pdf - International Communist Party

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DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: la linea da Marx a Lenin,
alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita
del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista
Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti
popolari e dei blocchi partigiani; la dura opera del restauro della
dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe
operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.
organo del partito
comunista internazionale
Il confronto inter-imperialista in Libia
A Tripoli, nei primi giorni di settembre,
con la sfilata dei cavalieri berberi nella rinominata “Piazza dei Martiri”, gli stessi
sempre esibiti dal rais nelle parate militari,
si è celebrata la faticosa conquista della
città, la sconfitta del regime e certificata sul
campo la vittoria del poliedrico CNT.
La cessazione dei combattimenti è però
avvenuta più di un mese dopo con la conquista delle ultime sacche di resistenza a
Bani Walid e a Sirte, e soprattutto con la
cercata uccisione di Gheddafi, eliminato per
non dovergli concedere la parola in un tribunale ove racconterebbe dei molti scabrosi
retroscena internazionali dell’affare Libia,
che qui non approfondiamo.
Non è chiaro neppure agli esperti di strategia militare che tipo di guerra sia stata; si
parla di un nuovo tipo, che necessitava di
nuove relazioni fra Stati, nuovi apparati di
comando, nuove reti di collegamento, ecc.
Non è stata una guerra dichiarata fra
Stati, nonostante il discreto numero dei partecipanti. Nemmeno una sommossa popolare suscitata dal forte impoverimento della
popolazione, come nei vicini paesi della
sponda sud del Mediterraneo, perché la Libia è relativamente ricca e meta di immigrazione di forza lavoro a basso costo sia
dai paesi limitrofi sia asiatici. La crisi c’era
ma non così profonda da generare una simile rivolta armata.
Diversi i rapporti di forza e gli scontri
sociali nei paesi del Magreb, che hanno prodotto diverse soluzioni: il dittatore tunisino
Ben Alì è fuggito dopo i primi violenti
scontri, anche lui col suo carico d’oro; Mubarak ha invece reagito con mano pesante
alle estese dimostrazioni al Cairo, ma poi è
stato costretto a sacrificarsi per evitare che
le classi oppresse e il proletariato egiziano
potessero estendere i loro scioperi, ed eventualmente costituire un’organizzazione autonoma, che si sarebbe dovuta confrontare
poi con le formazioni politico-religiose
preesistenti. In entrambi i casi le classi dominanti borghesi sono riuscite, “cambiando
tutto per non cambiare niente”, a riprendere,
per il momento, il controllo della situazione.
In quelle lotte di classe abbiamo denunciato, secondo la nostra posizione comunista, la mancanza di genuine organizzazioni
proletarie valide e pronte a prendere la direzione del movimento; anche lì la nostra
classe veniva coinvolta e usata per obiettivi
ultimi non suoi, anche se nulla è ancora definitivamente compiuto.
Mentre in Egitto non ci sono stati interventi armati stranieri, in Libia sono partiti
immediatamente i bombardamenti dagli aerei francesi. La situazione libica ha più affinità con quella irakena e con la cacciata di
Saddam Hussein che con le altre dei paesi
vicini, nei quali non c’è stato uno sbarco di
truppe e non si sono volute distruggere le
precedenti strutture di polizia e governo.
Non abbiamo assistito nemmeno ad una
guerra civile tra opposti partiti politici, palesi o clandestini, di una certa rilevanza perché non ne esistevano e il CNT, nato per
l’occasione, non ne ha le caratteristiche per
la sua forte disomogeneità.
Il subitaneo riconoscimento da parte
delle potenze europee coinvolte è stato deciso soprattutto per garantire la continuità
nelle forniture di petrolio e la conferma degli accordi economici preesistenti.
Beché nessuna forza politica interna abbia chiesto un intervento militare in suo sostegno, questi “salvatori umanitari” dell’operazione “Odissea all’alba” sono arrivati
in forze con uno sfoggio militare e tecnologico di assoluta avanguardia, evidentemente sproporzionato alle semplici dimensioni dei fatti. Ciascun “salvatore” aveva un
proprio particolare obiettivo immediato, ma
due erano comuni a tutti: il petrolio libico
e, in particolare, arginare l’avanzata cinese
nelle economie nordafricane, dato che Pechino è ostinatamente alla ricerca di fonti
energetiche, materie prime e mercati per la
sua impetuosa economia.
Dire che questo sfoggio di muscoli sia
un’anticipazione di uno scontro militare inter-imperialista combattuto in quel paese in
un prossimo futuro è oggi azzardato, ma un
monito si. Non per nulla la Cina si è sempre dichiarata contraria all’intervento, non
certo per solidarietà di paese “comunista”
verso il proletariato libico, ma per proteggere i suoi lucrosi contratti.
Che tutto quell’immenso apparato militare sia stato montato solo per disfarsi del regime e del clan di Gheddafi non convince,
mentre sembra credibile la ricostruzione, derivata da alcune rivelazioni poi confermate,
secondo cui tutto sia stato preventivamente
orchestrato con una iniziale regia francese.
Già il 21 ottobre 2010, Nouri Mesnari,
l’uomo più fidato del colonnello, lo avrebbe
tradito, con lo scopo di un cambio di regime
e di un suo diretto tornaconto, magari istituzionale; infatti, rifugiatosi a Parigi, rivelava
informazioni militari con tale profusione da
essere ironicamente soprannominato Wikileak dai servizi francesi. Il 18 novembre a
Bengasi agenti francesi al seguito di una
missione commerciale incontravano il colonnello dell’aeronautica Abdallah Gerani
pronto a disertare. Scoperto il tradimento del
fido collaboratore, Gheddafi chiedeva alla
Francia la consegna di Mesnari, che invece
otteneva asilo politico e tutela. Il 23 dicembre venivano accolti a Parigi tre libici: Faraj
Charrant, Fathi Bourkhris e Ali Mansouri,
esponenti importanti del futuro gruppo dirigente della rivolta, e dopo Natale arrivavano
a Bengasi i primi aiuti logistici e militari. Il
piano della rivolta sarebbe stato pianificato
a Parigi con l’aiuto di Mesnari mentre i servizi segreti libici scoprivano le intenzioni
del colonnello Gerani e lo arrestavano il 22
gennaio 2011. Ai primi di febbraio sarebbero arrivati addestratori inglesi e americani
all’uso di armi pesanti e lanciarazzi.
Il 17 di quel mese scoppia la rivolta in
Cirenaica. Fa notizia, a conferma di questa
ricostruzione, che altri membri del governo
e vari ambasciatori si siano subito dimessi
e allontanati dal rais come fosse già costituita una sorta di diplomazia e governo parallelo. Il resto nelle cronache dei giornali
fino all’oggi.
Secondo i piani predisposti l’intervento
doveva terminare il 27 giugno considerando
una massiccia adesione della popolazione
alla rivolta, la diserzione in massa dei militari e dei loro comandi e l’appoggio delle
organizzazioni delle tribù nelle zone interne. Ma questo non è successo: pare che
la maggior parte della popolazione sia stata
a guardare, certamente perché non essendoci alle spalle una qualsiasi organizzazione politica di opposizione radicata nella
popolazione tutto quanto è sceso dall’alto
come le bombe. L’esercito dopo un iniziale
sbandamento si è riorganizzato, ma ha dovuto cedere posizioni per l’impari rapporto
di forze; nel deserto la vittoria sarebbe stata
prossima ma non ancora completa. Questi
errori di valutazione e i risultati incompleti
hanno costretto la coalizione a prolungare
l’oneroso impegno di altri 90 giorni fino al
27 settembre 2011.
Per quanto concerne l’incredibile sfoggio, su entrambi i fronti, di armi di nuova
concezione e sistemi complessi possiamo ricordare che, dopo la fine dell’embargo imposto alla Libia dal 1986 al 2004, il rais si
lancia in consistenti piani di ammodernamento e potenziamento del potenziale bellico, spinto anche dalla intenzione di diventare la figura egemone di un nordafrica federato sotto la sua ideale tutela. I fabbricanti
d’armi di ogni dove, amici e non, lo assecondano, garantiti dalla consistente rendita
petrolifera, cui si aggiungono quelli del
“mercato parallelo”. In questo tipo di commercio, il divieto di vendita di armi ad un
paese scomodo o “canaglia” suscita due reazioni: primo, si favorisce la concorrenza di
altri paesi, secondo non si ha più esatta conoscenza dell’arsenale del nemico. Ma un
conto è vendere armi leggere e munizionamento, in cui l’Italia ha un ruolo primario
nel mondo, altro sono i sistemi d’arma sempre più complessi che necessitano di un continuo e ben informato “servizio post-vendita”, per la formazione del personale, le
manutenzioni e i pezzi di ricambio, costosi
e difficili da reperire nel mercato parallelo.
Il blocco di tale servizio è sempre una forma
di controllo e ricatto sul “cliente finale”.
La parte più consistente di questo mercato è sempre stata dell’Urss, ora della Russia, che solo nel 2010, con consegne per il
2011-2012, ha stipulato con la Libia un contratto per 1,8 miliardi di dollari per cacciabombardieri Flanker di ultima generazione,
80 complessi missilistici terra-aria; carri armati per 1,3 miliardi, cui si aggiungono altri mezzi pesanti forniti da alcuni paesi satellite per un totale di circa 4 miliardi. È
spiegata quindi, almeno in parte, l’opposizione russa all’intervento Nato e ad un suo
coinvolgimento nelle operazioni militari.
A una certa distanza come fornitori seguono la Francia, l’Italia, la Cina ed altri,
per un totale di ben 28 paesi tra grandi e piccoli, con la vicina Malta che ha svolto il
ruolo di paese terzo con cui triangolare
Anno XXXVIII - N. 349
Poste Italiane SpA Sped. in abb. postale, 70% DCB FI - Reg. Tribunale di Firenze n. 2346, 28-5-1974.
Direttore responsabile Ezio Baudone, Vice direttore Fabio Bertelli. Proprietà Associazione La Sinistra Comunista. Stampato a Scandicci, Fi, Tipografia Emme-A, Via di Casellina 73m, il 2-11-2011.
Roma, 15 ottobre
molti di questi traffici.
I buoni affari del commercio d’armi
italo-libico si sono sviluppati negli anni salendo a 15 milioni nel 2006 e ben 57 nel
2007. Col “Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato” firmato a Bengasi nel
2008 tra Berlusconi e Gheddafi si stipularono altri accordi che solo per la Finmeccanica hanno prodotto utili per 250-300 milioni e commesse future per 800 milioni.
Una considerevole svolta nel commercio
d’armi italo-libico avvenne nel settembre
2009 celebrato dall’arrivo a Roma del rais,
quando si formalizzò l’acquisto di una importante quota della Finmeccanica da parte
di una finanziaria del governo libico, che diveniva così il secondo proprietario di questa azienda strategica in cui si producono armamenti di una certa rilevanza come navi,
aerei, carri armati. Nella stessa occasione si
autorizzava la vendita di materiale bellico
Cucinata
la sconfitta
Il 20 ottobre, giorno della votazione dei
provvedimenti antiproletari, il sindacato
PAME, controllato dal KKE, ha fatto occupare dai suoi militanti le strade di accesso
al Parlamento allo scopo di impedire agli
scioperanti, radunati in piazza Syntagma, di
disturbarne i “lavori”. L’obiettivo era di tenere lontani i lavoratori infuriati dalla zona
vicina al Parlamento, evitare lo scontro con
la polizia e permettere ai parlamentari di votare tranquillamente.
I capi dei due principali sindacati, il
GSEE e l’ADEDY, non godono più della fiducia degli scioperanti che non possono
controllare. Solo la forza organizzata del
PAME, il sindacato che si presenta come
più radicale, era in grado di garantire la pro-
In Italia, vista la gravità della situazione
economica, cui è corrisposto un atteggiamento apertamente collaborazionista della
Triplice sindacale, ed in vista di ulteriori
affondi contro la classe operaia, si è ritenuto
che fosse il caso di tornare a seminare confusione fra i lavoratori e di accodare i settori più combattivi della classe operaia all’impotenza, alle illusioni e ai movimenti
spuri della piccola borghesia. Quindi, gli
apparati della sinistra sindacale e qualche
dirigenza dei sindacati di base, sempre imprevedibile ed incontrollabile, dopo decenni
di divisioni o di disinteresse reciproco, facevano spuntare, all’improvviso, come un
fungo, la assemblea del primo ottobre. Questa, cui erano chiamati sindacati, partiti e
“movimenti” d’ogni razza e tendenza,
avrebbe fondato lì per lì nientemeno che “il
movimento dei movimenti”, per rivendicazioni del tutto inconsistenti che critichiamo
in altra parte di questo giornale.
La “giornata” del 15 ottobre a Roma, un
sabato, da qui nasce. Ed era evidente che
qui sarebbe finita. Praticamente nessun organismo reale visibile l’ha indetta, e nessuno l’ha organizzata. Una enorme folla indifferenziata ha percorso le vie di Roma,
tenendosi stretta solo al buon senso e alle
buone intenzioni. In quell’assenza di indirizzo politico e postura di classe era assolutamente impensabile un qualunque servizio d’ordine a protezione da provocazioni.
Una disorganizzazione, diremmo, criminale. Del resto in quel tipo di manifestazione c’era posto per tutti, e così è stato.
Inutile scomodare opposizioni fra violenza
e non-violenza, legalità ed illegalità, ecc.
Quando non siamo sul terreno della lotta di
classe vanno irrimediabilmente queste e
quelle nel senso della conservazione.
Non sono state le “violenze” di una
“minoranza”, a determinare il fallimento
della manifestazione ma il fatto che si è
conclusa come era iniziata, nel vuoto.
Come previsto, tutto è andato come doveva
andare: il suo scopo era fin nei suoi primi
ideatori la dispersione di quel poco di movimento operaio che c’è oggi. Sconfitta!
sconfitta! ha gridato l’indomani Cremaschi.
Né lo Stato borghese si è certo indebolito
per due vetrine infrante.
La violenza rivoluzionaria della classe
operaia non si improvvisa né è anticipata da
inutili punzecchiature sui rappresentati
dello Stato borghese. La rivoluzione è una
guerra, non un giorno di carnevale da segnare sul calendario, una guerra che ha bisogno del suo esercito, al momento disperso
e tutto da inquadrare, ed uno stato maggiore, il partito, oggi separato dalla classe.
Chi ha fretta non è un rivoluzionario comunista. Nessuna solidarietà mai con lo Stato
borghese, ma il comunismo e la classe operaia stanno da un’altra parte.
Questa mancanza di indirizzo – non
solo di quella manifestazione ma dell’intero movimento degli “indignati” e di quelli
che non vorrebbero “pagare il debito” – deriva dal fatto che si tratta di movimenti interclassisti, che raggruppano lavoratori,
precari, disoccupati insieme a vasti e variopinti strati di piccola e media borghesia
e di sottoproletariato, che vedono ridursi
velocemente le poche o tante riserve accumulate negli scorsi decenni e hanno paura
di un domani che percepiscono sicuramente peggiore del presente.
Ogni classe reagisce, a modo suo si ribella, secondo le sue possibilità, metodi ed
accenti. Si indigna chi non capisce, chi ritiene che il nemico non rispetti un precedente
patto: in una parola, la piccola borghesia e il
sottoproletariato. (Anche dei lavoratori si
parla oggi di difendere la dignità, scordando
che la classe operaia non è una classe di questa società, è una classe di indegni, che conquisterà la sua dignità solo negandosi).
La forza di un fronte di partiti e partitini,
parlamentari ed extraparlamentari, democratici e sedicenti comunisti, ecc. non è
uguale alla somma delle loro forze, ma si
adegua a quella del partito più “destro”,
come è stato dimostrato sul piano pratico in
(Segue a pagina 4)
(Segue a pagina 5)
(Segue a pagina 6)
Grecia in sciopero contro il capitale
che è greco, ed europeo e mondiale
La situazione economica in Grecia sta
andando sempre peggio, come del resto era
previsto. Secondo i calcoli del sindacato
Gsee nel 2012 la disoccupazione, dopo gli
ultimi provvedimenti governativi, sfiorerà
un enorme 30%: il numero dei disoccupati
sarà più alto di quello di chi lavora.
Per l’abbassarsi del reddito medio, già
oggi molti non riescono a pagare la nuova
tassa sulla proprietà, che è molto alta (per un
vecchio appartamento di 55 mq in una zona
economica di Atene si devono versare circa
350 euro l’anno). Circa il 90% dei greci è
proprietario della casa dove abita. Alcuni disoccupati e pensionati cercano di affittare la
loro stessa abitazione per ricavarne dei soldi,
ma una buona parte di questa rendita viene
presa dallo Stato con le tasse. Parecchi saranno costretti prima o poi a vendere la casa
per poter sopravvivere. Molti giovani vanno
all’estero a cercare lavoro, altri hanno cominciato a lasciare la città per tornare in
campagna. Nel complesso si diffondono, soprattutto ad Atene, sentimenti di malinconia
e di paura. I suicidi sono aumentati rapidamente. E siamo solo agli inizi.
Da anni il governo prende, una dopo
l’altra, nuove misure di risparmio giustificandole con la necessità di ottenere un
nuovo prestito. Ma, naturalmente, per la
Grecia è impossibile ridurre il deficit e pagare il debito e sta sprofondando in uno
stato di grande depressione economica.
