontà di contribuire col proprio operato al verificarsi del fatto medesimo4.
Pecca per difetto la tradizionale teoria causale - condizionalistica, per
cui l’azione del partecipe deve essere una conditio sine qua non del verificarsi
del reato. Con un apparente paradosso, il criterio condizionalistico, che rispetto al reato monosoggettivo è troppo ampio, applicato al concorso è troppo ristretto5. Fondandosi su un giudizio ex post, a fatto compiuto, esclude
dal concorso tutte le ipotesi di partecipazione non necessaria. E insufficienti si sono rivelati anche i forzati ampliamenti del criterio condizionalistico.
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Per eccesso pecca, invece, la teoria che, di fronte all’impossibilità di risolvere il problema della partecipazione in termini causali, si limita a richiedere un qualsiasi aiuto diretto alla realizzazione del reato, con un’azione proporzionata, adeguata a determinare l’evento.
Per superare un’impasse dogmatica sempre più imbarazzante, si è fatto ricorso alla teoria secondo la quale l’uomo, con la sua azione, abbia posto in essere una condizione dell’evento, e cioè un antecedente senza il
quale l’evento stesso non si sarebbe verificato6. Inoltre, il risultato non deve essere determinato dal concorso di fattori eccezionali.
Pertanto, alla luce di quanto suesposto, non può che esprimersi piena
adesione alla soluzione prospettata nella sentenza n. 74 del 7 febbraio 2008,
che esprime un perfetto equilibrio tra certezza giuridica, responsabilità
personale e difesa sociale e riesce a risolvere gli inevitabili casi grigi che si
prospettano in questa materia, trovando il proprio fondamento positivo
nell’art. 40 c.p.
In maniera estremamente corretta (si potrebbe dire, utilizzando un termine estraneo al diritto, “laica”), il Tribunale esula da considerazioni di
natura strettamente etiche o, più semplicemente, morali.
Infatti, la sentenza individua la sussistenza del carattere di offensività
della fattispecie penale di cui all’art. 82 D.P.R. 309/90 solo quando si percepisca dalla condotta incriminata una partecipazione morale “che esplicandosi sotto il profilo soggettivo nella consapevole opera di determinazione, istigazione o rafforzamento della volontà di un determinato reato nell’autore materiale
di esso, ne costituisca, sotto il profilo oggettivo, adeguata concausa efficiente.”.
Rapportando il ragionamento al caso concreto, va osservato che non
è stata, quindi, ravvisata alcuna forma di esaltazione di condotte illecite,
in quanto “l’imputato, al di fuori della mera vendita effettuata on-line, non ha
posto in essere alcuna concreta attività istigativa.”
In conclusione, perché possa ravvisarsi correttamente l’illecito, ipotizzato dall’art. 82, è sufficiente che la condotta posta in essere dal soggetto
agente appaia idonea a conseguire l’effetto di indurre i destinatari all’uso
delle sostanze medesime7.
La partecipazione dell’imputato alla commissione del reato di coltivazione commesso da quattro giovanissimi clienti, viene, quindi, ravvisata
dalla pubblica accusa quale espressione di consapevole concausa, che si è
esternata sul piano strettamente morale.
Secondo il Tribunale sannita, invece, appare indubbio che le volontà
del venditore e degli acquirenti sono del tutto differenti e non si influenzano reciprocamente in alcun modo.
Una volta che la res è uscita dalla sfera di disponibilità del commerciante, (sotto forma di semi di cannabis, ai quali non “può essere attribuito
il benché minimo effetto drogante”), la destinazione che essa subisce, (“consistita nella semina, nella preparazione del terreno, nel governo delle piante”) ad
opera degli acquirenti, non coinvolge minimamente il primo.
Un’interpretazione che si ponesse in maniera difforme, comporterebbe un’indebita estensione del principio della responsabilità oggettiva, sacrificando, così, totalmente il principio della personalizzazione della stessa 8.
Avv. Antonella Maffei
NOTE
1) Definizioni tratte dal Dizionario della lingua italiana “Devoto-Oli” e dal “Grande dizionario della lingua italiana” di Salvatore Battaglia.
2) In questo senso HIPPEL.
3) Cfr.: GALLO, Lineamenti di una teoria sul concorso di persone nel reato; PAGLIARO,
Principi di diritto penale.
4) Cfr.: FROSALI, L’elemento soggettivo del concorso di persone nel reato.
5) Conforme: Cass. Sez. Un., 28.11.1981.
6) Cfr.: STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale.
7) Così Cass. Pen. Sez. IV, sent. N. 22911 del 14.05.2004 secondo cui, nel caso posto alla
sua attenzione, la condotta di istigazione è consistita nel fornire agli acquirenti dettagliate indicazioni sulle modalità di coltivazione di semi di “cannabis sativa” per ottenere piante idonee a
produrre sostanza stupefacente.
8) Nel solco del positivismo causale e del positivismo criminologico, nella logica autoritaria
di una energica repressione della delinquenza, si muovono invece, ed in senso diametralmente
opposto, altre sentenze sullo stesso argomento (ex plurimis Trib. Firenze R.G. 8967/06 G.I.P.
del 23.07.2007).
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Commissione Tributaria Provinciale di Benevento
Sentenza del 25 febbraio 2008 n. 89
Presidente: dott. M. ABBATE - Relatore: dott. L. GOGLIA
OGGETTO DELLA DOMANDA
E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ritualmente notificato all’Agenzia delle Entrate di
Benevento in data 6.3.2007 D. A., rappresentato e difeso dall’avv. V. D.L.
in virtù di mandato a margine del ricorso, ha impugnato il silenzio rifiuto avverso l’istanza di rimborso della quota di tassazione ordinaria dei TFR
prodotta in data 5.5.2006 e del successivo invito/diffida inviato in data
26.2.2007 rimasti senza alcun riscontro.
La somma richiesta dal ricorrente ammonta ad euro 19.724,55 oltre
interessi, fino al soddisfo.
A sostegno del ricorso la difesa ricorrente eccepisce e deduce:
a) che il ricorrente, già dipendente del San Paolo-Banco di Napoli presso la Filiale di Benevento, cessava dal servizio in data 30.12.2002 avvalendosi
dei provvedimento di esodo incentivato disposto con D.M. 158 dei 28.4.2000;
5) che a seguito del collocamento in quiescenza, al ricorrente veniva
liquidato il TFR e veniva disposta la liquidazione di somme aggiuntive
(bonus) oltre alla corresponsione dell’assegno straordinario in forma rateale a decorrere dall’1.1.2003 al 31.3.2006;
c) che sulle suddette somme l’INPS applicava il medesimo trattamento fiscale di cui alla legge 448/1998 con il regime della tassazione separata previsto dall’art. 17 comma 2 del D.P.R. 917/86;
d) che analogo trattamento fiscale veniva riservato dal Fondo di previdenza complementare per il personale del Banco di Napoli, sulla liquidazione della posizione individuale su detto fondo;
e) che sulle somme di cui innanzi è stata applicata l’aliquota media dei
23,72 % pari a quella applicata sul TFR e non l’aliquota ridotta del 50%;
f) che sugli incentivi di cui innanzi la tassazione ridotta del 50% rispetto a
quella applicata per il TFR viene applicata solo per i lavoratori di sesso maschile di età superiore ai 55 anni e per le lavoratrici di età superiore ai 50 anni. Tale
norma appare illegittima e non conforme ai criteri di parità di trattamento uomo/donna, con conseguente incompatibilità con la normativa comunitaria;
g) che la Corte di giustizia, con sentenza del 21.7.2005 ha affermato
il principio come innanzi esposto, con la conseguente estensione ai lavoratori di sesso maschile del trattamento fiscale più favorevole previsto dalla norma per le lavoratrici di sesso femminile.
Conclude per l’integrale accoglimento del ricorso, con vittoria di spese.
L’Agenzia resistente si è costituita in giudizio con memoria depositata in data 3.8.2007, con la quale eccepisce la inconsistenza delle deduzioni del ricorrente sul presupposto che l’art. 26 della legge 448/1998 prevede che per gli assegni corrisposti per il sostegno del reddito dei lavoratori che abbiano risolto in via, anticipata il rapporto di lavoro debba essere applicato il regime di tassazione separata previsto dall’art. 17 comma 2°
del TUIR e come tali assoggettate a tassazione con la medesima aliquota
determinata ai fini della tassazione del TFR. Il requisito anagrafico dell’età
del percipiente avrebbe rilievo ai soli fini della applicazione della ulteriore agevolazione riconosciuta dal comma 4 bis dell’art. 17 del TUIR.
Conclude per il rigetto del ricorso, con vittoria di spese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
All’odierna udienza, in camera di Consiglio, all’esito della esposizione fatta dal Relatore, la Commissione si è riservata la decisione per un
maggiore approfondimento della problematica sottoposta al suo esame.
Successivamente, all’udienza del 26 maggio 2008, la Commissione,
sentito il Relatore, osserva quanto segue:
• che oggetto del presente giudizio è la ammissibilità e fondatezza della istanza con la quale esso ricorrente ha richiesto il ricalcolo delle somme trattenute dal sostituto di imposta per IRPEF sull’imponibile “bonus
incentivi” con aliquota ridotta al 50% e non per intero, nonché al ricalcolo delle ritenute IRFEF sugli assegni straordinari erogati nel periodo
1.1.2003 / 31.3.2006 con la medesima aliquota ridotta del 50%.
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• che l’aliquota ridotta del 50% è applicabile, secondo la difesa del ricorrente, allo stesso modo sia per gli uomini che per le donne, indipendentemente dall’età anagrafica, non potendosi giustificare tale palese disparità di trattamento sulla base dell’età anagrafica riferita al sesso dei lavoratori (50 anni per le donne e 55 per gli uomini).
• che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee - Sezione prima,
come puntualmente osservato dal ricorrente già in sede di istanza di rimborso, con sentenza resa in data 21 luglio 2005 nel procedimento C207/2004, su ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate di Arona, si è
pronunciata sulla interpretazione dell’art. 141 CE e della direttiva del
Consiglio 9.2.1976,76/2007/CE, relativa all’attuazione della parità di trattamento tra uomini e donne in relazione al rapporto di lavoro.
Con tale sentenza la Corte nel richiamare gli art. 2 e 5 della direttiva
9.2.76 ha affermato che il principio di parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente e che l’applicazione di tale principio alle condizioni di lavoro,
implica che siano garantite agli uomini ed alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sui sesso;
• che la legge 23 aprile 1981 n. 155 consente ai dipendenti delle
imprese in crisi di fruire del collocamento a riposo anticipato a 55 anni se uomini ed a 50 anni se donne. L’art. 17 comma 4 bis (ora art. 19)
del D.P.R. 917/1986 (TUIR) dispone che “sulle somme corrisposte in
occasione della cessazione del rapporto (di lavoro) al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori che abbiano superato l’età di 50 anni se donne e di 55 anni se uomini, di cui all’art. 6 (ora 17) comma 1 lett. a),
l’imposta si applica con l’aliquota pari alla metà di quella applicata per
la tassazione del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità e
somme indicate nella lettera a) del comma 1° dell’art. 16 (ora 17). La
Corte ha affermato, altresì, che un regime di tassazione stabilito in funzione dell’età del lavoratore costituisce una condizione inerente al licenziamento per cui è applicabile la direttiva CE 76/2007 art. 5 n. 1
che fa espresso divieto, per le legislazioni nazionali, di prevedere discriminazioni fondale sul sesso, dovendo gli uomini e le donne usufruire
delle medesime condizioni di licenziamento. “Una differenza di tratta-
mento risultante dalla tassazione con aliquota ridotta alla metà delle
somme erogate in occasione della interruzione del rapporto di lavoro a
carico dei lavoratori che hanno superato i 50 anni se donne ed i 55 anni se uomini, costituisce una disparità di trattamento fondata sul sesso
dei lavoratori”. La direttiva osta, pertanto, ad una discriminazione fondata sul sesso come la norma nazionale di cui all’art. 17 (ora 19) comma 4 bis del TUIR.
• che al fine di garantire un’applicazione effettiva ed omogenea della normativa comunitaria i Giudici nazionali possono rivolgersi alla Corte
di giustizia per chiederle di precisare e verificare la conformità a tale
diritto di una norma nazionale. La Corte di giustizia risponde con una
sentenza o una ordinanza motivata ma il Giudice nazionale è vincolato
alla interpretazione fornita quando definisce la controversia pendente
dinanzi ad esso e la sentenza della Corte di giustizia vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposta analoga questione. Sussiste, infatti, l’obbligo per i giudici nazionali di applicare il diritto comunitario e di tutelare i diritti conferiti da quest’ultimo ai cittadini (applicazione diretta del diritto comunitario), disapplicando qualsiasi disposizione contraria del diritto nazionale, sia essa precedente o
successiva alla norma comunitaria (supremazia del diritto comunitario
sul diritto nazionale. Lo stesso legislatore nazionale ha l’obbligo di
conformare la legislazione alla normativa comunitaria secondo le sentenze della Corte di Giustizia;
• che proprio in attuazione della sentenza della Corte il legislatore nazionale, con l’art. 36 comma 23 del D.L. 4.7.2006 n. 223, convertito con
modifiche con la legge 4.8.2006 n. 248 ha abrogato, con effetto dal
4.7.2006, il comma 4 bis dell’art. 17 (ora 19) del TUIR.
• per le motivazioni come innanzi espresse, il ricorso appare meritevole di accoglimento. Sussistono fondati motivi per compensare le spese
attesa la complessità della questione giuridica in esame.
P.T.M.
La Commissione, sciogliendo la riserva, accoglie il ricorso e compensa le spese.
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Giudice di Pace di Benevento
Sentenza n. 1041 del 12 giugno 2008
Giudice: Dott. A. ABBUONANDI
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione regolarmente notificato parte attorea conveniva
innanzi a questo ufficio la Società E.D. s.p.a. (di seguito indicata anche E.)
per sentirla condannare ai pagamento in suo favore della somma di euro
35,00 e quant’altro presuntivamente spettante.
Deduceva l’attore di essere cliente E. per la fornitura di energia elettrica nell’immobile sito in Benevento alla via Fontanelle, 82; che con delibera nr. 200/99 l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas (di seguito indicata anche A.E.E.G.) aveva previsto che l’E. dovesse offrire ai cliente almeno una modalità gratuita di pagamento delle bollette; che con delibera
nr. 72/04 detta Autorità diffidava l’E. ad adempiere entro 120 giorni all’obbligo di cui all’art. 6 comma 6,4, della delibera nr. 200/99 e che l’E. impugnava tale delibera innanzi al TAR Lombardia il quale con sentenza nr.
3928/2005 respingeva il ricorso; che l’A.E.E.G. con delibera 130/06 deliberava di avviare un’istruttoria formale nei confronti di E. e che con delibera nr. 66/07 le irrogava una sanzione amministrativa di euro 11.700.000,00;
che l’E. sottoscriveva alcune convenzioni con sportelli bancari ma non dava necessaria informazione alla clientela; che all’attore almeno fino al marzo 2006 non era stata offerta alcuna modalità di pagamento gratuita della
bolletta il cui costo era, tutta via, ricompreso negli oneri complessivi riconosciuti dall’Autorità agli esercenti detto servizio, con conseguente inadempimento contrattuale ex art. 1218 C.C. ed obbligo di risarcire il danno subito dall’attore; che l’attore aveva pagato tutte le bollette presso l’ufficio postale da luglio 2000 al marzo 2006 sostenendo una spesa di euro
35,00 per commissioni postali, spesa che avrebbe evitato se l’E. avesse istituito un servizio di pagamento gratuito delle bollette e ne avesse dato in
informazione alla clientela, e della quale chiedeva la restituzione.
L’E. regolarmente citata si costituiva in giudizio sostenendo ed impu-
gnando la domanda attorea ritenendola infondata in ogni sua parte e rilevando che la causa andava decisa secondo diritto e non secondo equità,
trattandosi di rapporti giuridici relativi al contralto concluso con e modalità di cui all’art. 1342 CC.
Veniva, quindi eccepita l’infondatezza. Della domanda poiché le delibere dell’Autorità erano atti amministrativi che non incidevano sui contratti stipulati tra utenti ed esercenti il servizio, che potevano essere modificati, solo dagli stessi nell’ambito dell’autonomia contrattuale. Inoltre
contestava sia l’asserita mancata informativa circa le modalità di pagamento delle bollette senza costi per l’utente e sia l’eccepita violazione delle
prescrizioni poste dal A.E.E.G., deducendo che le stesse erano state adeguatamente fornite come specificato in comparsa.
Concludeva per il rigetto della domanda.
All’udienza del 6/6/08 il giudicante, accertata la regolare costituzione delle parti, visti gli atti e le richieste istruttorie ulteriori, rilevato che
la causa verteva su questioni di mero diritto per cui non abbisognevole di
alcuna attività istruttoria a seguito della precisazione delle conclusioni e
discussione con note conclusionali, tratteneva il fascicolo per la sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va premesso che la presente controversia, documentalmente istruita, è
riferita a rapporti giuridici relativi a contratti conclusi con le modalità di
cui all’art. 1342 C.C.
Emerge che l’attore è consumatore e titolare di un contratto di somministrazione di Energia elettrica con la società E.D. il cui rapporto giuridico è regolato oltre che dal C.C., dal Codice del Consumo, dal contratto e dalle norme vincolanti emanate dall’Autorità per l’Energia elettrica ed il gas ai sensi della legge 481/95.
E la convenuta società conferma l’esistenza del contratto tra le parti e
la piena validità delle norme poste nell’atto di citazione (Legge 481/95
istitutiva dell’Autorità per l’Energia elettrica ed il gas, deliberazione
28/12/99 n. 200 e deliberazione n. 72/04 con cui l’Autorità ha diffidato
la convenuta alla predisposizione su tutto il territorio nazionale di sportelli per il pagamento delle bollette senza oneri per l’utente).
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Risulta quindi incontestata l’esistenza e la validità del rapporto contrattuale e del disposto di cui all’art. 6 capoverso 6 della deliberazione
200/99 che stabilisce l’obbligo all’azienda di predisporre modalità di pagamento gratuito delle fatture in favore degli utenti.
L’azione de qua scaturisce pertanto dalla violazione della norma suindicata, tesa ad avvantaggiare gli utenti, da parte della convenuta società nella provincia di Benevento e nella Regione Campania. E tale
illecito risulta accertato a livello nazionale dalla medesima autorità appunto
con la suddetta deliberazione 72/04 in cui si espone tra l’altro che:
“E.D. ha adempiuto all’obbligo in essa formulato in modo parziale ed
incompleto; e... non garantisce alla propria clientela sull’intero territorio
nazionale l’offerta di almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta dal momento che, alcuni degli strumenti adottati senza oneri aggiuntivi, hanno carattere temporaneo e non vengono offerti sull’intero territorio nazionale ed altri comportano costi indotti per la clientela” e nella provincia di Benevento, da una nota ufficiale dell’E. prot. D./P2
004003783 del 6/4/04 emerge l’accertamento di detto illecito svolto dall’autorità competente e cioè l’assenza di sportelli convenzionati ecc.
Parte attorea infatti espone che detto documento ad essa trasmesso
dall’autorità “con nota agli atti dell’11/5/04 e non disconosciuto dalla
convenuta conferma che al 6/4/04 non solo nella provincia di Benevento
ma nell’intera Regione Campania a differenza di altre regioni non esisteva alcuna convenzione bancaria per garantire all’attore e agli altri utenti la
possibilità di pagamento delle bollette senza oneri”.
La riprova: le stesse documentazioni prodotte dall’E. rappresentano
l’ulteriore danno subito dall’attore privato del diritto di pagare le bollette
senza le commissioni aggiuntive dei versamento postale per oltre quattro
armi; violazione, quindi, dell’art, 6 n. 6.4 della delibera 200/99, dimostrata delle due convenzioni annuali, per il pagamento gratuito delle fatture stipulate per la provincia di Benevento con la Banca della Campania
e il Monte dei Paschi di Siena dei settembre 2004.
Ma della effettiva operatività dei citati sportelli bancari, prima e dopo
il 2004, alcuna prova ha fornito e si è poi resa responsabile della violazione del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto,
omettendo completamente di informare della possibilità di pagare le fatture senza oneri presso gli sportelli bancari suddetti.
E tanto, in contrasto con l’art. 2 n. 2 lettera c del Codice del Consumo
“... una adeguata informazione ecc...” che concretizza a carico dell’E. una
violazione dei fondamentali diritti nei rapporti contrattuali di cui l’attore
è titolare in base all’art. 2 del Codice del consumo; E. che non ha inoltre
neppure comunicato al cliente la istituzione degli sportelli convenzionati
violando la clausola 6 paragrafo 6/1 “altre modalità di pagamento saranno eventualmente comunicate dal fornitore” e ciò sino al marzo del 2006:
“in caso di dubbio sul senso di una. clausola prevale l’interpretazione più
favorevole al consumatore”(art. 35 Codice del Consumo).
Le bollette E., pertanto, allegate dall’attore, provano il danno da questi patito per oltre 6 anni a causa della inspiegabile ed illecita negazione
del diritto e della possibilità stessa di conoscere le modalità di pagamento
delle fatture senza le commissioni, proprio perché non indicate in bolletta. Della mancata informazione all’utente la convenuta ha taciuto anche
in corso di causa a proposito delle due convenzioni bancarie annuali stipulate per la provincia di Benevento a quattro anni di distanza dall’imposizione dell’obbligo; delle quali convenzioni risulta oggi operativa solo
quella con il Monte dei Paschi di Siena a Benevento e non quella con la
Banca della Campania, pur dichiarata come esistente a questo giudice di
Pace.
E l’assenza di sportelli convenzionati solo nelle regioni Campania,
Calabria, Basilicata, Puglia e Sardegna è stata provata dall’attore con l’allegazione del D.D./P2004003783 del 6/4/04 (udienza ex art. 320 c.p.c.
dell’8/11/07).
Ciò stante e l’ampia documentazione della domanda attorea rendono
l’interrogatorio formale e richiesto all’attore dalla stessa E., del tutto superfluo ed irrilevante ai fini del presente giudizio; così pure tutte le richieste istruttorie poiché ininfluenti ai fini della decisione su circostanze
estranee ai fatti per cui è causa.
Per soddisfare le prescrizioni della A.E.E.E. la convenuta sostiene di
aver messo a disposizione dei clienti anche gli strumenti “contowatt e pagamento on line” ma tale tesi difensiva è stata confutata in fatto e in di-
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ritto sia dal T.A.R. Lombardia sez. 4 con sentenza n. 3948 del 19/10/05
e sia dal Tribunale Civile di Napoli.
La Magistratura amministrativa, chiamata a pronunciarsi sul ricorso
della società appellante avverso la delibera di accertamento dell’illecito n.
72/04, ha stabilito che “il gravame, ricorso e motivi aggiunti è infondato
laddove l’E. contesta la determinazione dell’A.E.E.G. secondo la quale il
pagamento delle bollette con servizi Contowatt e il pagamento on line
delle stesse non costituiscono modalità gratuite, visti i costi indotti necessari per fruire di tali servizi. Il servizio Contowatt consiste nell’addebito
della bolletta sul conto corrente bancario del cliente impone a quest’ultimo a stipulare con un istituto di credito un contratto di conto corrente
bancario con le conseguenti spese di apertura e di gestione del medesimo,
stessa cosa per il pagamento con carta di credito alla rete internet, con costi per l’acquisto delle attrezzature informatiche e conoscenze basilari all’uso
del computer, e collegamento ad una utenza telefonica. Anche un’eventuale pagamento esclusivamente con carta di credito non potrebbe considerarsi gratuito. Allo stato delle cose pertanto unica modalità, gratuita si
appalesa quella del pagamento presso gli sportelli delle banche convenzionate che non richiedono commissioni e quant’altro.
Riportandosi pertanto alla decisione del TAR Lombardia (citata sentenze 3948/05) questo giudice di Pace sottolinea l’assoluta inconsistenza e pretestuosità delle deduzioni dell’E. e condivide le argomentazioni attoree.
Nel merito (circa la responsabilità civile) viene a sostegno altresì la efficace decisione su analoga controversia, in grado di appello emessa dal
Tribunale di Napoli decima sezione n. 10221 del 2/11/07,G.U. dott. M.
Oliva. In essa decisione il giudicante vede definitivamente chiarita anche
in sede civile, la portata del dettato normativo di cui alla Legge 481/95.
In sostanza anche secondo il Tribunale di Napoli il contratto tra cliente ed E. è disciplinato dagli artt. 1559 e ss. del C.C., nonché dalle norme
vincolanti emanate dall’Autorità per l’Energia elettrica ed il gas ai sensi
del combinato disposto dell’art. 2 e comma 37 della L. 481/95 la quale
recita “il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento nei rispetto dei
principi di cui alla presente Legge e di quanto stabilito negli atti di cui al comma
37. Le determinazione dell’autorità di cui all’art. 12 lettera h costituiscono modifica o integrazione al regolamento di servizio”. I provvedimenti dell’autorità
hanno l’effetto di modificare i contratti di fornitura in atto con i clienti
senza che gli stessi vengano nuovamente sottoscritti ai sensi dell’art. 1339
del C.C. e della L. 14/11/1995 n. 481, Cass. Civ. 19531/04.
La Suprema Corte ha quindi chiarito che il termine di legge secondo
l’opinione prevalente in dottrina, deve intendersi tecnicamente in senso
ampio onde è riferibile a qualsiasi norma avente valore di legge in senso
sostanziale e quindi non soltanto ai provvedimenti muniti della veste formale di atti legislativi ma altresì ai regolamenti e finanche agli atti amministrativi cui la legge attribuisca il potere di istituire in materia, predeterminando i criteri direttivi. Concorde e consolidata giurisprudenza di merito da tempo ritiene vincolanti per le compagnie telefoniche e gli utenti, le delibere di altre autorità indipendenti quale è l’autorità per le garanzie nelle Comunicazioni coma la n. 182/02/cons in materia di tentativo
obbligatorio di conciliazione prima di avviare un giudizio.
Il Tribunale di Napoli, nella citata sentenza, smentisce così le argomentazioni di E. come del resto già fatto dall’A.E.E.G. nella delibera di
diffida n. 72/04 dallo stesso TAR Lombardia (S. 3948/05): le modalità di
pagamento contowatt o pagamento on line non costituiscono modalità
gratuita visti i costi necessari per usufruire di tali servizi.
E controparte nel tentativo di sottrarsi alle proprie evidenti responsabilità produce una sentenza del TAR Lombardia (n. 321/08) che ha annullato la Delibera n. 66/07 con cui l’autorità per l’energia irrogava una
pesante sanzione all’E. per la violazione delle norme di trasparenza della
bolletta avendo omesso di indicare sino al marzo del 2006 gli sportelli senza oneri tra le modalità di pagamento delle bollette.
Ma la citata decisione TAR appare del tutto ininfluente ai tini della
domanda azionata in questa sede.
La circostanza che l’E. abbia legittimamente o meno secondo il T.A.R.
omesso, sino al marzo del 2006 di indicare in fattura gli sportelli per il pagamento senza commissioni attivati nel settembre del 2004 non esclude
affatto la responsabilità della stessa per non averli aperti nella provincia di
Benevento dal luglio del 2000 e successivamente al 2004, di non aver mai
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comunicato all’attore tale modalità di pagamento. Prova che non è stata fornita dall’E. su cui gravava il relativo onere.
Questo giudicante quindi nel riportarsi alla sentenza del T.A.R. n.
