della primavera

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della primavera
musica
La colonna sonora
della primavera
Alessandra Abbona
L’
immagine, rilanciata da
molti siti Web, che meglio
rappresenta la potenza della
musica è quella della ragazza con
un cappotto rosso nella folla di avenue Bourguiba, nel gennaio 2011 a
Tunisi, che si leva cantando ad alta
voce «Kelmati Horra» («La mia parola è libera»). «Io sono (tra) coloro
che non hanno paura e sono liberi,
sono la voce di chi non si arrende,
sono i diritti degli oppressi. La mia
parola è libera. Io sono la stella che
Nei Paesi arabi e in Israele alcune popstar sono
scese in piazza per protestare contro le politiche
governative. I loro testi di denuncia sono
diventati inni alla democrazia e alla giustizia
sociale, al di là di ogni divisione religiosa e politica
splende nella notte, sono la spina
nella gola dell’oppressore». Questo
testo di Amel Mathlouthi, giovane
cantautrice dal viso bambino, ma
con la determinazione di una roccia
(«la mia musica sembra dolce, ma
sono una guerriera sul palco»), ha
fatto il giro del mondo e ha mostrato
un aspetto nuovo dei Paesi arabi
sferzati dal vento rivoluzionario. Con
il più noto rapper El General, nome
d’arte di Hamada Ben Amor, incarcerato per i suoi testi contro l’allora
presidente Zine El Abidine Ben Ali,
la Mathlouthi è tra i simboli della
primavera tunisina.
L’onda sonora è partita da Beirut,
passando per Tel Aviv, Il Cairo,
febbraio 2012 Popoli 35
musica
In apertura, i Mashrou’ Leila, gruppo
libanese i cui testi uniscono giovani arabi
e israeliani e, sotto, i Balkan Beat Box.
Tunisi per arrivare fino a Casablan- zioni, ma anche dalla consapevolezza
ca. Perché il risveglio delle piazze che non ci sarà mai giustizia per tutti
tocca tanto il boulevard Rotschild se non si risolverà la questione israedi Tel Aviv, quanto piazza Tahrir al lo-palestinese nel suo complesso.
Cairo. In Israele e in Egitto, artisti e A spasso tra le tende del boulevard di
band sono scesi in strada mescolan- Tel Aviv si è visto anche Tomer Yosef,
cantante dei Balkan Beat
dosi con i manifestanti,
Box, una band che fonspendendo parole dure Le loro hit
de sonorità balcaniche,
contro chi è al governo e dirompenti
arabe, dub e hip hop.
non rispondeva o non ri- inneggiano alla
«Political fuck», censusponde più alla domanda presa del potere
rato con vari beep dalle
di giustizia sociale.
da parte delle
emittenti televisive, è
Ori Bankhalter, dj di Ra- persone comuni:
la loro hit dirompente
dio Eol a Tel Aviv, dove «Gente, la città
che inneggia alla presa
conduce il programma è vostra, voi
del potere da parte delle
di world music «Olam create la legge,
persone comuni: «Gente,
Katan» («Piccolo mon- ora siete voi
la città è vostra, voi credo») è certo del potere ad agire»
ate la legge, ora siete voi
unificante e «guaritore»
ad agire». Sottotitolato
della musica. «Quando
in diverse lingue, con le
trasmetto Oum Khultum,
la più grande voce egiziana di tutti i immagini di Siria, Egitto e New York,
tempi, o i giovani libanesi Mashrou’ è diventata la canzone che unisce la
Leila o i drusi Toot Ard, nessuno ha protesta, al punto che Al Jazeera, lo
da dire nulla perché sono arabi. Anzi, scorso novembre, lo ha eletto video
sono molto apprezzati: le loro sonori- della settimana.
tà ci parlano, dialogano. Come posso
odiare, quando la musica ci rende si- IN CONCERTO A PIAZZA TAHRIR
mili, ci unisce?». Bankhalter ricorda «L’hip hop non è morto, ma si è semdel movimento J14, nato l’estate scor- plicemente trasferito nel mondo arasa nelle vie della città più laica d’Isra- bo». Lo afferma Deeb, (al secolo Moele, per rivendicare maggiori oppor- hammed El Deeb, 26 anni, cairota),
tunità per le giovani generazioni, ma pizzetto e occhiali, look da professore
anche per denunciare l’ingiustizia di più che da rapper incallito. Trilingue
uno Stato che è sordo ai bisogni della (con studi in inglese e francese), si
sua gente: «I nomi più amati della
musica israeliana si sono uniti alla
protesta popolare, esibendosi tra la
folla, su palchi improvvisati. Alcuni
si sono esposti con prese di posizione
molto nette: tra questi, anche “grandi
vecchi” come Yehuda Poliker, Shlomo
Artzi, Berry Sakharof, Ehud Banai,
così come band più giovani come gli
Hadag Nahash e Boom Pam».
Un capitolo troppo lungo da affrontare qui è il legame tra le istanze del
movimento J14 e la politica di occupazione praticata nei confronti dei
palestinesi: alle manifestazioni nelle
varie città del Paese, arabi israeliani
ed ebrei hanno marciato fianco a
fianco, uniti da comuni rivendica36 Popoli febbraio 2012
destreggia tra le rime con grande
abilità: Cairofornia è il suo ultimo ep
(mini cd contenente al massimo sei
singoli), con canzoni che sono risuonate spesso, nei mesi scorsi, in piazza
Tahrir. Deeb ha trascorso giorni tra
i manifestanti, salendo su cassonetti
o su spalti improvvisati e cantando,
armato di microfono e casse acustiche, con la sola forza delle sue liriche
appassionate: «La rivoluzione non si
fa in un giorno, alzatevi egiziani, la
rivoluzione non finisce in un giorno,
ci vuole tempo per il cambiamento».
