Mimmo Jodice, perdersi a guardare
Transcript
Mimmo Jodice, perdersi a guardare
Professione Mimmo Jodice, perdersi a guardare Riflessioni sulla fotografia: cos’è la fotografia? Cos’è la luce? Perché la scelta del bianconero? Cosa cambia con la fotografia digitale? Come avvicinarsi alla fotografia? Le risposte di Mimmo Jodice ci forniscono chiavi d’interpretazione. Un viaggio visivo in una Italia sospesa nel tempo. Un “Grand Tour” fotografico, 180 immagini in bianconero, frammenti del nostro paese che la sensibilità di Mimmo Jodice ha colto nel corso della sua lunga storia di fotografo. Perdersi a guardare è un volume che nel titolo racchiude la filosofia artistica ed emozionale di uno dei grandi maestri della fotografia italiana. Come spiega, meglio di chiunque altro, Jodice stesso: “Vorrei citare Fernando Pessoa: ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare? Questa frase sembra scritta per me e descrive bene il mio atteggiamento ricorrente: perdermi a guardare, immaginare, inseguire visioni fuori dalla realtà”. Mimmo Jodice, che cosa unisce le immagini del libro? Come sono state scelte? Questo lavoro nasce come catalogo della mia mostra personale “Perdersi a guardare. Trenta anni di fotografia in Italia”, che 22 ha debuttato allo Spazio Forma di Milano (www.formafoto.it), poi è stata allestita a Les Rencontres de la Photographie di Arles e quindi a Verona, presso gli Scavi Scaligeri, dove si è conclusa in maggio; ma ci saranno nuove tappe. Non si tratta quindi di un libro che si basa su un progetto fotografico specifico: alla base del libro c’è il tema che abbiamo scelto con gli organizzatori della mostra, cioè ripercorrere la mia storia e il mio lavoro relativamente a ciò che ho realizzato in Italia. Leggendo la sua biografia colpisce il fatto che lei dalla pittura e dalla scultura sia passato alla fotografia... Fin da ragazzo mi sono sempre interessato alle forme dell’arte, avventurandomi in esse con libertà, per il puro piacere di fare, ed apprendendone le regole autonomamente, da autodidatta. Da questo punto di vista è un po’ paradossale che sia finito ad insegnare all’Accademia di Belle Arti. Cinquanta anni fa era sicuramente più facile mettere la matita sulla carta che non affrontare la fotografia, arte più complessa, che richiedeva anche più attrezzatura e più spese. Io, comunque, non ci pensavo proprio. La passione per l’arte mi ha portato a sperimentare i linguaggi della pittura e della scultura. Fino a che è arrivata la fotografia. Sempre bianconero... perché? Mi è capitato di possedere una piccola macchina fotografica, a cui davo una importanza relativa. Il vero momento di svolta è stato quando mi sono trovato tra le mani un piccolo ingranditore. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta la fotografia era praticata da due categorie ben precise: i professionisti, che facevano reportage o lavori su committenza, e i fotomatori, che all’epoca erano molto attivi. C’erano i fotoclub, lavoravano quasi sempre in bianconero e stampa- Stromboli 1999. vano da sé le fotografie. L’atmosfera era molto bella e vivace, con concorsi, mostre e molta partecipazione attiva. Io non appartenevo a questa categoria, ma entrare in possesso di quell’ingranditore rappresentò davvero una svolta. Senza quasi sapere come funzionasse, iniziai a sperimentare e mi resi conto delle grandi potenzialità che offriva quel mezzo, per un lavoro creativo che andasse oltre quello della fotografia delle occasioni o dei tradizionali soggetti dei fotoamatori. Poi non è mai passato al colore... La scoperta del bianconero è stata folgorante, era come disegnare. E’ stata una scelta meditata, come tutto il mio lavoro creativo. Ho sempre considerato la fotografia come un linguaggio da utilizzare non per fare copie della realtà, ma per realizzare immagini pensate. La sperimentazione che ho portato avanti in quegli anni fu prima di tutto tecnica, violando tutte le regole, indagando e valutando le potenzialità espressive. Una volta messa a punto una strategia tecnica, passai alla sperimentazione e alla ricerca linguistica. Che cosa comunicare. Che cosa dire. 23 Chiesa madre, Salemi, Trapani, 1983. Il colore rimase escluso. Perché non era possibile farlo da sé in casa, ma soprattutto perché il colore è descrittivo, più fedele alla realtà, mentre nel bianconero c’è più spazio per l’immaginazione. Nel mio lavoro ho sempre mirato a suscitare emozioni, a coinvolgere, ponendo anche dei dubbi. E il bianconero è stato determinante. Il colore mi avrebbe portato su un’altra strada. 