3948 del 19/10/05 che ha già affrontato in sede amministrativa il merito dell’inadempimento dell’E. per cui è causa, conforme giurisprudenza di merito anche delle giudicature di pace decide che nel merito la domanda attorea è fondata e va accolta e riconosce la valenza delle disposizioni dell’autorità per l’energia e il conseguente inadempimento posto in essere dall’E. ai danni dei cliente.. E così conclude: le allegate fatture pagate bimestralmente alla convenuta società
con l’aggravio dei costi del versamento postale provano senza ombra di
dubbio il danno emergente causato all’attore che ha ingiustamente sopportato oneri debitamente quantificati in euro 35.00 dei pagamento delle bollette E. presso gli sportelli postali. I bollettini di pagamento obliterati dalle poste in atti dimostrano come la mancata attivazione di un
servizio di pagamento gratuito delle bollette E. nell’intera provincia di
Benevento dal 2000 al marzo del 2006 abbia costretto l’attore, a scadenza a recarsi presso gli uffici postali, per il pagamento di quanto dovuto all’E. e corrispondenti commissioni postali con il conseguente disagio. E l’avere omesso l’attivazione del servizio e successivamente l’aver
taciuto la sua esistenza ha di fatto negato all’attore la libera esplicazione di un proprio diritto.
Oltre al danno emergente del pagamento delle commissioni a Poste
Italiane, l’attore non può invocare nessun altro pregiudizio, sia di natura
economica, sia di tensione nervosa (stress), riconducibili all’accertato inadempimento dell’E.
Anzi a voler sottilizzare, sotto tutti gli aspetti, risulta più comodo oltre che più facile e sbrigativo recarsi presso l’ufficio postale del proprio
quartiere (dove, peraltro, la maggior parte degli utenti riscuote pensioni e
stipendi) che recarsi presso la Banca (convenzionata con l’E.) situata anche a notevole distanza dalla propria abitazione e da raggiungere con la
macchina, o con gli autobus urbani. Le argomentazioni svolte giustificano l’accoglimento della domandai limitatamente agli indebiti e sborsi (tasse postali) per il pagamento delle bollette oltre gli interessi legali dalla do-
manda. Le spese seguono la soccombenza, ma tenendo conto del parziale accoglimento della domanda, sono compensate per la metà.
P.Q.M.
Il Giudice di Pace di Benevento, dott. A. Abbuonandi, definitivamente
pronunciando sulla domanda proposta da S.A. iscritta al nr. 570/C/8 R.G.
disattesa ogni contraria istanza e deduzione così provvede:
- condanna la convenuta E. al pagamento in favore dell’attore di euro 35,00 oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo nonché di euro
250,00 di cui 20,00 per spese, euro 150.00 per diritti ed euro 80.00 per
onorario oltre rimb. forf. 12,5% CPA e IVA per la metà delle spese di lite a carico della soccombente con distrazione in favore degli avvocati F.
L., C. M.;
- esecutività ex lege.
UMBERTO GIANTOMASI
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Tribunale Civile di Benevento
Sentenza del 14 maggio 2008 n. 848
Giudice: Dott. R. MELONE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto del giugno 2005 M. C. riferiva di essere sin dall’anno
2000 titolare di un contratto per la somministrazione di energia elettrica con la società E. D. s.p.a., l’Autorità per l’Energia Elettrica ed
il Gas aveva emanato la delibera n. 200/99 con la quale, al punto 6,
prevedeva che l’esercente doveva offrire al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta; ciò nonostante l’Ente non
aveva predisposto alcuna modalità di pagamento gratuito della bolletta costringendo l’attore al pagamento di oneri aggiuntivi quali spese postali o bancar ie; solo nel settembre 2004, dopo la diffida
dell’Autorità, l’E. adempieva al suddetto obbligo; conseguentemente sino ad allora l’attore era stato privato del diritto di pagare i corrispettivi dovuti all’E. senza oneri aggiuntivi; ciò aveva causato anche un danno alla salute e/o esistenziale e/o morale, derivante dallo stress e dall’ansia derivanti dall’aver dovuto effettuare file presso
gli uffici postali o bancari, aprire e gestire conti correnti per la domiciliazione, ecc...
Concludeva chiedendo di accertare e dichiarare l’antigiuridicità
del comportamento della convenuta per i motivi sopra indicati e per
l’effetto condannarla al risarcimento del danno cagionato all’utente
- attore, per averlo costretto a sopportare ingiusti oneri di pagamento
accessori delle fatture dal giugno 2000 al settembre 2004 per complessivi euro 22,07 oltre interessi, rivalutazione o comunque nella
misura a determinarsi, oltre al risarcimento del danno extracontrattuale alla salute e/o al danno esistenziale derivante dallo stress, ansia, dai disagi soggettivi indotti all’attore che quantificava in euro
500,00 oltre interessi e rivalutazione o comunque nella misura a determinarsi; spese vinte.
Si costituiva l’E. D. s.p.a. eccependo l’incompetenza per valore
e, nel merito, per l’infondatezza della domanda per i motivi sostanzialmente riportati nell’atto di appello e di seguito illustrati.
Concludeva per i rigetto della domanda; spese vinte.
Istruita la causa, il Giudice di Pace decideva la stessa accogliendo la domanda attorea sia in ordine alla restituzione delle spese aggiuntive sopportate per il pagamento delle varie bollette per il periodo dall’anno 2000 all’anno 2004, sia in ordine al risarcimento del
danno non patrimoniale e condannava l’E.D. s.p.a. a rimborsare all’attore la somma complessiva di euro 622,77 oltre interessi legali e spese di giudizio.
Avverso detta sentenza proponeva appello l’E.D. s.p.a.
Deduceva, come primo motivo, che il Giudice di Pace aveva condannato l’appellante al pagamento della somma di euro 22,07 relativa a spese postali e bancarie, limitandosi ad affermare che l’importo risultava dalle fatture prodotte, ma senza esplicitare le ragioni di
fatto e di diritto che sorreggevano la condanna della società.
Come secondo motivo evidenziava che, anche a voler ipotizzare
che il giudice di primo grado aveva condannato l’E. D. avendo accolto la tesi esposta dall’attore che aveva lamentato un asserito inadempimento della società a delibere dell’Autor ità per l’Energia
Elettrica e il Gas (A.E.E.G.), la sentenza doveva ritenersi del tutto
erronea.
Per vero l’A.E.E.G. con delibera n. 200/99, con riguardo alle
modalità di pagamento della bolletta aveva stabilito che “l’esercente
deve offrire al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento
della bolletta”, ma non aveva indicato quale modalità offrire; richiesta
dalla suddetta Autorità, dopo alcuni primi chiarimenti, con nota del
16.7.01 l’Ente dichiarava di aver predisposto, per consentire il pagamento gratuito, il servizio “contowatt” che consentiva il pagamento delle bollette tramite conto corrente bancario, il servizio “bolletta da pagare on-line” che consentiva di pagare le bollette in modo gratuito, ed il servizio di pagamento mediante addebito su carta
di credito, tutti servizi che consentivano il pagamento senza oneri a
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carico del cliente e con addebito commissioni a carico di E. D.; nel
marzo 2002 l’A.E.E.G. chiedeva nuove informazioni affermando che
“il pagamento della bolletta mediante l’utilizzo di strumenti che comportino costi indotti per gli utenti non può considerarsi modalità
gratuita di pagamento” e indicava 117 sportelli bancari sparsi su tutto il territorio nazionale ed il “numero verde” ove chiedere informazioni per la relativa localizzazione; alla luce dei dati acquisiti
l’A.E.EG. con delibera n. 72/04 rilevava che l’E. non garantiva alla
propria clientela sull’intero territorio nazionale l’offerta di almeno
una modalità gratuita di pagamento della bolletta; avverso tale delibera l’E. proponeva ricorso innanzi al T.A.R. Lombardia evidenziando che l’obbligo in questione doveva essere interpretato secondo i canoni della ragionevolezza e della proporzionalità e che il riferimento all’intero territorio nazionale non era criterio adeguato
stante l’eterogeneità dello stesso, essendo evidente la differenza tra
aree metropolitane e piccoli comuni che necessitano di criteri territoriali differenziati; nelle more della decisione del TAR., l’E. aveva stipulato nuove convezioni; in particolare per la provincia di
Benevento in cui risiedeva l’attore, aveva sottoscritto ben due convenzioni con banche in base alle quali si poteva effettuare il pagamento tramite sportello bancario senza oneri di commissione; queste andavano a sommarsi alle altre modalità di pagamento gratuite
sopra indicate (carte di credito, internet, contowatt); l’attore poteva
venire a conoscenza di dette modalità contattando il “numero verde” gratuito dell’E., come era stato riscontrato a mezzo testi; eccepiva che non era in alcun modo possibile equiparare la delibera
dell’A.E.E.G. ad una clausola del contratto di somministrazione in
essere tra la società concludente e l’attore, essendo un atto amministrativo che non poteva incidere sui contratti stipulati fra il destinatario della delibera ed i terzi, violandosi altrimenti il principio di
autonomia contrattuale delle parti; l’eventuale inadempimento dell’E.
comportava solo una sanzione amministrativa; peraltro la prima delibera n. 200/99 era generica e dava ampia libertà all’E. di scegliere
le modalità di attuazione; solo la successiva delibera n. 72/04 aveva
impartito nuove indicazioni relative alle prescrizioni contenute nella delibera n. 200/99 fissando il nuovo ed illegittimo criterio territoriale ed invitando per la prima volta l’E. ad adeguarsi a tale nuovo criterio; proprio nel 2004 l’Ente aveva stipulato due convenzioni con banche locali per il pagamento delle bollette senza oneri aggiunti per cui nessuna illegittimità, neppure sotto il profilo amministrativo, era ipotizzabile.
Con il terzo motivo di appello censurava la sentenza sotto il profilo del riconoscimento del danno non patrimoniale sofferto dall’attore per aver pagato somme non dovute e per l’aver fatto file interminabili che comportavano stress e sofferenza fisica; evidenziava che
il danno esistenziale riconosciuto dal primo giudice era ipotizzabile solo in rari casi, non coincidenti con quello al vaglio dell’Ufficio,
e comunque andava provato in concreto, il che non era stato; in ogni
caso contestava la misura dell’importo liquidato in quanto eccessivo.
Concludeva per la riforma integrale della sentenza, rigettando
tutte le domande formulate dal M.; spese vinte.
Si costituiva M. C. contestando la fondatezza delle ragioni addotte a sostegno del gravame e concludendo per il rigetto dello stesso o, in via subordinata, per il riconoscimento del diritto dell’attore al risarcimento del danno derivante dall’aggravio delle spese per
il pagamento delle fatture pari a euro 22,07 oltre interessi e rivalutazione; spese vinte.
All’udienza del 28.11.07 le parti precisavano le conclusioni e la
causa veniva ritenuta in decisione con l’assegnazione dei termini ex
art. 190 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo addotto a fondamento dell’appello consistente
nell’eccezione del difetto di motivazione non è rilevante atteso che
l’appello ha carattere di gravame e non di rimedio impugnatorio,
con la conseguenza che l’eventuale carenza di motivazione è di per
sé irrilevante, potendo in merito provvedere il giudice di secondo
grado in forza dell’effetto devolutivo dell’appello.
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In ordine al secondo motivo di gravame, che è il nocciolo della
questione - questione di puro diritto e non ancora investigata dalla
giurisprudenza di legittimità - deve osservarsi intanto che, nelle more dell’appello, è intervenuta la sentenza del T.A.R. Lombardia che
ha deciso, con sentenza n. 3948 sul ricorso proposto dall’E.D. s.p.a.
- ricorso cui l’odierna appellante ha fatto espresso riferimento nel
gravame proposto - avverso la delibera 72/04 della A.E.E.G. in premessa indicata (direttiva concernente l’erogazione del servizio di distribuzione e vendita dell’energia elettrica ai clienti del mercato vincolato, ai sensi dell’art. 2, comma 12°, lett. h, della L. 481/95), rigettando la domanda.
Ha chiarito detto tribunale che “le modalità di pagamento “CONTOWATT ” o “pagamento on line” non costituiscono modalità gratuita, visti i costi indotti necessari per usufruire ditali servizi; appare, infatti, evidente che le modalità di pagamento in questione impongono alla clientela di sostenere una serie di costi, che impediscono di ritenerle gratuite. Per il servizio “ CONTOWATT ”, consistente nell’addebito della bolletta sul conto corrente bancario del
cliente, quest’ultimo si vede costretto a stipulare con un istituto di
credito un contratto di conto corrente bancario, con le conseguenti spese di apertura e di gestione del medesimo; analogamente, per
il pagamento con carta di credito, accedendo alla rete Internet, il
cliente si vedrebbe costretto a sopportare i costi per l’acquisto delle
attrezzature informatiche, oltre alle spese normalmente sostenute per
accedere, tramite il proprio computer, alla rete; anche un eventuale
pagamento esclusivamente tramite carta di credito, senza necessità di
accedere alla rete Internet, non potrebbe reputarsi gratuito, viste le
spese per attivare ed usufruire del servizio della carta di credito, da
corrispondersi a favore dell’Istituto di emissione di quest’ultima, che
comportano anche spese di gestione di conto con invio degli estratti mensili con spese a carico anche per una singola operazione. Allo
stato, pertanto, unica modalità gratuita è quella del pagamento presso gli sportelli delle banche convenzionate, che non richiedono commissioni né impongono di trattenere rapporti con la banca”.
Tale modalità è stata prevista nella provincia di Benevento in cui
risiede l’appellato solo nell’aprile 2004 mediante stipula di una convenzione in copia in atti - con la Banca della Campania per l’incasso delle bollette E., senza richiedere alcuna commissione alla Clientela,
assumendosi l’E. il costo dell’operazione bancaria; pari convenzione è stata poi sottoscritta nel settembre 2004 anche con il Monte dei
Paschi di Siena.
Può concludersi, quindi, nel senso che fino all’aprile 2004 l’odierna appellante non ha ottemperato a quanto disposto dalla A con la
delibera n. 200/99 laddove prevedeva che l’esercente doveva offrire
al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta.
È evidente difatti che tutti gli altri mezzi di pagamento comportavano oneri aggiuntivi, compresi quelli indicati dall’E. nel suddetto ricorso proposto al T.A.R. Lombardia, la cui motivazione sul punto, come sopra riportata, viene pienamente condivisa da quest’Ufficio.
Non può accogliersi l’eccezione, pure formulata dall’appellante,
del non essere sufficientemente specifico quanto previsto nella delibera 200/99 (assume l’E. s.p.a. che sarebbe stata integrata con la successiva delibera n. 72/04 con la previsione di nuove indicazioni non
previste nella delibera n. 200/99, individuando per la prima volta un
criterio territoriale quale la presenza in ogni capoluogo d provincia
di un sportello convenzionato per il pagamento gratuito delle bollette) perché l’indicazione dell’obbligo contenuto nella delibera è del
tutto nitido.
L’aver lasciato libertà di scelta sullo strumento per adempiere non
consente di ritenere l’inesistenza dell’obbligo. Andava bene evidentemente una qualsiasi modalità che era già facilmente individuabile,
quali ad esempio stipulare una convenzione con le banche, (come
poi ha fatto), ma anche con le P. s.p.a con agenzie preesistenti sul
territorio aprire propri sportelli sul territorio per consentire la ricezione dei pagamenti, purché - questo era l’oggetto dell’obbligo senza costi di nessun tipo per il cliente. Con una distribuzione territoriale ragionevole (che non può essere ovviamente inferiore ad
almeno un sportello per provincia).
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Fatto è che individuato l’inadempimento della detta delibera deve verificarsi se ne deriva immediatamente un diritto in capo a ciascun utente del servizio di erogazione di energia elettrica ad avere
la possibilità di pagare le bollette senza oneri aggiuntivi (se non quello, ovviamente, di recarsi al luogo indicato da per effettuare il pagamento).
Ha chiarito la Suprema Corte che l’art. 1374 c.c. - ribadendo
che il contenuto dell’art. 1339 c.c. là dove quest’ultimo dispone che
le clausole imposte dalla “legge” sono di diritto inserite nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti - prevede che il contratto obbliga queste ultime a quanto è nel
medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la “legge”; il termine “legge”, secondo l’opinione prevalente in dottrina, deve intendersi, atecnicamente, in senso ampio,
onde è riferibile a qualsiasi norma avente valore di legge in senso
sostanziale e, quindi, non soltanto ai provvedimenti muniti della veste formale di atti legislativi ma altresì ai regolamenti e, financo, agli
atti amministrativi cui la legge attribuisca il potere di statuire in materia predeterminando i criteri direttivi ed i limiti di massima per il
suo esercizio (così, Cass. 21 dicembre 1994, n. 11032, relativamente agli atti amministrativi comunali previsti dall’art. 35 della legge n.
865 del 1971), onde la lettera del medesimo art. 1339 sembra consentire il ricorso a fonti diverse dalla legge, argomentando, tra l’altro, dal fatto che la sua formulazione originaria prevedeva anche le
norme corporative, le quali costituiscono una fonte oggi esaurita (di
massima) ma il cui richiamo appare indicativo di una tendenza legislativa a tener conto di altre fonti che possono con forza vincolante
emanare disposizioni in materia. (cfr. Cassazione Civile n. 19531/04).
L’autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas istituita con legge n.
481/1995 ha come finalità la promozione della concorrenza e l’efficienza della prestazione, dovendo garantire elevati livelli nell’erogazione del servizio e promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori (vedi art. 1 legge citata). L’art. 12 lettera h) della
legge n. 481/1995 stabilisce che l’Autorità suddetta emana le diret-
tive concernenti la produzione e l’erogazione dei servizi da parte dei
soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso della prestazioni ed i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire
all’utente tali determinazioni producono gli effetti di cui al comma
37. Quest’ultimo prevede che il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento di servizio nel rispetto dei principi di cui alla presente legge e di quanto stabilito negli atti di cui al comma 36.
Le determinazione dell’Autorità di cui all’art. 12 lettera h) costituiscono quindi modifica o integrazione del regolamento di servizio.
La determinazione delle modalità di pagamento del corrispettivo rientra certamente nella nozione di servizio sotto il profilo di servizio di riscossione dei corrispettivi (quale fase relativa alla percezione del corrispettivo maturato secondo tariffa), inizialmente svolto direttamente dall’E. come di seguito evidenziato, tramite i propri
uffici.
Concretando tale determinazione un regolamento, per quanto
sopra chiarito, ne deriva l’inserzione automatica della previsione nel
contratto di somministrazione, come tale, immediatamente impegnativa per le parti.
A tali conclusioni e pervenuta sia pure sotto altra prospettazione, la giurisprudenza amministrativa che ha chiarito che nell’ambito, delle direttive concernenti la produzione ed erogazione dei servizi, adottate da per l’energia elettrica e il gas ai sensi dell’art. 2,
comma 12 lett. h), L. 14 novembre 1995 n. 481, e con cui vengono definiti anche i livelli di qualità generali e specifici delle prestazioni, possono rientrare anche prescrizioni che incidono sulle obbligazioni caratterizzanti lo svolgimento dei singoli rapporti di utenza, trattandosi di previsioni che, delineando specifici comportamenti da assumere nella fase esecutiva del rapporto, non possono non incidere, a monte, anche sull’assetto prefigurato dal singolo contratto,
costituendone altrettante disposizioni integrative (C.d.S. n. 6628/03,
T.A.R. Milano n. 4515/02).
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Ne deriva che il non aver previsto quanto imposto con la delibera n. 200/99 sopra indicata, concreta l’inadempimento contrattuale individuato dal giudice di primo grado, con il conseguente obbligo restitutorio.
L’appello sotto tale profilo deve ritenersi infondato e va rigettato.
Deve evidenziarsi che a pari conclusioni si previene osservando
che l’A.E.E.G. ha potestà sulla determinazione delle tariffe e il costo per il pagamento della bolletta, se non è frutto di una scelta
dell’utente di avvalersi di un certo servizio per propria comodità
(domiciliazione bancaria, pagamento tramite Internet, ecc) incide
sulla tariffa stessa. Legittimamente quindi, l’Autorità determina la
tariffa, chiarendo che i costi da sopportare sono solo quelli relativi
all’energia erogata e non anche quelli per il pagamento delle bollette (non previsto in contratto). Per vero nel contratto di somministrazione stipulato dal M. in data 23.10.97, in copia in atti, è previsto che l’utente è tenuto ad effettuare il pagamento della fattura presso la sede di zona competente per territorio.
Deve ritenersi in via di logica, essendosi posto il problema, che
l’E. non ha più o non ha mai avuto una sede di zona ove effettuare
il pagamento diretto (l’orientamento aziendale è quello di chiudere
anche quei pochi rimasti aperti, come si trae dalla lettura dell’esposizione in fatto della sentenza TAR sopra indicata; ciò trova riscontro nella relazione tecnica alla delibera 200/99 - pure in copia in atti - che all’art. 6 chiarisce che “fino ad oggi gli esercenti hanno generalmente consentito il pagamento delle fatture, senza oneri di riscossione, presso i loro sportelli aziendali).
La previsione di uno sportello ove effettuare il pagamento della
bolletta senza oneri aggiuntivi rispetto al costo dell’energia consumata, ha la funzione di ripristinare l’originario sinallagma contrattuale (previsione di un servizio di riscossione presso gli sportelli E.,
quindi senza oneri derivanti dal costo del servizio per la delega ad
altro Ente, Banca o Posta) che viene alterato, sia pure in misura invero assai modesta, prevedendo quello che, di fatto, viene ad essere
una maggiorazione della tariffa (per poter usufruire del servizio non
si deve pagare il solo il consumo di elettricità, ma anche il costo per
il versamento).
È fondato, invece, l’ultimo motivo di gravame relativo al risarcimento da danno non patrimoniale (così qualificato dal primo giudice) che l’appellato (secondo il primo giudice) in quanto consumatore e quindi contraente debole rispetto ai “professionisti forti”,
avrebbe certamente patito pagando somme non dovute, facendo file interminabili che comportano stress e sofferenza fisica.
Tale ricostruzione non è condivisibile.
Il danno va comunque provato, quanto meno in via presuntiva
fornendo, ex art. 2729 c.c., indizi gravi, univoci e concordanti.
Ciò è mancato.
E’ mancata la stessa prova che sia stato l’attore a fare la fila per il
pagamento, non potendosi escludere che abbia incaricato un vicino,
un amico un parente.
Peraltro il danno deve essere casualmente collegato non all’aver
fatto la fila, (fila che avrebbe comunque dovuto fare anche se avesse avuto a disposizione, sin dall’anno 2000, uno sportello bancario
convenzionato senza costi per l’operazione di pagamento) ma alla
“concreta ingiusta sofferenza” - ad esempio per un anomalo affollamento addebitabile a scelte organizzative dell’appellante - che ne può
essere derivata. Fare la fila per il pagamento delle bollette è, di per
sé, una ordinaria incombenza dei consumatori e rientra nella cose
della vita.
Parimenti manca la prova di una concreta sofferenza per aver dovuto pagare i costi aggiuntivi, estremamente limitati e diluiti nel
tempo ed agevolmente sopportabili.
Giova evidenziare che tale danno da stress sarebbe riconducibile
al cd. danno esistenziale (cfr. Cassazione Civile n. 3284/08) da intendere come pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli
assetti relazionali propri del soggetto inducendolo a scelte di vita diverse, quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità
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nel mondo esterno, da quelle che avrebbe compiuto ove non si fosse verificato il fatto dannoso - costituendo un danno - conseguenza, deve essere specificamente provato ai tini risarcitori, non potendo mai considerarsi “in re ipsa” (Cfr Cassazione Civile n.
20987/2007).
La reciproca soccombenza e la novità della questione impone la
totale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P. Q. M.
definitivamente pronunciando sull’appello avverso la sentenza n.
111/2006 del Giudice di Pace di Benevento, proposto dalla E. D.
s.p.a. nei confronti di M.C., contrariis reiectis, così provvede:
a) Accoglie parzialmente l’appello e per l’effetto annulla la gravata sentenza in ordine alla domanda di risarcimento del danno non
patrimoniale che rigetta, confermandola per quanto riguarda il solo
ordine di restituzione a M. C. della somma di euro 22,05 oltre interessi a calcolarsi al tasso legale dalla data della domanda al soddisfo;
b) Compensate le spese del doppio grado di giudizio.
Giudice di Pace di Benevento n. 1041/08
Tribunale di Benevento n. 848/08
Il contratto di somministrazione di energia elettrica e l’efficacia delle norme regolamentari dell’Autorità nella recente giurisprudenza amministrativa e di merito. Prime riflessioni sul contenzioso inerente la mancata attivazione delle
modalità di pagamento gratuito in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sardegna.
La sempre maggiore assimilazione da parte dell’ordinamento del
concetto giuridico di consumatore e le crescenti istanze di trasparenza e correttezza nei contratti di somministrazione, in un mercato nazionale che ne è da sempre carente, stanno incrementando notevolmente il contenzioso civilistico nella materia.
I meccanismi di conciliazione extragiudiziale, in alcuni casi obbligatori come nel settore delle telecomunicazioni 1 non risultano
esaurientemente deflativi del contenzioso, essendo fortemente limitati alla corresponsione dei soli indennizzi contrattuali che non sempre soddisfano l’utente vittima di disservizi e abusi.
Alcuni autori parlano del consumatore italiano come un “gigante nano” per il quale, nonostante la costante produzione normativa
primaria e secondaria a lui dedicata (dal Codice del Consumo alle
Delibere delle Autorità indipendenti), le tutele non sembrano bastare mai. Nello scenario del conflitto consumatore – imprese la prima linea è sicuramente quella dei servizi pubblici in concessione
“privatizzati” negli anni ‘90 quali la telefonia, l’energia elettrica ed
il gas. Nelle cosiddette “comunicazioni elettroniche” i consumatori
godono oggi di uno scenario che, sebbene caratterizzato da un operatore dominante, vede numerose aziende contendersi un mercato in
espansione di pari passo con i sempre nuovi servizi che nascono grazie alla diffusione di internet e della banda larga internet. Ben diverso in Italia, ma anche nel contesto comunitario è il mercato ener-
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getico, con un livello di liberalizzazione di molto inferiore, poca
concorrenza e livelli tariffari in aumento costante e quasi fuori controlli poiché commisurati ai prezzi del petrolio in drammatica ascesa. Al contesto sicuramente più svantaggioso per gli utenti dell’energia, fa da contraltare l’attività regolatoria dell’Autorità per l’energia
elettrica ed il gas 2, istituita con la Legge n. 481/95, più attenta alle
concrete esigenze di un consumatore soggetto di un mercato “vincolato” quanto a operatori, offerte e tariffe.
La normativa primaria e secondaria del contratto di somministrazione di energia elettrica alla luce della liberalizzazione del 1° luglio 2007.
Caratteristica peculiare della normativa del settore energetico (così come nelle comunicazioni elettroniche) è la compresenza accanto alle norme codicistiche, delle disposizioni regolamentari dettate
dall’Autorità indipendente di regolazione. L’articolo 1559 del Codice
civile definisce la somministrazione o la fornitura come ‘’il contratto
con il quale una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, ad eseguire, a favore dell’altra, prestazioni periodiche o continuative di cose’’.
L’articolo 1570 del Codice civile stabilisce che si applicano alla
somministrazione, in quanto compatibili con la sua specifica normativa, anche le regole che disciplinano il contratto a cui corrispondono le singole prestazioni.
Quanto ai poteri vincolanti della Autorità per l’energia in materia contrattuale e circa l’attività delle imprese, la legge istitutiva le
ha assegnato, tra gli altri, il compito di tutelare gli interessi dei consumatori e degli utenti del servizio di fornitura dell’energia elettrica e del gas. Significative alcune delle prerogative riconosciute:
• L’emanazione di direttive concernenti la produzione e l’erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi (articolo 2, comma 12, lettera h);
• L’imposizione, ove opportuno, modifiche alle modalità di esercizio degli stessi (esercenti), ovvero procedendo alla revisione del
regolamento di servizio (articolo 2, comma 12, lettera m);
•
La verifica della congruità delle misure adottate dai soggetti esercenti il servizio al fine di assicurare la parità di trattamento tra
gli utenti (articolo 2, comma 12, lettera n) (Vedasi pag. 1 Relazione tecnica).