Si prospettano misure ancora più dure e
il controllo diretto delle finanze del paese
da parte degli istituti di credito, una via obbligata perché una dichiarazione di fallimento da parte dello Stato ellenico influenzerebbe pesantemente il sistema delle finanze europee, in particolare le banche
francesi e tedesche, che sono in una situazione critica, e rischierebbe di trascinare
tutti i paesi creditori nel baratro.
Quindi il governo, per ottenere altri finanziamenti dalla “troika”, composta da
Bce, Commissione Ue e Fmi, il 3 ottobre ha
preso una nuova serie di provvedimenti che,
come sempre, colpiscono soprattutto i lavoratori e la piccola borghesia. Si è infatti
deciso di ridurre il minimo del reddito esentasse a 5.000 euro, di imporre una tassa anche sulla prima casa (da prelevare dalla bolletta elettrica: se non si paga tagliano la fornitura). Entro la fine dell’anno saranno licenziati 10.000 impiegati statali e 20.000
saranno messi in cassa integrazione (con
congedo dal lavoro per un anno al 60%
dello stipendio base; se in questo periodo il
lavoratore non è richiamato al lavoro, è licenziato). L’obiettivo è quello di licenziare,
entro il 2015, 200.000 dipendenti pubblici,
precari e fissi. Inoltre si vogliono abolire i
contratti nazionali di lavoro che verrebbero
sostituiti da accordi aziendali.
Questo accordo ovviamente non porterà
alcun vantaggio né ai lavoratori greci né a
quelli degli altri paesi europei che stanno
pagando sulla loro pelle le conseguenze
della crisi.
Settembre-O
Ottobre 2011
Edizioni ’Il Partito Comunista’ - Cas.Post. 1157 - 50121 Firenze
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Abb. cumulativo col semestrale "Comunismo" E. 17,00, estero E. 20,00
La reazione dei lavoratori
Il proletariato di Grecia sta cercando di
rispondere a questo attacco feroce con la
mobilitazione e gli scioperi, ma si trova davanti molti nemici, non solo il padronato e
il governo, ma anche sindacati e partiti opportunisti e venduti al nemico di classe.
Il 5 ottobre c’è stato il ventiquattresimo
sciopero generale indetto dal sindacato
GSEE che organizza i dipendenti pubblici
e i lavoratori delle imprese controllate dallo
Stato. La manifestazione ad Atene ha avuto
un certo successo dato che in strada c’erano
circa 30.000 manifestanti.
Il 19 e 20 ottobre si è svolto un nuovo
sciopero generale di 48 ore del settore pubblico e privato indetto dal Gsee, dall’Adedy,
che organizza anche i dipendenti pubblici,
e dal Pame, il sindacato legato al Partito
“Comunista”, stalinista, il KKE. Lo scopo
era quello di manifestare di fronte al parlamento durante la votazione di ratifica dei
provvedimenti anti-operai che il governo
aveva preso il 3 ottobre.
Questi sindacati però non vogliono organizzare il proletariato in una prospettiva
di lotta di classe; essi si oppongono all’attacco statale e padronale da un punto di vista di angusto nazionalismo, socialdemocratico, parlamentarista, e si dimostrano
ogni giorno di più uno degli strumenti principali con cui il regime controlla e reprime
la combattività dei lavoratori.
Lo prova proprio la manifestazione del
20 ottobre ad Atene. Qui le manifestazioni
si sono svolte in un’atmosfera particolarmente tesa perché da settimane era in corso
lo sciopero dei lavoratori comunali: il governo aveva dovuto ricorrere all’esercito per
raccogliere la spazzatura che invadeva le
strade. I manifestanti nella capitale erano più
di 150.000. Il governo aveva mobilitato migliaia di agenti di polizia e ancora una volta
le forze speciali, le famigerate MAT, sono
intervenute contro i manifestanti facendo
largo uso di gas tossici, il cui uso è vietato
dalle convenzioni internazionali nella guerra
tra Stati, ma non in quella tra le classi!
L’aperto tradimento del PAME
il Partito Comunista
Pag. 2
Riunione di partito a Torino
24 e 25 settembre
Tutti i compagni devono ringraziare i
compagni di Torino per l’organizzazione
semplicemente perfetta della riunione, nonstante la difficoltà di accogliere, alloggiare
e rifocillare gli arrivati, scaglionati per forza
di cose a tutte le ore del giorno e della notte.
Il locale per le sedute si è dimostrato comodissimo e del tutto adatto al nostro lavoro.
È in queste riunioni che troviamo l’istanza più alta e generale della nostra contingente piccola organizzazione, nella
quale i diversi gruppi di lavoro riversano i
risultati delle loro ricerche, riflessioni e
conclusioni, che vengono colà illustrati e
da tutto il partito assimilati e fatti suoi. Le
riunioni non sono un organo per giudicare
o decidere ma di riscontro e sintesi dei vari
contributi nella convinzione che il percorso
del comunismo è già segnato e che si tratta
solo di rintracciarlo.
Al solito qui sotto una estrema sintesi
delle numerose relazioni ascoltate, che troveranno esposizione più ampia sulla nostra
rivista Comunismo.
Corso del capitalismo
Gli ultimi dati sulla produzione industriale vengono a confermare ciò che avevamo anticipato nelle precedenti riunioni,
cioè l’impossibilità per i vecchi imperialismi (Europa, Stati Uniti, Russia e Giappone) di uscire dalla recessione industriale
del 2009-2010. Non solo questi vecchi capitalismi sono lontano dall’uscita del tunnel, ma la crescita della produzione che si è
manifestata a partire dall’inizio del 2010
rallenta nettamente e non solo in Europa e
negli Stati Uniti ma nel mondo intero.
Cominciamo dagli Stati Uniti. Dopo
aver raggiunto un massimo nel luglio 2010
con +7,5%, gli incrementi annui della produzione induatriali diminuiscono regolarmente e nettamente per arrivare a +3,2%
nel settembre 2011. La situazione è talmente preoccupante che la Fed, la Banca
Centrale americana, dopo aver in giugno
interrotto la sua politica economica di
“quantitative easing”, ha deciso d’intervenire di nuovo all’inizio di ottobre acquistando obbligazioni immobiliari e mantenendo il suo tasso d’interesse ad un livello
molto basso, fra lo 0 e lo 0,25%, ed è pronta
a prendere nuove misure al fine di evitare
un nuovo tracollo dell’economia.
L’incremento mensile medio per i 9
primi mesi dell’anno è uguale a +4,5%, e
ci possiamo quindi attendere, salvo un brusco rallentamento, un incremento annuo vicino al 4%. Ma la variazione del 2010 rispetto al massimo del 2007 è stato -9,3%,
che quindi non sarà recuperato. A questo
ritmo, nell’ipotesi generosa di una crescita
del 3% negli anni futuri, occorrerà attendere ancora due anni per raggiungere il
massimo del 2007. Ma non scordiamo che
la crescita annua media del ciclo precedente è stata del 1%: vi sono quindi poche
possibilità che il capitalismo americano
esca dalla recessione e sembra che si avvii
piuttosto verso una nuova caduta.
La Germania. Dopo aver segnato una
caduta spettacolare della produzione nel
2009, con precipizi nei mesi di -22%, -24%
e -28%, la ripresa all’inizio 2010 è stata vivace con incrementi che culminano nel
+20% annuo in maggio. Tuttavia dopo l’inizio del 2011 si assiste, fra alti e bassi, ad
una lenta ma irreversibile diminuzione degli incrementi. Da gennaio ad agosto 2011
si passa dal +14,6% al +7,9%.
Se si raffronta l’indice del 2010 (914)
col massimo del 2008 (984) si ottiene un
-7,1%. L’incremento medio sull’anno precedente nei primi 8 mesi dell’anno è stato
del 9,5%. Come dire che la Germania,
salvo incidenti, dovrebbe superare il massimo del 2008 ed uscire dalla recessione
alla fine dell’anno. Tuttavia, come abbiamo
già indicato nel precedente rapporto, la
macchina produttiva tedesca dipende enormemente dal mercato mondiale: la Germania esporta circa il 60% della sua produzione. Il che è un fatto insieme di forza e di
debolezza: basta che i mercati si contraggano nel resto di Europa, negli Stati Uniti
ed anche in Cina, ed ecco il crollo!
Il Giappone nei primi mesi del 2009
ha conosciuto una caduta brutale della produzione con dei minimi nei mesi a -30%,
-38%, -33%, -30%, -28%. La ripresa è stata
tuttavia assai viva all’inizio del 2010, ma
dopo esser culminata nel +32% e +31% a
febbraio e a marzo, si assiste subito ad un
rallentamento, poi di nuovo ad una caduta
della produzione a partire da marzo.
Lo tsunami a metà marzo e l’incidente
di Fukushima hanno contribuito aggravando
la caduta della produzione, tuttavia la tendenza era già in quel senso fin da prima. Per
il capitalismo le catastrofi “naturali” sono un
guadagno inaspettato, creano un mercato del
tutto nuovo e esercitano una pressione al ribasso sui salari. Tuttavia stavolta l’effetto
che avrà questa catastrofe su di una eventuale ripresa non potrà essere che limitato. Il
mercato nazionale rimane troppo stretto per
la macchina produttiva giapponese.
Non bisogna dimenticare che dal 1991
al 2007, il Giappone ha stagnato in una
lunga depressione; l’incremento annuale
medio per questo periodo di 16 anni è stato
dello 0,47%! Se si rapporta l’indice del 2010
a quello massimo del 2007 si ottiene -11,6%.
L’incremento annuo medio nei primi 8 mesi
è stato del -3,5%. Come si vede il Giappone
non è vicino ad uscire dai suoi problemi.
La Francia, come tutti gli altri paesi manifesta anch’essa un netto rallentamento ed
anche indici negativi: -0,1% in aprile e
-2,9% in giugno. L’incremento annuo medio nei primi 8 mesi è stato del +3,1%. Ma
l’indice della produzione industriale per il
2010 era ancora al -10% in confronto del
massimo del 2007. A questo ritmo (ipotesi
assai ottimista) e ammettendo che la curva
non riprenda a scendere, occorrerebbero ben
4 anni per recuperare quel massimo ed
uscire dalla recessione. È davvero tempo di
sotterrare questo cadavere che ancora cammina.
La Gran Bretagna ha segnato di nuovo
incrementi negativi per tre mesi con -0,3%
in giugno, -0,7% un luglio e -1% in agosto.
Sui primi 8 mesi la media annua è -0,05%.
Di fatto la Gran Bretagna è in recessione
fino dal 2000. Fra il 2000 ed il 2007 l’incremento annuale medio è stato -0,6%. E
l’indice del 2010 sul massimo del 2000 dà
-14,3%. Il vecchio capitalismo inglese non
è avviato ad uscire dalla recessione e mostra invece tendenza ad affondarvi di nuovo.
L’Italia. anche qui il rallentamento è
netto, con numeri che si avvicinano allo
zero, 0,6% in ottobre, 0,8% in marzo, 0,2%
in giugno e negativi in luglio con -1,6%. La
media degli incrementi ci dà 1,9%. Poiché
l’indice del 2010 era -17,6% in rapporto al
2000, bisognerebbe che il capitalismo italiano potesse mantenere questo ritmo per 11
anni per tornare a superare l’indice del 2000!
La Russia anche manifesta un rallentamento della crescita industriale. Con un
ritmo oscillante fra il 6-7% da settembre
2010 a febbraio 2011, si passa al 4-5% negli ultimi mesi. Il rapporto fra l’indice del
2010 e quello del 2008 dà -1,8%. Poiché
l’incremento medio annuo nei primi 9 mesi
dell’anno è 5,3%, la produzione russa potrà
riuscire a superare il risultato del 2010. Per
contro il livello della produzione resterà
sempre nettamente inferiore a quello raggiunto nel 1989, suo massimo d’interguerra:
nel 2000 era ancora -21,7% da quello. Ponendo l’ipotesi ottimista, dal punto di vista
borghese, di mantenere un ritmo annuale del
4% occorrerebbero, contando il 5% dell’anno in corso, ancora 5 anni per raggiungere e superare il massimo del 1989, e 7 anni
nel caso che si avesse un incremento del 3%.
La nostra ipotesi, invece, è che la crisi
mondiale che attendiamo, cioè con deflazione, avrà nel frattempo già colpito il capitalismo mondiale e in Russia.
La Cina in apparenza mantiene una insolente accumulazione di capitale: gli incrementi oscillano ad un ritmo indiavolato
del 10-11%. Sui 9 primi mesi si avrebbe la
media del 10,6%. Ed invece di rallentare gli
incrementi hanno tendenza ad un lento aumento. Tuttavia le cifre cinesi sono gonfiate e la sua realtà, benché mirabolante
come ogni accumulazione originaria, è
molto fragile: più vigoroso e potente il capitale, altrettanto più catastrofiche e distruttive le sue crisi.
Inoltre, come abbiamo visto nelle riunioni precedenti, lo Stato cinese ha dovuto
utilizzare le stesse ricette di quelle delle borghesie occidentali per rimandare una grave
crisi deflazionista: iniezione massiccia di liquidità a tassi estremamente bassi, intervento dello Stato per sostenere l’industria,
ecc. La sola differenza: la banca centrale e
lo Stato cinese non sono stati costretti a contrarre dei prestiti onerosi, come in occidente. Ma la crisi arriverà, tutte le su premesse sono mature. Speculazioni immobiliari frenetiche, speculazione sulle materie
prime ed i prodotti alimentari, inflazione,
ecc. In breve, tutti i sintomi che precedono
una recessione ed un “giovedì nero”.
India. Dopo incrementi che oscillano
fra il 15% e il 19% all’uscita dalla recessione, il capitalismo indiano ha ritrovato un
ritmo di crescita più calmo con una media
nei 9 ultimi mesi del 5,4%. Ma ancora si assiste ad un lento rallentamento con incrementi che passano in media dal 6% al 5%.
Di fatto, guardando più da vicino, abbiamo
un periodo di netto rallentamento da novembre 2010 a febbraio 2011, poi una risalita da marzo a giugno, per infine ridiscendere in luglio ed agosto.
Con una popolazione di 49 milioni di
abitanti la Corea del Sud nel 2007 ha un
peso sul totale industriale mondiale del
2,1%, subito dopo il Brasile, che ha il 2,2%,
confrontabile con il 2,8% della Francia, che
ha 65 milioni di abitanti. Quindi a ragione
abbiamo aggiunto il Paese alla lista di
quelli dei quali seguiamo le statistiche, al
quale aggiungeremo, fra i paesi emergenti,
il Brasile e, se possibile, l’Africa del Sud.
La Corea, dopo aver marcato una forte caduta della produzione industriale nel 2009,
ha visto una forte ripresa all’inizio del 2010
con due picchi a +35% e a +38%. Dopo
l’aumento della produzione, come ovunque
nel mondo, ha fortemente rallentato. Da
marzo a dicembre 2010 gli incrementi si
sono abbassati con regolarità, passando dal
23% all’11%. Si ha una piccola ripresa al
13,6% a gennaio 2011, poi un calo regolare
fino al 4,8% in agosto.
Dopo questo minimo panorama la nostra conclusione: malgrado le iniezioni massicce di denaro da parte delle varie banche
centrali, per evitare il collasso del capitale
finanziario, e l’acquisto di miliardi di crediti inesigibili da parte degli Stati, il che ha
condotto alcuni di essi ad una situazione di
quasi fallimento, come l’Islanda, l’Irlanda,
la Grecia, il Portogallo, e che ha posto gli
altri in una situazione critica, malgrado le
misure keynesiane di rilancio dell’industria
tramite lavori pubblici senza fine, o con
provvedimenti di sostegno, nei quali gli
Stati hanno versato centinaia di miliardi di
dollari, il risultato non è brillante. Se la deflazione ha potuto essere evitata di un pelo,
è stato a prezzo di un forte indebitamento
degli Stati, e tuttavia senza permettere una
uscita dalla recessione. Questo rallentamento generale sembra piuttosto annunciare
una ricaduta brutale.
Sono presenti tutte le condizioni per una
vasta crisi di sovrapproduzione sincronizzata a scala mondiale fra Asia, Europa ed
America del nord. Una crisi di una forza distruttiva mai vista nella storia, la cui spirale
deflazionista coinvolgerà nella rovina
quella palude sociale immonda costituita
dalle classi medie, ed una parte della grande
borghesia. A fianco di queste condizioni oggettive, maturano le condizioni soggettive
sotterranee necessarie al ritorno sulla scena
sociale del partito comunista internazionale
e ad una ripresa della lotta di classe rivoluzionaria che spazzerà sul suo passaggio
tutte le borghesie ed i loro Stati.
Contesto storico della Siria
A seguito delle manifestazioni che in Siria da mesi chiedono un cambiamento di regime, abbiamo iniziato una ricerca, i cui
primi risultati un compagno ha esposto in
questa riunione, che tenderà a darci la
chiave di quanto realmente accade nel
paese, al di fuori di ogni interpretazione
ideologica borghese.
È fondamentale individuare quali strati
sociali, quali classi sono coinvolte nella protesta, quali le formazioni i gruppi o i partiti
che dirigono il movimento, quali obbiettivi
si propongono e con quali mezzi. Come nostra tradizione, questo richiede lo studio approfondito del passato delle lotte di classe
nel paese e nella regione.
