1 La valutazione della proprietà intellettuale: i profili di diritto
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1 La valutazione della proprietà intellettuale: i profili di diritto
La valutazione della proprietà intellettuale: i profili di diritto tributario La proprietà intellettuale ha assunto sempre più una rilevanza fondamentale all’interno delle aziende; si tratta di uno degli elementi ormai più rilevanti e difficilmente valutabili. In particolare quando si tratta non di valutare risultati passati e ben documentati, ma di prevedere un valore in base alla capacità di resa futura del bene immateriale, il problema di presenta veramente complesso. Abbiamo avuto un’idea di questa difficoltà soprattutto negli anni passati, quando l’economia di internet ha dato luogo a risultati clamorosi, sia in termini positivi che negativi (questi ultimi, purtroppo, numericamente molto maggiori). E’ di tutta evidenza che i sistemi di valutazione di azienda, quali insegnati dalla dottrina tradizionale, difficilmente si applicavano a realtà neonate, senza termini di paragone e sostanzialmente prive di tutto se non di una idea. Inoltre, le proposte che erano state fatte ai possibili investitori dai business angels o dagli incubators, erano talmente caratterizzate dalla evidenziazione della potenzialità dell’idea e dalla validità personale di coloro che l’avevano progettata che alle volte si rasentava, nella decisione di investire, l’atto di fede. Questo necessario connubio di idea brillante e di asserita capacità di realizzarla da parte di coloro che l’hanno pensata, mi ha portato a fare qualche riflessione sulla crescita dell’importanza del capitale intellettuale nelle imprese e sulle possibilità di dargli un valore autonomo in sede di esame di un bilancio societario. Per non essere lapidato dai cultori del diritto e della contabilità concordo sul fatto che le norme attuali impediscano una autonoma rilevazione in bilancio di un tale capitale, a meno che per esso sia stato pagato un prezzo anche se attraverso diverse forme (avviamento, maggior valore della partecipazione acquistata ecc.). Tuttavia stante l’evoluzione dell’economia che attualmente privilegia il contenuto intellettuale dell’idea nei confronti della struttura che dovrà realizzarla, forse sarà il caso di iniziare a pensare a una sorta di meccanismo di valutazione di questo potenziale, forse più correttamente individuabile con procedure di tipo due diligence. Gli scrittori che hanno trattato del capitale intellettuale, portano in evidenza come lo stesso sia l’elemento che sta piano piano accentuando la dematerializzazione delle società, realizzata, ad esempio, con lo spostamento delle attività non core business al di fuori dell’azienda (outsourcing) e la indifferenza nella localizzazione dei sistemi produttivi (Internet sta sostanzialmente annullando il problema dello spazio e del tempo). Credo che valga la pena di riflettere sul fatto che il contenuto intellettivo presente nelle società sta ricevendo dai mercati finanziari una attenzione e un apprezzamento decisamente superiore all’esistenza di una struttura materiale: due citazione dall’opera di Thomas Stewart “Intellectual Capital” rendono molto bene l’idea, nonostante siano passati tanti anni. La prima paragona il valore netto degli assets di IBM all’inizio del 1996 pari a 16,1 miliardi di dollari contro i 930 milioni di dollari di Microsoft; pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, IBM capitalizzava in borsa 70,7 miliardi di dollari contro gli 85,5 miliardi di dollari di Microsoft. Segnalo che una recente valutazione di Forbes, pone il patrimonio del sig. Bill Gates a 66 miliardi di dollari. Ma anche per aziende appartenenti al medesimo settore i cambiamenti negli ultimi anni sono stati mostruosi, grazie all’innovazione tecnologica; nell’industria manifatturiera e mineraria statunitense, nel 1982 i tangible assets rappresentavano il 62,3% del valore di mercato contro il 37,9 di dieci anni dopo. 1 Sempre del medesimo tenore una osservazione tratta dal libro di Leif Edvinson e Michael Malone (esso pure intitolato