Lo scenario attuale è stato caratterizzato dalla liberalizzazione
della vendita di energia elettrica, avvenuta il 1° luglio del 2007 con
la Legge n. 125/07, attuativa della Direttiva UE n. 54/03 3. In conseguenza della riforma il quadro normativo risulta ripartito tra il
“mercato libero” cui sono passati 1,8 milioni di utenti, sottoposto
alle regole di garanzia del codice di condotta commerciale, varate
con la Delibera n. 105/06 4 e “mercato a maggior tutela”, che raggruppa i 33 milioni e 200 mila utenti che non hanno aderito alle
nuove offerte commerciali e per i quali si applicano le tutele contrattuali previste dalla Delibera n. 200/995 “Direttiva concernente l’erogazione dei servizi di distribuzione e di vendita dell’energia elettrica a
clienti del mercato vincolato” riguardanti le seguenti condizioni di fornitura:
• Lettura del contatore
• Fatturazione dei consumi
• Calcolo dei consumi
• Pagamento della bolletta
• Morosità del cliente
• Ricostruzione consumi per malfunzionamento contatore
• Rateizzazione del pagamento
• Deposito cauzionale
• Reclami
Il provvedimento definisce i criteri minimi di garanzia lasciando
liberi gli esercenti di offrire condizioni migliorative rispetto a quelle imposte.
La direttiva dell’Autorità si propone di assicurare ai clienti un
adeguato livello di tutela su tutto il territorio nazionale, garantendo
così ai clienti parità di condizioni a fronte della tariffa pagata per
l’energia, che è unica sul territorio nazionale.
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Gli esercenti i servizi di distribuzione e di vendita possono offrire condizioni di erogazione diverse (più favorevoli ai clienti) solo
nel rispetto delle condizioni inderogabili che sono stabilite con provvedimenti dell’Autorità.
L’emanazione di provvedimenti dell’Autor ità, ai sensi
dell’articolo 2, comma 12, lettera h) della legge n. 481/95 ha
l’effetto di modificare o integrare il regolamento di servizio
che i soggetti esercenti sono tenuti a predisporre ai sensi
dell’articolo 2, comma 37, della legge n. 481/95, come previsto dal medesimo comma 37. I provvedimenti dell’Autorità
hanno l’effetto di modificare i contratti di fornitura con i
clienti, senza che tali contratti vengano nuovamente sottoscr itti dai clienti stessi, in applicazione della previsione
dell’articolo 1339 del codice civile relativa alla inserzione automatica di clausole.
Qualora vengano violate le disposizioni dell’Autorità la stessa avvia procedimenti istruttori di accertamento che si concludono con
archiviazioni, diffide ad adempiere o con sanzioni amministrative pecuniarie ex lege 689/81 irrogate ai sensi dell’articolo 2, comma 20,
lettera c), della legge n. 481/95. Tutti i provvedimenti dell’autorità,
con sede in Milano, possono essere impugnati innanzi al Tar
Lombardia. Resta fermo che i casi di eventuale inadempimento del
fornitore ed i conseguenti danni potranno essere sottoposti dal singolo utente all’attenzione del giudice ordinario in sede civile per il
risarcimento dei danni subiti.
Il contenzioso sull’incidenza dei provvedimenti dell’AEEG
nei contratti di fornitura con gli utenti nella giurisprudenza
amministrativa.
La lettura del dato normativo dovrebbe precludere ogni questione inerente la effettiva incidenza delle deliberazioni dell’AEEG
sui rapporti contrattuali tra fornitore e clienti. Eppure, trattandosi
di diritti dei consumatori, si è assistito al costante tentativo di va-
nificare in sede amministrativa il potere di integrazione contrattuale dell’Autorità. La ben nota prassi di vanificare nella effettiva attuazione le nor me di garanzia del cliente è causa, propr io sulla
Delibera n. 200/99, di un aspro contenzioso amministrativo e civile che vede da alcuni anni contrapposti utenti ed associazioni con
l’Enel Distribuzione6. Quanto all’efficacia delle Delibere dell’Autorità
nel contratto del singolo utente la magistratura amministrativa ha
avuto modo di pronunciarsi in più occasioni. Il Tar Lombardia ha
chiarito sin dal 2002 che: “Nell’ambito delle direttive che l’autorità per
l’energia elettrica e il gas può emanare ai sensi dell’art. 2 comma 12 lett.
h) l. 14 novembre 1995 n. 481, possono rientrare anche prescrizioni che
incidono sulle obbligazioni caratterizzanti lo svolgimento dei singoli rapporti di utenza. Le prescrizioni attinenti alla produzione, alla regolazione, all’erogazione e ai livelli di qualità, dettate dall’Autorità per l’energia elettrica ed il gas ai sensi dell’art. 2 comma 12 lett. h), l. 14 novembre 1995 n. 481, sono suscettibili di tradursi, se guardate sotto il profilo
dell’adempimento delle prestazioni del rapporto obbligatorio, in comportamenti attuativi del contratto individuale di utenza, comportamenti doverosi, quindi, nell’ottica dell’esatto adempimento delle reciproche obbligazioni scaturenti dal contratto” (Tar. Lombardia Milano Sent.
4515/02).
Ancor più definitiva sulla questione dell’efficacia obbligatoria de
provvedimenti dell’Authority la Sentenza del Consiglio di Stato
VI Sez. n. 6628/03 secondi cui: “tali determinazioni producono gli
effetti di cui al comma 37” (ai sensi di detto comma 37, “il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento di servizio nel rispetto dei principi di cui alla presente legge e di quanto stabilito negli atti di cui al comma 36. Le determinazioni delle Autorità di cui al comma 12, lettera h,
costituiscono modifica o integrazione del regolamento di servizio”)”.
Il supremo collegio amministrativo nel condividere l’assunto sostenuto dai giudici di primo grado nella Sentenza del Tar Lombardia
n. 5281/02, conferma che le prescrizioni attinenti alla “produzione”,
alla “erogazione” o a “livelli di qualità” del servizio sono, infatti, per loro natura chiamate a tradursi, se traguardate sotto il profilo dell’esecuzione
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delle prestazioni del rapporto obbligatorio, in comportamenti attuativi del
contratto individuale di utenza (i.e. contratto di somministrazione). Si tratta, in altri termini, di previsioni che, delineando specifici comportamenti da
assumere nella fase esecutiva del rapporto, non possono non incidere, a monte, anche sull’assetto prefigurato dal singolo contratto, costituendone altrettante disposizioni integrative 7.
I recenti or ientamenti della giur isprudenza di mer ito
sull’efficacia obbligator ia delle delibere dell’Autor ità per
l’energia. Il caso della violazione dell’obbligo di previsione di una modalità di pagamento gratuita delle fatture nelle Regioni Campania, Puglia, Calabr ia, Basilicata e Sardegna.
Quanto chiarito dal Consiglio di Stato avrebbe dovuto mettere
gli utenti al riparo da ulteriori tentativi di limitare l’efficacia delle
decisioni dell’Autorità indirizzate alla tutela dei clienti ad una mera funzione amministrativa “di indirizzo”, dunque del tutto inefficacie dal punto di vista obbligatorio-contrattuale. Purtroppo così
non è stato come dimostra il recente contenzioso sviluppatosi intorno la richiamata Delibera n. 200/99 nella parte in cui all’art. 6,
n. 6.4, in materia di tempi e modalità di pagamento della bolletta, prescrive tra l’altro la semplice regola che: “L’esercente deve offrire al
cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta”. La
disposizione cercava di contrastare il fenomeno della desertificazione degli sportelli aziendali sul territorio in cui, sino alla privatizzazione soprattutto l’Enel Distribuzione, possedeva in ogni provincia
uffici amministrativi e sportelli cassa in cui pagare gratuitamente le
fatture senza commissioni o procederne alla rettifica.
Come chiarito dall’Autorità, nella relazione tecnica esplicativa
allegata alla Delibera n. 200/99 la direttiva si limitava ad affermare
l’obbligo di continuare ad offrire ai clienti almeno una modalità di
pagamento gratuita.
Nei costi complessivi riconosciuti dall’Autorità agli esercenti del
servizio nella tariffa sono infatti compresi anche i costi di riscossione
delle bollette attraverso gli sportelli presso i quali è possibile per i clienti anche il pagamento senza oneri di commissione della bolletta.
Accadeva tuttavia che mentre l’Enel stipulava apposite convenzioni bancarie per garantire il servizio in tutta Italia 8, ometteva inspiegabilmente di farlo in alcune regioni italiane e precisamente
Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Sardegna. Alle denuncie di
una associazione di consumatori 9, seguiva l’avvio di una istruttoria
formale dell’Autorità che accertava la violazione e diffidava conseguentemente l’azienda con la Delibera n. 72/04 al pieno e puntuale rispetto su tutto il territorio nazionale della Delibera n. 200/99
nella parte inerente le modalità di pagamento delle bollette. L’Enel
correva ai ripari stipulando prontamente nel settembre 2004 convenzioni annuali per il pagamento senza oneri anche nelle regioni
coinvolte 10, mentre il giudizio di opposizione comunque instaurato
dall’azienda innanzi al Tar Lombardia si concludeva con il rigetto
del gravame dichiarato nella Sentenza n. 3948/05. Nella decisione
il Tribunale Amministrativo sottolineava l’inadempimento della azienda stante la non gratuità dei sistemi di pagamento alternativi predisposti su scala nazionale quali contowatt, pagamento on-line e con carta di credito, poiché comportanti costi indotti per il cliente quali
spese di conto corrente, commissioni, costi di strumentazione e connessione ad internet praticamente insostenibili per anziani ed utenti appartenenti a fasce sociali disagiate.
Rifiutate le bonarie proposte di un componimento per gli utenti delle regioni coinvolte formulate dalle associazioni che richiedevano la restituzione delle commissioni, si incardinavano nel 2004 in
Campania e precisamente nelle provincie di Napoli e Benevento i
primi giudizi civili per inadempimento contrattuale cui seguivano
nel corso dell’anno successivo alcune decisioni in favore degli utenti 11. I giudici onorari ritenevano la Delibera n. 200/99 integrante
pienamente il contratto di utenza circa le modalità di pagamento e
condannavano pertanto l’azienda per l’inadempimento contrattuale
ed il danno causato agli utenti costretti di fatto al pagamento oneroso delle fatture presso uffici postali o bancari non convenzionati
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sino alla attivazione nel 2004 delle convenzioni, peraltro depositate
dalla stessa Enel. L’ulteriore circostanza che l’Enel, nonostante l’apertura non avesse informato i propri clienti della possibilità di saldare
le bollette senza oneri, ai sensi dell’art. 6 delle proprie condizioni
generali standard di contratto, estendeva la richiesta di risarcimento
dal luglio del 2000 al marzo 2006, mese dal quale nella fatturazione
era inserita una apposita e costante informativa al cliente. La sanzione amministrativa comminata dalla Autorità all’azienda per la violazione della normativa in materia di trasparenza della fatturazione
con Delibera n. 66/07 veniva annullata dal Tar Lombardia con
Sentenza n. 321/08, a sua volta impugnata dall’Avvocatura dello Stato
per conto della Autorità innanzi al Consiglio di Stato il 23.05.08 (in
attesa di decisione). In sede civile l’inadempimento per la mancata informativa è stato oggetto di numerose sentenze che
ne hanno accertato l’illiceità 12.
La recente Sentenza del Gdp di Benevento (pubblicata in questo
numero) chiarisce tra l’altro che “dell’effettiva operatività degli sportelli bancari, prima e dopo il 2004, alcuna prova ha fornito (l’Enel n.d.a) e
si è poi resa responsabile della violazione del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, omettendo completamente di informare della possibilità di pagare le fatture senza oneri presso gli sportelli bancari suddetti e tanto in contrasto con l’art 2 n. 2 lett. C del Codice del
Consumo “…una adeguata informazione ecc.” che concretizza a carico
dell’Enel una violazione dei fondamentali diritti nei rapporti contrattuali
di cui l’attore è titolare in base all’art. 2 del Codice del Consumo; Enel
che non ha inoltre neppure comunicato al cliente la istituzione degli sportelli convenzionati violando la clausola 6 par. 6/1 del contratto “altre modalità di pagamento saranno eventualmente comunicate dal fornitore” e ciò
sino al Marzo 2006”.
Il giudice conclude sul punto sottolineando la norma spesso dimenticata prevista dall’art. 35 del Codice del Consumo, secondo cui
in caso di dubbio sul senso di una clausola prevale l’interpretazione
più favorevole al consumatore.
In sede di appello, nel confermare la legittimità della Sentenza
di primo grado di condanna dell’Enel, le prime sentenze dei Tribunali
(Tribunale di Napoli Sez. X n. 10221 del 02.11.07 est. Dott. Oliva
e Tribunale di Benevento Sent. n. 848 del 14.05.08 est. Dott. Melone
(pubblicata in questo numero) hanno evidenziato il carattere obbligatorio per essa delle Deliberazioni della Aeeg ed, in particolare, della Delibera n. 200/99.
Come chiarito dal Giudicante partenopeo “il soggetto esercente il
servizio predispone un regolamento nel rispetto dei principi di cui alla presente Legge e di quanto stabilito negli atti di cui al comma 37. Le determinazioni della Autorità di cui all’art. 2 comma 12 lett. h) costituiscono
modifica o integrazione al regolamento di servizio”.
Anche per il Tribunale di Benevento le disposizioni di cui alla
Delibera n. 200/99 sono di diritto inserite nel contratto che obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo legge. Il termine legge deve intendersi tecnicamente in senso ampio onde è riferibile a qualsiasi norma avente valore di legge in senso sostanziale, quindi anche agli atti amministrativi cui
la legge attribuisce il potere di statuire in materia (Cass. 11032/94). La
circostanza di aver lasciato libertà di scelta all’esercente sullo strumento per
adempiere non consente di ritenere l’inesistenza dell’obbligo. A ciò aggiungasi che di fatto l’Enel aveva ottemperato alle disposizioni
dell’Autorità in gran parte delle regioni italiane sin dal 2000 garantendo la presenza di uno o più sportelli convenzionati per provincia.
Per il Giudicante la determinazione delle modalità di pagamento svolta dalla Autorità concretizza un Regolamento derivandone
l’inserzione automatica della previsione nel contratto di somministrazione, come tale immediatamente impegnativa per le parti ai sensi del combinato disposto degli art. 1374 e 1339 c.c. A supporto della predetta interpretazione si pone l’orientamento della Cassazione
manifestato nelle sentenze n. 11032/94 e 19531/04.
A ciò aggiungasi per analogia, l’indiscussa efficacia contrattuale
ed addirittura processuale, attribuita alle Delibere dell’Autorità per
le garanzie nelle comunicazioni istituita con Legge n. 249/97, che
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ha stabilito gli elementi fondamentali del servizio minimo da garantire ai consumatori nei contratti con gli operatori di comunicazione ed come la Del. n. 179/03/CSP 13 o la conciliazione obbligatoria
ante causam Del. n. 182/02/CSP e Del. N. 173/07/CSP 14.
Avv. Francesco Luongo
NOTE
1) La conciliazione nel settore delle comunicazioni elettroniche è disciplinata dal
Codice delle comunicazioni elettroniche e dalla Delibera dell’autorità per le garanzie
nelle comunicazioni n. 173/07/CONS.
2) www.autoritaenergia.it
3) Nel mercato del gas la liberalizzazione si è avuta a seguito del D.lgs n. 164/00 a
far data dal 1° Gennaio 2003.
4) Il codice di condotta commerciale (Del. AEEG n. 105/06) detta specifiche regole generali di trasparenza e correttezza dei venditori; come vanno indicati prezzi del servizio; come deve comportarsi il personale commerciale; quali informazioni e documenti vanno forniti ai clienti; il diritto di ripensamento; come preavvisare il cliente se il contratto verrà modificato.
5) Delibera AEEG n. 200/99 in Gazz. Uff. serie generale n. 306 del 31.12.99 supp.
ord. N. 235 (in vigore dal 30.06.00).
6) Dal gennaio 2008 i contratti di fornitura sono gestiti dalla società di commercializzazione Enel Energia.
7) Sentenza del Consiglio di Stato VI Sez. n. 6628/03 in motivazione pag. 11 e ss;
conforme, pur se con riguardo a diversa fattispecie, Cons. Stato, sez. VI, 24 maggio 2002,
n. 2854 e Cons. Stato, sez. VI, 29 maggio 2002, n. 2987
8) Come comunicato dall’Enel Distribuzione alla Autorità per l’energia già prima del
2004 l’azienda aveva provveduti ad attivare numerosi sportelli convenzionati per il pagamento delle bollette senza commissioni in Abruzzo, Emilia e Romagna, Friuli Venezia
Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Sicilia ToscanaTrentino
Alto Adige, Umbria, Veneto e Province autonome di Trento e Bolzano.
9) Con ricorso ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. del 09.05.01 n. 244 il Movimento Difesa
del Cittadino segnalava alla Autorità per l’energia elettrica ed il gas la violazione della
Delibera n. 200/99 e della Delibera n. 55/00 in materia di trasparenza della fatturazione da parte dei Enel Distribuzione spa.
10) Nel Gennaio 2008 l’azienda ha ulteriormente incrementato la presenza degli spor-
telli per il pagamento senza oneri delle bollette attivandone ulteriori 146 su tutto il territorio nazionale.
11) Gdp di Napoli n. 5484 del 30.12.05; Gdp di Benevento n. 111 del 02.02.06; Gdp
Solopaca n. 58 del 15.02.06, Gdp Castellamare di Stabia 5535 del 09.10.06; Gdp Teano
sent. del 20.10.06.
12) Conforme ex plurimis tra le Sentenze più recenti Gdp Benevento n. 847/08; Gdp
di Vitulano n. 152/08;Gdp di Colle Sannita n. 178/08; Gdp di Montesarchio n. 539/08
Gdp Santa Maria Capua Vetere(CE) n. 434/08; Gdp di Mirabella Eclano (AV) 84/08.
13) La Delibera AGCOM n. 179/03/CSP “Direttiva generale in materia di qualità e
carte dei servizi di telecomunicazioni ai sensi dell’articolo 1, comma 6, lettera b), numero 2, della legge 31 luglio 1997, n. 249 stabilisce i criteri generali relativi alla qualità
dei servizi di telecomunicazioni accessibili al pubblico, detta le linee guida comuni riguardo all’adozione delle carte dei servizi da parte degli organismi di telecomunicazioni e disciplina gli elementi fondamentali del servizio minimo da garantire ai fini della tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti e delle modalità di indennizzo e di rimborso, in particolare in caso di inosservanza dei livelli qualitativi del servizio (www.agcom.it).
14) La Delibera Agcom n. 182/02/CONS come modificata dalla Delibera n.
173/07/CONS (in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 120 del 25 maggio
2007) istituiscono e regolamentano le procedure di risoluzione delle controversie tra operatori di comunicazione e utenti prevedendo espressamente l’improcedibilità l ricorso in
sede giurisdizionale è improcedibile fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi al Co.re.com competente per territorio munito di delega a svolgere la funzione conciliativa ovvero degli altri organi assimilati.
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PARTE T ERZA
Vita dell’avvocatura
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Vita dell’avvocatura
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Formazione permanente
Istruzioni per l’utilizzo della password
rilasciata dal Consiglio dell’Ordine per il controllo
dei crediti maturati e per le prenotazioni on line
Gentile Collega,
Ti indichiamo qui di seguito le modalità di iscrizione agli eventi formativi organizzati direttamente dal Consiglio dell’Ordine di Benevento.
Si tratta degli eventi indicati nel Piano di offerta formativa predisposto dal Consiglio, pubblicato sul sito nella sezione Formazione
Permanente.
Per gli eventi accreditati dall’Ordine di Benevento ma non direttamente dallo stesso organizzati, per i quali il prezzo è fissato dagli enti organizzanti, non è per ora possibile utilizzare il programma.
ATTENZIONE NON SONO ACCETTATE ALTRE MODALITA’ DI ISCRIZIONE
FASE 1: REGISTRAZIONE UTENTE
1. Accedi al sito www.ordineavvocati.bn.it nella sezione ‘Formazione
Professionale Permanente’ - RICONOSCO.
2. Inserisci la tua username corrispondente al tuo Codice Fiscale (tutto
maiuscolo e senza spazi).
3. Inserisci la password numerica ricevuta dal Consiglio.
4. A questo punto hai effettuato il tuo primo accesso. Il sistema richiede ora di cambiare la password.
5. Premi OK.
6. Il sistema richiede di accettare il trattamento dei dati ai fini della privacy: clicca sul quadratino e su ‘conferma’.
7. Procedi al cambio password, inserendo la vecchia password (quella numerica che avevi già inserito di cui al punto 3) e digita la tua nuova
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Vita
dell’avvocatura
Vita dell’avvocatura
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8. Rieffettua ora l’accesso con la nuova password ignorando eventuali altre comunicazioni del sistema.
NOTA BENE: prima dell’accesso per l’autenticazione compariranno
delle finestre che indicano problemi di certificato; bisognerà ignorarle
se si lavora sul sistema operativo WINDOWS; se si lavora su un XP bisognerà accedere nel link “entrare comunque – azione sconsigliata”; successivamente si potrà anche istallare questo certificato partendo dalla
home page di RICONOSCO, ma non sarà necessaria ai fini dell’utilizzo
dello stesso.
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contenuto negli allegati specificatamente indicati.
2. Clicca su ‘Iscriviti’ nella colonna a destra dell’evento cui sei interessato. La stessa colonna indica il numero di posti ancora disponibili.
3. Alla prima prenotazione il sistema richiede di inserire i tuoi dati per
la fatturazione (solo per eventuali corsi a pagamento).
4. Premi OK ed inserisci TUTTI i dati richiesti, nessuno escluso.
5. Clicca su ‘salva’.
6. Torna all’’Elenco eventi’ (clicca su elenco eventi nella colonna a sinistra).
7. Ripeti ‘iscriviti’ sull’evento che ti interessa.
8. Clicca su ‘prenota’ e aspetta la conferma del sistema.
9. Il sistema conferma l’avvenuta prenotazione e ti invia e-mail di conferma con riserva di autorizzare la partecipazione a pagamento avvenuto.
10. Premi OK.
11. Una volta effettuata la prenotazione, l’evento cui ti sei iscritto scomparirà dall’elenco eventi in quanto non più prenotabile e risulterà negli ‘Eventi prenotati’.
NOTE IMPORTANTI:
-
la partecipazione all’evento prenotato genererà automaticamente i crediti corrispondenti in tuo favore;
-
puoi verificare nel programma Riconosco la situazione delle tue prenotazioni e i crediti maturati;
-
per ciascun evento è ammessa una tolleranza (entrata in ritardo o uscita in anticipo sull’orario previsto) di massimo 15 minuti complessivi.
Evita di pretendere deroghe perché non è possibile concederne;
-
non appena saranno predisposte le nuove tessere queste saranno utilizzate per la registrazione in accesso e in uscita all’evento;
UMBERTO GIANTOMASI
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LA VOCE DEL FORO - N. 1–2 - 2008
LA VOCE DEL FORO - N. 1–2 - 2008
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Vita
dell’avvocatura
Vita dell’avvocatura
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CONSIGLIO DELL’ORDINE
DEGLI AVVOCATI DI BENEVENTO
Corso di Formazione Praticanti Avvocati
FORMAZIONE PROFESSIONALE PERMANENTE
ORDINE AVVOCATI BENEVENTO
IL CONSIGLIO
RENDE NOTO
il calendario dei corsi in programmazione per l’anno 2008 II Sessione
I – CONVEGNO
III - CONVEGNO
SABATO 27/09/2008 - ORE 09:30
- 12:30 - ORE 15:00 –18:00.
“IL CODICE DELLE ASSICURAZIONI PRIVATE”
Dlgs. 7 settembre 2005, n. 209
NOVITA’, BENEFICI, DUBBI (ancora irrisolti)
CREDITI ASSEGNATI: 9
“IL NUOVO DIRITTO FALLIMENTARE”
VENERDI’ 14/11/2008 - ORE
15:00 – 18:00
CREDITI ASSEGNATI: 3
II – CONVEGNO
SABATO 15/11/2008 - ORE 09:30
– 12:30
CREDITI ASSEGNATI: 3
SABATO 25/10/2008 - ORE 09:30
– 12:30 - ORE 15:00 - 18:00.
“LA PREVIDENZA FORENSE”
CREDITI ASSEGNATI: 9
SABATO 15/11/2008 - ORE 15:00
– 18:00
CREDITI ASSEGNATI: 3
Si avvisano i colleghi interessati che le prenotazioni per il corso
“IL CODICE DELLE ASSICURAZIONI PRIVATE” che si terrà sabato 27/09/2008 saranno aperte a partire dalla data del 01/09/08 sino ad esaurimento dei posti disponibili (max 200), e che successivamente verranno rese note le date per le prenotazioni degli altri due
eventi formativi.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Benevento
rende noto
che sono aperte le iscrizioni al Corso di Formazione riservato ai praticanti
avvocati.
Il Corso si articolerà in un unico ciclo dedicato ad esercitazioni pratiche nelle materie del diritto civile, penale ed amministrativo, nonché alla trattazione della materia deontologica.
Il corso avrà inizio il 15/9/08 e termine il 27/10/08.
L’inizio di ogni lezione è fissato alle ore 15.00, la fine alle ore 18.00.
La sede del corso è fissata in Benevento in località Pace Vecchia presso la “Villa dei Papi”.
I partecipanti dovranno presentarsi muniti di tesserino di riconoscimento da consegnarsi all’inizio delle lezioni e da ritirare al termine, previa sottoscrizione di foglio di presenza giornaliera.
I partecipanti dovranno altresì presentarsi muniti di codici.
Le iscrizioni potranno essere effettuate dal giorno 25/6/2008 presso
gli Uffici del Consiglio dell’Ordine dalle ore 9.00 alle ore 13.00.
Per garantire una maggiore organizzazione le iscrizioni saranno limitate nel numero massimo di 180.
Saranno preferiti coloro che non hanno frequentato il Corso nel primo
anno di pratica; le altre domande saranno accettate in ordine cronologico.
Si richiama l’attenzione sulla necessità della presenza assidua e continua non consentendosi alcuna assenza.
Si rammenta che durante il biennio la partecipazione ad un corso annuale è obbligatoria ai fini del rilascio del certificato di compiuta pratica,
utile per l’ammissione all’esame di avvocato.
Con separato manifesto sarà reso pubblico il calendario delle lezioni.
I Consiglieri Delegati
Avv. Vincenzo Catalano - Avv. Nazzareno Fiorenza
Avv. Giovanna Fucci - Avv. Domenico Vessichelli
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Vita
dell’avvocatura
Vita dell’avvocatura
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ORDINE DEGLI AVVOCATI
Modifiche al Codice Deontologico Forense
BE N E V E N TO
CORSO DI FORMAZIONE FORENSE 2008
PER PRATICANTI AVVOCATI
CALENDARIO
Lunedì 15/09/08
ore 15-18
Tecnica redazione atto diritto civile
Avv. Luigi Supino
Lunedì 22/09//08
ore 15-18
Atto diritto civile
Mercoledì 24/09/08 ore 15-18
Parere diritto civile
Lunedì 29/09/08
Atto diritto civile
ore 15-18
mercoledì 01/10/08 ore 15-18
Parere diritto civile
Venerdì 3/10/08
ore 15-18
Tecnica redazione atto diritto penale
Avv. De Longis Andrea junior
Lunedì 6/10/08
ore 15-18
Atto diritto penale
Venerdì 10/10/08
ore 15-18
Parere diritto penale
Lunedì 13/10/08
ore 15-18
Parere diritto penale
Venerdì 17/10/08
ore 15-18
Tecnica redazione atto diritto amministrativo
Lunedì 20/10/08
ore 15-18
Atto diritto amministrativo
Venerdì 24/10/08
ore 15-18
Parere atto diritto amministrativo
Lunedì 27/10/08
ore 15-18
Avv. Rosa De Stasio
Segretario Ordine Avvocati
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dell’avvocatura
Vita dell’avvocatura
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Il decreto Bersani
contro la difesa dei “non abbienti”!