La Siria ha fatto la sua rivoluzione nazionale e ottenuto l’indipendenza ormai da
decenni; e lo Stato siriano ha già mostrato
più volte la sua natura controrivoluzionaria,
sia all’interno sia all’esterno dei suoi confini. È lo Stato della borghesia e dei proprietari fondiari.
La posizione strategica della Siria ne fa
un obbiettivo appetitoso per tutti gli imperialismi che ambiscono ad influire sulla regione, dagli Usa alla Russia, dalla Cina all’Iran, da Israele alla Turchia, ancor più
oggi che la crisi internazionale spinge questi predoni a ridefinire le zone di influenza.
In questa situazione, un qualsiasi movimento politico che si muova per chiedere
una maggiore e generica democrazia e libertà, senza porre al centro delle rivendicazioni la questione di classe, ha il solo significato di voler spostare il Paese in un altro
campo imperialistico. Il proletariato industriale e agricolo di Siria non ha alcun interesse a scendere in piazza e spargere il suo
sangue per passare da un padrone imperialistico all’altro.
La classe operaia in Siria, così come i lavoratori in Tunisia, Egitto o Israele, per difendersi come per affermarsi come classe,
non chiedono di cambiare padrone ma di lottare contro la propria borghesia, qualunque
essa sia, da qualsiasi imperialismo venga appoggiata, costruendo un fronte di classe per
la difesa delle proprie condizioni di vita e di
lavoro, ritrovando la propria indipendenza
politica, attraverso il collegamento all’indirizzo comunista internazionalista.
Attraverso lo studio approfondito della
storia, dell’economia, della società siriana,
il lavoro tenderà a confermare questo assunto generale.
N. 349 - Settembre-Ottobre 2011
La questione militare
La sconfitta a Custoza, nel luglio 1848
e il ritorno dell’esercito piemontese dietro i
suoi originari confini sul Ticino segna l’inizio di una fase sfavorevole ai movimenti
rivoluzionari sia in Italia sia nel resto d’Europa: Francia, Austria, Ungheria, Croazia e
territori Cechi con il consistente intervento
della Russia zarista e feudale.
Ferdinando II, dopo violenti bombardamenti di Messina e Palermo (per questo fu
poi chiamato Re Bomba), riprese il totale
controllo del Regno delle Due Sicilie, favorito dagli insanabili contrasti interni al
governo rivoluzionario siciliano in merito
alla questione agraria, ovvero la vendita o
meno ai contadini senza terra dei latifondi
sequestrati al clero e ai lealisti borbonici.
Una consistente parte dei grandi proprietari
terrieri non voleva la formazione di una
classe di piccoli contadini indipendenti ma
accrescere le loro già vaste proprietà.
Nello Stato pontificio l’allocuzione di
Pio IX, in aprile, e il richiamo delle truppe
inviate a sostegno di quelle piemontesi provocò la sollevazione della città e, dopo pesanti scontri, la fuga del papa che si rifugiò
a Gaeta protetto da Ferdinando II. Fu quindi
proclamata la Repubblica Romana nel febbraio 1849, governata da un triunvirato con
a capo Mazzini; Garibaldi arrivò con i suoi
volontari sudamericani. Prese la strada per
Gaeta anche il Granduca di Toscana Leopoldo II, che da una parte chiedeva l’aiuto
militare degli austriaci, dall’altra riceveva i
moderati toscani per una soluzione pacifica.
In Piemonte Carlo Alberto fu oggetto di
critiche da tutte le parti politiche. Per non
aver compreso che non si trattava di ingrandire il Regno sabaudo con limitate conquiste militari, ma di un movimento di indipendenza nazionale e per questo di non
aver utilizzato con determinazione l’aiuto
dei volontari. Inoltre si chiedeva che fosse
sollevato dal comando diretto dell’esercito
per non aver seguito le indicazioni del suo
stesso Stato maggiore ed interferito nel suo
operato. Iniziò quindi la riorganizzazione
dell’esercito piemontese il cui comando effettivo fu affidato al polacco Chrzanowsky,
con scelta quanto mai infelice.
Ritenendo l’Austria in difficoltà con la
rivolta ungherese Carlo Alberto nel marzo
1849 denunciò l’armistizio. Gli Alti Comandi sabaudi propendevano per una
guerra lampo con importanti battaglie campali in cui pensavano di avere maggiori possibilità di successo; il Re Tentenna invece
voleva puntare su Milano per conquistarla
con l’aiuto di una sicura rivolta della città
ma prima che si ribellasse da sola. Si rifece
lo stesso errore di disposizione delle truppe
che aveva provocato la sconfitta di Custoza:
furono dislocate su una linea di oltre 70 km
con il maggiore concentramento intorno a
Novara, da cui si attendeva l’attacco degli
austriaci, quello minore a sud di Vercelli
con un vuoto al centro.
Il collegamento dei due blocchi fu affidato alle truppe a cavallo, per lo più volontarie, del generale Ramorino, di una certa
esperienza ma noto per la sua scarsa propensione ad ubbidire agli ordini. Doveva
spostarsi a nord su Novara mentre puntò
nell’oltrepò pavese dove secondo lui sarebbe arrivato Radetzky tagliandosi fuori
dal teatro di guerra. Fu destituito, poi fucilato per tradimento.
Radetzky attaccò a sud in massa; non
trovando valida resistenza giunse fino a
Mortara lasciando però la strada libera per
Milano dove le truppe piemontesi ora avrebbero potuto avanzare facilmente. Si sarebbe
potuto anche convergere su Pavia e prendere
gli austriaci alle spalle e tra due fronti. Ma
anche qui non si scelse nulla. Radetzky la
sera sferrò invece lui un forte attacco su
Mortara, che dovette cedere, ed arrivò a 12
chilometri dal comando sabaudo. Il 23
marzo intorno alla collinetta della Bicocca
si svolsero i combattimenti decisivi che videro la decisa sconfitta dei piemontesi.
Carlo Alberto la sera stessa fuggì verso
il Portogallo abdicando in favore del figlio
che il giorno dopo a Vignale firmò un armistizio cui seguì il favorevole trattato di
pace di Milano per garantire agli austriaci
un tranquillo fronte sul Ticino. Di fatto la
guerra era durata solo quattro giorni.
Si è poi data lettura di più corrispondenze di Engels in merito al tradimento di
Ramorino, la sua valutazione sulla sconfitta
di Novara e il giudizio su Radetzky.
Dopo di ciò il Maresciallo si occupò di
riportare i vecchi regimi a sud del Po, dalla
ripresa di Brescia, scendendo poi in Toscana per sottomettere Lucca, Pisa, Livorno
e infine Firenze, dietro forti indennizzi economici. Dopo il suo ingresso nella città,
poté tornare anche Leopoldo II, scortato, o
ostaggio, dalle guardie austriache.
Pio IX aveva rivolto il suo appello a
tutte le potenze cattoliche d’Europa perché
lo facessero tornare a regnare su Roma; gli
risposero in quattro: la Francia di Luigi Napoleone, che utilizzò ogni sorta di raggiri e
doppi giochi pur di riportare un successo
personale; l’Austria mandò Radetzky. Questi dovette dividere le proprie forze su più
direttrici nell’Italia centrale, in una marcia
lenta sebbene vittoriosa, ma non fece in
tempo a giungere a Roma prima dei francesi. Il terzo fu Ferdinando II di Napoli, cui
fu imposto dai francesi, che volevano prendersi tutto il merito dell’operazione, di stare
in disparte ed impegnare le truppe di Garibaldi, da cui invece fu sconfitto. Infine la
Spagna, le cui truppe, per gli stessi motivi
di orgoglio francese, furono tenute lontano
da Roma a presidiare parte del Lazio.
La Repubblica Romana era così accerchiata. I francesi non ottennero gli immediati successi previsti ma, giunti nuovi
rinforzi, dopo violenti bombardamenti durati tre settimane, Roma distrutta si arrese
ai generali francesi. Parte dell’esercito romano seguì Garibaldi nel tentativo di portare soccorso a Venezia, ma dopo pochi
giorni tutti si dispersero.
Radetzky ora poteva concentrarsi su Venezia: prima fu bombardata Marghera e
completamente distrutta, pensando così di
convincere la città lagunare ad arrendersi
senza subire un attacco diretto dal mare,
cosa non facile per i massicci e ben disposti
forti dotati di potenti artiglierie. Dopo vari
tentativi di ottenere una soluzione diplomatica, da Vienna giunse l’ordine di concludere
con le armi la questione immediatamente.
Iniziò così un violento bombardamento durato 24 giorni dopo di che, complice la fame
e la malaria, anche Venezia nell’agosto 1849
si arrese. La reazione assolutistica aveva ripreso il controllo dell’Italia.
Le città insorte si arresero solo dopo pesanti bombardamenti e duri combattimenti,
segno di una forte e determinata volontà popolare con un giovane proletariato, qui ancora al seguito di una borghesia incerta
quando non sostenitrice del vecchio regime.
Da un punto di vista tecnico con la realizzazione di cannoni sempre più potenti e precisi, l’artiglieria assume un ruolo fondamentale nelle campagne militari.
Concludeva il rapporto il sintetico giudizio di Engels: “Il tradimento della borghesia italiana”.
Movimento operaio in Usa
Gli anni ’80 del secolo vedono una
svolta fondamentale nella storia del movimento operaio americano, la fondazione
della American Federation of Labor, la federazione sindacale che avrebbe accompagnato il proletariato statunitense, e anche
canadese, negli anni che seguirono, e che
opera ancor oggi nello scenario sindacale di
oltreoceano.
Nel preambolo dello statuto della Federation of Organized Trades and Labor
Unions of the United States and Canada,
come la A.F.L. si chiamava nel 1881, l’anno
di fondazione, si leggeva: «Una lotta è in
corso in tutti i Paesi del mondo civile tra oppressori e oppressi, tra capitale e lavoro, una
lotta che cresce di intensità di anno in anno,
e che può avere conseguenze disastrose per
milioni di lavoratori se non si accompagna
a un mutuo sostegno. La storia dei salariati
di tutti i Paesi non è altro che un succedersi
di lotte e miseria, generati da ignoranza e
mancanza di unità; mentre quella dei non
produttori di tutti i tempi dimostra che una
minoranza ben organizzata può fare meraviglie, nel bene e nel male. Adeguandosi al
vecchio adagio “Nell’Unione è la forza”, la
formazione di una Federazione che comprenda tutte le organizzazioni di mestiere e
lavoro del Nord America, una unione fondata su una base grande come la terra sulla
quale viviamo, è la nostra sola speranza».
Si trattava di una associazione basata sul
più puro sindacalismo, ben diversa dai Knights of Labor, con i quali ebbero a competere per diversi anni, prima di emergere come i veri rappresentanti del proletariato organizzato americano. Come abbiamo visto,
furono i K.L. a alienarsi il favore della classe, con dei comportamenti spesso antisindacali se non di aperto collaborazionismo.
Fu la lotta per le otto ore, e delle prese
di posizione nettamente di classe, che segnarono presso i proletari la differenza tra
le due organizzazioni, e che, dopo anni di
stagnazione, determinarono la crescita della
Federazione, che nel 1886, in un congresso
a Philadelphia, adottò la nuova denominazione, A.F.L.
La nuova Federazione si distingueva dai
K.L. per alcune posizioni fondamentali. In
primo luogo era rigorosamente riservata ai
puri salariati; inoltre considerava fondamentale l’arma dello sciopero. Nei primi
anni aveva anche atteggiamenti socialisteggianti, apportati dal suo principale fondatore, Samuel Gompers, secondo i quali gli
interessi di capitale e lavoro non potevano
convivere in armonia.
Anche riguardo al tipo di sindacato, inizialmente appariva ovvia la superiorità del
sindacato d’industria, che era più suscettibile ad accogliere anche i lavoratori non
specializzati, mentre quello di mestiere tendeva a un maggiore corporativismo, rendendo difficili estese mobilitazioni di numerosi proletari. Ma pur di non perdere il
seguito di molti sindacati, Gompers non
il Partito Comunista
N. 349 - Settembre-Ottobre 2011
esitò a cambiare idea in breve tempo. Lo
stesso accadde nei confronti delle categorie
di lavoratori più deboli: donne, negri, immigrati (per non parlare dei cinesi). Dopo
un periodo di maggiore apertura, in cui doveva competere con i K.L., la A.F.L. divenne sempre più discriminatoria e concentrata sui soli specializzati.
Il relatore si è poi soffermato su due
grandi scioperi che nel 1892 scossero gli
Stati Uniti da est a ovest, quello di Homestead (Pennsylvania), della siderurgia, e
quello dei minatori di Coeur d’Alenes, nell’Idaho. Diversi sotto molti aspetti, avevano
in comune l’attacco padronale alla sindacalizzazione degli operai, che si stava diffondendo, e la violenza di tale attacco, esercitato con i vari mezzi a loro disposizione, cui
gli operai dovettero rispondere con altrettanta violenza. Quindi la cronaca di tali
scioperi è anche di scontri armati, nei quali
i proletari, in situazioni molto diverse, dimostrarono una eccezionale capacità organizzativa e militare, e una tenacia che riscosse l’ammirazione degli stessi avversari.
Attività sindacale
Il rapporto ha esposto il corso degli avvenimenti sindacali successivi alla precedente riunione generale del partito a maggio, ai quali il partito ha opposto la sua puntuale critica ed il suo chiaro indirizzo. Una
disamina e un commento più di dettaglio di
quella e di questo troverà posto nel prossimo numero del giornale.
Un breve collegamento ha prima ripercorso per sommi capi i precedenti: dall’accordo quadro separato di Cisl e Uil sugli assetti contrattuali del gennaio 2009, completato dall’accordo attuativo, sempre separato, dell’aprile 2009, all’attacco della
FIAT, con gli accordi di Pomigliano, Mirafiori ed ex-Bertone, a quello di Federmeccanica, con la disdetta del Ccnl e la firma
del contratto separato con Fim e Uilm, per
arrivare allo sciopero generale proclamato
dalla Cgil il 6 maggio di quest’anno.
Questo sciopero – e si passava così al
contenuto del nuovo rapporto – era stato invocato dalla sinistra CGIL fin dalla manifestazione FIOM del 16 ottobre 2010. Giungeva dopo ben sette mesi, consumatesi le
varie sconfitte (Mirafiori, Pomigliano, ex
Bertone), non per contrastare con la forza
l’attacco padronale, ma per sostenere la politica sindacale corporativa della CGIL.
Il suo risultato è stato infatti l’Accordo
del 28 giugno fra confederali e Confindustria. L’accordo ha aperto una breccia fatale
nel muro del contratto nazionale consentendo ai contratti di derogare ad esso.
Inoltre rafforza il sistema di regole a difesa dei sindacati di regime, con l’introduzione della “certificazione della rappresentanza”, e rafforza la disciplina di fabbrica
con l’introduzione della cosiddetta validità
“erga omnes” degli accordi aziendali.
La CGIL dipingeva l’accordo con Confindustria come un muro contro possibili
provvedimenti peggiori. La sua opposizione interna, FIOM in testa, nulla ha fatto
che andasse oltre la propaganda per votare
contro al referendum fra gli iscritti CGIL,
il cui esito favorevole alla Confederazione
era scontato.
Gli incalzanti avvenimenti successivi
hanno dimostrato l’inconsistenza e la falsità
delle argomentazioni della CGIL, la sua natura definitivamente di regime e anti-operaia
e l’impotenza della sua opposizione interna.
A luglio il governo ha varato una manovra finanziaria. Contro questa manovra la
CGIL non muoveva un dito. Non solo. Continuando a peggiorare la situazione finanziaria dello Stato, il 4 agosto, insieme agli
altri sindacati di regime, a Confindustria, all’Associazione delle banche italiane, la
CGIL presentava al governo un documento
– “Proposte delle parti sociali” – in cui venivano richiesti tutti quei provvedimenti da
sempre invocati da industriali ed organismi
finanziari nazionale e internazionali. Fra gli
altri: “modernizzare le relazioni sindacali”.
Il 13 agosto è varata una seconda manovra. Il suo articolo 8 è una pugnalata contro i lavoratori: con esso i contratti aziendali
possono derogare non solo ai contratti nazionali, ma ad ogni legge. È la morte – prevista dal marxismo rivoluzionario – del “diritto del lavoro”: nel capitalismo ciò che
conta non sono i diritti ma la forza. Per difendere la classe operaia bisogna organizzare la sua forza, non appellarsi ai diritti.
La CGIL ha reagito alla manovra di
agosto con inusuale tempestività, proclamando lo sciopero generale per il 6 settembre. Ma anche questo sciopero, come quello
del 6 maggio, non aveva l’obiettivo respingere l’attacco con la forza, ma di rafforzare
la politica sindacale corporativa della
CGIL. La manovra finanziaria era convertita in legge il 14 settembre; il 21 settembre
la CGIL ratificava l’Accordo.
Il giorno successivo alla ratifica, si è riunita a Cervia l’Assemblea nazionale dei delegati FIOM, per discutere e varare la piattaforma per il rinnovo del Cnnl dei metalmeccanici, in scadenza a fine 2011. La
chiave di volta della piattaforma è la ricerca
dell’unità con FIM e UILM considerata
condizione necessaria.