Accanto a lui anche una band di prestigio internazionale come i Wust el
Balad («Centro città», la zona del Cairo
in cui hanno formato il gruppo): sei
ragazzi polistrumentisti, dal sound
che fonde Levante e Occidente, flamenco e musica afro, blues e melopee
arabe (melodia lenta, basata su tema
religioso o liturgico) grazie a chitarre,
oud (liuto diffuso nel Nord Africa e in
Medio Oriente), basso, percussioni e
voci. «Nei giorni delle proteste siamo
stati tra la folla e abbiamo cantato le
nostre canzoni per la libertà del Paese - sostengono Hany Adel e Ahmed
Omran, fondatori e colonne storiche
del gruppo -. Prima della caduta di
Mubarak eravamo costretti ad autocensurare i nostri testi, ora invece
siamo liberi di comporre. Crediamo
che la musica porti un cambiamento
J. Bright
A sinistra, il rapper egiziano Deeb
in piazza Tahrir nei giorni della protesta
e, a destra, un concerto dei Wust el Balad.
politico e che veicoli messaggi alla
società. Negli ultimi anni è cambiato
qualcosa per gli artisti in Egitto, sono
nate nuove band che si sono impegnate nella rivoluzione».
Il cantore per eccellenza della primavera di piazza Tahrir è il giovane
Ramy Essam, che l’11 febbraio 2011
eseguì un motivo, «Irhal» («Lascia!»),
indirizzato al presidente Mubarak,
divenuta la canzone simbolo della
rivoluzione egiziana. In quei giorni
drammatici Essam fu sequestrato e
pesantemente malmenato dalla polizia, ma la sua voglia di fare musica
non è venuta meno. Anzi, oggi Ramy
è invitato all’estero e sta realizzando
un nuovo album.
Chi invece è rimasto a lungo in
prigione è il marocchino Mouad Belghouate, noto come «lhaqed» («l’indignato»). Questo ventiquattrenne
rapper-operaio (di giorno lavorava
in un’officina) originario di Oukacha,
quartiere povero di Casablanca, e
militante del Movimento 20 febbraio
(che rivendica riforme politiche e sociali radicali nel Paese), è stato incarcerato con l’accusa di aver aggredito
un sostenitore del re. Che sia così
o meno, il vero motivo dell’arresto
sono le sue rime taglienti indirizzate
anche a Mohamed VI. «Siamo stufi di
questo regime, vogliamo fare come
gli egiziani e tunisini, il potere è
nelle mani di un solo uomo, vogliamo
uguaglianza e diritti per tutti», canta
Mouad, che per questa e altre canzoni
non poteva esibirsi in pubblico o in
tv: nonostante questo la sua musica è
diffusa su cd autoprodotti e sulla rete
ed è nato un comitato per sostenere
la sua scarcerazione. Il 12 gennaio
il rapper è poi stato scarcerato, ma il
tribunale lo ha condannato a quattro
mesi di detenzione per aggressione a
un giovane sostenitore del re.
LE NOTE CHE UNISCONO
Il fenomeno vero, però, si chiama
Mashrou’ Leila e viene da Beirut:
sei ragazzi e una ragazza, età media
24 anni, laureati in design e architettura all’Università americana
di Beirut, con origini e confessioni
diverse, specchio della pluralità del
loro Paese. In un anno sono diventati
la voce più fresca di tutto il Medio
Oriente, con due Ep all’attivo, 35mila
contatti su Facebook, concerti sold
out negli Emirati Arabi, in Giordania,
Egitto, Amsterdam e Parigi. Definire la musica dei sette beirutini non
è semplice: chitarre, basso, tastiere,
batteria e poi il violino dell’armeno
Haig Papazian e la bellissima voce di
Hamed Sinno (per metà giordano) con
carisma e magnetismo da vendere.
Testi che parlano di bombe che, come
una routine, esplodono in città, della
prepotenza dei militari ai check point,
della divisione settaria che impedisce
a giovani di credi diversi di sposarsi
tra loro, di amore omosessuale (Sinno
ha recentemente fatto outing, cosa
difficile in un Paese arabo, diventando un’icona generazionale per i
due sessi) e molto altro. Le loro note
che miscelano folk e pop anglosassone, sviolinate levantine e gorgheggi
arabi, assoli di chitarra strazianti e
tastiere ovattate, sono il filo che li
lega a un Paese vicino, ma lontano:
Israele.
La band ha, nel Paese «nemico», un
folto seguito di
appassionati, che
Il vero fenomeno
ne diffonde la
sono i Mashrou’
musica alla radio,
Leila: sette
sul web, e che
ragazzi, laureati
ha persino effetin design e
tuato il viaggio
architettura,
in Giordania per
con origini e
poterli ascoltare
confessioni
dal vivo. Paraldiverse, specchio
lelamente anche
della pluralità
in Palestina i
del Libano
Mashrou’ Leila
sono un mito. Sul bus che collega
Gerusalemme ad Amman, palestinesi
e israeliani a settembre si dirigevano
insieme in quella terra franca che è la
Giordania, per assistere a un concerto
di libanesi. Paradossalmente uniti,
per ballare sulle note di una delle hit
della band, «Ghadan Yawmon Afdal»
(«Domani sarà un giorno migliore»),
l’inno della rivoluzione, secondo i
Mashrou’ Leila.
Rivoluzione e musica non sono mai
andate così d’accordo.
febbraio 2012 Popoli 37