24 Come si pone nei confronti del digitale? Il potenziale espressivo con il digitale sicuramente aumenta, perché le possibilità tecniche di elaborazione delle immagini sono di gran lunga superiori rispetto ai mezzi tradizionali. Tuttavia, attraverso le tecniche tradizionali ho maturato una mia dimensione, una mia identità stilistica. Con il digitale questo mio modo di fare cambierebbe, e non sento la necessità di esplorare questa nuova dimensione. Ciò che faccio ormai mi appartiene profondamente: tutte le mie fotografie le stampo e le elaboro in fase di stampa, personalmente, e anche quando realizzo stampe più grandi, che non posso fare nella mia camera oscura, vado in un laboratorio esterno a seguire il lavoro. I risultati che si possono ottenere con Real Albergo dei Poveri, Napoli, 1997. i sistemi tradizionali sono ancora di prim’ordine, e con il digitale mi troverei a sperimentare cose nuove, cambiando la mia identità espressiva. Con l’avvento del digitale non ci troviamo di fronte soltanto a un cambiamento tecnologico, ma concettuale. La fotografia nasce nella prima metà dell’Ottocento e, prima di questo evento, la rappresentazione del mondo, delle persone, dei paesaggi, avveniva attraverso la pittura, il disegno, l’incisione, in modo soggettivo. Il disegnatore, l’incisore, il pittore, cercavano di essere fedeli alla realtà ma lo facevano entro certi limiti: se, per fare un esempio, l’albero in una certa posizione non piaceva, non veniva inserito nel paesaggio, e viceversa. Quando nasce la fotografia nasce la verità. Penso, per esempio, alle fotografie di Eugene Atget rispetto alle pitture di Utrillo: la città di Parigi è vera rispetto alla rappresentazione pittorica. Con la fotografia nasce l’oggettività. Certo, con tutte le possibili varianti, per esempio il fotomontaggio, ma è la realtà al 99 per cento che viene messa sul supporto cartaceo. Tutto questo è andato avanti fino all’avvento del digitale. Oggi si passa attraverso 25 Quartiere Eur, Roma, 2005. il computer, il fotografo può intervenire facilmente e in maniera più ampia, mette, toglie, aggiusta, leviga i volti delle persone, le donne sembrano tutte barbie... siamo tornati alla soggettività, entro certi limiti. Non si tratta quindi solo di un radicale cambiamento tecnologico, ma anche concettuale: l’immagine è inizialmente ciò che vedo nel mirino della macchina 26 fotografica, ma il risultato finale me lo invento, almeno in parte. In tutto questo, cambiano anche i risultati: rispetto al fare con la fotografia tradizionale, nel fare con il digitale i risultati sono diversi. Anche per chi, come me, ha un solido ancoraggio espressivo. In che direzione va quindi la fotografia oggi? In parte ho appena risposto, ma aggiungerei anche che le tecnologie avanzano con una rapidità sconcertante, quindi nessuno può immaginare che cosa succederà non dico tra mezzo secolo, ma già in un futuro molto più vicino. Si può chiamare ancora fotografia quella che passa attraverso il computer e interventi di fotoritocco anche Solfatare, Pozzuoli, 1985. pesanti? Ancora mi chiedo che cosa sia la fotografia. Per me ciò che sta alla base di tutto è il vedere, il “prendere un pezzo” della visione, di ciò che si percepisce con gli occhi, e trasportarlo su un supporto che può essere di carta, ma anche un filmato. Il termine fotografia non è assoluto, si tratta di un qualcosa che è andato avanti in un certo modo per anni perché non ci sono stati cambiamenti. Possiamo anche chiamarla ancora fotografia, che poi significa scrittura con la luce, e in parte lo è: vedo una cosa e la riprendo, prendo un frammento della realtà che ho davanti agli occhi e lo faccio diventare una immagine stabile. Come è avvenuto per molte cose, c’è stata una evoluzione. Penso alla scrittura, a quando, un secolo fa, si scriveva a mano, poi si passò alla macchina da scrivere e, infine, al computer. E’ ancora scrittura, anche se la procedura e il risultato visivo sono diversi. Che cosa è per lei la luce? La luce è ciò che mi permette di vedere, di fare delle scelte. E’ un elemento importante perché il soggetto che abbiamo davanti si svela, cioè lo vediamo, a seconda del tipo di luce che lo investe. La luce ci permette di vedere, e in