Questa impostazione spiega da sé come
l’azione sindacale FIOM non si distingua da
quella della CGIL. La FIOM insegue FIM
e UILM, nonostante questi rappresentino
una minoranza degli iscritti, presentando
una piattaforma a perdere, perché considera
l’unità sindacale e non la forza operaia lo
strumento necessario per difendere i lavoratori. Ai contratti separati di FIM e UILM
la FIOM non lotta per imporre al padronato
un suo contratto separato migliore. Questa,
che è l’unica strada che difenda i lavoratori,
è bollata e liquidata come “pazzia”! Non si
dice che non è percorribile perché manca la
forza, la si esclude per principio.
A Cervia si discute anche dell’Accordo
del 28 giugno appena ratificato dalla CGIL.
La proposta di rigettare l’accordo, rifiutandosi di applicarlo viene sonoramente bocciata. L’opposizione all’accordo, come a
tutto il resto, rimane “a parole”, perché la
FIOM non vuole andare allo scontro con la
CGIL, e, pur di evitarlo, è disposta a far subire ai lavoratori le peggiori conseguenze
della sua politica sindacale. La FIOM tiene
i suoi iscritti imprigionati dentro la CGIL.
La piattaforma per il rinnovo del Ccnl
è approvata con 506 voti favorevoli, 1 voto
contrario, 7 astenuti. Anche i contrari, che
vi sono, votano a favore. La sinistra in
FIOM sta con la maggioranza per dare “un
segnale di unità”; la FIOM non va allo
scontro con la CGIL per “restare uniti” in
un simile momento di difficoltà; la CGIL
ricerca l’unità con CISL e UIL perché “le
divisioni indeboliscono”.
Sono i lavoratori che si devono dividere
da tutto questo complesso apparato che li
imprigiona per ricostruire il loro Sindacato
di classe, fuori e contro CGIL, CISL e UIL.
Economia marxista
Nella riunione di Partito del settembre
scorso, la prevista esposizione del capitolo
30 del III Libro del Capitale è stata preceduta da una serrata critica alla richiesta del
“rifiuto del pagamento del debito statale”,
che pare suscitare oggi grandi speranze
nella scimunita “area di sinistra”. La impotente teorizzazione piccolo borghese fa il
paio con la sballata opposizione: “finanza”
destabilizzante e rovinosa – capitalismo
produttivo, se regolato e ben condotto, invece giusto o tollerabile.
La crisi nascerebbe insomma da una
condotta sregolata e truffaldina, dall’ingordigia senza limiti né regole della “finanza”.
Il rifiuto di pagare i debiti contratti per le
malefatte del “lato oscuro” del capitale, potrebbe costituire la premessa per un ritorno
alla forma “etica” della produzione capitalistica, smascherate le infamie e truffe della
finanza globalizzata.
Il movimento rivoluzionario deve
espungere da sé questa ideologia del bottegaio soffocato dai debiti, che vede la soluzione per i suoi guai nella loro cancellazione, costi quel che costi.
La nostra riproposizione dei principi
della dottrina rivoluzionaria che è stata sviluppata nell’arco di tre anni sulla V Sezione
del III Libro, e in specie sul Capitale produttivo di interesse, ha teso proprio a rimarcare la impossibile separazione tra finanza e
capitale, sì che l’una è veramente la spina
dorsale dell’altro né è concepibile quella
senza l’altro. Nella cosiddetta “finanza globalizzata”, che in nuce analizzava Marx, appare di una chiarezza senza discussioni.
Su motivi, cause ed esiti della crisi non
ci sono più dubbi; la nostra lunghissima memoria storica, ben superiore a quella di qualunque altra scuola economica o politica, ci
fa riconoscere eventi, tragitti ed esiti già
sperimentati dall’umanità lavoratrice. Il
Partito deve fare ogni sforzo per denunciare
questa ideologia da mezze classi in rovina,
e riproporre l’indirizzo di classe.
Della presentazione del fondamentale
capitolo 30, “Capitale monetario e capitale
effettivo: Credito commerciale, accumulazione di capitale monetario”, è stata a questa riunione svolta la parte introduttiva.
Dopo aver concluso nel capitolo precedente che la maggior parte del capitale bancario, consistente in titoli, è capitale fittizio,
si affronta l’analisi del processo di circolazione del capitale bancario, nella sua forma
di capitale effettivo.
Due domande aprono il lavoro di analisi. La prima è se l’accumulazione del capitale monetario, cioè del capitale produttivo di interesse sia o no indice di una riproduzione allargata; se sia cioè solo un
modo per definire la sovrapproduzione industriale o sia invece solo un fenomeno collaterale. E, per converso, fino a che punto
la mancanza di denaro disponibile per il
prestito esprima la mancanza di capitale
reale, cioè capitale merce e capitale produttivo, e fino a che punto questa difficoltà monetaria coincida con la mancanza di denaro
cioè mancanza di mezzi di circolazione.
L’accumulazione di capitale monetario
e la formazione di un patrimonio monetario
si sono risolti in una accumulazione di diritti di proprietà sul lavoro.
Entriamo più in dettaglio su questo concetto di accumulazione di diritti. Consideriamo innanzi tutto l’accumulazione di capitale del debito pubblico, che esprime il
rafforzarsi di una classe di creditori autorizzati a prelevare certe somme sul gettito
delle imposte. In questo fatto appare chiaro
come una accumulazione di debiti si manifesta come accumulazione di capitale e che
si realizza il capovolgimento caratteristico
del sistema creditizio.
Questi titoli di credito rilasciati in cambio del capitale dato in prestito e ormai
speso, sono duplicati cartacei di un capitale
distrutto, che però esercitano per chi li possiede la funzione di capitale perché sono
merci vendibili e possono essere ritrasformate in capitale.
Anche i titoli di proprietà sulle imprese,
che sono effettivamente titoli su capitale effettivo, sono caratterizzati da questa particolare proprietà. Non permettono di disporre direttamente di questo capitale ma
conferiscono diritti legali su una parte del
plusvalore che da esso sarà creato, e sono in
questa forma titoli come duplicato cartaceo
del capitale effettivo; si trasformano in rappresentanti nominali di capitali inesistenti.
Siccome duplicati, sono essi stessi negoziabili come merci e circolano quindi
come valori capitali; sono fittizi e il loro valore può accrescersi o diminuire con un movimento del tutto indipendente da quello del
valore del capitale effettivo.
In condizioni di diminuzione del saggio
dell’interesse, conseguenza della caduta
tendenziale del saggio di profitto, il loro
prezzo, cioè la loro quotazione in borsa, ha
una tendenza al rialzo. Questa ricchezza immaginaria cresce nel corso dello sviluppo
della produzione capitalistica.
Profitti e perdite che si generano dalle
oscillazioni di prezzo di questi titoli di proprietà, come il loro accentramento in poche
mani, ribaltano il modo originario di appropriarsi del capitale che è quello dal lavoro. Nota Marx: «questo tipo di patrimonio monetario fittizio non rappresenta soltanto una parte considerevole del patrimonio monetario dei privati, ma anche del capitale bancario».
Anche se questa classe di proprietari
possiede il capitale e i redditi sempre in
forma di denaro o in forma di crediti sul denaro, in ogni caso intasca una buona parte
dell’accumulazione reale.
In altri termini titoli di Stato, azioni, ed
altri titoli di qualunque tipo sono sfere di investimento per il capitale prestabile, cioè per
il capitale che è destinato a diventare capitale produttivo di interesse; ma non rappresentano essi stessi il capitale da prestare, di
cui in sostanza costituiscono l’investimento.
Però, per quanto riguarda la funzione
che il credito esercita nel processo di riproduzione, cioè quello di cui industriali e
commercianti hanno bisogno nella loro attività, sconto di cambiali, contrarre di un
prestito, non sono né azioni né titoli di
Stato. Ciò di cui hanno bisogno è il denaro.
Facendo astrazione da ciò che accade
nel mondo del sistema finanziario, è il movimento e le caratteristiche di questo capitale che deve essere dato in prestito ciò che
deve essere analizzato, il capitale monetario prestabile. Non prestito di immobili,
macchine, o altro capitale fisso; non anticipi
che industriali e commercianti si fanno reciprocamente sotto forma di merci nel processo di riproduzione. Si tratta qui esclusivamente dei prestiti monetari che i banchieri nella loro qualità di intermediari concedono agli industriali ed ai commercianti.
Democrazia e movimento
operaio in Italia
Dal 2 al 7 settembre 1867 si tenne a Losanna il II Congresso dell’Internazionale,
dove apparvero chiari i grandi progressi
compiuti dall’Associazione. Il suo fruttuoso intervento in importanti questioni tra
industriali e lavoratori in Francia e in Inghilterra le aveva valso l’adesione di intere
leghe operaie; si fondavano qua e là giornali internazionalisti, e perfino in America
gli operai cominciavano a guardare con fiducia verso la nuova organizzazione. Anche in Italia, le società operaie di Napoli,
Milano, Genova, Bologna, Bazzano si
erano messe in corrispondenza con il Consiglio Generale di Londra.
Degli esiti del congresso Marx si dichiarò molto soddisfatto, tant’è che scrisse
ad Engels: «Les choses marchent. Alla
prossima rivoluzione, che è forse più vicina
che non sembri, noi [...] avremo questo strumento in mano nostra [...] E tutto ciò senza
denaro e nonostante gli intrighi proudhoniani di Parigi, di Mazzini in Italia [...].
Davvero, possiamo essere soddisfatti!» (11
settembre 1867).
Quasi contemporaneamente si tenne, a
Ginevra, il congresso della Lega per la
Pace e la Libertà (9 settembre 1867).
Questa nuova associazione, composta di
puri borghesi, si proponeva di lanciare al
Pag. 3
mondo un programma capace di abolire le
tensioni ed i conflitti che tormentavano tutta
l’Europa del XIX secolo.
Perfino Mazzini si rifiutò di aderire ad
una simile accozzaglia delle più disparate e
sospette ideologie. Secondo Mazzini non la
pace, ma libertà e giustizia erano da conquistare, quindi altre lotte e guerre sarebbero state necessarie per raggiungere lo
scopo. Dare fin da allora la propria adesione
alla pace ad ogni costo sarebbe stato soltanto reazionario. Inoltre l’esperienza e il
buon senso insegnavano che iniziative del
genere non potevano che risultare sterili di
qualunque risultato.
Garibaldi invece vi aderì e presentò una
serie di sconclusionati punti programmatici
in un miscuglio di radicalismo.
Ma, Garibaldi a parte, a favore del quale
possiamo dire che non ha mai avuto la pretesa di essere un teorico, il congresso dei pacifisti ginevrini rappresentò una occasione
d’oro per Bakunin. Questa tribuna internazionale gli diede la possibilità di propagandare il suo programma politico, religioso e
sociale, come lo aveva maturato nel corso
del suo soggiorno in Italia, anche se, “accortamente”, non mancò di adattare il suo
anarchismo alle esigenze del convegno democratico-borghese senza imbarazzarsi di
fronte alla impossibilità di conciliare l’abolizione dello Stato con la costituzione di un
entità super statale: gli Stati Uniti d’Europa.
Il congresso della Pace si concluse con
la vaga dichiarazione, che non poteva impegnare nessuno, della necessità «di far mettere all’ordine del giorno in tutti i paesi la situazione delle classi laboriose e diseredate,
allo scopo che il benessere individuale e generale possa consolidare la libertà politica
dei cittadini». A nome dell’Internazionale
Dupont aveva concluso il suo intervento con
queste parole: «Per fondare una pace perpetua è necessario distruggere le leggi che opprimono il lavoro, tutti i privilegi, e fare di
tutti i cittadini una sola classe di lavoratori.
In una parola, accettare la rivoluzione sociale con tutte le sue conseguenze». Bastano
questi pochi accenni per accorgersi come le
posizioni delle due organizzazioni internazionali fossero inconciliabili.
Gli echi di quelli che Mazzini chiamò
“gli stupidissimi discorsi” di Ginevra non si
erano ancora spenti, quando con la sconfitta
dei garibaldini a Mentana nel novembre
1867 si dimostrò la necessità di ricorrere ancora alle armi per il trionfo della stessa democrazia borghese.
Ormai non vi erano più dubbi che il governo costituzionale potesse svolgere solo
un ruolo reazionario. Ma allo stesso tempo
veniva dimostrata tutta l’impotenza delle
agitazioni mazziniane e la fine dell’epoca
delle spedizioni garibaldine. I giovani rivoluzionari non tardarono a comprendere,
forse più con il sentimento che con la ragione, come i problemi che stavano loro a
cuore non avrebbero potuto essere risolti se
non attraverso il superamento delle vecchie
ideologie democratiche.
Ma a produrlo, al solito, non fu il maturare delle “idee”, ma l’azione del movimento operaio.
Il 1868 fu anno di miseria nera per le
classi lavoratrici italiane. Ad aggravare la
crisi economica che travagliava il paese da
ormai otto anni era sopraggiunta la guerra
del ‘66 e il corso forzoso. A tutto ciò nel ‘68
si aggiunsero i danni del cattivo raccolto del
‘67, l’industria in crisi, la svalutazione monetaria che portava al ristagno del commercio di importazione e di esportazione: i generi di prima necessità rincaravano vistosamente, i salari operai si mantenevano ad un
livello bassissimo mentre l’imposta di ricchezza mobile, stabilita nel ‘66, decurtava
in modo spietato i già miseri salari.
In tutto il paese, nelle città come nelle
campagne, il malcontento sfociò in frequenti e clamori atti di protesta. L’opposizione, sia nei giornali sia nel parlamento
non mancava di accusare il governo della
grave crisi economica che colpiva le classi
più deboli. Ma i lavoratori, delle città e delle
campagne, non si accontentarono delle proteste morali e delle platoniche dichiarazioni
di solidarietà da parte della sinistra democratica, e violente manifestazioni dilagarono in tutto il paese.
Gli operai e gli artigiani di città diedero
sfogo al loro malcontento con la richiesta di
aumenti salariali, con pubbliche dimostrazioni e, soprattutto, intensificando il movimento di resistenza. Infatti gli scioperi del
1868 nelle grandi città industriali, differenziandosi da quelli degli anni precedenti, rivelarono una nuova caratteristica: quella di
abbracciare categorie diverse dello stesso
territorio, ossia cominciano gli scioperi generali. Il proletario non si sentiva più appartenente ad una particolare categoria, ma
ad una particolare classe sociale.
Ai primi dell’anno, oltre alla tassa di ricchezza mobile, si era cominciato a parlare
di quella che sarà la più odiosa di tutte le
tasse e che graverà esclusivamente sulle
classi più misere: la tassa sul macinato.
I deputati della sinistra borghese, preoccupati delle conseguenze che essa avrebbe
potuto determinare portando le grandi
masse alla disperazione, inscenarono la loro
opposizione d’ufficio. All’epoca fu Crispi
a presentarsi come il maggior difensore dei
deboli: quello stesso Crispi che, divenuto
poi capo del governo, non ebbe nessuno
scrupolo a reprimere nel sangue il movimento dei Fasci Siciliani.
Anche giornali democratici e le associazioni operaie si limitarono ad una pressione morale sulla Camera perché il progetto non venisse approvato.
Lo stesso Ministro dell’Interno, prevedendo rivolte da parte dei contadini, il 24
dicembre aveva diramato ai prefetti il telegramma: «Attuazione legge macinato segna
momento importantissimo nell’assetto finanziario e politico del regno [...] Spetta ai
signori prefetti rendere vana l’opera sovvertitrice col prevenire ogni disordine».
Infatti già dal giorno 26 si verificarono
i primi tumulti tra i contadini del Veronese;
che immediatamente si propagarono a Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia. A partire
dal 1° gennaio in pochissimi giorni manifestazioni di protesta e rivolte contadine contro il “macinato” si propagarono a tutto il
regno. Nelle province di Bologna, Reggio
Emilia e Parma, le rivolte assunsero l’aspetto di vere e proprie sommosse, tanto che
il 5 gennaio il governo concesse pieni poteri, militari e civili, per l’Italia centrale a
colui che era l’uomo giusto per riportare
l’ordine e la legge, colui che già nei moti
palermitani del ’66 si era distinto per la sanguinaria repressione e, sul campo, si era
guadagnato l’appellativo di “Macellaio”: il
generale Raffaele Cadorna.
Il Macellaio, cioè Cadorna, aveva le
idee chiare su quali fossero i mezzi da usare
per “pacificare” il paese, ma non da meno
erano i suoi colleghi. Infatti, secondo
quanto venne pubblicato in vari giornali in
tutta l’Italia si ebbero 257 morti, 1099 feriti, 3.788 arrestati.
A questo proposito è bene ricordare l’atteggiamento tenuto da Mazzini nei confronti
dei moti contro la legge sul macinato, a dimostrazione di come la democrazia borghese si sia guardata bene dal prendere la direzione delle rivolte popolari quando queste
potevano mettere in discussione l’impalcatura borghese del nuovo Stato italiano. Giuseppe Pomelli, nel suo libro dal titolo “Patriotti e soldati reggiani del Risorgimento”,
a proposito degli avvenimenti del 1869
scrisse: «Un momento più favorevole per fare la rivoluzione non poteva esserci; invece
non solo i capi mazziniani consigliarono la
calma, ma Mazzini stesso scrisse lettere nelle quali addirittura combatteva quel moto e
calorosamente raccomandava di non parteciparvi ma anche di cercare di farlo cessare».