L’introduzione nel nostro Ordinamento della legge n. 217/1990
(Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) ha rappresentato l’affermazione di un principio di garanzia per il cittadino con
la conseguente effettiva attuazione del diritto di difesa in campo civile, penale ed amministrativo come garantito dall’art. 24 della nostra Costituzione.
Le previsioni legislative in tema di difesa d’ufficio e la disciplina contenuta nel T.U. sulle spese di Giustizia, il D.P.R. n. 115/2002, hanno reso - nell’intenzione del Legislatore - ancor più effettiva la difesa del cittadino nel processo penale.
In questo quadro normativo si è inserita la previsione dell’art. 21 del
decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006, il cd. Decreto Bersani, beffardamente definito “misure urgenti per lo sviluppo, la crescita e la promozione della concorrenza e della competitività, per la tutela dei consumatori
e per la liberalizzazione di settori produttivi”.
L’applicazione di tale normativa ha determinato che la procedura per
giungere all’incasso dell’onorario per la prestazione effettuata dall’avvocato è divenuta ancor più complessa di quanto non fosse in passato. L’art. 21
c. 1 e 2 del decreto, infatti, ha stabilito il venir meno dell’anticipazione da
parte degli Uffici Postali a favore dei creditori e l’applicazione della disciplina sulla contabilità generale dello Stato con la conseguenza che, tra il
momento dell’effettiva prestazione, quello della richiesta di liquidazione e
quello finale del materiale incasso del compenso, trascorre un lasso di tempo variabile in termini di anni.
Prassi, questa, in netto contrasto con la recente modifica legislativa,
sempre contenuta nel T.U. sulle spese di Giustizia che ha previsto, a tutela dei diritti di difesa, una netta accelerazione dei tempi e delle procedure con sanzioni severissime (nullità assoluta) in caso di mancato rispetto
dei termini.
Allo stato, non si può far altro che richiamare l’attenzione della classe
e degli organismi preposti alla tutela dell’avvocatura e anche dei cittadini
su una delle nefaste conseguenze del decreto Bersani passata nel più assordante silenzio.
La scelta dell’avvocato di richiedere l’iscrizione all’albo, presso il
Consiglio dell’Ordine, dei difensori abilitati al patrocinio a spese dello Stato
e di accettare la difesa del non abbiente, scelta di alto valore etico e morale oltre che professionale, diventa, nella quotidianità, motivo di mortificazione della professionalità e soprattutto si ritorce contro il cittadino e lo
stesso avvocato.
Mentre “lottiamo” per il rilancio dell’attività professionale forense e
per il recupero della dignità della figura professionale dell’avvocato, assistiamo, inermi, ad un ulteriore attacco al nostro prestigio e al nostro valore.
È lecito chiedersi se il patrocinio a spese dello stato, strumento di riconoscimento di valori costituzionalmente protetti, non sia già diventato,
mero strumento di mercimonio e di ribaltamento del rapporto cliente/avvocato. Di fatto siamo costretti ad assistere all’incapacità generale dell’amministrazione di gestirne ogni più semplice passaggio e procedura ed al
tentativo dello Stato di attutirne l’impatto sociale invece di tutelarne e garantirne la prassi.
L’avvocato ed il consumatore/cittadino non abbiente, anziché essere
facilitati o tutelati quali consumatori del servizio giustizia, sono soggetti
da ostacolare ed evidentemente i loro interessi non vanno salvaguardati e
tutelati al pari degli altri cittadini.
L’art. 21 c. 3 del decreto Bersani prevede che gli stanziamenti per le
spese di giustizia siano ridotti per 50 milioni di euro per il 2006, di 100
milioni di euro per il 2007 e di 200 milioni di euro per il 2008. Oggi,
grazie a questi strategici interventi del Governo, dopo il farraginoso e lento iter della liquidazione, dall’emissione della fattura sino all’incasso effettivo trascorre un lasso di tempo incalcolabile.
Lasso di tempo irragionevolmente aumentato a causa dell’assurdo blocco “biologico” attivato dagli uffici con l’entrata in vigore del decreto ed
apparentemente determinato dall’avvio delle “nuove” procedure di pagamento. In realtà come si evince dalla nota del 12/07/2006 del Direttore
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Vita
dell’avvocatura
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Generale della Giustizia Civile - Dipartimento per gli Affari di Giustizia,
prot. m_dg. DAG12/07/2006.74250, per i mandati emessi sino al 4 luglio 2006 le Poste dovevano continuare al pagamento degli onorari liquidati. Dal 4 luglio 2006, in virtù dell’applicazione della normativa sulla contabilità di Stato, il Funzionario delegato presso la Corte di Appello deve
inviare i mandati di pagamento alla tesoreria della Banca d’Italia. Il tutto
si svolge, con tempi inaccettabili e senza la minima trasparenza ed informazione del cittadino e dell’avvocato creditore.
Senza voler trascurare un altro effetto distorsivo di questa consolidata
prassi. Dopo aver ricevuto il decreto di liquidazione, infatti, l’avvocato è
costretto ad emettere fattura; l’estremo ritardo nel pagamento di tale fattura (parliamo di anni) determina non pochi disagi sotto il profilo fiscale,
poiché la fattura documenta l’operazione agli effetti fiscali e concorre sia
al calcolo delle imposte indirette (la fattura deve indicare l’ammontare
dell’IVA) sia a quello delle imposte dirette (l’importo complessivamente
fatturato nell’anno determina il volume d’affari e, di conseguenza, il reddito sul quale dovranno essere pagate le imposte). Obblighi a cui, nelle
more dei pagamenti, dobbiamo comunque far fronte.
Si auspica, dunque, una seria riflessione sulla grave situazione appena
delineata che possa portare all’adozione di opportune modifiche legislative al fine di semplificare l’iter e di garantire un’adeguata informazione sulle procedure adottate dall’amministrazione e sui tempi delle liquidazioni,
anche nel rispetto dei principi del buon andamento e della trasparenza amministrativa.
PARTE Q UARTA
Attualità legislative
e giurisprudenziali
Avv. Simona Barbone
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Attualità legislative e giurisprudenziali
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Legge 18 marzo 2008 n. 48
Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno.
(GU n. 80 del 4-4-2008 - Suppl. Ordinario n. 79)
CAPO I
RATIFICA ED ESECUZIONE
Articolo1.
Autorizzazione alla ratifica
1. Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare la
Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, fatta a
Budapest il 23 novembre 2001, di seguito denominata “Convenzione”.
Articolo 2.
Ordine di esecuzione
1. Piena e intera esecuzione è data alla Convenzione, a decorrere dalla data della sua entrata in vigore in conformità a quanto disposto dall’articolo 36 della Convenzione stessa.
CAPO II
MODIFICHE AL CODICE PENALE
E AL DECRETO LEGISLATIVO 8 GIUGNO 2001 N. 231
Articolo 3.
Modifiche al titolo VII del libro secondo del codice penale
1. All’articolo 491-bis del codice penale sono apportate le seguenti
modificazioni:
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
Attualità legislative e giurisprudenziali
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a) al primo periodo, dopo la parola: “privato” sono inserite le seguenti:
“avente efficacia probatoria”;
b) il secondo periodo è soppresso.
2. Dopo l’articolo 495 del codice penale è inserito il seguente:
“Articolo 495-bis. – (Falsa dichiarazione o attestazione al certificatore
di firma elettronica sull’identità o su qualità personali proprie o di altri). –
Chiunque dichiara o attesta falsamente al soggetto che presta servizi di certificazione delle firme elettroniche l’identità o lo stato o altre qualità della
propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione fino ad un anno”.
Articolo 4.
Modifica al titolo XII del libro secondo del codice penale
1. L’articolo 615-quinquies del codice penale è sostituito dal seguente:
“Articolo 615-quinquies. – (Diffusione di apparecchiature, dispositivi
o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema
informatico o telematico). – Chiunque, allo scopo di danneggiare illecitamente un sistema informatico o telematico, le informazioni, i dati o i
programmi in esso contenuti o ad esso pertinenti ovvero di favorire l’interruzione, totale o parziale, o l’alterazione del suo funzionamento, si procura, produce, riproduce, importa, diffonde, comunica, consegna o, comunque, mette a disposizione di altri apparecchiature, dispositivi o programmi informatici, è punito con la reclusione fino a due anni e con la
multa sino a euro 10.329”.
Articolo 5.
Modifiche al titolo XIII del libro secondo del codice penale
1. L’articolo 635-bis del codice penale è sostituito dal seguente:
“Articolo 635-bis. – (Danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque distrugge, deteriora, cancella, altera o sopprime informazioni, dati o
programmi informatici altrui è punito, a querela della persona offesa, con
la reclusione da sei mesi a tre anni. Se ricorre la circostanza di cui al numero 1) del secondo comma dell’articolo 635 ovvero se il fatto è com-
messo con abuso della qualità di operatore del sistema, la pena è della reclusione da uno a quattro anni e si procede d’ufficio”.
2. Dopo l’articolo 635-bis del codice penale sono inseriti i seguenti:
“Articolo 635-ter. – (Danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette un fatto diretto a distruggere, deteriorare, cancellare, alterare o sopprimere informazioni, dati o programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o ad essi pertinenti, o comunque di pubblica utilità, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Se dal fatto deriva la distruzione, il deterioramento, la cancellazione, l’alterazione o la soppressione delle informazioni, dei dati o dei programmi
informatici, la pena è della reclusione da tre a otto anni.
Se ricorre la circostanza di cui al numero 1) del secondo comma dell’articolo 635 ovvero se il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, la pena è aumentata.
Articolo 635-quater. – (Danneggiamento di sistemi informatici o telematici). – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, mediante le condotte di cui all’articolo 635-bis, ovvero attraverso l’introduzione o la trasmissione di dati, informazioni o programmi, distrugge, danneggia, rende, in tutto o in parte, inservibili sistemi informatici o telematici altrui o ne ostacola gravemente il funzionamento è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Se ricorre la circostanza di cui al numero 1) del secondo comma dell’articolo 635 ovvero se il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, la pena è aumentata.
Articolo 635-quinquies. – (Danneggiamento di sistemi informatici o
telematici di pubblica utilità). – Se il fatto di cui all’articolo 635-quater è
diretto a distruggere, danneggiare, rendere, in tutto o in parte, inservibili
sistemi informatici o telematici di pubblica utilità o ad ostacolarne gravemente il funzionamento, la pena è della reclusione da uno a quattro anni.
Se dal fatto deriva la distruzione o il danneggiamento del sistema informatico o telematico di pubblica utilità ovvero se questo è reso, in tutto o
in parte, inservibile, la pena è della reclusione da tre a otto anni.
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
Attualità legislative e giurisprudenziali
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Se ricorre la circostanza di cui al numero 1) del secondo comma dell’articolo 635 ovvero se il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, la pena è aumentata”.
3. Dopo l’articolo 640-quater del codice penale è inserito il seguente:
“Articolo 640-quinquies. – (Frode informatica del soggetto che presta
servizi di certificazione di firma elettronica). – Il soggetto che presta servizi di certificazione di firma elettronica, il quale, al fine di procurare a se´ o
ad altri un ingiusto profitto ovvero di arrecare ad altri danno, viola gli obblighi previsti dalla legge per il rilascio di un certificato qualificato, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da 51 a 1.032 euro”.
Articolo 6.
Modifiche all’articolo 420 del codice penale
1. All’articolo 420 del codice penale, il secondo e il terzo comma sono abrogati.
Articolo 7.
Introduzione dell’articolo 24-bis
del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231
1. Dopo l’articolo 24 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è
inserito il seguente:
“Articolo 24-bis. – (Delitti informatici e trattamento illecito di dati).
– 1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 615-ter,
617-quater, 617-quinquies, 635-bis, 635-ter, 635-quater e 635-quinquies
del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a cinquecento quote.
2. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 615-quater e 615-quinquies del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria sino a trecento quote.
3. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 491-bis e 640quinquies del codice penale, salvo quanto previsto dall’articolo 24 del presente decreto per i casi di frode informatica in danno dello Stato o di altro ente
pubblico, si applica all’ente la sanzione pecuniaria sino a quattrocento quote.
4. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 1 si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere a),
b) ed e). Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma 2 si
applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere b) ed e). Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nel comma
3 si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e)”.
CAPO III
MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE
E AL CODICE DI CUI AL DECRETO LEGISLATIVO
30 GIUGNO 2003, N. 196
Articolo 8.
Modifiche al titolo III del libro terzo del codice di procedura penale
1. All’articolo 244, comma 2, secondo periodo, del codice di procedura penale sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: “, anche in relazione a sistemi informatici o telematici, adottando misure tecniche dirette ad
assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione”.
2. All’articolo 247 del codice di procedura penale, dopo il comma 1
è inserito il seguente: “1-bis. Quando vi è fondato motivo di ritenere che
dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti
al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza, ne è disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad
impedirne l’alterazione”.
3. All’articolo 248, comma 2, primo periodo, del codice di procedura penale, le parole: “atti, documenti e corrispondenza presso banche” sono sostituite dalle seguenti: “presso banche atti, documenti e corrispondenza nonché dati, informazioni e programmi informatici”.
4. All’articolo 254 del codice di procedura penale sono apportate le
seguenti modificazioni:
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
Attualità legislative e giurisprudenziali
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a) il comma 1 è sostituito dal seguente:
“1. Presso coloro che forniscono servizi postali, telegrafici, telematici
o di telecomunicazioni è consentito procedere al sequestro di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi e altri oggetti di corrispondenza, anche se
inoltrati per via telematica, che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere spediti dall’imputato o a lui diretti, anche sotto nome diverso o per mezzo di persona diversa, o che comunque possono avere relazione con il reato”;
b) al comma 2, dopo le parole: “senza aprirli” sono inserite le seguenti:
“o alterarli”.
5. Dopo l’articolo 254 del codice di procedura penale è inserito il seguente:
“Articolo 254-bis. – (Sequestro di dati informatici presso fornitori di
servizi informatici, telematici e di telecomunicazioni). – 1. L’autorità giudiziaria, quando dispone il sequestro, presso i fornitori di servizi informatici, telematici o di telecomunicazioni, dei dati da questi detenuti, compresi quelli di traffico o di ubicazione, può stabilire, per esigenze legate alla regolare fornitura dei medesimi servizi, che la loro acquisizione avvenga mediante copia di essi su adeguato supporto, con una procedura che
assicuri la conformità dei dati acquisiti a quelli originali e la loro immodificabilità. In questo caso è, comunque, ordinato al fornitore dei servizi
di conservare e proteggere adeguatamente i dati originali”.
6. All’articolo 256, comma 1, del codice di procedura penale, dopo le
parole: “anche in originale se così è ordinato,” sono inserite le seguenti:
“nonché i dati, le informazioni e i programmi informatici, anche mediante
copia di essi su adeguato supporto,”.
7. All’articolo 259, comma 2, del codice di procedura penale, dopo il
primo periodo è inserito il seguente: “Quando la custodia riguarda dati,
informazioni o programmi informatici, il custode è altresì avvertito dell’obbligo di impedirne l’alterazione o l’accesso da parte di terzi, salva, in quest’ultimo caso, diversa disposizione dell’autorità giudiziaria.
8. All’articolo 260 del codice di procedura penale sono apportate le
seguenti modificazioni: a) al comma 1, dopo le parole: “con altro mezzo”
sono inserite le seguenti: “, anche di carattere elettronico o informatico,”;
b) al comma 2 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Quando si tratta
di dati, di informazioni o di programmi informatici, la copia deve essere
realizzata su adeguati supporti, mediante procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità; in tali casi, la custodia degli originali può essere disposta anche in luoghi diversi dalla cancelleria o dalla segreteria”.
Articolo 9.
Modifiche al titolo IV del libro quinto del codice di procedura penale
1. All’articolo 352 del codice di procedura penale, dopo il comma 1
è inserito il seguente: “1-bis. Nella flagranza del reato, ovvero nei casi di
cui al comma 2 quando sussistono i presupposti e le altre condizioni ivi
previsti, gli ufficiali di polizia giudiziaria, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione, procedono altresì alla perquisizione di sistemi informatici o telematici, ancorché protetti da misure di sicurezza, quando hanno fondato
motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni,
programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato che possono essere cancellati o dispersi”.
2. All’articolo 353 del codice di procedura penale sono apportate le
seguenti modificazioni: a) al comma 2 sono aggiunte, in fine, le seguenti
parole: “e l’accertamento del contenuto”; b) al comma 3, primo periodo,
le parole: “lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti di corrispondenza” sono sostituite dalle seguenti: “lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti di corrispondenza, anche se in forma elettronica o se inoltrati per via telematica,” e dopo le parole: “servizio postale” sono inserite le seguenti: “, telegrafico, telematico o di telecomunicazione”.
3. All’articolo 354, comma 2, del codice di procedura penale, dopo il
primo periodo è inserito il seguente: “In relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici, gli
ufficiali della polizia giudiziaria adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad
impedirne l’alterazione e l’accesso e provvedono, ove possibile, alla loro
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immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che
assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità”.
Articolo 10.
Modifiche all’articolo 132 del codice in materia di protezione
dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
Dopo il comma 4-bis dell’articolo 132 del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n.
196, sono inseriti i seguenti: “4-ter. Il Ministro dell’interno o, su sua delega, i responsabili degli uffici centrali specialistici in materia informatica
o telematica della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo
della guardia di finanza, nonché gli altri soggetti indicati nel comma 1
dell’articolo 226 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio
1989, n. 271, possono ordinare, anche in relazione alle eventuali richieste
avanzate da autorità investigative straniere, ai fornitori e agli operatori di
servizi informatici o telematici di conservare e proteggere, secondo le modalità indicate e per un periodo non superiore a novanta giorni, i dati relativi al traffico telematico, esclusi comunque i contenuti delle comunicazioni, ai fini dello svolgimento delle investigazioni preventive previste dal
citato articolo 226 delle norme di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989,
ovvero per finalità di accertamento e repressione di specifici reati. Il provvedimento, prorogabile, per motivate esigenze, per una durata complessiva non superiore a sei mesi, può prevedere particolari modalità di custodia dei dati e l’eventuale indisponibilità dei dati stessi da parte dei fornitori e degli operatori di servizi informatici o telematici ovvero di terzi. 4quater. Il fornitore o l’operatore di servizi informatici o telematici cui è
rivolto l’ordine previsto dal comma 4-ter deve ottemperarvi senza ritardo,
fornendo immediatamente all’autorità richiedente l’assicurazione dell’adempimento. Il fornitore o l’operatore di servizi informatici o telematici è tenuto a mantenere il segreto relativamente all’ordine ricevuto e alle attività
conseguentemente svolte per il periodo indicato dall’autorità. In caso di
violazione dell’obbligo si applicano, salvo che il fatto costituisca più grave reato, le disposizioni dell’articolo 326 del codice penale. 4-quinquies.
I provvedimenti adottati ai sensi del comma 4-ter sono comunicati per
iscritto, senza ritardo e comunque entro quarantotto ore dalla notifica al
destinatario, al pubblico ministero del luogo di esecuzione il quale, se ne
ricorrono i presupposti, li convalida. In caso di mancata convalida, i provvedimenti assunti perdono efficacia”.
Articolo 11.
Competenza
1. All’articolo 51 del codice di procedura penale è aggiunto, in fine,
il seguente comma: “3-quinquies. Quando si tratta di procedimenti per i
delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater. 1, 600-quinquies, 615-ter, 615- quater, 615-quinquies,
617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter,
635-quater, 640-ter e 640-quinquies del codice penale, le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), del presente articolo sono attribuite all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto
nel cui ambito ha sede il giudice competente”.
Articolo 12.
Fondo per il contrasto della pedopornografia su internet
e per la protezione delle infrastrutture informatiche di interesse nazionale
1. Per le esigenze connesse al funzionamento del Centro nazionale per
il contrasto della pedopornografia sulla rete INTERNET, di cui all’articolo 14-bis della legge 3 agosto 1998, n. 269, e dell’organo del Ministero
dell’interno per la sicurezza e per la regolarità dei servizi di telecomunicazione per le esigenze relative alla protezione informatica delle infrastrutture critiche informatizzate di interesse nazionale, di cui all’articolo
7-bis del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, è istituito, nello stato di previsione del Ministero dell’interno, un fondo con una dotazione di 2 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2008.
2. Agli oneri derivanti dal presente articolo, pari a 2 milioni di euro
annui a decorrere dall’anno 2008, si provvede mediante corrispondente
riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2008-
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2010, nell’ambito del fondo speciale di parte corrente dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2008, allo
scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia.
3. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
CAPO IV
DISPOSIZIONI FINALI
Articolo 13.
Norma di adeguamento
1. L’autorità centrale ai sensi degli articoli 24, paragrafo 7, e 27, paragrafo 2, della Convenzione è il Ministro della giustizia.
2. Il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia,
individua il punto di contatto di cui all’articolo 35 della Convenzione.
Articolo 14.
Entrata in vigore
1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Corte Costituzionale
Sentenza del 19-23 maggio 2008 n. 169
Presidente: F. BILE - Relatore: A. FINOCCHIARO
- OMISSIS nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge
14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico,
sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di
procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché
per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), promosso con ordinanza del 16 febbraio 2007 dal Tribunale ordinario di Pisa
nel procedimento civile vertente tra C.S. e C.C., iscritta al n. 586 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore
Alfio Finocchiaro.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale ordinario di Pisa, nel corso del procedimento promosso con ricorso depositato in data 17 marzo 2007 per la dichiarazione
della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto tra il ricorrente e la resistente, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 1°
dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per
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lo sviluppo economico, sociale e territoriale), comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge,
con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato
nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), “nella parte in cui individua come foro dei procedimenti contenziosi, aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi”.
Il giudice a quo riferisce che il Presidente del Tribunale di Pisa ha rilevato d’ufficio la incompetenza territoriale di detto Tribunale, la cui competenza per territorio non coincide con il luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi, che è, come risulta dalle allegazioni delle parti, Napoli,
mentre il ricorrente risiede attualmente in Misano Adriatico (Rimini) e
la resistente, unitamente al figlio minore, in S. Giuliano Terme (Pisa).
Aggiunge il rimettente che le parti hanno insistito per trattare la causa dinanzi al Tribunale di Pisa, e che il ricorrente ha eccepito la illegittimità costituzionale del censurato art. 4, comma 1, della legge n. 898 del
1970, per violazione del diritto al giusto processo (art. 111 della
Costituzione), del diritto al giudice naturale precostituito per legge (art.
25 della Costituzione), del principio di uguaglianza (art. 3 della
Costituzione).
Ciò posto, il Tribunale rimettente ritiene la questione di costituzionalità non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione. Osserva, al riguardo, il giudice a quo che la disposizione denunciata pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente coinvolti nel
procedimento, e che, di conseguenza, essa appare del tutto irragionevole,
pregiudizievole per l’esercizio del diritto di difesa e suscettibile di creare
una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni analoghe, tenuto conto dei diversi criteri di competenza territoriale previsti
dal medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (con riferi-
mento ai procedimenti instaurati dai coniugi con domanda congiunta e/o
con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano
mai avuto una residenza comune) e dall’art. 709-ter, primo comma, del
codice di procedura civile (con riferimento ad altri procedimenti che coinvolgono i minori).
Né, ad avviso del giudice a quo, stante il chiaro ed inequivoco tenore
letterale della disposizione in questione, vi sarebbe spazio per una diversa
interpretazione costituzionalmente orientata.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale ordinario di Pisa, investito di un ricorso per la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre
1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005,
n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), comma inserito dalla relativa legge
di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale
e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la
riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), “nella parte in cui individua come foro dei procedimenti contenziosi, aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio,
il luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi”, per violazione: a)
dell’art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della irragionevolezza della disposizione, la quale pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente
coinvolti nel procedimento, sia sotto il profilo della ingiustificata disparità
di trattamento rispetto ad altre situazioni analoghe, tenuto conto dei diversi criteri di competenza territoriale previsti dal medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (con riferimento ai procedimenti in-
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staurati dai coniugi con domanda congiunta e/o con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano mai avuto una residenza comune) e dall’art. 709-ter, primo comma, del codice di procedura civile (con riferimento ad altri procedimenti che coinvolgono i minori); b) dell’art. 24 della Costituzione, per il pregiudizio all’esercizio del diritto di difesa.
2. – La questione sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione
è fondata.
2.1. – L’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35,
comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80,
ha sostituito, a decorrere dal 1° marzo 2006, l’art. 4 della legge 1° dicembre
1970, n. 898 già riportato, fissando, tra l’altro, nuove regole per la individuazione del giudice territorialmente competente in ordine ai procedimenti concernenti lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del
matrimonio.
Il richiamato art. 4, primo comma, della legge n. 898 del 1970, nella
sua formulazione originaria, individuava, quale foro dei procedimenti di
cui si tratta, il tribunale del luogo in cui il convenuto aveva la residenza,
oppure, nel caso di irreperibilità o di residenza all’estero, quello del luogo di residenza del ricorrente. L’art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74
(Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nel
sostituire l’intero art. 4 della legge n. 898 del 1970, aveva, poi, introdotto, quale criterio alternativo alla residenza quello del domicilio (del convenuto, come del ricorrente), contemplando, altresì, l’ipotesi di residenza
all’estero di entrambi i coniugi e prevedendo, in tal caso, che la domanda
per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio potesse essere proposta innanzi a qualunque tribunale della
Repubblica.
La novella del 2005 ha introdotto un diverso criterio, fissando quale
foro competente il “tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei
coniugi, ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha
residenza o domicilio”, e mantenendo, per il resto, gli altri criteri di competenza individuati dal richiamato art. 8 della legge n. 74 del 1987.
I criteri di individuazione di tale competenza per territorio sono in-
derogabili e successivi, nel senso che non è consentito al ricorrente fare
riferimento ad uno di essi se non nell’ipotesi in cui il precedente non ricorra.
Pertanto, perché il ricorrente possa proporre la domanda innanzi al
tribunale del luogo in cui il convenuto abbia residenza o domicilio, non
è sufficiente che la residenza
comune dei coniugi sia venuta meno, ma è necessario che essa non sia
mai esistita, non potendosi interpretare l’espressione “in mancanza” come
equivalente a quella “qualora sia successivamente venuta meno”, sia perché vi osta il dato letterale, che allude, inequivocabilmente, ad una situazione mai realizzatasi, sia perché è pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che i coniugi possano anche non avere mai avuto una residenza comune – e questa è la fattispecie ipotizzata dal legislatore – dal momento
che l’art. 144, primo comma, del codice civile, nel prevedere l’obbligo
della fissazione della residenza della famiglia, non esclude che, in concreto, i coniugi, per motivi legittimi, possano non procedere a tale fissazione.
Da quanto precede deriva che, qualora i coniugi abbiano avuto, per il
passato, una residenza comune, occorre fare capo, ai fini della individuazione del giudice competente sulla domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, al tribunale del luogo ove detta residenza si trovava, e ciò anche nella ipotesi – ricorrente nella specie – che,
al momento dell’introduzione del giudizio, nessuna delle parti abbia alcun
rapporto con quel luogo.
L’individuazione di tale criterio di competenza è manifestamente irragionevole, non sussistendo alcuna valida giustificazione della adozione
dello stesso, ove si consideri che, in tema di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in
occasione della domanda di separazione – giudiziale o consensuale – sono stati autorizzati a vivere separatamente, con la conseguenza che, tenute presenti le condizioni per proporre la successiva domanda di divorzio,
non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma.
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Seppure è vero che rientra nella discrezionalità del legislatore la determinazione della competenza territoriale, è però necessario che tale discrezionalità sia esercitata nel rispetto del criterio di ragionevolezza che,
nella specie, risulta, per quanto esposto, palesemente violato.
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma denunciata limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,”.
L’accoglimento della questione in riferimento all’art. 3 della Costituzione
comporta l’assorbimento della censura di incostituzionalità proposta con
riferimento all’art. 24 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio),
nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo
2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo
sviluppo economico, sociale e territoriale) comma inserito dalla relativa
legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico,
sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di
procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché
per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza”.