fotografia ci permette di cogliere il momento ottimale della percezione del soggetto, quando l’equilibrio tra ombra e luce diventa più efficace e lo disegna al meglio. Come trova l’ispirazione? Che cosa la spinge a scattare? Tutti i miei lavori sono innanzitutto dei progetti. Come persona, e non come fotografo, mi guardo intorno, mi entusiasmo, oppure mi irrito, provo emozioni positi- ve o negative rispetto a ciò che vedo e a ciò che accade. Un po’ alla volta alcune emozioni insistono nel tempo e nella mia mente, e possono diventare progetti. Uno di questi è il mare, ma ce ne sono stati tanti altri, per esempio la memoria, il mondo antico. A quel punto decido di fare il lavoro, mirando a una mostra, a un libro, e comunque sempre a un’ampia sequenza di immagini che possano esprimere queste mie emozioni. Solo a questo punto vado in giro a trovare tutte quelle situazioni che coincidono con il progetto, non esiste un soggetto che io abbia “costruito” per poi fotografarlo. Qualsiasi sia il tema, tutte le mie fotografie hanno un denominatore comune: una dimensione senza tempo. Una mia fotografia non si può datare, potrebbe essere stata scattata 50 anni fa o tra 50 anni. C’è 27 Atleti della Villa del Papiro, Ercolano 1985. una sorta di silenzio che azzera tutto. Spicca anche l’assenza dell’uomo... E di tutto ciò che ci riporta al tempo presente. Nelle mie fotografie non solo non c’è l’uomo, ma non ci sono tutti quegli elementi che datano, connotano e quindi rendono attuale l’immagine. Le mie 28 immagini sono atemporali, nel senso che non si collocano nel tempo presente, non consentono di capire dove siamo, che cosa succede, in che epoca siamo. Senza che vi sia una rappresentazione ambigua, per me l’albero è l’albero, la casa è la casa, le mie fotografie hanno una dimensione straniante e surreale. Che cosa consiglia a chi si avvicina oggi alla fotografia? Per prima cosa bisogna innamorarsi. Quando ci si innamora non si bada a spese, al tempo, la dedizione è totale. Non si deve iniziare a fotografare pensando di fare qualcosa che può essere utile o può semplicemente piacere, in questo caso è Vista sopraelevata, Genova, 2000. meglio che resti un passatempo. Il secondo consiglio: non progettare tempi brevi. Se si vuole crescere, emergere, farsi notare e conseguire risultati apprezzabili, non si deve avere la smania del successo immediato, ma si deve lavorare per sé, senza seguire le mode, o la strada che sembra più facile e veloce per ottenere risultati immediati e approvazione. Lo scopo deve essere il piacere di fare per sé. E’ questo l’innamoramento. Poi, è importante maturare non solo la tecnica del fare, ma anche sapere quello che si fa e ciò che succede intorno a noi. Chi vuole crescere in fotografia deve vedere, capire, analizzare il lavoro degli altri, non solo in campo fotografico ma in tutte le forme d’arte. Infine, è fondamentale maturare una capacità critica verso il proprio lavoro. Mai essere subito soddisfatti, rivedere sempre i propri lavori e, man mano, togliere quello che convince meno. Si deve riuscire a distinguere ciò che merita apprezzamento e ciò che invece va eliminato. E bisogna saper eliminare. Quindi, è fondamentale maturare una capacità critica nei confronti del proprio lavoro. Che tipo di attrezzatura utilizza Mimmo Jodice? Lavorare per me e non per committenti mi consente la libertà totale, quindi ho ridotto la mia attrezzatura al minimo. Uso una sola macchina fotografica 6x6, una Hasselblad, con un solo obiettivo, il 50 mm. Ho bisogno di avere in mano una attrezzatura che coincida con la mia visione. L’angolo di campo che mi offre il 50 mm nel medio formato mi permette di guardare davanti senza girare la testa, dal punto “a” al punto “b”, da destra a sinistra, e questo coincide con le mie necessità espressive. Inoltre, quando si usa lo stesso strumento, 29 Sibari 2000 Foto di copertina del libro Perdersi a guardare. Perdersi a guardare, edito da Contrasto (276 pagine, 180 fotografie in bianconero, 28 x 26 cm) Disponibile in Fotolibreria www.fotolibreria.it così come gli stessi materiali sensibili in camera oscura, si contribuisce a dare una uniformità stilistica al proprio lavoro. Io ho bisogno di dare una identità stilistica a tutto il mio lavoro, per ottenere un risultato coerente, e anche il mezzo tecnico contribuisce. Assieme all’occhio, al vedere. E alla mente. Donata Fassio 30