La rivolta, scoppiata spontaneamente,
assunse forme, proporzioni e pericoli per le
istituzioni borghesi non previsti nemmeno
dal governo. Furono i dirigenti del partito
repubblicano a venirgli in soccorso; quegli
stessi, che da anni predicavano la rivoluzione ed incitavano individui e gruppi a tenersi pronti, non pensarono affatto alla rivoluzione, mentre avrebbero avuto la forza
di trasformare la rivolta dei contadini in
una, ben più pericolosa, di operai e di artigiani nelle città, solo che avessero agitato la
bandiera della repubblica e soprattutto
quella delle riforme sociali. Ma Mazzini si
preoccupava soprattutto della unità nazionale e tutto doveva essere rimandato a dopo
il suo pieno compimento.
Lo stesso Nello Rosselli, nel suo libro
“Mazzini e Bakunin” commenta: «Se proprio si guarda alla sostanza delle cose, bisogna riconoscere che, dalla unificazione
politica in poi, Mazzini fu un elemento di
conservazione assai più che di vero rinnovamento. Parla di rivoluzione, caccia questa parola in tutti i suoi scritti, ma non pensa
a organizzarla sul serio; capisce che così bisogna fare per tenere la coesione nella Sinistra e per non lasciarsi sfuggire gli elementi più giovani e attivi: è una parola d’ordine, nulla più. E intanto, fin quando i giovani intellettuali e gli operai staranno stretti
intorno alla rivoluzione di Mazzini, l’unità
e l’ordine sociale potranno dormire sonni
tranquilli».
RECAPITI
DI NOSTRE REDAZIONI
Per la corrispondenza scrivere a: Edizioni
“Il Partito Comunista” - Casella Postale
1157 - 50121 Firenze. Email: icparty @international-communist-party.org
BOLZANO - Casella postale 15.
FIRENZE - il giovedì dalle ore
21,30, Borgo Allegri 21r (corrispondenza alla Casella Postale 1157).
GENOVA - Salita degli Angeli 9r,
il martedì dalle ore 20,30.
TORINO - Via Pagno 1/E, il giovedì dalle ore 21.
GR.BRETAGNA - I.C.P. Editions c/o 96 Bold Street - Liverpool L1 4HY
il Partito Comunista
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Debiti pubblici - profitti privati
Il proletariato è schiavizzato dal rapporto di lavoro salariato, non dal “peso del debito”
Intorno al tema del pagamento o meno
del debito pubblico dello Stato italiano si è
costituito un movimento con un confuso
programma interclassista, che mescola rivendicazioni sindacali e più propriamente
politiche. “Noi il debito non lo paghiamo”:
ma del debito di chi si sta parlando, se i proletari sono per definizione dei nullatenenti?
Il debito che lo Stato ha contratto verso
la classe borghese nostrana o verso altri
Stati non interessa i lavoratori salariati. La
classe operaia si mantiene attraverso la vendita – ripetuta giornalmente – della propria
forza-lavoro ed il salario che riceve è praticamente tutto consumato. Così si riproduce
l’intero esercito industriale, che comprende
non solo gli attivi, ma anche gli anziani, i
disoccupati, i giovani non ancora avviati
alle galere industriali, ecc. Il rapporto di lavoro salariato, che regola la precaria esistenza in vita degli schiavi moderni, non
sarà mai intaccato da qualsiasi evoluzione
del circuito del debito internazionale.
Un costituendo movimento che pone a
base delle proprie fondamenta un problema
relativo ad uno scontro interno alla borghesie o fra diverse borghesie nazionali, mentre afferma di difendere gli interessi dei lavoratori, non può che camminare nella direzione sbagliata.
“Contro l’Europa delle banche”: perché
questa separazione opportunista tra capitalisti buoni e tagliatori di cedole cattivi? A
cosa servono le banche se non a trasformare
il denaro in capitale da gettare nella produzione immediata?
L’assemblea del 1 ottobre è stata la costituente di un movimento che avrebbe per
obiettivo “di reagire alla aggressione alla
democrazia e ai diritti sociali” tramite la
formazione di “un fronte comune”. Un
fronte di che genere? A giudicare dai continui richiami a tutto il classico armamentario riformista, di un fronte politico.
Si mischiano vaghi sentimenti pacifisti
ad echi antipolitici e indignazione per la
corruzione e i privilegi “di casta”. Si annacquano rivendicazioni sindacali determinanti, come la richiesta di riduzione dell’orario di lavoro (seppur non specificando che
tale riduzione dovrà aversi a parità di salario e di intensità), in un brodo riformista e
insaporito con la salsa della reintroduzione
della scala mobile.
I proletari devono lottare per la difesa
del salario, anche per chi è espulso dal lavoro o non lo trova, al fine non di sopire ma
di inasprire le contraddizioni di classe fino
poi lasciarle esplodere nella guerra sociale
per l’assalto al potere statale.
Affiancando a rivendicazioni sindacali
vecchie illusioni staliniste si torna a parlare
di nazionalizzazione delle banche, di nuovo
modello di sviluppo, di tassazione dei
grandi patrimoni, di vincoli alle scelte delle
multinazionali. Poi, lotta all’evasione, difesa della scuola pubblica, riforme fiscali,
economia compatibile con la difesa dell’ambiente, per arrivare al cavallo di battaglia del camaleontico opportunismo ormai
di un secolo e mezzo: intervento pubblico
nell’economia. Perché il massiccio sostegno dello Stato a banche e imprese non sarebbe intervento pubblico? Lo Stato interviene sempre, cambiano solo le forme di
questo intervento a seconda delle esigenze
di valorizzazione del capitale.
Quale il collante in grado di tenere assieme “soggetti” così eterogenei? Lo si ripete nei documenti prodotti in vista della
formazione di questa “area”, che dovrebbe
collocarsi all’estrema sinistra dello schieramento istituzionale: una “democrazia radicale anticapitalista”! La democrazia, da miglior involucro del capitalismo, perfezionatasi nel fascismo e più ancora nel post-fascismo, dovrebbe diventare “anticapitalista”! Si chiede il ritorno all’involucro e alla
ideologia giovanili del capitalismo ignorando che le sovrastrutture finiscono per
adeguarsi alla base economica, e che se
questa è sempre più concentrata e tirannica
lo dovrà essere anche quella. Non solo è parola antioperaia, è addirittura reazionaria.
Ma gli organizzatori vedono il movimento come “un’alternativa radicale che
colpisca gli interessi della finanza e delle
banche”, in grado di ristabilire “eguaglianza e diritti”, e col fine di liberare la società “dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi”. Esattamente il contrario della reale necessità storica: per colpire gli interessi del capitalismo, sia esso
giunto alla “fase finanziaria” o meno, occorre proprio violare la uguaglianza borghese, fino a prevedere la dittatura del proletariato; solo con questo intervento politico comincerà l’opera di disintegrazione
del mercato, non una riforma interna al dominio democratico, ma la sua distruzione.
Partiamo dal fondo.
Lo Stato interviene costantemente nell’economia, oggi non meno e non più di ieri.
Non è, né è stato, per nulla un passo verso il
socialismo la creazione delle imprese eco-
nomiche di Pantalone o l’autogestione delle
imprese ad opera dei lavoratori da esse dipendenti, per il semplice fatto che il socialismo non affiderà di certo la produzione sociale a gruppi particolari. Queste imprese di
proprietà dello Stato-Padrone non possono
essere sottratte al mercato e alle sue leggi. Il
capitalismo di Stato non può uscire dal mercato perché quello è il suo ambiente vitale e
d’elezione, al di fuori del quale non potrebbe
più essere capitale e Stato del capitale.
Il rimpianto del vecchio Stato assistenziale (con la sua opera di corruzione di larghe fette del proletariato), tanto da rivendicare un piano “straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a
tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione,
l’istruzione”, è una chiara dichiarazione di
fede socialdemocratica. Lo Stato “assiste”
la classe operaia per fregarla meglio, come
il secondino “assiste” il carcerato, per mantenere, completare e rendere più ordinata la
sottrazione del plusvalore. Una quota del
salario mensile viene trattenuta dallo Stato
borghese che la investe a suo piacimento,
sottratta al consumo operaio e trasformata
in capitale. Sono solo i proletari che alimentano lo Stato assitenziale, che infatti è
in attivo. Ma quando, a chi e quanto sarà restituito ai lavoratori lo deciderà lo Stato, vedasi le recenti “riforme” delle pensioni.
Accanto trovano il loro posto gli altri
miti tipicamente riformisti: le banche dovrebbero ritornare sotto il controllo diretto
dello Stato. Ma lo Stato di chi? questo il
punto focale. Finché si concepisce quella
macchina organizzata dalla classe dominante per reprimere la nemica classe proletaria come un organismo al di sopra delle
parti e di ogni sospetto, è naturale che la soluzione delle crisi cicliche del modo di produzione capitalistico vada ricercata in nazionalizzazioni o creazioni di municipalizzate. Quando invece si abbraccia la teoria
comunista rivoluzionaria, non si può che
concludere per la distruzione dello Stato
borghese con tutte le sue istituzioni e apparati, materiali ed ideologici compresi:
scuola, tribunali, esercito, polizia, organi di
comunicazione di massa, ecc.
Sulla pretesa della distribuzione del reddito e della riforma fiscale basta notare che
si tratta di tagliare diversamente una torta
già divisa in partenza in parti diseguali
dalla natura stessa del rapporto salariale e
dall’arcano della fattura del plusvalore.
“C’è un governo unico delle banche e
della finanza che domina le nostre vite” si
dice nell’assemblea del primo ottobre; giu-
sto, ma come farvi fronte? Il governo unico
sta a significare che la borghesia ha scoperto
la propria coscienza di classe. A questa centralizzazione si deve rispondere con altrettanta concentrazione, non con il federalismo
movimentista, con il “movimento dei movimenti”. Dietro l’opportunismo dei mestatori
di sempre, è sempre meglio lasciar fare alla
“base” e poi cavalcarne l’onda!
Per i “movimentisti” il nemico non è
l’intero modo di produzione capitalista, il
più bestiale della storia, ma “il sistema finanziario globalizzato, gli accordi di Maastricht, il potere delle banche, della finanza
e del grande capitale”, è il “liberismo”.
Concetto questo di sicuro effetto sulla
“base”, ma che sta all’opposto da ogni linea
di difesa classista e dal fine di riorganizzare
il fronte proletario. A metà strada tra un sindacato che rifiuta la concertazione confederale e un partito politico che si collocherebbe nel tanto accogliente “arco costituzionale”, non è stato un passo verso il ricompattamento delle frantumate spinte operaie; non lo poteva essere a causa del programma interclassista che sta alla sua base
e che lo condannerà a rivestire un ruolo di
servizio del dominio del capitale internazionale nella sua base italiana.
I sindacati di base che si pongono sul
terreno della lotta e della difesa di classe
non hanno nulla da guadagnare nell’aderire
a questi tentativi malconci di mascherare il
riformismo con una facciata barricadera; al
contrario ne verranno risucchiati e ripercorreranno strade già battute nei decenni
trascorsi, quando nell’ossessiva ricerca del
successo immediato e dell’ingrandimento
delle proprie file i primi timidi segnali di ripresa del sindacalismo di classe vennero annegati nel mare dell’immediatismo. Non è
possibile scavalcare il nodo storico della rinascita del Partito di classe con la costituzione di organismi ibridi.
Il grido di battaglia dei lavoratori più
combattivi e coscienti deve risuonare forte
e chiaro: sciopero generale ad oltranza! Non
si tratta di cercare nuovi metodi di lotta e
parole d’ordine alla moda. È necessario
riappropriarsi del potente strumento dello
sciopero intercategoriale, sola arma in
grado di contrastare un padronato, rigidamente concentrato e schierato compatto a
difesa dei propri profitti.
Nulla di buono potrà uscire da un neonato movimento che sorge già con tutte le
peggiori malattie senili dell’opportunismo
interclassista.
Che paghino o non paghino i loro debiti
il padronato e tutti gli Stati muovono all’
attacco delle condizioni della classe operaia
Come scientificamente previsto dal comunismo marxista, le contraddizioni interne del regime capitalistico ne stanno determinando la rovina
L’attuale crisi economica internazionale
non è solo finanziaria ma di sovrapproduzione. Il dissesto del debito e la speculazione non sono la causa ma le inevitabili
conseguenze della recessione e del fallimento storico del capitale – che è industriale e finanziario insieme – come modo
di produzione. I mercati sono intasati di
merci invendute, molti rami di industria riducono la produzione e intere fabbriche
chiudono. I lavoratori in cassa integrazione
e i disoccupati aumentano, spesso senza alcuna assistenza sociale. Il Capitale sempre
con maggiore difficoltà riesce a mantenere
in vita i suoi schiavi salariati.
Gli Stati di tutto il mondo, sia a governo
“di destra” sia “di sinistra”, sono “intervenuti” per difendere i profitti del capitale nazionale, da un lato riducendo con la forza i
salari ed aumentando l’intensità e la durata
della vita lavorativa, dall’altro accumulando
enormi debiti al fine di rimandare il precipitare di una crisi già in atto da decenni e
che infine è esplosa ancor più gigantesca.
L’avvolgersi della crisi mondiale ha successivamente dimostrato fallire il regime
del profitto sia sotto la forma di capitalismo
di Stato sia del cosiddetto liberismo. Per
l’incalzare della crisi è sempre più difficile
nascondere la ferrea dittatura del capitale
sulla classe operaia sotto il turpe mito borghese della democrazia.
Qualunque politica attui lo Stato borghese esso è e sarà sempre contro la classe
operaia (prima, con o dopo “Berlusconi”).
Il capitale nazionale italiano è indissolubilmente intrecciato al mercato e alla finanza
mondiali. Chiedere di tagliare quei legami
è indicazione ancora più reazionaria, oltre
che utopica. A qualsiasi governo di ogni
Stato, di quello italiano ma anche dei massimi imperialismi ed organismi della finanza internazionale, la politica di bilancio,
fiscale ecc. è imposta dall’esterno, dal deteriorarsi della sottostruttura economica, né
hanno essi alcuna libertà di scelta.
Tanto che ad una borghesia nazionale sia
concesso di rimandare la dichiarazione di
fallimento, quanto che essa venga infine costretta ad accettarlo, insomma, che “paghi”
o che “non paghi”, muteranno comunque
in peggio le condizioni dei lavoratori se questi non sapranno opporre alla pressione padronale e statale la loro forza e la loro ordinata e generale mobilitazione di classe.
Il debito, dello Stato borghese verso i
borghesi e dello Stato borghese verso altri
Stati borghesi, non riguarda la classe dei
lavoratori. È indice dello stato agonico e
della rovina loro, non della nostra classe. I
lavoratori non sono oppressi dalla
“schiavitù del debito”, ma dalla schiavitù
del salario.
Necessità della classe lavoratrice non è
consigliare allo Stato borghese quello che
dovrebbe fare al fine, impossibile, di “tornare alla crescita”, ma contrastare con tutte
le sue forze il tentativo padronale di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, per
dividerli, per incanalarne il movimento
verso false strade.
La crisi, così generale, profonda, irreversibile, dimostra che il regime capitalistico non può dare speranza ai proletari. Non
troveranno salvezza a chiudersi all’interno
della singola fabbrica, né della singola nazione. I proletari non hanno patria. Il proletariato può salvare se stesso, e con esso
tutti gli oppressi del Mondo, solo ricostituendo la sua unità di classe, prima all’interno delle nazioni poi internazionale.
Questo regime non cadrà solo per il suo,
pur evidente, fallimento economico, sociale
ed ideale. Se la classe borghese riuscirà a
mantenere il potere politico negli Stati, se
non interverrà la internazionale azione cosciente del proletariato rivoluzionario e del
comunismo, l’umanità sarà precipitata in
una terza guerra imperialista, unico strumento che permette al Capitale di rigene-
N. 349 - Settembre-Ottobre 2011
rarsi attraverso la distruzione catastrofica
di masse enormi di merci e di uomini.
La crisi del capitalismo, lungi dal risolversi, si aggraverà in una spirale di cause ed
effetti sempre più drammatici. Ad essa non
esiste una varietà di soluzioni possibili: esiste una sola soluzione borghese a cui si contrappone la soluzione proletaria. Il suo disciogliersi avverrà necessariamente attraverso l’alternativa: o guerra imperialista fra
gli Stati nazionali borghesi o rivoluzione
proletaria internazionale.
Tutti i governi borghesi, “di destra” e
“di sinistra”, come oggi, spinti dalla crisi,
hanno imposto durissimi provvedimenti
contro la classe lavoratrice, domani, di
fronte al suo ulteriore precipitare, cercheranno di trascinare i lavoratori nella carneficina della guerra, per spartirsi il mercato
mondiale, ma soprattutto per impedire con
la guerra la rivoluzione.
Questa prospettiva indicata dal comunismo rivoluzionario sarà confermata domani
come lo è stata oggi la previsione marxista
della grande crisi, perché poggia sulla medesima base scientifica del marxismo, sulla
sua lettura della esperienza storica di due
secoli di capitalismo, delle sue crisi, di due
guerre mondiali e delle sue Rivoluzioni.