Corte Costituzionale
19-23 maggio 2008 n. 169
Il tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi non ha più la competenza territoriale per le cause di divorzio.
Corte Costituzionale – sentenza 19-23 maggio 2008 n. 169
La Corte Costituzionale, con sentenza del 23 maggio scorso (n.
169/2008) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge n. 898/70 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del
Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale) comma
inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, limitatamente alle parole “del luogo dell’ultima residenza comune
dei coniugi ovvero, in mancanza”.
Precisamente, la Corte ha risolto la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Pisa, in merito all’art. 4, comma 1, della legge n. 898/1970, nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto - legge n. 35/2005, comma inserito dalla relativa legge di conversione n. 80/2005, che stabilisce che “La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio.
Nel corso di un giudizio di divorzio, il Presidente del Tribunale di
Pisa ha rilevato d’ufficio la incompetenza territoriale di detto Tribunale,
la cui competenza per territorio non coincide con il luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi (Napoli), mentre uno dei coniugi risiede attualmente in Misano Adriatico (Rimini) e l’altro, unitamente al figlio minore, in S. Giuliano Terme (Pisa). Nel corso del giudizio, le parti hanno
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
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insistito per trattare la causa dinanzi al Tribunale di Pisa e il ricorrente ha
eccepito la illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge n. 898/1970, per violazione del diritto al giusto processo (art. 111 della Costituzione), del diritto al giudice naturale precostituito per legge (art. 25 della Costituzione), del principio di
uguaglianza (art. 3 della Costituzione). Il Tribunale di Pisa ha ritenuto la questione di costituzionalità non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, ritenendo che la disposizione denunciata pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo
collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente coinvolti nel procedimento e che, di conseguenza, la stessa appare del tutto irragionevole, pregiudizievole per l’esercizio del diritto di difesa e suscettibile di creare una ingiustificata disparità di trattamento rispetto a altre situazioni analoghe, tenuto conto dei diversi criteri di competenza territoriale previsti dal medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 8981970, con
riferimento ai procedimenti instaurati dai coniugi con domanda congiunta
e/o con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano mai avuto una residenza comune e dall’art. 709-ter, primo comma,
del codice di procedura civile, con riferimento ad altri procedimenti che
coinvolgono i minori.
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
La norma in questione, spiega la Corte, “nella sua formulazione originaria, individuava, quale foro dei procedimenti di cui si
tratta, il tribunale del luogo in cui il convenuto aveva la residenza, oppure, nel caso di irreperibilità o di residenza all’estero, quello del luogo di residenza del ricorrente”. Successivamente, l’art. 8
della legge n. 74/87 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nel sostituire l’intero art. 4 aveva introdotto, quale criterio alternativo alla residenza quello del domicilio
(del convenuto, come del ricorrente), “contemplando, altresì,
l’ipotesi di residenza all’estero di entrambi i coniugi e prevedendo, in tal caso, che la domanda per ottenere lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio potesse essere proposta innanzi a qualunque tribunale della Repubblica”.
Nel 2005 si è introdotto un diverso criterio, fissando quale foro competente il “tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei
coniugi, ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha
residenza o domicilio”, mantenendo, per il resto, gli altri criteri di
competenza individuati dal richiamato art. 8 della legge n. 74 del
1987.
In sostanza nel caso in cui i coniugi avessero avuto in passato una residenza comune, la competenza sarebbe spettata al tribunale del luogo in
cui si trovava tale residenza anche se al momento della domanda nessuna
delle parti avesse alcun rapporto con quel luogo.
Ora, ad avviso della Corte, l’individuazione di tale criterio di
competenza è manifestamente irragionevole, non sussistendo alcuna valida giustificazione della adozione dello stesso, ove si consideri che, in tema di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza
comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione, giudiziale o consensuale, sono stati autorizzati a vivere separatamente, essendo venuto meno qualsiasi collegamento con la sede territoriale del tribunale individuato nella norma.
Sulla base di tale presupposto, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma denunciata limitatamente alle parole
“del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,”.
A seguito dell’intervento della Corte, pertanto, la domanda,
per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, dovrà essere attratta alla competenza del giudice del luogo della residenza o del domicilio del convenuto oppure del ricorrente se il convenuto si trovi al di fuori del territorio dello
stato o risulti irreperibile. Nell’ipotesi che entrambi risiedano
all’estero potrà essere proposta innanzi a qualunque tribunale della Repubblica.
Ora, resta da chiedersi se la decisione della Consulta, le cui argomen-
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
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tazioni sono specifiche per il procedimento di divorzio, possa avere conseguenze e ripercussione anche nei giudizi di separazione.
E’ innegabile che in relazione all’istituto del divorzio, il criterio di
competenza territoriale individuato dalla norma dichiarata incostituzionale era del tutto irragionevole per le argomentazioni innanzi prospettate; tuttavia sarebbe auspicabile e ispirato all’esigenza di avere uniformità di
modelli procedurali per i giudizi di separazione e divorzio, abbandonare il
criterio dell’ultima residenza comune come criterio esclusivo e optare per
la concorrenza di tale foro con quelli successivi del foro generale del coniuge convenuto e del foro residuale dell’attore.
Avv. Luisa Ventorino
Cassazione civile - Sezioni Unite
4 marzo - 8 aprile 2008 n. 9148
Presidente: CARBONE - Relatore: CORONA
COMUNIONE E CONDOMINIO
Condominio negli edifici spese, manutenzione e riparazioni
In tema di condominio degli edifici, deve escludersi che le obbligazioni contratte nell’interesse del condominio a cagione dell’effettuazione
di lavori di ristrutturazione, di rifacimento o di manutenzione dell’edificio abbiano carattere solidale. Esse, infatti, salvo che la legge disponga diversamente, sono obbligazioni connotate da parziarietà. Ne deriva che illegittimamente il creditore rivolge la richiesta di adempimento a uno solo dei condomini o a più condomini. La domanda di pagamento, sul punto, deve essere rivolta a tutti i condomini, in proporzione alla singola quota debitoria di spettanza. Per accertare la consistenza di tale quota, il creditore ha l’onere di controllare le tabelle millesimali del condominio.
COMUNIONE E CONDOMINIO
Condominio negli edifici spese, manutenzione e riparazioni
In riferimento alle obbligazioni assunte dall’amministratore, o comunque, nell’interesse del condominio, nei confronti di terzi - in difetto
di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l’amministratore i singoli condomini
nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio
- la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per
cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai
singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli art. 752 e 1295 c.c. per le obbligazioni ereditarie.
UMBERTO GIANTOMASI
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legislative e giurisprudenziali
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obbligazioni assunte nell’interesse del condominio in proporzione alle rispettive quote.
Per la risoluzione del contrasto la causa viene alle Sezioni Unite civili.
OMISSIS -
Fatto
Con Decreto 24 marzo 1884, il Presidente del Tribunale di Bologna
ingiunse al Condominio di via (OMISSIS), (OMISSIS), ed ai condomini
A., Ad. e Ra.Al., C.U., B.G., M.D., T.A. ed alla società I.B.O. s.r.l. di pagare alla Edilfast s.r.l. L. 66.800.276, quale residuo del corrispettivo per i
lavori eseguiti nell’edificio condominiale.
Proposero opposizione con distinti atti di citazione A. e Ra.Ad., le
quali dedussero l’inammissibilità della duplice condanna emessa sia a carico del condominio, sia nei loro confronti in via solidale, posto che avevano adempiuto pro quota alle obbligazioni assunte nei confronti della società Edilfast; R. A. asserì di aver acquistato il solo diritto di usufrutto di
una unità immobiliare in data 2 giugno 1993, quando i lavori commessi
alla società Edilfast erano stati già ultimati: in ogni caso, trattandosi di spese riguardanti opere di manutenzione straordinaria, esse erano a carico del
nudo proprietario.
Riuniti i giudizi e chiamati in causa il Condominio, i condomini Q.I.,
B.T. e la società I.B.O. s.r.l., i quali chiesero il rigetto della domanda proposta con il ricorso per ingiunzione, con sentenza 28 aprile 2000 il
Tribunale di Bologna revocò il decreto; con sentenza 19 febbraio 2003, la
Corte d’Appello di Bologna respinse l’impugnazione proposta dalla società
Edilfast.
Ha proposto ricorso per Cassazione con sei motivi la società Edilfast;
hanno resistito con controricorso A., Ad. e Ra.Al.. Non ha svolto attività
difensiva l’intimato Condominio via (O M I S S I S ), in persona dell’amministratore in carica.
La Seconda Sezione civile, con ordinanza 7 febbraio 2007, n. 2621,
ha rimesso gli atti al Primo Presidente, avendo ritenuto la sussistenza di
un contrasto all’interno della sezione, posto che per un primo indirizzo
(maggioritario) la responsabilità dei singoli condomini per le obbligazioni assunte dal condominio verso terzi avrebbe natura solidale, mentre per
un secondo orientamento, decisamente minoritario, avrebbe vigore il principio della parziarietà, ovverosia dalla ripartizione tra i condomini delle
Diritto
La società ricorrente lamenta:
1.1 con il primo motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 1115
e 1139 cod. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3. La giurisprudenza dominante, anche successivamente all’isolata sentenza n. 8530
del 1996, che aveva affermato la parziarietà, ha sempre sostenuto e continua a sostenere la natura solidale delle obbligazioni dei condomini;
1.2 con il secondo motivo, falsa applicazione degli artt. 1004 e 1005
cod. civ., ai senso dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, posto che la ripartizione delle spese fra nudo proprietario usufruttuario operano nei rapporti interni e non sono opponibili al terzo creditore;
1.3 con il terzo motivo, violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, poichè la sentenza di primo grado aveva posto a fondamento della decisione ragioni diverse da quelle dedotte nell’opposizione al decreto ingiuntivo;
1.4 con il quarto motivo, omessa compensazione delle spese processuali con riferimento ad Ra.Al.;
Con il quinto motivo, violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., ai sensi
degli artt. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5 non sussistendo soccombenza nei
confronti del Condominio, che era stato chiamato in giudizio da Ra.Al.;
Con il sesto motivo, violazione dell’art. 63 disp. att. in relazione all’art.
360 cod. proc. civ., n. 3, non aveva tenuto conto dell’orientamento della
Suprema Corte, secondo cui l’acquirente di una unità immobiliare doveva essere tenuto alle spese solidalmente al suo dante causa.
2.1 La questione di diritto, che la Suprema Corte deve risolvere per
decidere la controversia, riguarda la natura delle obbligazioni dei condomini.
Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza, la responsabilità dei singoli partecipanti per le obbligazioni assunte dal “condominio” verso i terzi ha natura solidale, avuto riguardo al principio ge-
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nerale stabilito dall’art. 1294 cod. civ. per l’ipotesi in cui più soggetti siano obbligati per la medesima prestazione:
principio non derogato dall’art. 1123 cod. civ., che si limita a ripartire gli oneri all’interno del condominio (Cass., Sez. 2ª, 5 aprile 1982, n.
2085; Cass., Sez. 2ª, 17 aprile 1993, n. 4558; Cass., Sez. 2ª, 30 luglio 2004,
n. 14593; Cass., Sez. 2ª, 31 agosto 2005, n. 17563).
Per l’indirizzo decisamente minoritario, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio dalla parziarietà: in proporzione alle rispettive quote, ai singoli partecipanti si imputano le obbligazioni assunte nell’interesse del “condominio”, relativamente alle spese per la conservazione e per
il godimento delle cose comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni
ereditarie, secondo cui al pagamento dei debiti ereditati i coeredi concorrono in proporzione alle loro quote e l’obbligazione in solido di uno dei
condebitori si ripartisce tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie
(Cass., Sez. 2ª, 27 settembre 1996, n. 8530).
2.2 Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni
(contrattuali) unitarie le quali vincolano la pluralità di soggetti passivi - i
condomini -occorre muovere dal fondamento della solidarietà.
L’assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti, in difetto dei quali - e di una precisa disposizione di legge - il criterio non si applica, non essendo sufficiente la comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l’identica causa dell’obbligazione; che nessuna specifica disposizione contempli la solidarietà tra i
condomini, cui osta la parziarietà intrinseca della prestazione; che la solidarietà non possa ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo, in quanto
il condominio non raffigura un “ente di gestione”, ma una organizzazione pluralistica e l’amministratore rappresenta immediatamente i singoli partecipanti, nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno.
La disposizione dell’art. 1292 cod. civ. - è noto - si limita a descrivere il fenomeno e le sue conseguenze. Invero, sotto la rubrica “nozione della solidarietà”, definisce l’obbligazione in solido quella in cui “più debi-
tori sono obbligati tutti per la medesima prestazione” e aggiunge che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità (con liberazione degli altri).
L’art. 1294 cod. civ. stabilisce che “i condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente”.
Nessuna delle norme, tuttavia, precisa la ratio della solidarietà, ovverosia ne chiarisce il fondamento (che risulta necessario, quanto meno, per
risolvere i casi dubbi).
Stando all’interpretazione più accreditata, le obbligazioni solidali, indivisibili e parziarie raffigurano le risposte dell’ordinamento ai problemi
derivanti dalla presenza di più debitori (o creditori), dalla unicità della causa dell’obbligazione (eadem causa obbligandi) e dalla unicità della prestazione (eadem res debita).
Mentre dalla pluralità dei debitori e dalla unicità della causa dell’obbliga-zione scaturiscono questioni che, nella specie, non rilevano, la categoria dell’idem debitum propone problemi tecnici considerevoli: in particolare, la unicità della prestazione che, per natura, è suscettibile di divisione, e la individuazione del vincolo della solidarietà rispetto alla prestazione la quale, nel suo sostrato di fatto, è naturalisticamente parziaria.
Semplificando categorie complesse ed assai elaborate, l’indivisibilità
consiste nel modo di essere della prestazione: nel suo elemento oggettivo,
specie laddove la insussistenza naturalistica della indivisibilità non è accompagnata dall’obbligo specifico imposto per legge a ciascun debitore di
adempiere per l’intero.
Quando la prestazione per natura non è indivisibile, la solidarietà dipende dalle norme e dai principi. La solidarietà raffigura un particolare atteggiamento nei rapporti esterni di una obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la comunanza della prestazione. Altrimenti,
la struttura parziaria dell’obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse.
E’ pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il principio generale è valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge per la attuazione congiunta del condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a cia-
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scuno dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile. Se invece l’obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale, il principio della solidarietà (passiva) va contemperato con quello
della divisibilità stabilito dall’art. 1314 cod. civ., secondo cui se più sono
i debitori ed è la stessa la causa dell’obbligazione, ciascuno dei debitori
non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte.
Poichè la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege,
nei rapporti esterni, di una obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell’obbligazione come solidale e, contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma naturalisticamente, divisibile viene me-no uno dei requisiti della solidarietà e la
struttura parziaria dell’obbligazione private.
Del resto, la solidarietà viene meno ogni qual volta la fonte dell’obbligazione comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. - che prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell’apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con
una pluralità di obbligazioni parziarie - esprimono il criterio di ordine generale del collegamento tra le obbligazioni e le res.
Per la verità, si tratta di obbligazioni immediatamente connesse con
l’attribuzione ereditaria dei beni: di obbligazioni ricondotte alla titolarità
dei beni ereditali in ragione dell’appartenenza della quota. Ciascun erede
risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni ereditari. Più in generale, laddove si riscontra lo stesso vincolo tra l’obbligazione e la quota e nella struttura dell’obbligazione, originata dalla medesima causa per una pluralità di obbligati, non sussiste il carattere della
indivisibilità della prestazione, è ragionevole inferire che rispetto alla solidarietà non contemplata (espressamente) prevalga la struttura parziaria del
vincolo.
2.3 Le direttive ermeneutiche esposte valgono per le obbligazioni facenti capo ai gruppi organizzati, ma non personificati.
Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del “condominio” - in realtà, ascritte ai singoli condomini - si riscontrano certamente la pluralità dei debitori (i condomini) e la
eadem causa obbligandi la unicità della causa: il contratto da cui l’obbligazione ha origine. E’ discutibile, invece, la unicità della prestazione (idem
debitum), che certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale
effettua una prestazione nell’interesse e in favore di tutti condomini (il rifacimento della facciata, l’impermeabilizzazione del tetto, la fornitura del
carburante per il riscaldamento etc). L’obbligazione dei condomini (condebitori), invece, consistendo in una somma di danaro, raffigura una prestazione comune, ma naturalisticamente divisibile.
Orbene, nessuna norma di legge espressamente dispone che il criterio
della solidarietà si applichi alle obbligazioni dei condomini.
Non certo l’art. 1115 cod. civ., comma 1. Sotto la rubrica “obbligazioni solidali dei partecipanti”, la norma stabilisce che ciascun partecipante
può esigere che siano estinte le obbligazioni contratte in solido per la cosa comune e che la somma per estinguerle sia ricavata dal prezzo di vendita della stessa cosa. La disposizione, in quanto si riferisce alle obbligazioni contratte in solido dai comunisti per la cosa comune, ha valore meramente descrittivo, non prescrittivo: non stabilisce che le obbligazioni
debbano essere contratte in solido, ma regola le obbligazioni che, concretamente, sono contratte in solido. A parte ciò, la disposizione non riguarda il condominio negli edifici e non si applica al condominio, in quanto
regola l’ipotesi di vendita della cosa comune. La disposizione, infatti, contempla la cosa comune soggetta a divisione e non le cose, gli impianti ed
i servizi comuni del fabbricato, i quali sono contrassegnati dalla normale
indivisibilità ai sensi dell’art. 1119 cod. civ. e, comunque, dalla assoluta
inespropriabilità.
D’altra parte, nelle obbligazioni dei condomini la parziarietà si riconduce all’art. 1123 cod. civ., interpretato valorizzando la relazione tra la titolarità della obbligazione e la quella della cosa. Si tratta di obbligazioni
propter rem, che nascono come conseguenza dell’appartenenza in comune, in ragione della quota, delle cose, degli impianti e dei servizi e, solo
in ragione della quota, a norma dell’art. 1123 cit., i condomini sono tenuti a contribuire alle spese per le parti comuni. Per la verità, la mera valenza interna del criterio di ripartizione raffigura un espediente elegante,
ma privo di riscontro nei dati formali.
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Se l’argomento che la ripartizione delle spese regolata dall’art. 1123
cod. civ., comma 1, riguardi il mero profilo interno non persuade, non
convince neppure l’asserto che lo stesso art. 1223 c.c., comma 2 - concernente la ripartizione delle spese per l’uso delle parti comuni destinate
a servire i condomini in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne - renda impossibile l’attuazione parziaria all’esterno: con
la conseguenza che, quanto all’attuazione, tutte le spese disciplinate dall’art.
1223 cit. devono essere regolate allo stesso modo.
Entrambe le ipotesi hanno in comune il collegamento con la res. Il
primo comma riguarda le spese per la conservazione delle cose comuni,
rispetto alle quali l’inerenza ai beni è immediata; il secondo comma concerne le spese per l’uso, in cui sussiste comunque il collegamento con le
cose: l’obbligazione, ancorchè influenzata nel quantum dalla misura dell’uso
diverso, non prescinde dalla contitolarità delle parti comuni, che ne costituisce il fondamento. In ultima analisi, configurandosi entrambe le obbligazioni come obligationes propter rem, in quanto connesse con la titolarità del diritto reale sulle parti comuni, ed essendo queste obbligazioni
comuni naturalisticamente divisibili ex parte debitoris, il vincolo solidale
risulta inapplicabile e prevale la struttura intrinsecamente parziaria delle
obbligazioni. D’altra parte, per la loro ripartizione in pratica si può sempre fare riferimento alle diverse tabelle millesimali relative alla proprietà
ed alla misura dell’uso.
2.5 Nè la solidarietà può ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo
dei condomini.
Dalla giurisprudenza, il condominio si definisce come “ente di gestione”, per dare conto del fatto che la legittimazione dell’amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad agire in giudizio in difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei mezzi di impugnazione; di intervenire nei giudizi intrapresi
dall’amministratore, etc. Ma la figura dell’ente, ancorchè di mera gestione, suppone che coloro i quali ne hanno la rappresentanza non vengano
surrogati dai partecipanti. D’altra parte, gli enti di gestione in senso tecnico raffigurano una categoria definita ancorchè non unitaria, ai quali dalle leggi sono assegnati compiti e responsabilità differenti e la disciplina ete-
rogenea si adegua alle disparate finalità perseguite (L. 22 dicembre 1956,
n. 1589, art. 3). Gli enti di gestione operano in concreto attraverso le società per azioni di diritto comune, delle quali detengono le partecipazioni azionarie e che organizzano nei modi più opportuni: in attuazione delle direttive governative, razionalizzano le attività controllate, coordinano i
programmi e assicurano l’assistenza finanziaria mediante i fondi di dotazione.
Per la struttura, gli enti di gestione si contrassegnano in ragione della
soggettività (personalità giuridica pubblica) e dell’autonomia patrimoniale (la titolarità delle partecipazioni azionarie e del fondo di dotazione).
Orbene, nonostante l’opinabile rassomiglianza della funzione - il fatto che l’amministratore e l’assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni appartengono - le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell’ente di gestione al condominio negli edifici.
Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, nè
di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e
i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell’interesse dei singoli partecipanti.
Secondo la giurisprudenza consolidata, poi, l’amministratore del condominio raffigura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con
rappresentanza: con la conseguente applicazione, nei rapporti tra l’amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato.
Orbene, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell’amministratore del condominio è circoscritta alle attribuzioni - ai compiti ed ai poteri - stabilite dall’art. 1130 cod. civ..
In giudizio l’amministratore rappresenta i singoli condomini, i quali
sono parti in causa nei limiti della loro quota (art. 1118 e 1123 cod. civ.).
L’amministratore agisce in giudizio per la tutela dei diritti di ciascuno dei
condomini, nei limiti della loro quota, e solo in questa misura ognuno dei
condomini rappresentati deve rispondere delle conseguenze negative. Del
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resto, l’amministratore non ha certo il potere di impegnare i condomini
al di là del diritto, che ciascuno di essi ha nella comunione, in virtù della
legge, degli atti d’acquisto e delle convenzioni. In proporzione a tale diritto ogni partecipante concorre alla nomina dell’amministratore e in proporzione a tale diritto deve ritenersi che gli conferisca la rappresentanza
in giudizio. Basti pensare che, nel caso in cui l’amministratore agisca o sia
convenuto in giudizio per la tutela di un diritto, il quale fa capo solo a determinati condomini, soltanto i condomini interessati partecipano al giudizio ed essi soltanto rispondono delle conseguenze della lite.
Pertanto, l’amministratore - in quanto non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei suoi poteri, che non contemplano la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese stabiliti dall’art.
1123 c.c. - non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti della
rispettiva quota.
2.5 Riepilogando, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori e della
identica causa dell’obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest’ultimo requisito e in difetto di
una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale;
considerato che l’obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorchè
comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel
condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che
l’art. 1123 cit, interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno;
rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del
condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale
dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l’amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la
susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote,
le obbligazioni assunte nel cosiddetto “interesse del condominio”, in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose co-
muni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e
per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni
dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt.
752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi
concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l’obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
2.6 Il contratto, stipulato dall’amministratore rappresentante, in nome
e nell’interesse dei condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei rappresentati.
Conseguita nel processo la condanna dell’amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno.
Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di
diritto che regolano le obbligazioni contrattuali comuni con pluralità di
soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.
Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l’amministratore del condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare preferibile il
criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte rilevantissime in seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso tempo, non si riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell’adempimento.
Respinto il motivo principale, non merita accoglimento nessuno degli altri motivi di ricorso.
Non il secondo ed il sesto. Stando alle disposizioni sul condominio
(art. 67 disp. att. del resto in conformità con quanto stabilito per le spese
gravanti sull’usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 cod. civ.), fanno carico all’usufruttuario le spese attinenti all’ordinaria amministrazione ed al semplice
godimento delle cose e dei servizi comuni, mentre le innovazioni, le ricostruzioni e le spese di manutenzione straordinaria competono al proprietario: ma le spese fanno capo all’usufruttuario limitatamente al tempo
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in cui egli è titolare del diritto reale su cosa altrui. Correttamente, perciò,
la Corte d’Appello non ha considerato responsabile Ra.Al., in quanto
l’usufrutto da lui era stato acquistato in epoca successiva alla data, in cui
l’esecuzione dei lavori era stata commissionata ed eseguita.
Non il terzo motivo, posto che il giudice del merito ha preso in esame la questione di diritto inerente alla la controversia e ritenuta indispensabile per la decisione.
Non il quarto ed il quinto motivo, in quanto la decisione sulle spese
processuali è rimessa al giudice del merito, con il solo limite di non condannare la parte interamente vittoriosa.
Avuto riguardo alla difficoltà della materia ed al contrasto esistente in
giurisprudenza, si ravvisano i giusti motivi per compensare interamente
tra le parti le spese processuali.
P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso e compensa le spese.
UMBERTO GIANTOMASI
La sofferta giustizia condominiale
Silvio e Gastone sono commilitoni di nascita, nel senso che mamma
Clara e mamma Giovanna, poco dopo lo sbarco del primo uomo sulla luna, si ritrovarono nella stessa camera della clinica di un ridente borgo per
gestire alla meglio le ultime fasi di un parto che per le due donne, entrambe novelle del mestiere, fu assai diverso.
Clara, confortata dal miglior ginecologo, presidente del locale, notissimo Club per soli “vip”, era stata sottoposta ad una dieta perfetta, non
aveva mai avvertito nemmeno un conato di vomito, non si era tormentata – ancorché ne avesse avuto il tempo, essendo beatamente inoccupata –
nel preparare l’occorrente per il nascituro, in quanto avevano pensato a
tutto le amiche del cuore: in particolare ed in rigoroso ordine di presenza quanti-qualitativa, la sempreverde Rita, la quale, sfogliando riviste che
con la cultura (qualunque cultura) hanno un non so che di allergico, si era
lacerata nell’appioppare al bimbo in fieri, a turno, il nome di uno sportivo, di un uomo di spettacolo, finanche di un noto criminale, a lei molto
simpatico perché – dopo aver letto le memorie di costui – lo riteneva un
“uomo vero”; Ginevra, una donna che – per la quantità industriale di cose frivole oggetto del suo quotidiano meditare – finiva spesso con il ridursi
ad un favellare difficilmente compatibile con la ragion pura, finanche quando era chiamata a svolgere la missione di insegnante; Matilde, tanto brava
a giocare a burraco quanto inetta a svolgere – naturalmente con tutta la
calma del caso – le mansioni di magistrato: le sue sentenze erano e ancora oggi sono un capolavoro, se non altro perché avere in sorte di leggerle
equivale più o meno ad incontrare un barista in pieno deserto.
Giovanna, lavoratrice instancabile, sposata con Ulderico, uno di quelli che vede nella dolce metà la persona della vita per “lavatura e stiratura”, nel periodo della gravidanza non aveva avuto il tempo nemmeno una
volta di guardarsi allo specchio, sicché non si era resa conto che la siluette era perduta già da diversi mesi, aveva sempre malcelato i dolori lancinanti alla schiena, aveva affidato solo a nonna Anna il compito di coadiuvarla nella scelta della carrozzina e di quant’altro necessario per il lieto
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evento, dopo il quale tornare a svolgere, con la solita solerzia, le mansioni di portinaia, nello stesso stabile nel quale – al terzo piano, interno 12,
viveva la Sig.ra Clara, unitamente alla di lei rumorosa ed altolocata famigliola.
Silvio e Gastone – per la cronaca nacquero entrambi di 2,8 kg – non
avevano mai avvertito questo gap sociale, anzi spesso, ancora imberbi, avevano tirato calci allo stesso pallone, si erano divertiti da matti a suonare al
citofono del Sig. Matteo, maresciallo dei carabinieri in pensione (noto perché ogni giorno soleva tentare di farsi una pennichella, ritualmente interrotta dalla nostra premiata ditta con immancabile condimento di contumelie da parte del milite a riposo), erano stati visti più volte fare le poste
a Mirella, l’avvenente figlia del salumiere del quartiere, nota frequentatrice dei locali, diurni e, soprattutto, notturni del contado.