Intellectual Capital) laddove riporta due considerazioni sostanzialmente gemelle. Nella prima citazione si riporta il parere di Charles Handy della London School of Business il quale stima che gli assets intellettuali possano valere tre o quattro volte il valore di libro degli assets tangibili e nella seconda si riporta una conclusione del professor Keith Bradley della Open Business School che dopo aver esaminato 391 transazioni societarie avvenute nel periodo dal 1981 al 1993 nel mercato americano, riporta contro un valore medio di 1,9 miliardi di dollari, un prezzo pagato di 4.4 miliardi di dollari. La conclusione del prof. Bradley al termine di questo suo studio è lapidaria: Abbiamo strumenti per gestire questi plusvalori nascosti? La semplice risposta è: "no non ne abbiamo". Sempre dal libro di Edvinson / Malone, riporto un'altra sconfortante conclusione, questa di Judy Lewent, CFO di Merck Co.: "In una società basata sul capitale conoscenza, (traduco così con una certa libertà l'inglese: knowledge-based) il sistema contabile non riflette assolutamente nulla". Queste considerazioni possono sembrare estreme a coloro che hanno costruito la propria cultura aziendale sui sacri canoni della contabilità, ma poiché siamo di fronte a una rivoluzione copernicana, conviene mettere in discussione i propri principi piuttosto che continuare ad esaminare le realtà della nuova economia con sistemi che semplicemente, non sono adatti allo scopo. A distanza di venti anni dagli studi sopra citati, la situazione è sostanzialmente la stessa, per quanto l’analisi finanziaria sia avanzata si tratta sempre di modelli che partono da previsioni di quello che potrà essere lo sviluppo futuro economico dell’idea esaminata. La recente quotazione di Facebook, crollata pochi giorni dopo l’entrata in borsa, dà una ulteriore conferma della volatilità delle previsioni in questi settori. La realtà è che sia l’età dell’agricoltura che quella dell’industria avevano alla loro base dei beni materiali prevalenti e fondamentali per l’attività esercitata; nell’epoca dei beni immateriali, essi sono largamente più importanti delle attrezzature che fanno girare, quindi uno degli elementi fondamentali della valutazione economica cade. In più la obsolescenza dell’idea è molto più rapida di quella degli oggetti. Questa breve premessa mi permette di approfondire il tema riservatomi in questo incontro. La valutazione fiscale non si discosta, come schema, da quella civilistica. Occorre anzitutto esaminare se la proprietà intellettuale sia stata acquistata o prodotta “in casa”. Nel primo caso, l’iscrizione a bilancio sarà pari al costo sostenuto, oneri diretti inclusi e le quote di ammortamento del costo dei diritti di utilizzazione di opere dell'ingegno, dei brevetti industriali, dei processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico saranno deducibili in misura non superiore a un terzo del costo. Nel caso di proprietà industriale auto-prodotta, essa assumerà valenza di bene immateriale soltanto quando la ricerca o lo studio avrà raggiunto i risultati sperati e sarà quindi trasferita dalla voce B6 dello stato patrimoniale a quella di definitiva allocazione (B2, B3, B4 generalmente) come previsto dall’art. 2424 del cc. L’amministrazione finanziaria, con propria circolare del 10 maggio 2005 n. 20/E (che si riferiva in modo specifico alla detassazione degli investimenti) ha dato una sua definizione dei costi di ricerca e sviluppo, ai quali occorre forzatamente attenersi ad 2 evitare contestazioni; la riporto in sintesi in quanto i concetti generali espressi non mutano la sua validità ed attualità: “Si ricorda che i costi di ricerca e sviluppo possono essere distintamente classificati in: 1. costi per la "ricerca di base", sostenuti per studi, esperimenti, indagini e ricerche che non hanno una finalità precisamente definita con riferimento al processo di produzione, da considerarsi di utilità generica per l'impresa; 2. costi per la "ricerca applicata" o finalizzata ad uno specifico prodotto o processo produttivo, vale a dire l'insieme di studi, esperimenti, indagini e ricerche