Le rivendicazioni di “non pagare il debito” e la lotta “contro l’Europa delle banche” non difendono la classe operaia. Saranno utili invece al futuro governo borghese, verniciato di rosso o di nero, che avrà
il compito di trascinare i lavoratori alla
guerra in difesa “del Paese” contro le nazioni nemiche.
La vera lotta proletaria non è contro il
debito ma per il salario! I lavoratori devono tornare ad impugnare le rivendicazioni storiche del movimento operaio:
- salario minimo garantito per tutti i lavoratori adeguato al costo della vita;
- lo stesso salario minimo per i lavoratori
licenziati;
- riduzione dell’orario di lavoro a parità
di salario;
- uguali condizioni di lavoro al di sopra
di razza, nazionalità, sesso;
- diritti di cittadinanza ai lavoratori immigrati e alle loro famiglie.
Queste rivendicazioni accomunano tutti
i lavoratori e uniscono le loro lotte al di sopra delle divisioni fra aziende, categorie,
razze, religioni. Sono le uniche sulle quali
è possibile costruire una mobilitazione generale della classe.
Queste rivendicazioni storiche sono
state strappate di mano ai lavoratori, sostituite con altre che li dividono e li rinchiudono nelle galere aziendali, fatte loro dimenticare, da decenni di sindacalismo di
regime di CGIL, CISL e UIL. Ma chi oggi
propone ai lavoratori al loro posto la “lotta
contro il debito” sta solo mettendo una veste nuova al vecchio opportunismo antioperaio di sempre!
Ciò che diventa sempre più urgente per
i lavoratori è la ricostituzione di un fronte
unico sindacale sulla base di queste rivendicazioni, per la loro difesa incondizionata,
contro l’interesse dell’economia nazionale
borghese e fuori dalle compatibilità capitalistiche, che apra la strada alla ricostituzione
di un potente Sindacato di classe, fuori e
contro tutti i sindacati di regime!
La classe operaia deve sapersi organizzare separata dalle nemiche classi dominanti e dagli incerti strati intermedi e dai
loro “movimenti”, perché solo essa porta in
sé la forza e il germe del futuro. Solo una
classe ben inquadrata e diretta verso i suoi
obbiettivi, che impieghi l’arma dello sciopero e non le schede elettorali e referendarie, potrà domani trascinarsi dietro le infinite espressioni del malcontento sociale
contro il capitalismo.
Per questo è necessario che si rafforzi e
si estenda l’organizzazione politica del proletariato, il Partito Comunista Internazionale, indispensabile per mantenere oggi la
prospettiva rivoluzionaria comunista, per
guidare domani il proletariato alla lotta per
la conquista del potere politico, verso la
piena emancipazione comunista dell’uomo.
Grecia
(segue da pag. 1)
tezione al Parlamento, negli ultimi mesi più
volte preso di mira dai manifestanti. È stato
così che solo gruppi di anarchici, alcune
centinaia, hanno attaccato gli attivisti del
PAME e si sono scontrati con la polizia posta a difesa del parlamento.
È ormai consueto che i gruppi anarchici
affrontino la polizia, la quale attacca poi con
ferocia tutti i manifestanti e disperde i cortei. Un po’ quello che è accaduto a Roma il
15 ottobre scorso. Gli scontri tra stalinisti e
anarchici sono stati molto duri e sono durati
per ore. Quando questi ultimi sono riusciti
a rompere la linea degli attivisti del PAME,
le forze di polizia hanno attaccato cercando
di separare i contendenti. Poco prima della
votazione il PAME ha lasciato l’area di
fronte al parlamento e la polizia antisommossa ha spazzato via il concentramento
Completata
la riproduzione
di Prometeo
Recuperati i 53 numeri mancanti,
fino all’aprile 1938
Come in altre occasioni abbiamo
avuto modo di affermare, la ricerca e riproduzione degli strumenti che segnano
il filo rosso della tradizione rivoluzionaria, attività che il partito ha sempre svolto
e continuerà a svolgere, è dettata dalla necessità di salvare dalla distruzione e
scomparsa un prezioso materiale storico
e ricostituire un archivio di partito il più
completo possibile onde permettere alla
nostra attuale compagine, e soprattutto al
futuro partito rivoluzionario, di disporre
di armi teoriche e di pratici insegnamenti
acquisiti attraverso la viva esperienza
della lotta di classe.
Non mania di collezionismo o velleità
editoriale, per occupare una “nicchia di
mercato” e di far soldi con la messa in
commercio di materiale che possa allettare i pruriginosi istinti dei intellettuali
piccolo-borghesi. Altri fessi, a partire da
anni lontani, hanno tentato (fra l’altro, invano) di far cassetta pubblicando testi con
nomi di illustri autori.
Per quanto riguarda la Frazione all’estero avevamo già riprodotto, negli anni
passati, le collezioni complete di Bilan,
Communisme, Octobre, oltre a vari Bollettini, ed i primi 100 numeri di Prometeo, dal giugno 1928 al marzo 1934.
La collezione di Prometeo era rimasta
incompleta poiché risultava che unica copia esistente fosse quella posseduta, in
microfilm, dalla Fondazione Feltrinelli di
Milano la quale, malgrado nostri vari tentativi, non ci ha consentito di farne copia.
C’è voluta la cocciutaggine dei nostri
compagni per riuscire a scovare, in luogo
insperato, un altro esemplare del microfilm.
Acquisito questo ci siamo trovati di
fronte ad un altro non meno grave problema: la maggior parte dei fotogrammi
era praticamente illeggibile, così siamo
dovuti ricorrere all’opera dei nostri “tecnici” per ripulirli pagina dopo pagina dalle
macchie scure che ne impedivano la lettura. Si è trattato di un lungo e meticoloso
lavoro che però, alla fine, ha dato il buon
risultato del recupero dei 53 numeri mancanti, ossia fino all’aprile 1938, permettendo il completamento della raccolta.
degli scioperanti in piazza Syntagma, ormai
diviso e disorganizzato.
Durante questo intervento è morto un
muratore, membro del PAME. La direzione
del Partito “comunista” si è affrettata ad annunciare che era stato ucciso dagli anarchici
e ha continuato a ribadirlo anche dopo che
dall’ospedale hanno dichiarato che l’uomo
era morto per un attacco cardiaco provocato
dei gas sparati dalla polizia. Anche l’opposizione di destra ha fatto propria la versione
del partito stalinista e si è congratulata con
il KKE, guardiano del Parlamento.
Per la rinascita del sindacato di
classe, per il rafforzamento del partito comunista rivoluzionario
Di fronte a questa difficile situazione, i
partiti della sinistra parlamentare ed anche
alcuni extraparlamentari chiedono nuove
elezioni, che è il classico stratagemma dell’opportunismo socialdemocratico per spezzare la lotta di classe.
In un periodo di crisi economica come
quello che stiamo attraversando, che oggettivamente indebolisce la classe lavoratrice
sottoposta al ricatto della disoccupazione e
della fame, è ancora più pressante la necessità di organizzare i lavoratori in un sindacato di classe deciso a difendere il proletariato, fuori e contro i sindacati legati a doppio filo col regime, come hanno dimostrato
di essere non solo il PAME, ma anche il
GSEE e l’ADEDY.
Anche in Grecia le lotte sostenute dai lavoratori negli ultimi due anni mostrano che
non c’è salvezza per la classe operaia in un
capitalismo decadente se essa non è capace
di ritrovare la propria unità e la propria
forza nell’azione e nella lotta, per prima
cosa rimettendo in piedi le proprie organizzazioni di classe indipendenti e liberandosi
dei capi opportunisti e venduti.
È inoltre sempre più necessario che si
rafforzi il partito che vive nella tradizione
del comunismo rivoluzionario di sinistra,
organo indispensabile per preparare l’abbattimento di questo sistema di produzione
che sacrifica alla sua sopravvivenza la vita
di milioni di proletari.
il Partito Comunista
N. 349 - Settembre-Ottobre 2011
6 settembre
Contro le manovre del governo
e l’accordo del 28 giugno
Per la difesa intransigente della classe
lavoratrice - Rinasca il sindacato di classe
La manovra economica è un nuovo pesante attacco contro tutta la classe lavoratrice. Distrugge il contratto collettivo nazionale di lavoro attraverso la possibilità nei
futuri contratti aziendali di derogare ad esso
su quasi ogni materia; consente che i contratti aziendali concedano la piena libertà di
licenziamento, in deroga all’articolo 18
dello Statuto dei Lavoratori; accelera il processo d’innalzamento dell’età pensionabile
a 65 anni delle lavoratrici del settore privato
Tutti questi provvedimenti nella loro essenza si riducono all’obiettivo di fondo perseguito dalla borghesia, dai suoi Governi di
destra o sinistra, dal suo Stato, in ogni
paese: la riduzione del salario, sia esso diretto (busta paga), indiretto (servizi sociali),
differito (liquidazione, pensione).
Ridurre il salario significa aumentare
lo sfruttamento del proletariato. Questa è
la sola reale misura che il capitalismo ha a
disposizione per mantenere in vita la sua
economia, minata dal cancro incurabile del
calo del saggio del profitto e dalla sovrapproduzione di ogni tipo di merci: le
vere cause della crisi, che non è italiana né
europea, ma è mondiale.
La classe lavoratrice – il proletariato –
non deve farsi carico della sopravvivenza di
questo sistema economico perché esso è destinato inesorabilmente al collasso e comporta sempre più sfruttamento, miseria, oppressione e guerra per i lavoratori di tutto il
mondo. L’economia capitalistica continuerà ad affondare, avvitandosi in crisi
sempre più estese e catastrofiche, ma la
classe lavoratrice non si rassegnerà ad affogare con essa e lotterà per i suoi opposti interessi di classe, contro questo sistema sociale che ha fatto il suo tempo.
Per questo, oggi, la strada che i lavoratori devono intraprendere non è quella di chi
propone false ricette alternative volte alla
impossibile ripresa della crescita dell’economia capitalistica, sostenendo uno dei due
schieramenti parlamentari che si fingono
contrapposti, né quella di chi favoleggia
un’economia capitalistica diversa, più
“umana” e meno distruttiva per il lavoro e
le risorse naturali, da realizzare attraverso
l’azione di movimenti di tutte le classi e
senza mettere in discussione il regime sociale e politico borghese. Il Capitale sarà
sempre disumano e distruttivo.
Oggi, per i lavoratori, la questione
centrale è quella di organizzare la difesa
intransigente delle loro condizioni, il che
significa lottare senza farsi carico alcuno
delle sorti dell’economica nazionale.
La direzione della CGIL è stata costretta a organizzare lo sciopero di oggi per
non screditarsi del tutto davanti ai lavoratori. Ed è un fatto positivo che una parte
importante del sindacalismo di base vi abbia aderito, superando la pratica annosa degli scioperi separati. Ma è evidente a tutti
che scioperi di questo tipo non sono e non
saranno sufficienti per fermare l’attacco
presente e quelli futuri.
Solo la forza può imporre al Capitale e
al suo Governo il ritiro di questi provvedimenti. Questo significa mobilitare i lavoratori in uno sciopero generale a oltranza
fino al ritiro della manovra. È evidente
che una simile mobilitazione non s’improvvisa. Occorre una organizzazione sindacale estesa e determinata a un lungo lavoro per preparare la classe a un simile
scontro. Questo sindacato oggi non esiste.
Di fronte alla manovra di luglio, infatti,
che ha colpito pesantemente i servizi sociali
e ha prorogato il blocco dei contratti per i dipendenti pubblici, la CGIL non solo non ha
mosso un dito, ma il 4 agosto ha presentato
al Governo – in comune con gli altri sindacati di regime (CISL, UIL, UGL), con Confindustria e con l’Associazione della Banche – le “Proposte delle Parti Sociali” per
unirsi agli industriali e alle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali nel richiedere privatizzazioni, modernizzazione dello
Stato sociale, della Pubblica Amministrazione e delle relazioni sindacali: tutti i soliti
ipocriti eufemismi coi quali la borghesia camuffa gli attacchi contro i lavoratori.
La parte della manovra che distrugge il
contratto nazionale di lavoro è figlia legittima dell’Accordo del 28 giugno fra Confindustria e CGIL-CISL-UIL, che già segnava un passo decisivo in questa direzione.
Coerentemente CISL e UIL lo riconoscono
e plaudono sia a quell’accordo sia a questa
parte della manovra. È la maggioranza
CGIL che ora deve fare le capriole, sostenendo che la manovra ribalta quell’Accordo.
Il Governo non ha fatto altro che accelerare
i tempi. L’Accordo del 28 giugno deve essere respinto al pari della manovra d’agosto.
L’opposizione interna alla CGIL ha
fatto pressioni sulla direzione per la proclamazione di questo sciopero, perché teme
il totale discredito del suo sindacato fra i lavoratori. Ma non perché vuole ritornare ad
un vero sindacato di classe, cosa nella
quale altrimenti si sarebbe impegnata da almeno due decenni, fuori e contro la CGIL.
Essa rappresenta solo l’ala meno conseguente e la copertura del sindacalismo concertativo e di regime.
La CGIL non potrà mai diventare un
sindacato di classe, non potrà mai arrivare
a consentire uno scontro aperto perché la
sua politica è fondata sul dogma che debba
esistere un sistema di regole, condivise da
borghesi e lavoratori, che possa tutelare gli
interessi di entrambi e che eviti lo scontro
di classe. Questa illusione ha retto fintantoché l’economia capitalistica è cresciuta,
dopo le distruzioni della seconda guerra
mondiale. Con l’approfondirsi della crisi si
sta dimostrando che non esistono regole o
diritti, che sono cancellati quando è in pericolo la sopravvivenza del Capitale. Non esistono regole o leggi che possano difendere
i lavoratori al di fuori della loro forza organizzata, che deve essere superiore a quella
della classe nemica.
Ai lavoratori spetta dunque di ricostruire il loro Sindacato di classe per organizzare la difesa efficace dai sempre più
duri attacchi della borghesia. Un sindacato
realmente autonomo dal padronato e dal
suo Stato: che rigetti tutte quelle forme di
corruzione, mascherate da diritti, quali i distacchi permanenti e temporanei e per contare essenzialmente sull’impegno gratuito
dei suoi militanti; che rifiuti il pagamento
delle quote per delega per non lasciare il
suo finanziamento in mano al padrone e
rendergli nota la lista degli iscritti; che sia
rappresentativo non perché sottostà alle regole concesse dal padronato o dallo Stato
(RSU, RSA) ma solo perché di fatto in
grado di organizzare i lavoratori e dirigere
scioperi efficaci.
La condizione proletaria non sarà per
sempre, come da ogni lato viene martellato,
legata alle sorti dell’economia capitalistica,
chiamata in ogni paese “economia nazionale”. Il capitalismo stesso ha ovunque nel
mondo – e da decenni! – creato le condizioni
per il suo superamento: ha sviluppato la
forza produttiva del lavoro a tal punto da
rendere possibile soddisfare i bisogni dell’umanità con poche ore di lavoro medio
quotidiano. Oggi si tratta di liberare il lavoro dalle leggi economiche capitalistiche
che impediscono questa necessaria e razionale organizzazione della produzione e della
società. Ma, per farlo, bisogna liberare la
classe mondiale dei lavoratori dal dominio
politico del Capitale, della borghesia.
Coerentemente e a necessario completamento di questa guerriglia per la difesa
delle proprie condizioni, già oggi la classe
lavoratrice trova nel suo Partito, il Partito
Comunista Internazionale, l’anticipazione
della sua definitiva emancipazione sociale
e politica rivoluzionaria per giungere domani a combattere e vincere la sua guerra
che cancellerà il capitalismo per sempre.
21 ottobre, sciopero Fiat-Fincantieri
La lotta per il lavoro non basta
a difendere la classe operaia
Unire le lotte per conquistare il salario a
tutti i licenziati e la riduzione dell’orario
La mancanza di commesse per i cantieri
navali, così come la chiusura delle fabbriche FIAT e il massiccio ricorso alla Cassa
integrazione, sono parte della crisi di sovrapproduzione del capitalismo mondiale che investe tutti i settori produttivi. In
Italia, in Europa, nel mondo le fabbriche
chiudono e licenziano, o interrompono la
produzione ricorrendo, dove vi sono, agli
ammortizzatori sociali.
Questa crisi in cui sprofonda il capitalismo non ha soluzione al suo interno. Continuerà ad aggravarsi in una spirale dalle
conseguenze sempre più drammatiche.
Non solo non si torneranno a produrre
tante navi, auto, e ogni altro genere di merci
come ai livelli precedenti, ma la borghesia
cercherà di farlo con meno operai e per
meno salario.
Affrontare questa situazione con una
miriade di vertenze aziendali, separate fra
loro, per i lavoratori è una via suicida. È necessario invece unire le singole lotte in un
movimento generale di tutta la classe lavoratrice. Questo sarebbe il compito primario di un vero sindacato di classe.
A questo scopo lo sciopero del 21 ottobre di FINCANTIERI e del gruppo FIAT
insieme è un fatto positivo. Ma non è sufficiente. Ciò che occorre è impostare le lotte
per obiettivi che uniscano veramente, al di
sopra della fabbrica, azienda, categoria.