Con il passare dei lustri, il duo in discussione aveva conservato una
certa coralità, favorita dall’identità di studi seguiti, laurea in giurisprudenza inclusa.
Poscia, però, le strade si erano divise, con brusca naturalezza: tanto per
farla breve, Silvio si era immerso in uno studio matto per vincere il mitico concorso in magistratura e farsi assegnare – come prima nomina – una
bella località balneare o una simpatica cittadina di montagna; l’altro si era
dato alla matta pratica forense, confrontandosi con … un mare fascicoli
ed… irti sentieri dei gradoni del locale Palazzo di Giustizia.
La vita, si sa, è un continuum di “oddio, non è possibile”; ed infatti,
quando le primavere erano per entrambi poco sotto le quaranta, i due camerati di travaglio si sono ritrovati, avendo preso casa nel medesimo stesso plesso condominiale, ubicato alla via della Concordia, n. 17.
Confortati dall’onomastico della strada (molto meno dal civico), i promissari acquirenti hanno impiegato poco per diventare … acquirenti e basta; solo che – e fermiamoci ai protagonisti della nostra novella – Silvio ha
avuto in dono da mamma e papà l’attico di quasi 300 mq. con veduta
sull’intera vallata, mentre Gastone si è dovuto accontentare di un appartamentino di 80 (recte, 76) mq. con vista sull’atrio, ovviamente acquistato con il corollario di un modestissimo mutuo di importo pari a circa il
70% del valore dell’angolo (in senso stretto) di paradiso.
Lettore della presente, sai bene che sono un tipo riservato, per cui da
me non saprai mai che Silvio, acquisiti i galloni di magistrato giudicante,
oltre a decidere della libertà dei comuni mortali nell’espletamento del proprio munus, si è sposato con Gisella, figlia di Matilde (ricordi l’amica …
sportiva di mamma Clara) ed ha avuto due gemelli, ciascuno affidato ad
una tata; non riuscirai a farmi dire nemmeno che Gastone, affranto da qualche rapporto andato maluccio per colpa dell’innata sindrome di Peter Pan,
si dedica, oltre che a patrocinare innanzi alla solita giurisdizione di merito,
allo sport preferito dai single: quello di dire – mentendo a se stessi, prima
che agli altri – che va tutto bene senza una compagna fissa; un po’ come
fa l’allenatore della squadra che, dopo avere pareggiato venti partite su venti con l’addenda della retrocessione, rilascia la seguente dichiarazione: “non
possiamo rammaricarci; in fondo non ci hanno mai battuti”.
Alle riunioni di condominio i nostri Dioscuri arrivano sempre puntuali, seppur con animo diametralmente opposto: Silvio è presente perché
intende garantire ai comproprietari l’adeguata risoluzione a tutti i quesiti
che, via via, si pongono; Gastone ci va perché almeno ha un motivo per
rispondere a chi gli chiede che cosa cenerà: “stasera ho fatto tardi per presenziare alla adunanza condominiale, per cui mi arrangio con un surgelato”, salvo pensare fra sé e sè che quella non è altro che la soluzione adottata per buona parte della settimana, segnatamente tutte le volte che non
viene invitato a pranzo da mammà.
Qualche tempo fa, la piccola assise – lo rivelano alcuni astanti – ha
vissuto attimi alquanto convulsi, in quanto all’ordine del giorno è stata posta in discussione l’istanza avanzata da una tale Sig.ra Marta, proprietaria
del locale posto al piano terra del plesso, la quale lamentava di avere avuto la notifica di un decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, di pagamento di una cifra impressionate in favore di una Ditta edile che, a sua
volta, si doleva del mancato pagamento del saldo di lavori commissionati
ed eseguiti tempo addietro. È giusto, aveva chiesto la condomina, che la
Ditta si sia rivolta, per l’intero importo, solo a me?
Detto fra di noi, questa Sig.ra Marta era, fino alla proposizione della
citata istanza, un’emerita sconosciuta, in quanto aveva da poco intrapreso
l’attività di estetista nel locale in questione e non aveva mai preso parte ad
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alcuna riunione condominiale. Finanche nell’assemblea fissata per decidere (anche) sulla sua richiesta – consistente nell’invito formulato agli altri
condomini a contribuire al pagamento dell’importo in misura corrispondente ai millesimi – Marta non si presenta, per cui il Presidente Silvio sta
lì per dichiarare concluso l’incontro – con l’ovvio corollario del “non luogo a provvedere”, quasi ci si trovasse in Tribunale – quando, trafelata, fa
il suo ingresso l’interessata.
Gastone, fino ad un attimo prima annoiato e aduso allo sbadiglio, resta folgorato da una luce celestiale (anzi, rosea) e, nonostante professi il
proprio ateismo, si rende conto che, in fondo, gli uomini e le donne di
santa Romanca Ecclesia non hanno mica tutti torti quando sostengono,
convinti, che il Paradiso esiste. Solo che, a suo dire, non occorre necessariamente attendere il momento del trapasso, che, anzi, a questo punto, va
rigorosamente rimandato sine die (un po’ come le udienze di precisazione
delle conclusioni innanzi alla Corte di Appello) proprio per consentire una
adeguata valutazione terrena della bontà del Creato.
Naturalmente, la bella Marta non si accorge nemmeno per un nanosecondo dell’altrui interesse ed espone le proprie ragioni, inutile dire per
nulla recepite da Gastone, già da un pezzo imbarcato sulla nave dei sogni.
Silvio – timoroso di dover sborsare qualche monetina – interviene e
lo fa con tono deciso, rappresentando alla signora che deve comunque pagare l’intero importo: è la Cassazione che lo ha a più riprese sostenuto.
A fronte delle perplessità di Marta, che reputa tali principi ingiusti,
Silvio mostra chiaramente segnali di insofferenza: siamo seri, a parlare è il
Supremo Collegio, sentenzia il Presidente-magistrato.
A questo punto la luce si fa per spegnersi negli occhi della maga delle manicure e Gastone non lo può permettere. Chiede la parola e Silvio,
seppure con un ghigno, concede al compagno di nascita di interloquire,
sicuro che, qualunque cosa potrà dire, sarà poca roba.
Gastone conosce a memoria ogni mossa dell’amico dei tempi andati,
sicché dosa il proprio verbo. La Cassazione, esordisce, è definita da alcuni “il Tribunale più pazzo del mondo”1: e giù – con un tatticismo studiato –
un sorso d’acqua, giusto il tempo per far inviperire il magistrato, il quale,
infatti, erutta pensando di fare del Legale una Ercolano in miniatura. Questi,
però, rammenta all’accalorato dotto che non siamo in un’aula di Tribunale
e che è opportuno che gli sia consentito democraticamente di proseguire. Ed infatti, aggiunge con un colpo di teatro il nostro Patrocinatore, chi
dà questo epiteto ai Giudici di legittimità è in errore, perché se anche talora – come è fisiologico – tra i magistrati di piazza Cavour le lampadine
non si accendono simultaneamente, ci pensano le sezioni unite ad assicurare il corretto esercizio della funzione nomofilattica: a questo punto, Silvio,
resosi conto della immagine non proprio consona offerta qualche istante
prima, assume le tinte dell’incredibile Hulk, l’omone verde dell’infanzia
di più di una generazione.
Il nostro prosegue esponendo che, per vero, con isolata pronuncia risalente al 1996 i giudici di legittimità avevano affermato la parzialità delle obbligazioni dei condomini, argomentando che “l’art. 1123, comma 1,
c.c., in base al quale le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle
parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per
le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, si applica anche nei rapporti esterni”2. Nell’occasione gli ermellini avevano ritenuto che a diversa
soluzione non si sarebbe potuto pervenire né invocando l’applicazione
dell’art. 1115 cod. civ. (rubricato «obbligazioni solidali dei partecipanti»),
che, concernendo la comunione di cose soggette a divisione, non si applicherebbe al condominio negli edifici, fatto – di contro – di beni “virtualmente indivisibili”, né sostenendo la natura meramente interna del disposto dell’art. 1123 cod. civ., atteso che, richiamandosi gli artt. 752 e
1295 cod. civ., secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditari in proporzione alle quote e l’obbligazione di uno dei condebitori in solido tra gli eredi si divide in proporzione alle quote ereditarie,
e rinvenendosi anche nel condominio il collegamento immediato tra le
obbligazioni e le quote, che esprimono l’appartenenza, si può agevolmente
concludere che i condomini, come gli eredi, devono seguire la regola della parzialità. Né, del resto, aveva chiosato all’epoca la Cassazione, la solidarietà appare in linea con la finalità del condominio, in quanto “dalla perdurante comunanza di interessi tra i condomini può inferirsi l’opportunità di vincolare all’esterno tutti i condomini: non di ipotizzare la responsabilità solidale, con
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la possibilità di escussione di taluni e la liberazione degli altri”. Tale ragionamento era stato seguito, del pari in via isolata, per quanto a me noto, da
un giudice di merito partenopeo, per il quale “delle obbligazioni contratte nel
comune interesse del condominio dall’ex amministratore quando questi era in carica, risponde sia il condominio medesimo, legalmente rappresentato dal nuovo amministratore, sia i singoli condomini, ma solo limitatamente alle rispettive quote,
dovendosi ritenere applicabile anche nei rapporti esterni la disposizione dell’art.
1123 c.c.”3.
Tuttavia, sia prima4 che dopo5 la citata decisione della Suprema Corte
– prosegue l’Avvocato Gastone –, i giudici di ultima istanza si sono mostrati di segno contrario, negando la parzialità e issando il vessillo della solidarietà anche con riguardo ai rapporti esterni, in specie alla luce del generale principio, statuito dall’art. 1294 cod. civ., di presunzione di solidarietà tra condebitori, non derogato dal menzionato art. 1123 cod. civ., che
avrebbe la funzione di ripartire gli oneri unicamente nel nido condominiale. Anche la giurisprudenza di merito ha mostrato di aderire a tale ragionamento, sostenendo che “il condominio è un ente di gestione sfornito di
personalità giuridica ed i condomini sono, quindi, responsabili solidalmente per le
obbligazioni contratte nel comune interesse in base all’art. 1294 c.c., pertanto la
sentenza ottenuta contro il condominio costituisce titolo esecutivo nei confronti dei
singoli condomini in via solidale tra loro ancorché non siano indicati nominativamente e non siano stati dichiarati responsabili solidalmente”6; analogamente, “le
obbligazioni contratte verso i terzi dall’amministratore del condominio (o da chi altri sia stato delegato dai condomini a contrarle) per conto del condominio e nei limiti delle sue attribuzioni o eseguendo deliberazioni dell’assemblea, sono direttamente riferibili ai singoli condomini che, in base all’art. 1294 c.c., sono, quindi,
solidalmente responsabili, nei confronti del terzo, dell’adempimento delle predette
obbligazioni, salvo il diritto di chi ha pagato di esercitare verso i condomini condebitori il diritto di regresso e di dividere il debito nei rapporti interni; pertanto, il terzo creditore del condominio può agire per la tutela del suo diritto sia contro l’amministratore o di chi altri abbia contratto l’obbligazione per delega o in rappresentanza dei condomini, sia nei confronti dei singoli condomini, direttamente obbligati nei suoi confronti”7. Di conseguenza, il riparto in relazione al valore della quota opererebbe unicamente nei rapporti interni8.
Gastone si sistema gli occhiali e continua, fingendo di non guardare
Marta, della quale, invece, percepisce ogni movimento, ogni sospiro, ogni
battito.
Di recente, però, la Cassazione, nel supremo consesso9, ha composto
il contrasto, rimarcando che la solidarietà in tema di obbligazioni presuppone non solo una pluralità di debitori e la cd. “eadem causa obbligandi” –
e qui fa una studiata pausa di riflessione (in latino, al liceo, Silvio aveva
sempre primeggiato, mentre l’amico con immane sforzo arrabattava la sufficienza) –, ma anche l’unicità della prestazione, la cd. “eadem res debita”:
ed ecco un nuovo sguardo al sapientone ginnasiale. Ebbene, se l’obbligazione è comune, ma per natura divisibile, e manca una espressa previsione normativa, crolla l’ultimo dei predetti requisiti e “la struttura parziaria
dell’obbligazione prevale”. È quanto accade con riguardo alle “obbligazioni facenti capo ai gruppi organizzati, ma non personificati”, quale il condominio,
laddove l’obbligazione dei singoli compartecipi, vista dal loro angolo di
visuale (è chiaro che, per il creditore, la prestazione è sempre unica), configura proprio una prestazione comune, ma divisibile naturalisticamente.
Ora, in difetto di norme atte a sancire la presunzione di solidarietà, la
Cassazione, sostanzialmente facendo proprie anche le argomentazioni illustrate nella citata pronuncia n. 8530/’96 (agevolata dal Fato, che ha voluto che il Relatore10 fosse lo stesso estensore della decisione resa dodici
anni prima, nonché Presidente della seconda sezione civile della Cassazione),
è pervenuta alla conclusione che le obbligazioni dei condomini possono,
anche all’esterno, essere richieste unicamente pro quota, anche perché
“l’art. 1123, interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui
si inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno”. Ne deriva che il
contratto sottoscritto dall’amministratore vincola i rappresentati, avendo
immediatamente effetto nei loro confronti e il terzo può legittimamente
agire in via esecutiva contro i singoli condomini anche se il titolo è stato
ottenuto unicamente nei confronti del loro rappresentante, purché ciò avvenga secondo la quota di ciascuno: tale soluzione appare, a detta della
Corte, “adeguata alle esigenze di giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici”.
Silvio, fino ad allora silente, guarda il compagno d’infanzia e, con il
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tono di chi si sente come il gatto che giuoca con il topo, pensa di fare un
solo boccone di Gastone, sventolando un titolo che fa rabbrividire Marta:
“In condominio ritorna la solidarietà passiva”11. Il riferimento è ad una
sentenza12 resa dalla II sezione civile della Cassazione meno di due mesi
dopo la pronuncia a sezioni unite, che avrebbe riesumato la salma, appena sepolta, della solidarietà passiva. Tutto come prima, dunque.
Silvio, che si era per un attimo alzato, si risiede, un po’ come fa di solito quando pronuncia le sentenze. “Passiamo alla questione posta al successivo punto all’ordine del giorno”, pontifica.
Gastone, nel silenzio dell’adunanza, fa muovere qualcosa nell’aere: è
la nota13 con la quale – qualche giorno dopo la disavventura mediatica –
la Cassazione ha inteso chiarire che non vi è alcun contrasto tra le due
sentenze, atteso che con la seconda è stato stabilito che tra comproprietari di un appartamento sito in un condominio vi è solidarietà nel pagamento dei contributi condominiali; nulla a che vedere, pertanto, con il
carattere parziale dell’obbligazione che ciascun condomino (per tale intendendosi anche tutti i comproprietari di un singolo appartamento) ha
nei confronti di un terzo.
Amico di dieci minuti di svago, sai bene l’effetto che fa ad un naufrago la vista del soccorritore: più o meno questa è stata la sensazione avvertita da Marta a registro condominiale riposto.
È trascorsa qualche settimana da quell’incontro e i soliti bene informati raccontano che Gastone e Marta fanno coppia fissa. Sarà che lui è
stanco di ingurgitare surgelati sfornati dal microonde, di litigare con le
istruzioni della lavatrice, di ricordarsi che la camicia si stira sempre partendo dal colletto; sarà che lei ha mandato a memoria Steve Nakamoto,
autore de “Gli uomini sono pesci. Manuale di pesca per ragazze sveglie”,
che non ne può più del “boyfriend arm pillow”14, che non sopporta di cucinare leccornie solo per il gatto. Fatto sta che – per la privacy non lo dite in giro – entrambi hanno messo in cantina un testo che fino a prima
della fatidica riunione condominiale era il loro Vangelo: “Single & Single.
Come vivere da soli ed essere felici”15. Se son rose……
NOTE
1) V. il quotidiano Il Giornale del 12 luglio 2008, pag. 17.
2) Cass., sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530, in Foro it., 1997, I, c. 872 ss., con nota critica di Colonna, Sulla natura delle obbligazioni del condominio. V., pure in linea critica, Triola
R., Osservazioni in tema di spese condominiali, in Giust. civ., 1997, 3, p. 699 ss.
3) Pret. Napoli, 05 maggio 1998, in Arch. locaz., 1998, p. 894.
4) Cass., sez. II, sez. II, 10 maggio 1956, n. 3897; idem, 11 novembre 1971, n. 3235, in
Foro it., 1972, I, c. 2574; idem, sez. lav., 18 dicembre 1978, n. 6073, in Prev. soc., 1979, p.
641; idem, sez. II, 05 aprile 1982, n. 2085, in Giur. it., 1983, I, 1, c. 989, idem, sez. II, 17 aprile 1993, n. 4558, in Vita not., 1993, p. 1381.
5) Cass., sez. II, 23 febbraio 1999, n. 1510, in Riv. giur. edil., 1999, I, p. 952; idem, sez.
II, 30 luglio 2004, n. 14593, in Riv. giur. edil., 2005, 1, I, p. 114; idem, sez. II, 31 agosto 2005,
n. 17563, in Giust. civ., Mass., 2005, p. 6; idem, sez. II, 31 agosto 2005, n. 17562, in D. & G.Dir. e giust., 2005, fasc. 40, p. 58; idem, sez. II, 31 agosto 2005, n. 17563, in Giust. civ. Mass.,
2005, p. 6.
6) Trib. Roma, 01 marzo 2005, in Giur. merito, 2005, fasc. 7/8, p. 1547.
7) App. Milano, 18 settembre 2002, in Giur. milanese, 2003, p. 124.
8) Pret. Napoli, 07 giugno 1999, in Giur. napoletana, 2000, p. 123.
9) Cass., sez. un., 08 aprile 2008, n. 9148, in Guida dir., 2008, n. 17, pag. 38 ss., con nota
adesiva di Castro S., La natura parziaria dell’obbligazione è più aderente a esigenze di giustizia,
ivi, p. 43 ss.; per ulteriori commenti v., del pari adesivamente, Di Majo A., Solidarietà o parziarietà nelle obbligazioni condominiali: l’eterno ritorno, in Corr. giur., 2008, p. 777 ss. e, criticamente, Izzo N., L’attuazione parziaria delle obbligazioni condominiali: una restaurazione ottocentesca del favor debitoris?, ivi, p. 780 ss.
10) Va evidenziato che il Presidente Corona aveva manifestato anche altrove il proprio orientamento: v. Corona R., Proprietà e maggioranza nel condominio negli edifici, Torino, 2001,
passim.
11) Izzo N., In condominio ritorna la solidarietà passiva, in Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2008,
p. 35.
12) Cass., sez. II, 04 giugno 2008, n. 14813, consultabile su vari siti internet.
13) V. Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2008, p. 37.
14) A seguito di un attento studio ho appreso che trattasi di un cuscino che sostituisce il
braccio del fidanzato: costo, venti dollari. Ogni commento, per chi mi conosce, sarebbe fuori
luogo.
15) Carollo S., Single & Single. Come vivere da soli ed essere felici, Firenze, 2008.
Avv. Leopoldo Papa
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Cassazione civile - Sezione Lavoro
18 marzo 2008 n. 7295
Presidente: CICIRETTI – Relatore: MONACI
Svolgimento del processo
Il signor A. D. ha convenuto in giudizio la società Diageo Operations
Italy s.p.a., alle cui dipendenze aveva lavorato dal 1985 al 2002, per impugnare il licenziamento per giusta causa irrogatogli il 5 novembre 2002,
con le conseguenze reintegratone e risarcitone.
Esponeva che prima del licenziamento gli erano state contestate una
serie di irregolarità relative, tra l’altro, a spese effettuate con la carta di credito aziendale, cui erano seguiti due provvedimenti disciplinari conservativi, impugnati davanti ad un collegio arbitrale, che aveva ridotto la sanzione irrogata con il primo e confermato il secondo.
Successivamente gli erano state contestate altre irregolarità relative ad
acquisti di carburante, e a seguito di queste ultime era stato intimato il licenziamento per giusta causa. Premesso questo, il D. impugnava i lodi arbitrali, per mancanza di motivazione ed il licenziamento per mancanza di
giusta causa e per violazione del criterio della proporzionalità, genericità
ed intempestività della contestazione. Il primo giudice respingeva l’impugnazione dei lodi arbitrali; concludeva, invece, per l’illegittimità del licenziamento, contenendo in cinque mensilità l’indennità risarcitoria. Con
sentenza n. 784/04, in data 19 maggio / primo giugno 2004, la Corte
d’appello di Torino andava parzialmente in contrario avviso.
Riteneva, infatti, che il datore di lavoro fosse decaduto dal potere disciplinare e, di conseguenza, in accoglimento dell’appello incidentale del D., dichiarava l’illegittimità del licenziamento che gli era stato intimato, e condannava la società a corrispondergli una indennità commisurata alle retribuzione globale di fatto maturate a partire dal licenziamento, con gli accessori.
Riteneva, invece, che non dovesse essere esaminata l’impugnazione
principale della Diageo.
Avverso la sentenza di appello, che non risulta notificata, la società
Diageo Operations Italy s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, con tre
motivi di impugnazione, notificata, in termine, il 6 maggio 2005.
Resiste l’intimato D. con controricorso, notificato, in termine, il 14
giugno 2005.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di impugnazione la società ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Secondo il ricorrente sussisteva una netta differenza, due situazioni distinte, quella a monte e quella a valle della contestazione disciplinare.
Nella prima il dipendente si trovava in una situazione di incertezza
sull’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, e perciò
era giustificata una particolare tutela del dipendente a protezione sia della certezza dei rapporti giuridici, sia del diritto di difesa del lavoratore, e
di conseguenza che potesse operare una decadenza convenzionale.
Nella seconda, invece, questi interessi erano venuti meno.
Il datore di lavoro aveva già fatto la sua scelta.
Il ragionamento della sentenza in proposito non poteva considerarsi
completo e coerente.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la società denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e seguenti c.c., in relazione
all’art. 68 del Ccnl delle industrie alimentari del primo giugno 1999, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia.
Critica l’interpretazione data a questa normativa dalla Corte d’appello secondo cui la norma contrattuale collettiva, nel disporre che i provvedimenti disciplinari dovessero essere irrogati entro trenta giorni dal ricevimento delle giustificazioni, prevedesse un termine perentorio.
Il testo, invece, non assegnava alcuna conseguenza all’inosservanza del
termine.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia.
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Da un lato la Corte d’appello aveva affermato che l’esito delle due procedure arbitrali anteriori alla contestazione cui si riferisce questa controversia poteva rilevare ai fini della recidiva e, dall’altro lato, invece, che il
datore di lavoro avrebbe errato nell’attendere l’esito delle procedure arbitrali. Il giudice non aveva tenuto conto delle circostanze in cui si trovava
il datore di lavoro al tempo dell’esercizio del diritto, vale a dire in presenza di un giudizio arbitrale pendente, il cui esito sarebbe stato decisivo per
determinare la sanzione da applicare al dipendente per una nuova infrazione commessa successivamente.
4. Il ricorso non è fondato.
E’ infondato, innanzi tutto il primo motivo.
Le considerazioni svolte dalla ricorrente sono generiche e non risolutive.
Se è vero che prima della contestazione disciplinare è giustificata una particolare tutela del lavoratore, e perciò la possibile
esistenza di termini perentori per l’inizio dell’azione disciplinare, anche dopo la contestazione, e la presentazione da parte del
dipendente delle proprie giustificazioni, una simile tutela, e perciò, ancora una volta, l’esistenza di termini perentori, può essere ugualmente giustificata perché, dopo un certo termine, il predetto potrebbe ritenere le sue giustificazioni accettate e l’azione
disciplinare non proseguita.
La materia, in realtà, è regolata dai contratti collettivi di lavoro, che sono contratti di diritto privato stipulati dalle parti collettive: spetta a loro stabilire, nella mediazione delle diverse posizioni e dei contrapposti interessi, se debbano esserci, o meno,
dei termini per l’inizio, la prosecuzione e la definizione dell’azione disciplinare, e quali.
5. Il secondo motivo è parzialmente inammissibile, e comunque infondato.
E’ parzialmente inammissibile là dove denunzia la violazione e la falsa applicazione di norme contrattuali collettive Il ricorso è stato proposto
contro una sentenza depositata nel giugno del 2004, e perciò non è applicabile la nuova formulazione del numero 3 dell’art. 360 c.p.c, introdotta
dall’art. 2 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, che estende l’am-
bito della ricorribilità per cassazione alla violazione o falsa applicazione
dei contratti collettivi nazionali di lavoro, ma si applica soltanto ai ricorsi
proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti depositati dopo l’entrata in vigore del decreto medesimo.
L’interpretazione dei contratti collettivi è riservata al giudice
del merito, e perciò non può essere oggetto di ulteriore esame
in questa fase di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di
motivazione e/o della violazione delle regole ermeneutiche.
Il motivo, in ogni caso, è anche infondato.
Non sussiste vizio di motivazione, perché quella della Corte d’appello di Torino appare adeguata.
La sentenza riporta il termine (di trenta giorni dal momento in cui
sono pervenute le giustificazioni del lavoratore) indicato dalla norma contrattuale, e ne fornisce una interpretazione logica.
In realtà il punto contestato dalla società Diageo è il carattere perentorio del termine.
Per la verità la Corte d’appello lo considera presupposto una volta che
il termine era indicato, ma questo non significa che fosse tenuta, a motivare più ampiamente.
La ricorrente contesta questa interpretazione, ma la sua critica non è
convincente, se non altro perché non indica una spiegazione alternativa
dell’inserimento del termine all’interno del testo contrattuale.
La ricorrente non contesta che nel testo fosse contenuto il termine,
ma sostiene che non era previsto alcun tipo di conseguenza in caso di inosservanza di esso.
In realtà in qualsiasi scritto, e tanto più in un testo destinato
ad assumere valore legale, come quello in questione che è parte
di un contratto collettivo nazionale di lavoro, fino a prova contraria ogni singola locuzione ha un suo specifico significato.
L’indicazione di un termine per il compimento di un’attività
giuridicamente rilevante non rientra tra le cosiddette clausole di
stile, e neanche la ricorrente lo afferma.
Perciò deve avere, nel contesto di riferimento, una qualche
conseguenza.
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Nel caso di specie, nell’ambito di quel contesto, non appaiono ipotizzabili conseguenze diverse da quello dell’obbligo di procedere a quella specifica attività entro il termine di esso, e della
decadenza da tale potestà se l’attività non viene posta in essere
entro il termine.
Né la stessa ricorrente indica conseguenze alternative possibili.
Risulta dimostrata così, a contrario, la perentorietà del termine, e con riferimento specifico al motivo d’impugnazione, l’infondatezza dell’argomentazione della ricorrente.
6. Il terzo motivo è anch’esso infondato.
Può essere vero che la datrice di lavoro avesse un certo interesse pratico alla definizione in sede arbitrale delle precedenti contestazioni disciplinari per addebiti del medesimo genere prima di procedere all’irrogazione della sanzione per l’episodio che ha dato origine al licenziamento,
ma è un dato di fatto - non contestato dalla ricorrente stessa che non allega il contrario - che il contratto collettivo non prevedeva la sospensione del procedimento disciplinare in ipotesi di questo genere.
Questo significa, inevitabilmente, che quell’interesse specifico non era
tutelato.
D’altra parte la pendenza dei giudizi arbitrali per i fatti precedenti non
impediva l’irrogazione delle sanzioni,licenziamento compreso, per i fatti
successivi.
In particolare la ricorrente non allega che il licenziamento potesse essere irrogato soltanto in caso di recidiva.
D’altra parte, fino a quando non fossero state annullate da un collegio
arbitrale (oppure da un giudice ordinario), le precedenti sanzioni rimanevano in essere.