direttamente funzionali alla possibilità di realizzare uno specifico progetto; 3. costi per lo "sviluppo", sostenuti prima dell'inizio della produzione commerciale o dell'utilizzazione e finalizzati all'applicazione dei risultati della ricerca o di altre conoscenze possedute o acquisite in un progetto o programma per la produzione di materiali, strumenti, prodotti processi, sistemi o servizi nuovi o sostanzialmente migliorati; rientrano fra i costi di sviluppo anche quelli sostenuti per l'ideazione e la realizzazione di "prototipi" non idonei ad un utilizzo a fini commerciali, anche se relativi alla creazione di nuovi campionari e sempre che non si tratti di mere modifiche riguardanti il design dei prodotti. ….. soltanto i costi sostenuti per la ricerca applicata e per l'attività di sviluppo, individuati, rispettivamente alle precedenti lettere b) e c), sono suscettibili di essere capitalizzati… Di converso, i costi sostenuti per la ricerca di base - in quanto attengono alla ricorrente operatività dell'impresa e sono, conseguentemente, interamente imputati al conto economico ……… …. Omissis…. Rientrano tra i costi ammissibili quelli direttamente sostenuti per la realizzazione dei progetti in attività di ricerca e sviluppo, inclusi quelli inerenti l'utilizzazione di risorse interne all'azienda e gli oneri accessori eventualmente aggiuntisi ai costi originari. …… a titolo meramente esemplificativo: gli stipendi, i salari e gli altri costi relativi al personale impegnato nelle attività di ricerca e sviluppo; i costi dei materiali e dei servizi impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo; l'ammortamento di immobili, impianti e macchinari, nella misura in cui tali beni sono impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo; i costi indiretti, diversi dai costi e dalle spese generali ed amministrative, relativi alle attività di ricerca e sviluppo; gli interessi passivi sostenuti, a fronte di finanziamenti specificamente ottenuti ed utilizzati per lo svolgimento dell'attività di ricerca e sviluppo, nel rispetto dei medesimi limiti e condizioni indicati per le immobilizzazioni materiali; gli altri costi, quali l'ammortamento di brevetti e licenze, nella misura in cui tali beni sono impiegati nell'attività di ricerca e sviluppo. Con riferimento agli immobili, agli impianti ed ai macchinari, nonché ad altri beni strumentali impiegati nell'attività di ricerca, si precisa che gli stessi rientrano nella previsione agevolativa anche se acquisiti mediante contratti di locazione finanziaria, stante il criterio di tendenziale equivalenza tra l'acquisizione o la realizzazione di un bene in proprio e quella effettuata tramite contratto di leasing. 3 Poiché i beni a fecondità ripetuta impiegati nell'attività di ricerca concorrono alla determinazione dei costi per un ammontare pari all'ammortamento dell'esercizio, per i beni acquisti tramite leasing verranno computate, ai soli fini della determinazione del beneficio fiscale, le quote di ammortamento figurativo calcolate sul costo sostenuto dal concedente per l'acquisto dei beni locati, al netto delle spese di manutenzione.” (Su questo punto ritengo che le norme sulla deducibilità del leasing per la sola quota di interessi e non di capitale, muteranno la posizione dell’amministrazione)” Per quanto riguarda il costo dei marchi d'impresa, le quote di ammortamento sono deducibili in misura non superiore ad un diciottesimo del costo. Infine le quote di ammortamento del costo dei diritti di concessione e degli altri diritti iscritti nell'attivo del bilancio sono deducibili in misura corrispondente alla durata di utilizzazione prevista dal contratto o dalla legge. I costi pluriennali, cioè quelli che non si riferiscono ad alcun bene o diritto particolare che si nobiliti in un valore di mercato (il che li renderebbe iscrivibili nella voci dell’attivo patrimoniale sopra citate), ma che comunque esplicano la loro utilità in più di un esercizio sociale, secondo il dettato dell’art. 108 del TUIR, sono deducibili nell'esercizio in cui sono state sostenute ovvero in quote costanti nell'esercizio