Di fronte alla crisi la lotta per difendere “il posto di lavoro” è sempre più
inadeguata. Infatti:
– Nell’ambito ristretto del cantiere e
della fabbrica la lotta per scongiurare il licenziamento o la cassa integrazione può
servire a guadagnare un po’ di tempo, a rimandare di qualche mese la chiusura; ma si
permette intanto al padronato di alimentare
la concorrenza tra cantiere e cantiere, tra
fabbrica e fabbrica, addirittura tra un lavoratore e l’altro;
– Mentre la minaccia del licenziamento
e la disoccupazione accomunano sempre
più tutta la classe operaia, restano a difendere il “posto” un numero ristretto ai dipendenti di una singola azienda, la “loro”,
invece di divenire la base per una molto più
forte lotta comune;
– Se alcune aziende sopravvivono, colpendo duramente i loro operai, molte altre
non reggono alla recessione e chiudono.
Cosa dovrebbero fare quei lavoratori per rivendicare “un lavoro”, offrirlo gratis?
– Lottare “per il lavoro”, o per il
“blocco dei licenziamenti”, conduce gli
operai, pur di continuare a lavorare, ad accettare ogni imposizione padronale, tagli al
salario, aumenti dei carichi di lavoro, esuberi, come, ultimo esempio, a Monfalcone,
con la firma anche della FIOM provinciale
e della RSU, e al Muggiano, e prima a Pomigliano e a Mirafiori. Questo peggiora la
condizione dei lavoratori ancora in produzione, che accettano di lavorare in meno e
più intensamente, e quella dei sempre più
numerosi disoccupati, che un lavoro non lo
troveranno mai, dividendo e contrapponendo gli uni agli altri;
– Lottare per il “sostegno statale” spinge
i lavoratori a richiedere che a ottenere i finanziamenti sia la “propria” azienda, se non
il “proprio” stabilimento o cantiere, e non
si pensa alle altre. Inoltre, fatto ancor più
grave, divide i lavoratori delle grandi
aziende, che sono una minoranza della
classe operaia, da quelli delle piccole e medie, che non possono sperare negli aiuti
dello Stato.
Di fronte alla crisi generale del capitalismo, devastante e definitiva, i lavoratori
non devono lottare solo contro l’azienda,
“per il lavoro”, ma soprattutto e sempre più
contro tutta la borghesia, industriale e finanziaria, affinché paghi ai licenziati, attraverso il suo Stato, un salario adeguato a
vivere. Sarà un problema dello Stato borghese, e del padronato, decidere se pagare i
lavoratori mantenendoli inattivi, o fornire
loro un lavoro.
La rivendicazione del salario ai lavoratori licenziati e ai disoccupati unisce
tutti i lavoratori: delle grandi aziende e
delle medie e piccole, delle ditte in appalto
e delle aziende committenti, i lavoratori
precari e quelli relativamente più garantiti,
gli occupati e i disoccupati.
Ad essa deve essere affiancata la rivendicazione di un salario minimo per tutti i
lavoratori, uguale al salario di disoccupazione, e quella della riduzione dell’orario
di lavoro a parità di salario.
Questi sono gli obiettivi sui quali è possibile creare un movimento di tutta la
classe operaia. Per imporli i lavoratori devono costruire la loro organizzazione di
lotta: un vero Sindacato di classe, fuori e
contro tutti i sindacati di regime (CGIL,
CISL, UIL) che da decenni sono lo strumento indispensabile della borghesia per
mantenere divisa e sconfiggere la classe lavoratrice.
Questa crisi per il capitalismo è mortale.
Al di sopra di tutte le illusioni si sta dimostrando che la borghesia, pur di mantenere
il proprio dominio e i propri privilegi, è
pronta a sacrificare la grande maggioranza
dell’umanità.
Solo la classe operaia ha in sé la forza
e il germe della società futura. Se il capitalismo muore i lavoratori invece vivranno, in una società libera dal Capitale.
Lottare per il salario ai lavoratori di cui
il Capitale vuole disfarsi, per esso ormai
merci inutili, significa già oggi unire la lotta
per le necessità immediate di ogni lavoratore
alla lotta per la società di domani, senza
classi e senza lavoro salariato.
Pag. 5
Lear: chiusi
nella galera
capitalista
Dopo mesi di dissidi interni il conflitto
tra la Fiom da una parte e la maggioranza
della Cgil dall’altra sembra essersi risolto a
favore della seconda, con la prima costretta
a rientrare nei canoni del sindacalismo concertativo; ha prevalso la via del riavvicinamento alla linea espressa dalla segreteria
confederale e, a testimoniare questa “ritrovata unità”, sempre e comunque avversa
alla classe salariata, nell’accordo integrativo firmato alla Lear campeggia anche la
firma della Fiom. Che fine hanno fatto le
proteste contro il “modello Marchionne”?
Sono sparite come sempre dentro le manovre da retrobottega che caratterizzano da decenni il sindacalismo nostrano marcio di
opportunismo e cogestione.
L’integrativo firmato presso l’Unione
industriali di Napoli ricalca fedelmente gli
accordi alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori:
premio di produzione per un 30% legato
alla presenza in fabbrica; possibilità di spostare la mensa per i turnisti a fine turno; possibilità di elevare fino a 120 le ore di straordinario comandato (in deroga al contratto
nazionale); sistema di turnazione in deroga
al decreto legislativo del 2003; energica
clausola di raffreddamento per prevenire le
proteste spontanee dei lavoratori.
In sede di referendum tra i lavoratori
l’accordo è stato bocciato, ma con una spaccatura quasi a metà. Lo Slai-Cobas ha cantato vittoria inneggiando alla “democrazia”
ristabilita. Noi comunisti non saremmo così
ottimisti: la riscossa operaia, anche quando
si riflettesse nel prevalere in meccanismi
elettorali e nelle opinioni dei singoli, potrà
fondarsi solo sul dispiegarsi di una forza
reale, nell’intensificazione delle lotte intransigenti e nella robusta organizzazione
della classe.
La generalizzazione di questo tipo di accordi (che a questo punto diventa insensato
definire “separati”) impone una riflessione
d’ordine generale sulla contrattazione decentrata. Il testo del 21 settembre si apre significativamente con il problema della presenza al lavoro: «Le parti convengono che
la presenza al lavoro dei dipendenti è condizione indispensabile per garantire il rispetto degli impegni di fornitura nei confronti del Cliente»; il fulcro sta proprio qui:
aumentare la produttività per garantire consegne tempestive alla Fiat. Al di là delle migliaia di particolarità aziendali è sempre
questo lo “spirito” della contrattazione di
secondo livello, far meglio aderire le norme
che governano il processo di lavoro alle esigenze di valorizzazione di quella quota particolare del capitale mondiale in modo da
spingere all’estremo lo sfruttamento della
forza-lavoro.
È una novità dell’ultima ora? Assolutamente no. Indubbiamente la crisi generale
di sovrapproduzione ha inasprito lo scontro,
ma i germi delle situazioni odierne si possono ritrovare già in quei contratti aziendali
degli anni ’60, quando l’espansione del capitalismo seguente alla fine della Seconda
Guerra imperialista permetteva di elargire
briciole dei sovrapprofitti imperialisti.
La politica volta a sviluppare a dismisura
la contrattazione articolata veniva presentata, allora, come metodo per derogare, in
meglio per i lavoratori dell’azienda, dal contratto nazionale. L’istituto del premio di produzione permette di dimostrare la continuità
di fondo del sindacalismo tricolore che attraversa i periodi di prosperità come quelli
di crisi. Il capitalismo ha la necessità di valicare continuamente i limiti che esso stesso
ha posto nel passato, spingere l’estrazione di
plusvalore oltre il livello precedente. Nei
momenti di espansione il sistema dei premi
di produzione può essere definito come “positivo” (non in termini morali): se produci di
più riceverai un premio per questo; nel corso
delle crisi invece il premio diventa “negativo”: se non ti assenti potrai arrivare al
100% dello stipendio. Cosa c’è di comune?
Il sistema è costruito in modo da aderire comunque alle esigenze produttive delle imprese, inchiodando in un modo o nell’altro i
lavoratori tra le mura della fabbrica. L’incentivo alla produzione altro non è che un
incentivo allo sfruttamento, un mezzo per
scaricare sulle spalle dei salariati persino il
compito di fustigarsi qualora non siano sufficientemente produttivi.
Gli ultimi contratti decentrati chiudono
il cerchio. Il sindacato di regime in Italia,
completamente prono alle richieste della
classe borghese, non è in grado di darsi una
linea che contrasti in maniera generale l’offensiva capitalista. Invece di unire tutti i
fronti di lotta in un’unica battaglia almeno
a livello nazionale con la proclamazione di
uno sciopero generale ad oltranza, invece
di preparare la classe operaia ad uno scontro che sarà necessariamente aspro e di
lunga durata, la Triplice sfianca le lotte che
scoppiano spontaneamente isolandole, pre-
sentando ogni singola vertenza come un
“affare” che riguarda esclusivamente il singolo capitalista e la manodopera che direttamente opprime.
Ai lavoratori che gridano: Salario!, rispondono in coro i sindacati: Lavoro! Quale
lavoro? Non esiste lavoro in generale, ma il
lavoro salariato, sempre più precario, sottopagato, massacrante. Combattere per questo genere di lavoro equivale a difendere la
miseria assoluta di un’intera classe.
Il proletariato, storicamente chiamato a
seppellire la società capitalista, ha sempre
più i caratteri di classe internazionalmente
omogenea. Viceversa, ogni programma sindacale che esalti le particolarità delle diverse “realtà” aziendali non può che porsi
inevitabilmente a difesa dello sfruttamento
operaio, incentivandolo e facendo aderire al
meglio l’organizzazione del lavoro agli interessi dell’impresa. I contratti di secondo
livello, nell’epoca del sindacalismo patriota, hanno il compito di intensificare la
produttività della forza-lavoro. I contratti
aziendali diventano delle professioni di fede
al sacro mito della produttività, e non casualmente si aprono con dichiarazioni d’intenti volte a migliorare la competitività
aziendale. La vittoria del fascismo a livello
sociale sta anche in questo, i lavoratori devono sentirsi membra di un corpo al cui vertice sta la borghesia ma per il cui funzionamento pacifico e normale sono chiamati a
sacrificarsi. Ogni lotta deve essere prevenuta (tregua sindacale) e indirizzata in binari che, se essa dovesse comunque scoppiare, garantiscano la non interruzione del
meccanismo di sfruttamento della classe
operaia; ciò è tanto più vero nei periodi di
crisi acuta ma non lo è meno nei momenti
di boom economico.
I comunisti non negano la realtà e la necessità anche di una lotta operaia all’interno
delle fabbriche e del reparto, della “galera
aziendale”, ma ritengono che, in particolare
in un momento di crisi, la forza della classe
diminuisce all’interno della singola impresa
e che si possa invece dispiegare soltanto socialmente. La difesa operaia è possibile solo
nell’unità di lotta e di organizzazione dei lavoratori di tutte le categorie.
Sconfitta
(segue da pagina 1)
tragici risvolti storici e su quello teorico
dalla critica del comunismo di sinistra alle
proposte di fronte unico. L’unità di azione
del proletariato si può realizzare solo sul
piano della difesa economica della classe lavoratrice, non su quello politico.
Il proletariato che si muove contro il nemico borghese potrà trascinare nella lotta al
suo fianco anche gli strati intermedi solo se
dimostrerà di essere la classe più decisa e
forte, non mercanteggiando un programma
politico di compromesso o prospettando governi “popolari” o “operai”.
I proletari, i giovani, a cui la società del
capitale oggi più di ieri nega ogni possibilità di vita, non hanno da schierarsi né con
i difensori dell’ordine borghese né con chi
sfoga nelle piazze l’estetica della violenza.
Altra è la strada che ha da percorrere.
COMMUNIST
LEFT
Review of
the International Communist Party
No. 29/30, 2010/2011
CONTENTS
The Proletarian Giant shakes Egypt
- The revolt in Tunisia is successful.
More bloodshed in the Middle East
Italy: Rosarno - A question of Class
and Class struggle, not Race!
French Pension “reforms”
UK: Government Cuts Are Directed Against the Working Class
Letter from America: struggling
workers suppressed at the point of
the bosses’ guns.
The American health reforms - A
Nice Gift for the Insurance Companies
The Workers’Movement in Modern
Iraq (Part 2)
The Labor Movement In the United
States of America (Part 1)
Franco Ramasso
Reunion Reports:
- Party Meeting in Genoa
- Return to Sarzana for our working
meeting
- Working meeting in Turin
- A Successful General Meeting in
Cortona
- Party General Meeting in Florence
il Partito Comunista
Pag. 6
Gran Bretagna
Sciopero generale dei lavoratori del
pubblico contro i tagli alle pensioni
In Gran Bretagna il 30 giugno più sindacati del pubblico impiego e della scuola
hanno chiamato i loro iscritti ad uno sciopero contro l’intenzione del governo di modificare il sistema delle pensioni. Questo
avrebbe comportato un aumento dei contributi a carico dei lavoratori, il prolungamento della durata della vita lavorativa e la
riduzione delle pensioni.
Lo sciopero si è dimostrato poi il maggiore negli ultimi cinque anni e nel pubblico
impiego nell’ultima generazione.
Tre sindacati degli insegnanti, la University and College Union, la National
Union of Teachers e la Association of Teachers and Lecturers vi hanno aderito insieme al Public and Commercial Services
Union, e poi i lavoratori delle agenzie per il
Lavoro, i dipendenti delle dogane, degli uffici dei passaporti ed altri.
Il maggior sindacato del pubblico impiego, lo Unison, non ha però nemmeno indetto il referendum fra i lavoratori, necessario per la legge inglese per indire uno
sciopero. Secondo quanto affermato dal suo
dirigente, Dave Prentice, perché aveva in
corso delle trattative col governo che dovevano concludersi proprio il giorno dello
sciopero. Queste trattative, su questioni “di
principio”, sarebbero state seguite da ulteriori incontri sulle varie modalità di pensione in settori specifici.
Una nota fatta trapelare dalla confederazione sindacale generale, il Tuc, rivelava
Nuove accessioni nel
sito internet del partito
(disponibile su CD)
Periodici:
- "Il Partito Comunista", n. 348.
Documenti:
- PSI, XIV Congresso, Ancona, 1914, Intervento della sinistra.
- Il Programma della Frazione Comunista (Il Soviet, 13 luglio 1919).
- Verso il Congresso Nazionale Socialista (II Soviet, 10 agosto 1919).
- In difesa del Programma Comunista
(Avanti!, 2 settembre 1919).
- Dopo il Congresso (Il Soviet, 20 ottobre 1919).
III Internazionale, 2° Congresso, 1920:
- Direttive sulle condizioni di costituzione dei Consigli Operai.
- Manifesto: Il mondo capitalista e
l’Internazionale Comunista.
- Replica della sinistra del PSI sul parlamentarismo.
- Le condizioni di ammissione, Discorso della sinistra del PSI.
- Discorso della sinistra del PSI sul
parlamentarismo.
- Κόμμα και τάξη, 1921.
- Κόμμα και τάξηκη δράση, 1921.
- Προλεταριακη δικτατορια και ταξικο
κομμα, 1951.
Rapporti:
- Rapacité capitaliste: course au pétrole
et guerres incessantes!
- September 1980 forward to text no 3,
“Theses on the Nature and Role of the
Revolutionary Communist Party”.
- USA, Verizon strike.
Interventi:
- Το ευρωπαϊκο και ελληνικο κεφαλαιο
συνεχίζουν την επίθεσή τους κατα των
εργάτων της Ελλάδας.
- Η οικονομική κρίση στην Ελλάδα.
- Το γκρέμισμα των χρυσών ειδώλων του
κεφαλαίου.
- Il padronato e tutti i borghesi Stati di
Europa - che “paghino” o “non paghino”
i loro debiti - muovono all’attacco delle
condizioni della classe operaia.
- Whether they ‘pay their debts’ or not,
the employers and all the bourgeois states of Europe are moving onto the attack
against the working class, 1921.
- Είτε πληρώσουν τα χρέη τους είτε όχι,
οι εργοδότες και όλα τα αστικά κράτη της
Ευρώπης θα συνεχίσουν την επίθεσή
τους ενάντια στην εργατική τάξη.
- “Paguen” o “no paguen” sus deudas, todos los Estados burgueses atacan a la
clase proletaria.
- Qu’ils “payent” ou “ne payent pas”
leurs dettes, tous les États bourgeois européens s’attaquent à la classe prolétarienne.
- 21 ottobre, Sciopero Fiat-Fincantieri:
La lotta per il lavoro non basta a difendere la classe operaia. Bisogna unire le
lotte per conquistare il salario a tutti i lavoratori licenziati e la riduzione dell’orario!