Perciò la datrice di lavoro avrebbe potuto tenerne conto come precedenti ai fini della recidiva nell’adozione del nuovo provvedimento disciplinare, salvo essere tenuta a ridurre l’entità della sanzione in caso di mancata conferma di quelle precedenti, oppure prevedere fin dall’inizio quale sarebbe stata la riduzione nel caso di mancata conferma dei precedenti, oppure non menzionarli affatto.
In sostanza l’esercizio del potere disciplinare per il fatto successivo po-
teva incontrare modeste difficoltà pratiche, ma non era impedito, né reso
eccessivamente difficile.
7. In conclusione dunque il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Nel corso del giudizio sono succedute decisioni di contenuto opposto: quest’alternanza di valutazioni è indice delle oggettive difficoltà delle
questioni trattate, e costituisce perciò giustificato motivo per la compensazione delle spese.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa le spese.
UMBERTO GIANTOMASI
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Attualità
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Corte di Cassazione - Sezione Lavoro
18 marzo 2008 n. 7295
E’ illegittimo il licenziamento disciplinare irrogato dopo la scadenza del termine finale previsto dal contratto collettivo: lo stabilisce la corte di cassazione con sentenza n. 7295 del 18 marzo 2008
A seguito di ripetuti interventi della Corte Costituzionale e della Corte
di Cassazione è stato enucleato l’istituto del licenziamento ontologicamente disciplinare, che si configura come la più grave delle sanzioni disciplinari irrogabile al lavoratore nel caso di un notevole e colpevole inadempimento degli obblighi contrattuali di obbedienza, diligenza e fedeltà
– anche se non previsti come illeciti disciplinari dalla contrattazione collettiva – rinvenendo la sua fonte legittimante nella giusta causa (lavorativa) o nel giustificato motivo soggettivo. Si è sostenuto, infatti, che “il carattere disciplinare del licenziamento è tutt’altro che incompatibile con la sussistenza della giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., atteso che – per consolidata giurisprudenza – ha natura ontologicamente disciplinare il licenziamento intimato per mancanze del dipendente, integrino esse giusta causa o giustificato motivo soggettivo”1.
Ogni licenziamento riconducibile a inadempienze del lavoratore rientra, dunque, nell’ampia nozione di licenziamento “ontologicamente” disciplinare e, come tale, è soggetto alla disciplina procedurale dettata dall’art.
7 L. n. 300/1970 (cd. Statuto dei lavoratori). Tale norma statutaria indica le garanzie procedimentali alle quali è subordinata l’irrogazione delle
sanzioni disciplinari, che sono: la predeterminazione del codice disciplinare, che contempli le infrazioni e le correlative sanzioni, nonché la pubblicità dello stesso, che deve essere “portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile a tutti”2; la preventiva e specifica contestazione dell’addebito al lavoratore3; il diritto di difesa del dipendente
incolpato, al quale deve essere concesso un termine non inferiore a cinque giorni dalla contestazione scritta dell’addebito per fornire elementi a
propria difesa4. L’inosservanza delle garanzie de quibus determina l’ille-
gittimità del licenziamento, in quanto ingiustificato, con conseguente applicabilità del regime di tutela reale o obbligatoria, a seconda del requisito dimensionale del datore di lavoro.
Un’ulteriore ed imprescindibile garanzia procedimentale viene individuata dalla giurisprudenza di legittimità nel principio di immediatezza e
tempestività che deve connotare sia la contestazione dell’addebito che l’irrogazione della sanzione disciplinare5, costituendo entrambe esplicazione
del generale principio di conformarsi alla buona fede e alla correttezza
nell’attuazione del rapporto di lavoro6. L’esplicitazione dei comportamenti irregolari contestati e la successiva comunicazione del provvedimento
sanzionatorio adottato, infatti, devono verificarsi in stretta connessione
temporale, rispettivamente, con l’avvenimento disciplinarmente rilevante
e con la formulazione delle giustificazioni7: ciò al fine di salvaguardare l’interesse del dipendente a conoscere la determinazione datoriale, onde evitare l’innaturale situazione di incertezza e soggezione all’esercizio del potere disciplinare.
L’art. 7 della legge n. 300/1970 non contempla affatto un termine per
la conclusione del procedimento disciplinare, prevedendo al quinto comma soltanto un termine minimo, di cinque giorni, a partire dalla contestazione dell’addebito, prima del quale la sanzione non può essere adottata, di guisa che la valutazione della legittimità del licenziamento viene attuata facendo riferimento ai principi dell’immediatezza e della tempestività secondo i canoni di buona fede e correttezza connessi all’attuazione
del rapporto lavorativo.
Ancorché non sia previsto ex lege un termine entro il quale debba esaurirsi il procedimento disciplinare, la durata di quest’ultimo non può comunque superare i limiti di congruità rispetto al fatto da accertare e alle
giustificazioni da verificare. Tanto si desume dalla giurisprudenza di legittimità – che richiede che l’irrogazione della sanzione abbia il carattere della tempestività (o dell’immediatezza) rispetto al fatto contestato – ed è coerente con il canone costituzionale del ‘giusto procedimento’, giacché l’eccessivo protrarsi della durata del procedimento disciplinare, oltre ad avere
di per sé un carattere indirettamente afflittivo (non altrimenti censurabile), ridonderebbe in violazione del diritto di difesa del lavoratore8. Soltanto
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con riguardo ad infrazioni penalmente rilevanti non è configurabile la violazione del principio d’immediatezza tra contestazione e provvedimento
disciplinare, ancorché quest’ultimo sia intervenuto dopo un lungo intervallo temporale rispetto alla condotta addebitata al dipendente – per esempio, a seguito di emissione di un’ordinanza di rinvio a giudizio da parte
del giudice penale che implichi un accertamento in ordine alla sussistenza di sufficienti prove a carico dell’imputato – dovendo in tal caso il principio dell’immediatezza essere coordinato con l’esigenza di attendere l’esito del procedimento penale9.
Al canone della tempestività e dell’immediatezza si sostituisce talora
un criterio temporale molto più preciso, in quanto la contrattazione collettiva – che può prescrivere garanzie ulteriori e maggiori di quelle contemplate dall’art. 7 St. lav. – può fissare un termine massimo entro il quale, dopo l’instaurazione del contraddittorio, la sanzione deve essere applicata, dovendosi attribuire all’inerzia del datore di lavoro il significato di accoglimento delle giustificazioni fornite dal dipendente, salvo che l’impossibilità di rispettare il termine sia dovuta alla particolare complessità e durata degli accertamenti tesi a verificare le circostanze addotte dall’incolpato a propria difesa, nel qual caso il datore ha comunque l’onere di avvisare delle ragioni del ritardo il lavoratore prima della scadenza del termine10.
Inoltre, la contrattazione collettiva (o addirittura il regolamento aziendale) può accentuare ulteriormente le garanzie di difesa del lavoratore apprestate dall’art. 7 comma 5 St. lav., accelerando il procedimento disciplinare attraverso la previsione di termini endoprocedimentali11.
Nel caso di previsione contrattuale di un dies ad quem per l’irrogazione
del licenziamento disciplinare12, il datore di lavoro è tenuto a comunicare al
dipendente incolpato il provvedimento adottato nei suoi confronti entro tale termine13, fatta salva la facoltà di proroga di quest’ultimo, se contrattualmente prevista14. E’ la stessa disciplina collettiva, peraltro, a definire gli effetti della mancata irrogazione della sanzione disciplinare nel periodo di tempo da essa stabilito a tal fine, effetti che si sostanziano nella preclusione irrimediabile all’adozione del provvedimento non tempestivamente applicato;
di conseguenza, deve ritenersi illegittimo il licenziamento disciplinare comunicato al dipendente dopo la scadenza del termine contrattuale15.
La Suprema Corte non ha fatto altro che avallare un orientamento che
si era già affermato negli anni ‘90 soprattutto nella giurisprudenza di merito, che sosteneva la legittimità della previsione contrattuale di un termine finale per la comminazione del licenziamento disciplinare, attribuendo
carattere decadenziale a tale termine16, entro il quale, secondo il suddetto
indirizzo, il provvedimento doveva essere non solo adottato, ma altresì ricevuto dal lavoratore, con la conseguenza che il ricevimento da parte del
destinatario oltre la scadenza contrattualmente prefissata rendeva illegittimo il licenziamento17.
Sennonché proprio recentemente è ritornato in auge il principio secondo cui il superamento del termine contrattuale preclude l’adozione del
provvedimento disciplinare, con conseguente illegittimità del licenziamento
intimato oltre la scadenza del predetto termine18, facendo sorgere il legittimo sospetto di un abuso di quella posizione di supremazia che il legislatore ha sì inteso riconoscere al datore di lavoro, ma nel rispetto dei rigorosissimi limiti fissati dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
D’altra parte la Corte di Cassazione, in ordine alla natura dei termini
del procedimento disciplinare nel pubblico impiego, con la sentenza n.
10668 del 10 maggio 2007 ha riconosciuto il carattere della perentorietà al
solo termine stabilito dalla contrattazione collettiva per l’adozione del provvedimento finale. Ciò in base all’assunto che “nell’assetto privatistico–contrattualistico del rapporto d’impiego dei dipendenti da pubbliche amministrazioni
la natura dei termini contrattualmente previsti per lo svolgimento del procedimento
disciplinare deve essere definita con riguardo allo scopo che essi perseguono, nella
prospettiva di un’inderogabile garanzia di sollecita conclusione, con la conseguenza
che il carattere della perentorietà non è generalmente rinvenibile in tutti i termini
volti a cadenzarne l’andamento (quali quello per la segnalazione dell’ufficio, per la
contestazione degli addebiti e la relativa comunicazione all’interessato), ma deve
essere riconosciuto solo a quello stabilito per l’adozione del provvedimento finale”19.
Per quel che concerne la giurisprudenza di merito, si annovera l’ordinanza del 12 febbraio 2007 con la quale il Tribunale di Trani, in sede di
reclamo, riformando l’ordinanza emessa dal giudice della cautela, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare adottato oltre il termine decadenziale previsto dal contratto collettivo di settore20.
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Nel caso di specie O.A., dipendente della Congregazione Ancelle della Divina Provvidenza in qualità di capo sala addetto all’Area dei Disabili
geriatrici era attinto da provvedimento di licenziamento in data 2 ottobre
2006 a seguito di contestazione disciplinare dell’11 agosto 2006 per “grave violazione dell’obbligo di assistenza e vigilanza nei confronti di un paziente”, concretatosi nell’avere omesso di impartire al personale a lui sottoposto specifiche direttive in ordine all’attività di sorveglianza e di ricerca di un paziente che, allontanatosi dalla struttura, era stato poi rinvenuto cadavere. Orbene, nell’impugnare il provvedimento espulsivo, O.A. rilevava, tra l’altro, l’irrogazione del licenziamento disciplinare dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 41 del CCNL Sanità privata 7 dicembre
2004, il quale stabiliva che la contestazione disciplinare dovesse essere inviata al lavoratore non oltre il termine di 30 giorni dal momento in cui
gli Organi direttivi sanitari ed amministrativi avessero avuto conoscenza
effettiva della mancanza commessa. Nella fattispecie in esame la scomparsa del paziente risaliva al 23 luglio 2006, il ritrovamento del cadavere al 2
agosto 2006; con nota del 3 agosto 2006 il Direttore Sanitario dell’Ente
chiedeva al capo sala di riferire per iscritto sulle modalità organizzative delle ricerche, e questi rispondeva con nota dell’8 agosto 2006. Seguiva la
contestazione disciplinare in data 11 agosto 2006 e, infine il licenziamento in data 2 ottobre 2006, ossia dopo la scadenza prefissata dalla contrattazione collettiva di categoria.
Orbene, con la predetta ordinanza il Tribunale di Trani, sezione lavoro, in composizione collegiale, si è soffermato sulla necessità di rispetto
dei termini previsti dalla contrattazione collettiva per l’applicazione della
sanzione disciplinare, osservando come ciò scaturisca dalla evidente ratio
di dover dare un contenuto oggettivo al principio dell’immediatezza, evitando che l’irrogazione di una sanzione disciplinare sia affidata, per i tempi, alla mera discrezionalità datoriale.
A suffragare tale orientamento è intervenuta, da ultimo, la Corte di
cassazione la quale, con la sentenza n. 7295 del 18 marzo 2008 ha
stabilito che anche dopo la contestazione e la presentazione delle giustificazioni da parte del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare lo
stesso è ancora tutelato e risulta, dunque, giustificata l’esistenza di termi-
ni perentori nel senso che, passata una certa scadenza, il dipendente potrebbe considerare come accettate le sue giustificazioni ed archiviata l’azione disciplinare. L’indicazione in una norma di un contratto collettivo di
un termine entro cui il datore deve adottare il provvedimento disciplinare nei confronti del dipendente (ad esempio, entro trenta giorni dal ricevimento delle giustificazioni) comporta che l’inosservanza di tale termine
provochi la decadenza dal potere di irrogare le sanzioni.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte Alberto
Destefanis, dipendente della s.p.a. Diageo Operations Italy, dopo avere ricevuto due sanzioni disciplinari per l’addebito di uso non corretto della
carta di credito aziendale, era stato nuovamente sottoposto a procedimento disciplinare, per asserite irregolarità relative ad acquisti di carburante. Il
dipendente incolpato aveva presentato le sue giustificazioni e l’azienda
l’aveva licenziato senza però rispettare il termine stabilito dall’art. 68 del
CCNL per le industrie alimentari del 1° giugno 1999, secondo cui i provvedimenti disciplinari devono essere irrogati entra trenta giorni dal ricevimento delle giustificazioni. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento sostenendo, tra l’altro, che esso doveva ritenersi illegittimo per violazione del contratto collettivo, in quanto l’azienda aveva lasciato trascorrere, prima di comunicarlo, più di 30 giorni dal momento in cui aveva ricevuto le giustificazioni.
Sia il Tribunale che la Corte di appello di Torino avevano ritenuto illegittimo il licenziamento. L’azienda proponeva, pertanto, ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di appello di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge e rilevando, tra l’altro, che il contratto collettivo non attribuiva alcuna conseguenza all’inosservanza del termine finale previsto dall’art. 68 del contratto collettivo di categoria. La
Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, postulando che “se è vero
che prima della contestazione disciplinare è giustificata una particolare tutela del lavoratore e, perciò, la possibile esistenza di termini perentori per l’inizio dell’azione disciplinare, anche dopo la contestazione e la presentazione, da parte del dipendente, delle proprie giustificazioni, una simile tutela e, perciò, l’esistenza di termini perentori, può essere ugualmente giustificata perché, dopo un certo termine, il
predetto potrebbe ritenere le sue giustificazioni accettate e l’azione disciplinare non
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proseguita”21. D’altra parte, “la materia è regolata dai contratti collettivi di lavoro”, ai quali “spetta stabilire, nella mediazione delle diverse posizioni e dei contrapposti interessi, se debbano esserci, o meno, dei termini per l’inizio, la prosecuzione e la definizione dell’azione disciplinare, e quali”. Ne consegue il carattere perentorio dei termini de quibus, anche allorquando la contrattazione
collettiva non preveda alcun tipo di conseguenza per l’ipotesi di inosservanza degli stessi. Ciò in quanto “l’indicazione di un termine per il compimento di un’attività giuridicamente rilevante non rientra tra le cosiddette clausole
di stile” e perciò deve avere, soprattutto in un testo “destinato ad assumere
valore legale” – qual’è quello di una disposizione contenuta in un contratto collettivo – “una qualche conseguenza”.
L’interpretazione dei contratti collettivi, peraltro, è riservata al giudice del merito, e perciò non può essere oggetto di ulteriore esame in Corte
di Cassazione, dove si giudica sulla legittimità.
In particolare, nel testo contrattuale sottoposto al vaglio del Supremo
Collegio, “non appaiono ipotizzabili conseguenze diverse da quella dell’obbligo
di procedere a quella specifica attività entro il termine stabilito, e della decadenza
da tale potestà se l’attività non viene posta in essere entro il termine”, risultando, così, dimostrata la perentorietà dello stesso. La particolare tutela del
lavoratore, dunque, si sostanzia nell’obbligo da parte del datore di osservare il termine perentorio, atteso che dopo il decorso di quest’ultimo il
dipendente incolpato ben può ritenere che le sue giustificazioni siano state accettate, con conseguente archiviazione dell’azione disciplinare.
L’inosservanza del termine finale previsto da una norma contrattuale,
pertanto, determina inesorabilmente la decadenza dal potere datoriale di
irrogare il provvedimento disciplinare.
Avv. Stefania Angelone
NOTE
1) Cass. civ. sez. lav., 19 giugno 1998 n. 6135
2) Art. 7 comma 1 St. lav.: “Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti collettivi di lavoro ove esistano”.
3) Art. 7 comma 2 St. lav.: “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare
nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua
difesa”.
4) Art. 7 comma 5 St. lav.: “In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del
fatto che vi ha dato causa”.
5) Cass. 23 aprile 2004 n. 7724, Cass 29 marzo 2004 n. 6228 e Cass. 4 marzo 2004 n. 4435,
in Dir. e prat. Lav. 2004, 1978; Cass. 29 settembre 2003 n. 14507, Cass. 20 agosto 2003 n. 12261,
Cass. 10 gennaio 2003 n. 237 e Cass. 28 settembre 2002 n. 14074 in Riv. it. dir. lav. 2003, 394;
Cass. 8 gennaio 2001 n. 150 in Lavoro e prev. oggi 2001, 596.
6) Ex plurimis, Cass. civ. sez. lav., 23 febbraio 2006 n. 4034 in D&L 2006, 492.
7) Cass. civ. sez. lav., 6 dicembre 2005 n. 26670 in Lav. nella giur. 2006, 601.
8) G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, Il diritto del lavoro, vol. 2, GIUFFRE’, 2006, pg. 185.
9) In tal senso, Cass. civ. sez. lav., 18 luglio 1990 n. 7343, in NGL, 1990, 691; Cass. civ. sez.
lav., 4 febbraio 1992 n. 1165, in NGL, 1992, 534.
10) In tal senso, Cass. civ. sez. lav., 20 maggio 2004 n. 9647, in Mass. Giur. Lav., 2004, 622,
secondo cui “la valutazione a norma dell’art. 2965 c.c. circa la congruità del termine di decadenza previsto contrattualmente, di competenza del giudice del merito, deve avere riguardo alla brevità dello specifico
termine e alla particolare situazione del soggetto obbligato a svolgere l’attività prevista per evitare la decadenza (in senso conforme Cass. civ. sez. lav., n. 9202/2003).
11) Vedasi Cass. civ. sez. lav., 20 novembre 2001 n. 14602, con riferimento al regolamento
del Banco di Napoli.
12) Cass. 5 agosto 2003 n. 11833, in Riv. it. dir. lav. 2004, II, 132 con nota di Marra; Cass.
27 marzo 2003 n. 4672, in NGL 2003, 545; Cass. 7 settembre 2000 n. 11806, in Foro it. 2000,
3472; Cass. 8 aprile 1998 n. 3608, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 364; Cass. 22 marzo 1995, in
RCDL 1995, 1047; Cass. 9 dicembre 1994 n. 10547, nonché Cass. 21 marzo 1994 n. 2663
13) Cass. 5 agosto 2003 n. 11833, in Mass. Giur. Lav. 2004, 21; Corte App. Milano, 28 dicembre 2004; Trib. Catanzaro, 4 ottobre 2002.
14) L’art. 219 del vigente CCNL Commercio, per esempio, stabilisce che l’adozione del
provvedimento disciplinare (ivi compreso il licenziamento) deve essere comunicata con lettera
raccomandata nel termine di 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore per la
presentazione delle controdeduzioni, con facoltà di proroga di 30 giorni per “esigenze dovute a
difficoltà nella fase di valutazione delle controdeduzioni e di decisione nel merito”, a condizione che
l’azienda ne dia comunicazione scritta al lavoratore anteriormente alla scadenza dei suddetti 15
giorni.
15) In tal senso, Trib. Milano 19 luglio 2000, in D&L 2000, 1011; è stato sostenuto, altresì,
che il licenziamento disciplinare irrogato dopo il termine finale previsto dalla contrattazione collettiva è illegittimo, a prescindere dall’avvenuta presentazione di giustificazioni da parte del dipendente (Corte App. Milano, 1° settembre 2001, RCDL, 2001, 1095; Trib. Milano 23 luglio 2002,
in Lav. nella giur., 2003, 493).
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16) In tal senso, relativamente alla previsione dell’art. 23 del CCNL per gli addetti alle aziende metalmeccaniche private, Pret. Napoli, sez. Afragola, 27 aprile 1995, in D&L 1996, 228, nonché Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 16 gennaio 1996, in D&L 1996, 761 e Pret. Monza, 25 luglio 1995, in D&L 1996, 160; in senso conforme, ma in relazione all’art. 56 CCNL Gomma e
plastica, Pret. Monza 24 ottobre 1995, in D&L 1996, 228; in senso sempre conforme, Cass. 22
marzo 1995 n. 5642, in D&L 1995, 1047. Peraltro, l’art. 52 del CCNL Industria chimica e farmaceutica, in virtù del quale i provvedimenti disciplinari, tra cui il licenziamento, dovevano essere emanati non prima del decorso di 5 giorni dalla contestazione ed entro i 5 giorni successivi, poneva a carico del datore di lavoro l’onere di adottare entro tale termine il provvedimento disciplinare (Trib. Milano, 3 novembre 1999, in D&L 2000, 215).
17) Trib. Milano 29 ottobre 1999, in D&L 2000, 214.
18) Tra la giurisprudenza di merito in materia, si annovera Trib. Bari, sentenza del 30 settembre 2003. Nella fattispecie sottoposta al vaglio del Giudice del Lavoro di Bari, un dipendente
dell’IPRES chiedeva la declaratoria di nullità e/o illegittimità del licenziamento comminatogli
in quanto discriminatorio e comunque adottato in violazione del termine finale previsto per l’irrogazione del provvedimento dall’art. 153 del ccnl di categoria, secondo cui “l’eventuale adozione del provvedimento disciplinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata entro 15
gg dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni”. Lo stesso deduceva in ricorso che gli era stato mosso un addebito con lettera del 20/12/2000, alla quale egli aveva risposto con missiva ricevuta dalla società datoriale il 5/1/2001 e che il licenziamento gli era stato comminato il 29/1/2001, vale a dire dopo il termine di 15 giorni di cui
all’art. 153 del ccnl di categoria. Orbene, il Giudice del Lavoro di Bari, con sentenza del 30 settembre 2003 riteneva fondata la domanda sotto questo profilo, motivando che “il provvedimento disciplinare, in difformità da quanto previsto dall’art. 153 CCNL, è stato irrogato dopo il termine di
15 gg previsto dalla norma”, atteso peraltro che “l’Istituto non si è avvalso della facoltà di prorogare detto termine fino a 30 gg, così come previsto dal secondo comma dell’art. 153 nei casi di difficoltà nella fase
di valutazione e di decisione nel merito”.
19) Cass. civ. sez. lav., 10 maggio 2007 n. 10668, in www.studiolegalelaw.it.
20) Tribunale di Trani, Sez. Lav. in Camera di Consiglio, 12 febbraio 2007, Pres. Di Trani, Rel.
Notte Chitone, O.A. c/ Congregazione Ancelle della Divina Provvidenza, con commento di
Marcello Paduanelli, in Lav. nella giur., 2007, 1005 e ss.
21) Cass. sez. lav., sentenza n. 7295 del 18 marzo 2008, Pres. Ciciretti, Rel. Monaci, PM
Sepe, in www.consulenzalavoro.com.
Cassazione Penale - Sez. III
9 ottobre 2007 - 17 gennaio 2008 n. 2475
Presidente: LUPO – Estensore: FIALE
Industrie – stretta tollerabilità – molestie olfattive – sussistenza
E’ configurabile il reato di molestie, nella specie olfattive, con riferimento all’industria che causa immissioni oltre la stretta tollerabilità. (1) (2) (3)
(1) In materia di molestie, relativamente al pedinamento della ex, si
veda Cassazione penale 2113/2008.
(2) In materia di molestie, realizzate attraverso telefonate mute, si veda Cassazione penale 21273/2007.
(3) In materia di molestie e telefonate sporadiche, si veda Cassazione
penale 40748/2007.
Svolgimento del processo
Il Tribunale monocratica di Crema, con sentenza del 21.10.2005 ha
affermato la responsabilità penale di A. N. e A. F. in ordine ai reati di cui:
- agli artt. 81 cpv. a 674 c.p., poiché, nelle rispettive qualità di presidente del consiglio di amministrazione e poi di amministratore unico della s.r.l. “A.” (A. N.) e di amministratore unico della s.r.l. “A. T.” già s.n.c.
“A.” (A. F.), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso,
provocavano emissioni consistite in esalazioni odorose atte a molestare le
persone, in quanto nauseanti e puzzolenti, eccedendo la norma tollerabilità – acc. in Palazzo Pignano, dal 6/8/2002 al 15/8/2003 e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, condannava ciascuno alla pena di Euro
180,00 di ammenda, concedendo ad entrambi il beneficio della non menzione.
Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi i due imputati,
i quali – sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione – hanno eccepito:
- le erroneità dell’orientamento interpretativo, condiviso dal Tribunale,
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
Attualità legislative e giurisprudenziali
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secondo il quale la contravvenzione di cui all’art. 674 c.p. sarebbe sempre configurabile in presenza di una molestia ex art. 844 c.c. e non sarebbe esclusa dal rispetto dei limiti di tolleranza specificamente fissati
dalla legge.
Gli stabilimenti di confezionamento di “T.” alimentare e di lavorazione degli scarti animali, rispettivamente gestiti da essi imputati ed aventi un
impianto comune di abbattimento dei fumi, erano muniti di regolari autorizzazioni amministrative per le emissioni in atmosfera, i limiti di emissione imposti da tali autorizzazioni erano stati sempre rispettati e, nei plurimi controlli eseguiti dalla pubblica autorità, non erano state mai riscontrate molestie olfattive.
In una situazione siffatta il giudice del merito si sarebbe dovuto conformare a quella diversa giurisprudenza secondo la quale “non è configurabile il reato nel caso che le emissioni provengano da una attività regolarmente autorizzata e siano inferiori ai limiti previsti dalle leggi in materia
di inquinamento atmosferico, atteso che la espressione nei casi non consentiti dalla legge costituisce una precisa indicazione della necessità che
l’emissione avvenga in violazione degli standards fissati dalle normative di
settore, il cui rispetto integra una presunzione di legittimità”;
- la incongrua valutazione delle prove, non avendo il Tribunale tenuto conto – pure a fronte di deposizioni testimoniali tra loro contrastanti –
che nella zona erano presenti altre aziende che svolgevano la medesima attività produttiva con impianti per i quali, al contrario, risultava accertato
il superamento dei limiti di legge.
Essi imputati avevano agito sempre in assoluta buona fede e mai avevano ricevuto notizia di doglianze mosse dagli abitanti della zona in relazione a molestie olfattive asseritamente prodotte dalle aziende da loro gestite.
Motivi della decisione
I ricorsi devono essere rigettati, perché infondati.
1. In tema di emissioni inquinanti nell’atmosfera, questa Corte Suprema,
in più decisioni, ha ravvisto l’elemento oggettivo del reato di cui all’art.
674, seconda parte, c.p., affermando che esse possono certamente ricon-
dursi ad una delle tre tipologie indicate dalla norma incriminatrice (gas,
vapori, fumo).
Parimenti è stata ritenuta la loro capacità offensiva, in considerazione
della indubbia idoneità di tali emissioni ad arrecare molestia alle persone,
dovendosi fare rientrare nel concetto di “molestia” tutte le situazioni di
fastidio, disagio, disturbo e comunque di “turbamento della tranquillità e
della quiete”, che producono “un impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione” (vedi Cass.:
sez. 1ª, 4.2.1994, n. 1293, Sperotto ed altro; sez. 3ª, 24.1.1995, n. 771,
Rinaldi; sez. 1ª, 22.1.1996, n. 678. P.M. in proc. Viale).