stesso e nei successivi ma non oltre il quarto. Le quote di ammortamento dei beni acquisiti in esito agli studi e alle ricerche sono calcolate sul costo degli stessi diminuito dell'importo già dedotto. Le altre spese relative a più esercizi, diverse da quelle qui considerate sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio. Le medesime spese, non capitalizzabili per effetto dei principi contabili internazionali, sono deducibili in quote costanti nell'esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi, a scelta del contribuente e con quote successivamente non modificabili. Il software merita un discorso a sé stante; se è stato prodotto o ne è stata acquistata la proprietà, la deduzione avviene secondo le regoli comuni della proprietà industriale; se ne è stata acquistato il diritto di utilizzo la deduzione va effettuata per quote costanti come previsto per i diritti di concessione. Se il software è stato acquistato per uso diretto come un software di sistema, come ad esempio, il software dei computer, esso sarà iscritto in uno con il bene materiale cui si riferisce ed ammortizzato con lo stesso; in caso di software acquistato per applicazioni particolari, esso sarà una spesa deducibile in relazione alle quote imputabili ai singoli esercizi. A complicare la vita l'art. 98 del codice della proprietà intellettuale (DL 30 del 2005) che protegge le informazioni aziendali riservate, per tali intendendosi quel complesso di conoscenze che, sia pure non sostanziantisi in ritrovati contrassegnati da requisiti di brevettabilità o di altra tutela (ad esempio in base alla legge sul diritto d'autore), comunque formano il patrimonio sapienziale peculiare dell'imprenditore, il know how relativo ad un determinato settore della tecnica. La norma così recita, "costituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore". Requisiti di tali informazioni sono: a) la segretezza, nel senso che esse non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; b) l’avere un valore economico proprio in quanto segrete; 4 c) L’ essere sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete. Il secondo comma dell'art. in esame ritiene oggetto di protezione anche i dati relativi a prove o altri dati segreti, la cui elaborazione comporti un considerevole impegno ed alla cui presentazione sia subordinata l'autorizzazione dell'immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche. Con le attuali norme, la rappresentazione in bilancio non può che essere il costo sostenuto o il corrispettivo pagato per l’acquisto. Ma è evidente che queste informazioni, inserite nel contesto della attività aziendale, possono determinare un effetto moltiplicatore di valori che, prudenzialmente, potrebbe essere rilevato solo in caso di successiva rivendita. Una ipotesi di interesse potrebbe essere la rivalutazione in bilancio del valore del bene immateriale /diritto/informazione immobilizzato; come noto l’art. 2423 comma 2 parla dei criteri di chiarezza, veridicità e correttezza che devono informare la redazione del bilancio; il successivo art. 2426 comma 1 lett. 3) parla della obbligatorietà della riduzione del valore della immobilizzazione qualora essa abbia perso il suo valore originario; ma nulla dice relativamente al fatto che, invece, l’immobilizzazione abbia considerevolmente aumentato il suo valore originario. Faccio l’ipotesi, abbastanza normale nelle IPO che i primi bilanci siano negativi anche se, in proiezione, il valore dell’attivo immateriale immobilizzato abbia dimostrato l’esistenza di una notevole plusvalenza. A questo punto vi sarebbe il canonico rimedio, la capitalizzazione di quanti più costi sia possibile; in alternativa, in base al doppio binario civile-fiscale ormai codificato, ritengo possibile attribuire al bene immateriale un maggior valore, bilanciato al passivo da una apposita riserva da rivalutazione. Ovviamente è una opzione che deve tener conto del fatto che la società in ogni caso deve essere in grado di soddisfare le proprie obbligazioni; in caso contrario il rimedio sarebbe peggiore del male. Tuttavia in fase transitoria ed eccezionale, vedo la cosa possibile senza conseguenze fiscali. Qualche ulteriore considerazione anche se un po’ divaga dal tema assegnatomi. La valenza della proprietà industriale soprattutto per i settori emergenti è ormai travolgente e determina la necessità di ripensare ai sistemi valutativi dei bilanci, spostandone l’enfasi sul capitale intellettuale della società e abbandonando le antiche metodologie valutative basate principalmente sugli investimenti immobiliari e sulle loro possibili plusvalenze nascoste. Mi rendo conto delle difficoltà che ciò crea; come potrà un istituto bancario giudicare affidabile una tipica società basata sulle attività immateriali se si trova in presenza (come sembra ormai prassi) di una società sostanzialmente priva di investimenti materiali propri? Questa difficoltà colpisce particolarmente i sistemi bancari, come quello italiano, in cui la valutazione dell'idea appare essere ancora un elemento di difficile digeribilità; ma ciò deve cambiare perché, in caso contrario, l'importanza del sistema bancario nello sviluppo della new economy rischierà di diventare marginale. Credo che ormai uno degli assets più importanti per la valutazione di un istituto bancario sia la capacità di comprendere la potenzialità dell’attività del proprio cliente, 5 allo scopo di determinare i nuovi servizi che l'istituto deve proporre per poter svilupparsi (o sopravvivere). La struttura del sistema contabile è sostanzialmente una rilevazione passiva di dati che sono poi interpretati in funzione della capacità di rappresentare una realtà capace di creare profitto, per sé e per coloro che vi investono. Dal punto di vista legale, questi elementi hanno avuto sempre maggior rilievo, al punto che ormai si ritiene che vi siano categorie di persone, dipendenti, fornitori di beni, servizi e credito, che abbiano un oggettivo interesse all'esatta rappresentazione dei valori contabili in quanto riconosciuti titolari di interessi rilevanti al pari degli azionisti della società. Ma tutto ciò fa concludere che l'attuale sistema contabile non sia in grado di dare se non una fotografia della situazione; non sa come mettere in luce il potenziale insito nel capitale intellettuale di cui ogni impresa è dotata. Questa percezione richiede una valutazione più complessa che non quella semplicemente realizzabile con l'esame dei dati contabili e si allarga a valutazioni che spaziano dalla sociologia dei rapporti all'interno dell'impresa, alla capacità di generare, mantenere, sviluppare e distribuire le idee all'interno dell'organizzazione, alla capacità, soprattutto, di far sapere ai terzi che la società non è soltanto rappresentata da quel insieme di atti che trovano la loro conclusione nel bilancio di esercizio, ma da quegli elementi di capacità personale dei propri dipendenti, distributiva della conoscenza della propria struttura, e di fattibilità e realizzabilità delle idee, che solo rappresentano il seme di una società basata sulla proprietà intellettuale o, come preferisco chiamarlo, sul capitale intellettuale. Il carattere di incertezza comunque insito in questa tipologia di attività ha fatto sì che le stesse si siano finanziate principalmente con il ricorso al capitale di rischio. Ciò perché, per i motivi a cui ho accennato all’inizio di questo lavoro, la determinazione del grado di affidabilità di questa iniziative dal punto di vista del finanziatore bancario istituzionale, era troppo difficile o quanto meno troppo al di fuori dai canoni tradizionali, pertanto difficilmente proponibile. Altro discorso, invece, per l’investitore di capitale; poche iniziative, per gli amanti del rischio presentano quei caratteri di appetibilità quali quelle della new economy. C’è soltanto da augurarsi che coloro che hanno investito alla cieca, fidando solamente nella novità del settore e nella sua potenzialità di mercato non facciano la fine di quei mercanti inglesi dell’ottocento che, al momento dell’apertura del mercato cinese ai commerci occidentali, riempirono le navi di servizi di posate da tavola in argento, senza conoscere l’uso cinese di mangiare con i bastoncini. 6