In tale prospettiva è stato affermato che può costituire “molestia” anche il semplice arrecare alle persone preoccupazione ed allarmi generalizzati circa eventuali danni alla loro salute per l’esposizione ad emissioni atmosferiche inquinanti (Cass., Sez. 3ª: 7.4.1994, n. 6598, Gastaldi; 12.5.2003,
n. 20755, Di Grado ed altri).
Deve ricordarsi, inoltre, in proposito, che la contravvenzione di cui
all’art. 674 c.p. costituisce reato di pericolo, per cui non è necessario che
sia determinato un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente
l’attitudine concreta delle emissioni ad offenderle o molestarle nel senso
sopra indicato (vedi Cass., sez. 1ª: 15.11.1993, n. 10336, Grandoni;
17.12.1994 n. 12428, Montini; 4.12.1995, n. 11868, Balestra ed altro;
21.1.1998, n. 739, P.M. in proc. Tilli; 14.1.2000, n. 407, Samengo; nonché Cass,. Sez. 3ª, 21.3.1998, n. 3531, Terrile).
1.2. La giurisprudenza di questa Corte, poi, ha ravvisato la possibilità
del concorso tra l’art. 674 c.p. e le norme speciali in materia ambientale
(con riferimento all’inquinamento atmosferico (vedi Cass.: sez. 3ª, 7.4.1994
n. 6598, Gastaldi; sez. 1ª, 10.11.1998, n. 13278, Mangione; sez. 3ª
7.10.2003, n. 37945, Graziani) e all’inquinamento elettromagnetico (Cass.
Sez. 1: 12.3.2002, n. 10475, Fantasia ed altri; 14.6.2002 n. 23066, Rinaldi))
e, anche in considerazione di tale asserita concorsualità, particolare attenzione, nell’interpretazione testuale dell’art. 674 c.p., ha riservato all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”.
In relazione a detto inciso, si era formato un orientamento giurisprudenziale (si ricordino, tra le molte decisioni, Cass.: sez. 1ª, 17.11.1993, n.
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Attualità
legislative e giurisprudenziali
Attualità legislative e giurisprudenziali
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781, Scionti; sez. 3ª, 7.4.1994, n. 6598. Roz Gastaldi; sez. 1ª, 6.11.1995,
n. 11984, Guarnero; sez. 1ª, 27.1.1996, n. 863, Celeghin; sez. 1ª, 11.4.1997,
n. 3919, Sartori; sez. 1, 21.1.1998, n. 739, Tilli; sez. 3ª, 1.10.1999, n.
11295, Zompa ed altro; sez. 1, 24.11.1999, n. 12497, De Gennaro) nel
senso che rientra pacificamente nei “casi non consentiti dalla legge” il superamento della soglia delle emissioni fissate dalla normativa di settore, ma
che – anche nei casi di attività esercitata previo regolare rilascio dell’autorizzazione amministrativa e nel rispetto dei limiti tabellari fissati dalla normativa speciale – la contravvenzione è pur sempre configurabile alla stregua dei criteri civilistici, in quanto la “molestia” dell’emissione non è esclusa per il solo fatto che essa sia inferiore ai limiti massimi di tolleranza specificamente fissati dalla legge.
Un diverso indirizzo interpretativo (già isolatamente enunciato da Cass.,
sez. 3, 26.8.1985, n. 7765, Di liberto) si è sviluppato, invece, a partire dalla sentenza 7.7.2000, n. 8094, ric. Meo, della 1ª sezione di questa Corte
Suprema (concernente l’emissione di fumo dagli impianti di un oleificio),
con la quale è stato affermato il principio che, nella formulazione dell’art.
674 c.p., l’espressione “nei casi non consentiti dalla legge” si collega alla
necessità che l’emissione (di gas, vapori o fumi) atta a molestare le persone avvenga in violazione delle norme che regolano l’inquinamento atmosferico.
Ne consegue che, ai fini dell’affermazione di responsabilità in ordine
al reato previsto dall’art. 674 c.p., non basta che le emissioni siano astrattamente idonee ad arrecare fastidio, ma “è indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che esse superino gli standards fissati dalla legge”.
Nel campo dell’illecito penale, dunque, si riscontra sorta di presunzione di legittimità per quelle emissioni che non superino le soglie fissate dalle leggi speciali.
Tali conclusioni devono ritenersi ormai largamente consolidate in una
stabile interpretazione giurisprudenziale (vedi Cass., sez. 3, 3.3.2004 n.
9757, Pannone, per emissioni provenienti da cava di estrazione di pietra
calcarea e da Cass. Sez. 1: 12.3.2002, n. 15717, Pagano ed altri; 14.6.2002,
n. 23066, Rinaldi in relazione ad emissioni di onde elettromagnetiche;
nonché, tra le sentenze più recenti di questa 3ª sezione: 5.6.2007, n. 21814,
Pierangeli; 10.10.2006, n. 33971, Bortolato; 9.2.2006, n. 8299, Tortora;
26.5.2007, n. 19898, Pandolfini; 29.9.2004, n. 38297, P.M. in proc.
Providenti ed altri).
In ogni caso, comunque, affinché possa configurarsi il reato di cui
all’art. 674 c.p., non basta che le immissioni in atmosfera superino i limiti eventualmente fissati dalla normativa speciale, ma occorre anche che esse abbiano carattere effettivamente molesto, nel senso dianzi delineato (vedi Cass. Sez. 1: 13.1.2003, n. 760, Trincali; 7.7.2000 n. 8094, Meo).
1.3 Il consolidato orientamento giurisprudenziale del quale si è riferito dianzi trova applicazione nei casi in cui esistono precisi limiti tabellari fissati dalla legge, ed in tali casi non possono ritenersi “non consentite”
le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore ed eventualmente trasfuse
in legittimi provvedimenti amministrativi autorizzatori.
Deve ritenersi, però, che – ove un’autorizzazione abbia consentito valori in contrasto rispetto a quelli normativamente delineati – resti ferma
la valutazione del giudice circa l’illegittimità dell’autorizzazione medesima, con ogni conseguenza penale, non potendo negarsi la rilevanza della
produzione degli effetti che l’art. 674 c.p. è rivolto a scongiurare.
Diversa è l’ipotesi in cui non esiste una predeterminazione normativa, ove è affidata al giudice penale la valutazione della tollerabilità consentita, alla stregua delle conseguenze che le emissioni producono sull’area
esterna all’azienda e sulle persone che vi abitano o comunque vi operano.
Tale valutazione deve operarsi secondo criteri di “stretta tollerabilità”
(in tal senso Cass. Sez. 3ª: 5.6.2007 n. 21814, Pierangeli; 10.10.2006, n.
33971, Bortolato; 31.3.2006, n. 11556, Davito Bava), dovendo ritenersi
riduttivo ed inadeguato il riferimento alla “normale tollerabilità” fissato
dall’art. 844 c.c., che appare inidoneo ad approntare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana, attesa la sua portata individualistica e non collettiva (vedi sul punto Corte Cost., 23.7.1974, n. 247).
In quest’ottica devono essere riguardate le c.d. “molestie olfattive”, dal momento che non sussiste una normativa statale che
preveda disposizioni specifiche e valori-limite in materia di odori e tale materia è diversa da quella dell’inquinamento atmosfe-
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Attualità
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rico, che l’art. 268, 1 comma, lett. A, D.Lgs. 3.4.2006, n. 152 definisce “ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o di più sostanze in quantità e con
caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell’ambiente oppure tali da ledere i
beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente”.
La normativa nazionale si limita a stabilire alcuni principi fondamentali al fine di prevenire le molestie olfattive, ovvero i criteri generali di localizzazione di alcune tipologie di impianti e le
prescrizioni relative all’applicazione delle migliori tecniche disponibili per il contenimento e l’abbattimento delle emissioni.
Essa, tuttavia, non prevede limiti, espressi in unità odorimetriche, alle emissioni di sostanze osmogene dagli impianti e metodologie o parametri per valutare la rilevanza o meno del livello
di molestia olfattiva da essi determinato.
Solo alcune Regioni hanno individuato normativamente valori-limite alle emissioni di odori.
In assenza di una normativa di settore e di standards fissati
dalla legge, dunque, può trovare senz’altro applicazione l’art. 674
c.p., con individuazione del parametro di legalità nel criterio della “stretta tollerabilità”, secondo le argomentazioni già svolte al
riguardo.
2. Nella fattispecie in esame – in cui non risultano riscontrate violazioni della normativa in relazione al contenuto delle emissioni autorizzate di scarico in atmosfera – il giudice del merito ha tuttavia accertato la
intervenuta produzione di esalazioni puzzolenti, provenienti con carattere duraturo proprio dagli stabilimenti gestiti dai due imputati, idonee a cagionare nausea e disgusto, con impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione. Né gli imputati hanno dimostrato di avere adottato tutte le misure imposte, secondo la particolarità del lavoro, dalla migliore esperienza e dalla tecnica più
avanzata per evitare quelle molestie (solo nell’ottobre 2003 è stato messo
in funzione un potenziato impianto di abbattimento fumi).
In ordine all’accertamento anzidetto, va rilevato che le censure con-
cernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione e dell’attribuzione degli stessi alla persona dell’imputato non sono
proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della
decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativi, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo e il ricorrente
si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio e,
con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
3. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna solidale dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 6 07, 615 e 616
c.p.p., rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
UMBERTO GIANTOMASI
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PARTE Q UINTA
Le radici
del nostro futuro
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Le radici del nostro futuro
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Processo a Quasimodo
Ora, l’auditore era sordo. Difetto non grave per un auditore. Mastro
Florian non giudicava, per questo, meno inappellabilmente e coerentemente. Del resto, basta che un giudice abbia l’aria di ascoltare; e il venerabile auditore adempiva tanto meglio a questa condizione, la sola che conta ai fini di un buon giudizio in quanto la sua attenzione non poteva essere distratta da alcun rumore.
Aveva, del resto, nell’uditorio uno spietato controllore dei suoi fatti e
dei suoi gesti nella persona del nostro amico Jehan Frollo du Moulin, lo
studente del giorno prima, il vagabondo che si era sempre sicuri di incontrare ovunque a Parigi, tranne che davanti alla cattedra dei suoi professori
[Guarda là, diceva sottovoce al suo amico Robin Poussepain che gli
sogghignava a fianco, mentre lui commentava le scene che si svolgevano
sotto i loro occhi, ecco Jehanneton du Buisson. Quella bella ragazza
dell’Ostello del Marché-Neuf! - In fede mia, la condanna, il vecchio! non
ha occhi oltre a non avere orecchie. Quindici soldi e quattro denaro parigini, per aver portato due rosari! Un pò caro. Lex duri carminis - E quello chi è? Robin Chief-de-Ville, corazzaio! - Per essere stato accolto e nominato maestro nel suddetto mestiere? - E’ il suo gettone d’ingresso. Ehi!
due gentiluomini tra quei furfanti! Aiglet de Soins, Hutin de Mailly. Due
scudieri, corpus Christi! Ah! hanno giocato a dadi. E quando lo vedremo
qui il nostro rettore? Cento lire parigine di ammenda a favore dei re! Il
Barbedienne picchia sodo - da buon sordo qual è! - Vorrei essere mio fratello arcidiacono, per vedere se la cosa mi impedisce di giocare, giocare di
giorno, giocare di notte, vivere di gioco, morire di gioco e giocarmi l’anima dopo la camicia! - Santa Vergine, quante ragazze! una alla volta, pecorelle mie! Ambroise Lécuyère! Isabeau la Paynette! Bérarde Gironin! Le
conosco tutte, per Dio! Ammenda! ammenda! Così imparerete a portare
cinture dorate! dieci soldi parigini! civette! - Oh! quel vecchio musone di
giudice, sordo e imbecille! Oh! quel gran tanghero di Florian! Oh! quello zotico di Barbedienne! eccolo a nozze! si mangia le parti, si mangia il
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Le
radici del nostro futuro
Le radici del nostro futuro
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processo, mangia, mazzica, s’ingozza, si abbuffa. Ammende, racimoli, tasse, spese, oneri contrattuali, onorari, danni e interessi, gehenna, prigione
e carcere e ceppi con le relative spese processuali, per lui sono dolci di
Natale e marzapani di San Giovanni! Guardalo, il porco! - Andiamo! bene! un’altra donna d’amore! Thibaud la Thibaude, che è tutto dire! - Per
essere uscita da Rue Glatigny! Chi è quel giovanotto? Gieffroy Mahonne,
gendarme balestriere. Ha bestemmiato il nome del Padre. - Ammenda per
la Thibaude! Ammenda per il Gieffroy! ammenda per tutti e due! Quel
vecchio sordo! deve aver arruffato i due casi! Dieci a uno che ha fatto pagare la bestemmia alla ragazza e l’amore al gendarme! Attento, Robin
Poussepain!]
Chi introducono adesso? Quanti sergenti! Per Giove, c’è tutta la muta dei segugi! Ci dev’essere il pezzo grosso della caccia. Un cinghiale... Ce
n’è uno, Robin, ce n’è uno. Una bella bestia!... Ercle! E il nostro principe di ieri, il nostro papa dei matti, il nostro campanaro, il nostro guercio,
il nostro gobbo, la nostra smorfia! E’ Quasimodo.. “
Era proprio lui.
Era Quasimodo, legato, cinghiato, incatenato e sotto buona guardia.
La squadra di sergenti che lo circondava era comandata dal cavaliere della ronda in persona, che portava ricamato sul petto lo stemma di Francia
e sul dorso lo stemma della città. Eppure, non c’era nulla in Quasimodo,
a parte la sua deformità, che potesse giustificare tutto quell’apparato di alabarde e di archibugi. Quasimodo era cupo, silenzioso e tranquillo. A stento il suo unico occhio gettava a tratti sulle corde che lo tenevano stretto
un cupo sguardo di collera.
Ma quando si guardò intorno, quello stesso sguardo era così spento e
addormentato, che le donne se lo segnavano a dito e ridevano.
Frattanto, mastro Florian, l’auditore, sfogliò con attenzione l’incartamento della denuncia contro Quasimodo, presentatagli dal cancelliere, e,
dopo quell’occhiata, parve raccogliersi un istante. Grazie a questa precauzione, che aveva sempre cura di prendere al momento di procedere a un
interrogatorio, sapeva in anticipo nome, stato, crimini dell’imputato, faceva repliche previste a risposte previste, e riusciva a cavarsela in tutte le
sinuosità dell’interrogatorio, senza lasciar troppo indovinare la sua sordità.
Il fascicolo del processo era per lui il cane del cieco. Se per caso capitava
che la sua infermità fosse tradita qua e là da qualche apostrofe incoerente
o da qualche domanda inintelligibile, la cosa passava per profondità presso gli uni, e per imbecillità presso gli altri. In entrambi i casi, l’onore della magistratura non ne risultava minimamente scalfito; perché è sempre
meglio che un giudice sia ritenuto imbecille o profondo, piuttosto che
sordo. Metteva dunque gran cura nel dissimulare la sua sordità agli occhi
di tutti, e di solito ci riusciva talmente bene che era arrivato a illudere persino se stesso. Il che è del resto più facile di quanto si creda. Tutti i gobbi camminano a testa alta, tutti i balbuzienti perorano, tutti i sordi parlano a bassa voce. Quanto a lui, credeva tutt’al più di avere l’orecchio un
tantino ribelle. Era l’unica concessione che facesse su quel punto all’opinione pubblica, nei suoi momenti di franchezza e d’esame di coscienza.
Avendo dunque ben ruminato il caso di Quasimodo, rovesciò la testa
all’indietro e chiuse gli occhi a metà, per maggior maestà e imparzialità,
sicché in quel momento era contemporaneamente sordo e cieco. Duplice
condizione senza la quale non vi è giudice perfetto. Fu in quella magistrale postura che iniziò l’interrogatorio.
Il vostro nome?
Orbene, ecco un caso non “previsto dalla legge”, quello in cui un sordo si trovasse a interrogare un altro sordo.
Quasimodo, che non aveva udito una sillaba della domanda rivoltagli,
continuò a guardare fissamente il giudice e non rispose. Il giudice, sordo
e che nulla rendeva edotto della sordità dell’accusato, credette che avesse
risposto, come facevano in genere tutti gli accusati, e proseguì con la sua
sicurezza meccanica e stupida.
Bene. La vostra età?
Quasimodo non rispose neppure a quella domanda. Il giudice la credette soddisfatta, e continuò.
- Ora il vostro stato...
Sempre lo stesso silenzio. L’uditorio tuttavia iniziava a bisbigliare e a
guardarsi in faccia.
- Basta così, riprese l’imperturbabile auditore quando suppose che l’accusato avesse esaurito la terza risposta. Siete accusato, al nostro cospetto:
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Le
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Le radici del nostro futuro
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primo, di disturbo notturno; secundo, di vie di fatto disoneste sulla persona di una donna di malaffare, in prejudicium meretricis; tertio, di ribellione e slealtà verso gli arcieri dell’ordinanza del re nostro sire. Spiegatevi
su tutti e tre questi punti. Cancelliere, avete scritto quello che l’accusato
ha detto fin qui?
A quella domanda incongrua, uno scoppio di risa si levò, dalla cancelleria all’uditorio, talmente violento, folle, contagioso, universale che fu
giocoforza per i due sordi accorgersene. Quasimodo si girò alzando la gobba, sdegnoso, mentre mastro Florian, stupito quanto lui e supponendo che
le risate degli spettatori fossero state provocate da qualche replica irriverente dell’accusato, resa palese da quell’alzata di spalle, lo apostrofò indignato.
- Avete appena dato, furfante, una risposta che meriterebbe il capestro! Sapete con chi state parlando?
Quell’uscita non era adatta a frenare l’esplosione di allegria generale. Parve a tutti talmente ridicola e bizzarra che quella folle risata contagiò persino i sergenti del Parloir-aux-Bourgeois, sorta di valletti di picca tra cui la stupidità era d’ordinanza. Solo Quasimodo mantenne il suo
contegno compunto, per la buona ragione che non capiva niente di quanto gli accadeva intorno. Il giudice, sempre più irritato, credette di dover
continuate sullo stesso tono, sperando con ciò di scatenare nell’accusato
un terrore che avrebbe agito di riflesso sull’uditorio riportandolo al rispetto.
- Sarebbe a dire, dunque, perverso maestro di rapinerie qual siete,
che vi permettete di mancare di rispetto all’auditore dello Chatelet, al
magistrato addetto alla polizia popolare di Parigi, incaricato di indagare su crimini, misfatti e malcostume, di sorvegliare tutti i mestieri e
di combattere il monopolio, di presiedere alla manutenzione delle strade, di impedire la rivendita di polli, volatili e selvaggina, di far misurare i ceppi e gli altri tipi di legna, di purgare la città dal fango e l’aria
dalle malattie contagiose, in una parola di attendere continuamente al
bene della cittadinanza, diciamolo pure, senza stipendio né speranza di
salario!
Sapete che mi chiamo Florian Barbedienne, primo Sostituto del signor
prevosto e, in più, commissario inquisitore, controllore ed esaminatore con
ugual potere in prevostura, baliaggio, conservazione e presidiale.
Non c’è ragione perché un sordo che parla a un altro sordo debba fermarsi. Dio sa dove e quando avrebbe preso terra mastro Florian, così lanciato a tutti reni nell’alta eloquenza, se un tratto la porta bassa non si fosse aperta per far passare il signor prevosto in persona.
Al suo ingresso, mastro Florian non rimase in tronco, ma facendo un
mezzo giro sui tacchi e bruscamente puntando sul prevosto l’arringa con
cui un attimo prima fulminava Quasimodo: “Monsignore”, disse “chiedo
la pena che a voi piacerà contro l’imputato qui presente, per grave e mirifico oltraggio alla giustizia”. E si rimise a sedere tutto ansante, asciugandosi le grosse gocce di sudore che gli cadevano dalla fronte e bagnavano
come lacrime le pergamene spiegate davanti a lui. Messer Robert
d’Estouteville aggrottò la fronte e richiamò l’attenzione di Quasimodo con
un gesto talmente imperioso e significativo, che il sordo ne capì qualche
cosa.
Lì prevosto gli rivolse la parola con severità: “Che cosa hai fatto per
essere qui, marrano?”.
Il povero diavolo, supponendo che il prevosto gli chiedesse il nome,
ruppe il silenzio abituale e con voce roca e gutturale rispose: “Quasimodo”.
La risposta coincideva così poco con la domanda, che il folle riso ricominciò a circolare e messer Robert, rosso di collera, gridò “Ti prendi
gioco anche di me, furfante matricolato?”.
“Campanaro a Notte-Dame” rispose Quasimodo, credendo che si trattasse di spiegare al giudice chi fosse.
“Campanaro!” soggiunse il prevosto, che quella mattina, come abbiamo, si era svegliato con un umore troppo cattivo perché il suo furore avesse bisogno di essere attizzato da così strane risposte “Campanaro! Ti farò
dare io una scampanata di nerbate sul groppone nei crocicchi di Parigi Hai
capito, marrano?” “Se è la mia età che volete sapere”, disse Quasimodo
“credo che avrò vent’anni a San Martino”.
Era il colmo; il prevosto sbottò.
“Ah, ti fai beffe della prevostura, miserabile! Guardie mi condurrete
questo gaglioffo alla gogna della Grève, lo frusterete e lo farete girare per
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Le
radici del nostro futuro
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un’ora. Me la pagherà, per la testa di Dio, e voglio che sia fatto un bando della presente sentenza con quattro trombettieri giurati, nelle sette castellanìe della viscontea di Parigi”.
Il cancelliere si mise a redigere senza indugio la sentenza. “Ben giudicato, per il ventre di Dio!” esclamò dal suo angolo il piccolo goliardo
Jehan Frollo du Moulin. Il prevosto si voltò ed appuntò di nuovo su Q. i
suoi occhi scintillanti. “Credo che il furfante abbia detto per il ventre di Dio!
Cancelliere, aggiungete dodici denari parigini di ammenda per bestemmia, e che la metà vada alla fabbrica di Sant’Eustachio. Ho una particolare devozione per Sant’Eustachio”.
In pochi minuti la sentenza fu stesa. Il suo tenore era. semplice e
breve.
Le consuetudini della prevostura e viscontea di Parigi non erano state ancora sconvolte dal presidente Thibaut Baillet e da Roger Barnne, avvocato del re. A quel tempo, esse non erano ostruite da quella foresta di
cavilli e di procedure che quei due giureconsulti vi piantarono all’inizio
del XVI.
In quelle consuetudini tutto era chiaro, spiccio, esplicito. Si camminava diritto allo scopo, e in fondo a ogni sentiero, senza cespugli e senza
svolte, si scorgeva subito la ruota, o la forca, o la gogna. Se non altro, si
sapeva dove si andava.
Il cancelliere presentò la sentenza al prevosto. Questi vi appose il proprio sigillo, dopo di che uscì per continuare il suo giro nelle aule, con una
disposizione d’animo che quel giorno deve aver certamente affollata tutte le carceri di Parigi. Jehan Frollo e Robin Poussepain ridevano sotto i
baffi. Quasimodo guardava intorno con aria indifferente e stupefatta. Il
cancelliere, intanto, mentre mastro Florian Barbedienne leggeva a sua volta la sentenza per firmarla si sentì mosso da pietà per quel povero diavolo
di condannato e, sperando di ottenergli una diminuzione di pena, si avvicinò più che poté all’orecchio dell’auditore e gli disse, mostrandogli
Quasimodo: “Quell’uomo è sordo “.
Sperava che tal comunanza d’infermità risvegliasse l’interesse di mastro Florian a favore del condannato. Ma, prima di ogni altra cosa, abbiamo già osservato che mastro Florian non era neppure sfiorato dal timore
che gli altri potessero accorgersi della sua sordità. Secondariamente, era
così duro d’orecchio, che non udì neppure una parola di quello che gli
disse il cancelliere; tuttavia, volle far credere di aver udito, e rispose: “Ah!
Ah! Allora le cose cambiano. Non lo sapevo. Un’ora di gogna di più, in
questo caso”.
E firmò la sentenza così modificata.
“Benone” disse Robin Poussepain, che ce l’aveva con Quasimodo.
“Questo gli insegnerà a strapazzare la gente”.
N.B. la parte tra [...] non fa parte del processo ma l’autore se ne è servito per rendere evidente il clima che regnava in aula.
UMBERTO GIANTOMASI
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LA VOCE DEL FORO - N. 1–2 - 2008
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Note sulle illustrazioni
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Umberto Giantomasi
Umberto Giantomasi nasce il 26 Giugno 1953 a Benevento in uno
dei pittoreschi quartieri di Piazza Vari, da Giantomasi Ciriaco e Rumena
Giulia. Ultimo di cinque figli, rivela uno spirito intraprendente ed avventuriero fin da giovanissimo e all’età di 15 anni abbandona casa e famiglia per cercare fortuna all’estero. Si ritrova così, a condurre la sua vita di
adolescente nella bellissima Parigi, patria degli artisti e degli animi originali. Proprio nella capitale francese un fortunato incontro lo inizia a quella che diventerà la sua grande passione: la pittura. In un bar parigino egli
fa la conoscenza, infatti, del pittore Manuel Rodriguez Varrona dei quale diviene presto segretario. A 18 anni compiuti, la mancanza degli affetti familiari lo costringe a far ritorno in Italia.
Nel frattempo si dedica all’arte della poesia producendo una raccolta
dei suoi versi intitolata “Pensieri e Parole di Uno Gualunque” dalle iniziali del suo nome.
Entra in contatto con figure di rilievo della società beneventana le quali avranno un ruolo importante durante la sua formazione pittorica.
Iniziata, questa, nel giorno del suo 52° compleanno, quando la secondogenita Simona gli regala due tele, colori e pennelli.
Umberto si dedica all’arte pittorica con costanza e naturalezza, del tutto inconsapevole di possedere uno stile estemporaneo ed espressionista, riconosciuto da grandi critici ed intenditori quali la dottoressa De Cecco, i
pittori Savino, Mariella Romano e Mario Ferrante, il giornalista Enzo
Gravina. Abile nel mescolare i colori e creare giochi di luce che conferiscono alle sue opere un perfetto contrasto tra l’ambiguità delle figure e
l’immediatezza espressiva dei colori stessi. Sempre alle figlie va riconosciuto il merito di aver organizzato la sua prima mostra “Senza Parole” tenutasi nel Palazzo della Biblioteca Provinciale di Benevento, con la quale
Umberto Giantomasi ha riscosso grande successo e ne raccoglie ancora i
frutti realizzando anche opere su commissione.
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Notizie sugli Autori
Avv. Luca COLETTA
Avv. Francesco LUONGO
Avvocato del Foro di Benevento
Avvocato
del Foro di Benevento
Avv. Anna GIANCASPRO
Avvocato del Foro di Benevento
Avv. Simona BARBONE
Dott.ssa Alexiae PALUMBO
Avvocato
del Foro di Benevento
Praticante Avvocato del Foro di Benevento
Dottoranda in Diritto Civile
“Università degli Studi del Sannio”
Dott. Nicola IZZO
Praticante avvocato del Foro di Benevento
Specializzando presso la “Scuola di Specializzazione
per le Professioni Legali”
Università “Federico II” di Napoli
Avv. Luisa VENTORINO
Avvocato
del Foro di Benevento
Vice Presidente di Diritto e Famiglia Network
Avv. Leopoldo PAPA
Avvocato
del Foro di Benevento
Avv. Antonella MAFFEI
Avv. Stefania ANGELONE
Avvocato
del Foro di Benevento
Avvocato
del Foro di Benevento
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UMBERTO GIANTOMASI
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Per stampare questa Rivista
è stata utilizzata carta riciclata
per una precisa scelta ecologica
del Comitato di Redazione
Progetto grafico:
Enzo Conte
Chiuso in Redazione il 3 settembre 2008
Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 133/86 del 5 novembre 1986
La proprietà letteraria compete alla Direzione della Voce del Foro
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