- Contro le manovre del Governo e l’Accordo del 28 giugno - Per la difesa intransigente della classe lavoratrice - Per
la rinascita del Sindacato di Classe.
che la richiesta sarebbe stata di alcuni vantaggi solo per alcuni particolari settori. Questo atteggiamento, come prevedibile, ha
gravemente compromesso i sentimenti di
unità che si erano lentamente rafforzati negli ultimi mesi e infine manifestati in quello
“spettro” dello sciopero comune, una moltitudine di lavoratori di diversi sindacati e
di diversi settori che manifestavano insieme
in molti cortei e adunate in tutto il Paese. La
strategia del Tuc quindi ha graziosamente
assecondato la politica di divisione del governo, il quale, tramite la solita campagna
orchestrata dai media, usa i pregiudizi della
“gente comune” per mettere gli uni contro
gli altri i lavoratori privati e pubblici, spostando l’attenzione su alcuni minimi vantaggi di cui ancora godono questi secondi.
La Unison ha parlato, dopo, di aver intenzione di indire fra i suoi iscritti il referendum per uno sciopero, ma da farsi nel
tardo autunno, e che non c’è stato. Scusa il
ritardo per le difficoltà imposte dalla legislazione vigente, che per indire uno sciopero
obbliga il sindacato a produrre un dettagliato
tabulato degli iscritti ed indire poi il referendum di tutti costoro: una procedura che,
dicono, richiederebbe fino a 17 settimane!
È certo vero che i padroni hanno usato
i tribunali per invalidare i risultati dei referendum appigliandosi a piccoli errori di
procedura, e provocare ritardi, come nella
recente contestazione alla British Airways,
e alla Docklands Railway (qui, in realtà,
hanno dovuto fare marcia indietro e pagare
al sindacato Rmt 100.000 sterline di
danno!). La Unison quindi dice che ha bisogno di altro tempo per prevenire ogni
pretesto legale.
Ma la questione è molto più generale.
Se la legislazione tende a mettere al bando
le azioni sindacali (ed il governo sta ora
parlando di rendere gli scioperi sempre illegali in alcuni “settori chiave”, come per
esempio la metropolitana) sicuramente ciò
che occorre è una vigorosa ed estesa campagna contro questa legislazione antioperaia! E questa sarebbe la migliore rivendicazione per una intesa e cooperazione fra i
diversi sindacati. Ma di fatto questo non
avviene ed il silenzio dei sindacati sull’argomento non può essere interpretato che
come una accettazione di fatto.
Il movimento sindacale in Gran Bretagna è controllato dal Labour Party; ed il Labour Party è una creatura del capitalismo.
Questo è lo stretto nodo gordiano che è da
tagliare se la classe operaia deve progredire
verso la protezione delle sue condizioni di
vita e di lavoro.
Lo sciopero del 30 giugno, benché impressionante per partecipazione, era limitato
ad un solo giorno e come per legge preannunciato in anticipo in modo che le amministrazioni potessero predisporre adeguati
piani di sabotaggio.
Non è questa la strada per impostare una
effettiva difesa contro gli attacchi sempre
più violenti dei padroni e dei loro rappre-
Rinnovare
l’abbonamento alla
stampa comunista
per il 2012
sentanti politici, che devono trovarsi contro
una organizzazione sindacale preparata a
combattere su basi di classe. Non possiamo
dire in che forma sarà ricostituita questa
unione di classe, ma ci dovrà essere, sia attraverso scissioni del presente movimento,
oppure fuori e contro gli attuali sindacati,
come sembra sempre più probabile.
Il movimento dovrà anche riconnettersi
con il partito di classe, Il Partito Comunista
Internazionale, spezzato il “tradizionale”
appoggio a quell’orribile escrescenza borghese che è il Labour Party.
U.S.A. - Verizon
14 giorni di
sciopero traditi
dai sindacati
Il 7 Agosto, non appena scaduto il loro
contratto di lavoro, sono entrati in sciopero
i 45.000 lavoratori della Verizon Communications, fornitore globale di telecomunicazioni a banda larga e wireless. I lavoratori hanno deciso che ne avevano abbastanza: Verizon avanzava ulteriori dure richieste: tagli alle prestazioni mediche e la
perdita della maturazione delle pensioni
dell’anno in corso.
Lo sciopero, che ha coinvolto operatori
del call center, tecnici ed installatori, dal
Massachusetts fino alla Virginia, è stato indetto dal Communications Workers of
America, che ha rappresentato 35.000 lavoratori in sciopero, e dall’International
Brotherhood of Electrical Workers che ne
rappresentava 10.000.
In particolare Verizon pretende che i lavoratori contribuiscano al loro premio di assistenza sanitaria con una somma da 1.300
a 3.000 dollari all’anno per la copertura dei
familiari. Verizon vuole anche congelare i
contributi aziendali per la pensione dei dipendenti, limitare a 5 i giorni di malattia durante l’anno, diminuire le disposizioni di sicurezza sul lavoro ed eliminare le pensioni
per i lavoratori futuri.
Nonostante i profitti record (27,5 miliardi dollari di fatturato per il solo secondo
trimestre 2011) Verizon vuole risparmiare
20,000 dollari l’anno su ogni lavoratore, ossia 1 miliardo. Questo in una compagnia in
cui 5 dirigenti negli ultimi quattro anni
hanno guadagnato 258 milioni in remunerazioni e premi; l’amministratore delegato
da solo nel 2010 ha guadagnato 18 milioni.
Questo scioperò è stato il più grande negli Stati Uniti da quello di due giorni, nel
2007, dei 74.000 dipendenti della G.M. Come prevedibile, i sindacati coinvolti nello
sciopero sono stati del tutto inani, tanto che
entrambe le dirigenze sindacali hanno volute premettere che non c’era nulla da potersi spartire. Inoltre non sono state contestate da alcun sindacato le ridicole intimazioni dei tribunali contro gli scioperanti, cioè
che in Pensylvania, i picchetti si limitassero
a sei scioperanti e a New York al numero di
crumiri presenti in ogni luogo di lavoro.
Da segnalare che il principale sindacato
americano, AFL-CIO, non ha avuto niente
da dire a proposito di questo sciopero.
Quando i lavoratori in sciopero cominciarono a denunciare diversi atti di violenza
da parte di crumiri e dirigenti, Verizon replicò elencando le interruzioni del servizio
ai clienti ed arruolando il Federal Bureau of
Investigation per indagare su più di 90 atti
di presunto “sabotaggio” attribuiti ai lavoratori, compresi alcuni “fili tagliati”, caso
affidato all’FBI in quanto minaccia alla “si-
È uscito il numero 70 - giugno 2011, della nostra rivista
COMUNISMO
– Presentazione
– La negazione comunista della democrazia (continua dal numero scorso):
Origini del movimento operaio in Italia: Le Società di Mutuo Soccorso - Primi
congressi delle Società Operaie - Scopi e metodi - Il miglioramento della condizione operaia - Patriottismo, democrazia, lotta di classe - Condizione dei proletari e dei contadini nel Sud d’Italia - Insurrezioni al Sud e reazione borghese
- Il conte di Cavour, esemplare della borghesia italica - Dalla rivoluzione nazionale alla lotta di classe proletaria - La vuota ideologia borghese di Giuseppe
Mazzini - Il congresso di Firenze - Nuovi tentativi garibaldini - Stato d’assedio - L’eccidio di Pietrarsa
– Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America (XI - Continua del numero scorso): Torna il movimento per le 8 ore: La risposta borghese: i fatti di
Haymarket - Ritirata operaia (continua)
– Il marxismo e la questione militare - Parte terza, Il capitalismo (VIII - continua dal numero scorso): C - L’esercito di Francia sotto Napoleone: 1. La riorganizzazione dell’esercito: i reggimenti di fanteria - 2. Il decreto del 18 febbraio 1808 - 3. La strategia napoleonica - 4. La battaglia di Waterloo (continua)
– Dall’Archivio della Sinistra:
Libreria Editrice del Partito Comunista d’Italia, Il martirio del proletariato nella
Venezia Giulia, Intervento parlamentare del deputato Giuseppe Tuntar pronunciato il 21 luglio 1921
N. 349 - Settembre-Ottobre 2011
curezza nazionale”. I lavoratori Verizon
hanno risposto che erano solo tattiche intimidatorie ordite dalla società.
La scadenza di Verizon data agli scioperanti per ritornare al lavoro era il 31 agosto, in caso contrario tutte le prestazioni sanitarie sarebbero state sospese.
Lo sciopero è stato revocato il 21 agosto. Il 23 i 45.000 dipendenti sono ritornati
al lavoro, senza un contratto ma solo con un
“impegno di continuare le trattative”, senza
aver ottenuto nulla e senza possibilità di
azioni dall’esterno dei sindacati.
È tempo, è davvero urgente per il proletariato gettare nella pattumiera della storia
tutte le illusioni sul sistema capitalistico e
ricominci da capo il suo lavoro di organizzazione. Occorre un vero sindacato di
classe, composto soltanto di lavoratori e che
operi solo nel loro interesse, per difendere i
reali bisogni e problemi della classe operaia, e con i mezzi adeguati alla loro risoluzione. Sarà altresì fondamentale per il proletariato degli Stati Uniti aderire al programma del comunismo rivoluzionario di
sinistra, rappresentato dal Partito Comunista Internazionale.
Libia
(segue da pagina 1)
da parte di altre aziende del settore, come
Benelli, Beretta, Oto Melara, per un totale
di circa 8 milioni di euro. La Selex Sistemi
integrati, società della moglie dell’amministratore delegato della Finmeccanica, ha poi
siglato nel 2010 un contratto per 300 milioni di euro per la creazione sul confine tra
Libia e Ciad di un sistema di protezione e
sicurezza, radar e missili.
Il tradizionale doppio gioco italiano ha
funzionato anche in questa occasione: da
una parte, la “sospensione” del Trattato d’amicizia (tra predoni, evidentemente) era la
premessa per trasferire quei bei contratti al
CNT, con il quale il ministro degli esteri
Frattini si è “attivato” per farsi garantire il
riavvio a pace fatta; dall’altra l’Italietta non
ha potuto sottrarsi ai suoi impegni di paese
Nato. Nulla di nuovo in diplomazia e nel
commercio.
I sistemi d’arma più complessi hanno un
mercato e un prezzo diversi se possono
esporre l’etichetta “testato in combattimento”. I conflitti locali e di breve durata,
ma di sempre maggiore intensità, sono il
banco di prova di ogni tipo di armamento in
vista delle grandi guerre mondiali. Essendo
praticamente sempre presenti e a ogni latitudine sono l’occasione per verificarne “sul
terreno” le continue modifiche e migliorie.
Basti pensare alla continua evoluzione dei
droni, i piccoli velivoli teleguidati senza pilota, che da semplici mezzi per l’osservazione aerea ora sono dotati di piccoli razzi
con un grande raggio d’azione, costantemente provati nell’interminabile conflitto
afgano, per essere poi rivenduti ovunque.
Ecco quindi che la Svezia coglie l’occasione della guerra in Libia per mettere
alla prova il nuovo super caccia Gripen,
prezzo base 60 milioni di euro; ma battuta
sul tempo dal velivolo multiruolo francese
Rafale, che ha effettuato la sua prima missione qualche ora prima dell’accordo a Parigi fra tutti i paesi partecipanti alla missione. ”La decisione di effettuare il primo
colpo è stata politica e non tattica, e si è
portata dietro l’effetto secondario di una
buona visibilità per il Rafale”, questo il
commento del condirettore dell’Institute
for Strategic and International Relations di
Parigi. Infatti hanno dato una grande diffusione alle immagini dell’abbattimento dell’unico aereo libico colpito dopo un inseguimento e combattimento da parte del Rafale. La Dassault, la ditta costruttrice francese del Rafale, vanta le meraviglie del suo
prodotto le cui vendite però si sono fermate
ai 300 esemplari acquistati dal governo
francese, perdendo invece tutte le gare
d’appalto per questo tipo di forniture in
Asia, Africa e Sudamerica e creando ovviamente grossi problemi di recupero degli
investimenti e mancati guadagni.
Il resto delle operazioni aeree, tutte ampiamente filmate e diffuse in tutte le televisioni, è stato fatto invece con i classici Tornado, più duttili, meno tecnologici e con
equipaggi già ben addestrati al loro uso. Più
i sistemi sono complessi più personale necessita per il loro funzionamento. Basti pensare che per impiegare le poche decine di
EFA Typhoon inglesi per il “pattugliamento
aereo di superiorità” si sono dovuti utilizzare almeno 100 tecnici.
L’elenco degli armamenti è considerevole e lo tralasciamo; tutti avevano dei sistemi da provare come conseguenza della
notevole accelerazione nella corsa agli armamenti e della spesa militare, come confermano le statistiche in merito che analizziamo nel nostro costante lavoro di partito.
In fatto di gigantismo e sistemi ipertrofici naturalmente la parte più impressionante è offerta dagli Usa che stanno con-
cretamente esplicitando da parte loro la dottrina “Shock and Awe” cioè colpire ed intimorire il nemico con l’esibizione di organizzazioni militari imponenti. Non è certo
una grande novità negli eserciti.
Nel Mediterraneo hanno inviato per il
viaggio inaugurale la loro nuova super portaerei USS Gorge HV Bush, considerata la
più grande base militare mobile del mondo,
dopo aver ricevuto il “certificato di pronto
per le operazioni di combattimento” il mese
prima della guerra in Libia. Per intenderci
bene bisogna notare che il Gorge H.W.
Bush Strike Group 2 è un’insieme di almeno 10 unità navali di vario tipo, con
eventuali sottomarini nucleari, per un totale
di 7.500 uomini. La sola portaerei nucleare
ha quattro ettari e mezzo di spazio sul ponte
(45 mila metri quadrati) pari a 7 campi da
calcio, 5.500 uomini d’equipaggio e porta
fino a 90 aerei ed elicotteri. È costata 6,2
miliardi di dollari del 2009.
L’intervento mirato e limitato alla Libia
è stato preceduto dalla “Exercise Saxon
Warrior”, una grande esercitazione navale
di fronte alla Cornovaglia con 26 navi di 6
paesi. Visto il suo programma e svolgimento, che travalicava gli obiettivi contingenti dei fatti libici, e l’enorme dispiego di
forze, molti pensarono a preparativi per
operazioni di portata ben più grande e ad
una probabile escalation militare, che si poteva estendere oltre i confini libici a tutta
l’area sud del Mediterraneo.
Ma questo enorme e muscoloso gigante
è stato fin qui mosso da un cervello scoordinato producendo risultati non consoni
alle aspettative di quanti lo nutrono. L’impaziente Francia ben sapeva che senza il
supporto dei sistemi di guerra elettronica
americana, gli aerei invisibili ai radar
Awacs e i missili da crociera, poteva fare
ben poco; la Gran Bretagna per impiegare
le decine di Tornado in Libia ha dovuto lasciare metà della sua flotta aerea a casa
senza pezzi di ricambio e sospendere i voli
dei loro intercettori a difesa. Il comando
americano per l’Africa (Usafricom) aveva
un suo piano di guerra che pare prevedesse
solo l’eliminazione e sostituzione del
gruppo di Gheddafi, piuttosto che una
lunga e costosa “no-fly zone” o la distruzione delle forze aeree libiche. Forse per
contrasti interni ai tre maggiori “salvatori”
il comando delle operazioni è poi passato
alla Nato. Poi la liquidazione delle forze libiche non è stata così facile come previsto
e i fatti militari accaduti sembrano una miscellanea delle varie impostazioni.
I costi di questa breve guerra, secondo la
Strategic Cultur Foundation, sono incredibili e non ancora finiti: al 3 giugno il Pentagono dichiara di aver sostenuto costi per 716
milioni di dollari, più 1 milione per ricostituire le riserve del ministero della Difesa più
1 milione in “aiuti umanitari”. Ne prosieguo, oltre il 30 settembre, si prevedeva di
spendere altri 400 milioni. I missili Storm
Shadow lanciati dai sottomarini nucleari costano ognuno 1,1 milione di dollari mentre
il collaudato Tomawak 800 mila dollari. Il
ministero della Difesa francese dichiarava
spese fino al 3 maggio di 53 milioni di euro
per l’operazione United Defender e 32 milioni per le munizioni. All’8 maggio la Gran
Bretagna aveva speso 44 milioni di sterline
per le armi guidate ad alta precisione. L’invio di 4 bombardieri Tornado GR4, 3 jet intercettori Eurofighter Typhoon e relativo
supporto tecnico sono costati 3,2 milioni di
dollari ogni giorno. Un’ora di volo dei Tornado costa 33 mila dollari con carburante,
manutenzione e addestramento equipaggio.
I Thyphoon costano 80 mila dollari all’ora.
La povera Italia, tramite il ministro della Difesa La Russa, ha dichiarato di aver dovuto
ridurre i costi di partecipazione all’operazione da 142 a 60 milioni di dollari. Dal 30
settembre è previsto che i costi complessivi
per le operazioni in Libia sarebbero saliti a
1,1 miliardi di dollari.
Forse è stato proprio questo uno dei motivi per dare una svolta alla guerra e arrivare
all’assassinio di Gheddafi.
Non sappiamo ancora quante distruzioni
e quanti morti ha provocato, ma sappiamo,
da una stima del Fondo Monetario Internazionale, che la guerra sarebbe “costata 35
miliardi di dollari ai 6 milioni e mezzo di
cittadini libici, cioè il 50% del PIL del Paese
che nel 2010 superava i 70 miliardi di dollari” (Il Manifesto, 29 ottobre).
Questa enorme spesa e le distruzioni
sono state pagate con lo sfruttamento e con
il pluslavoro estorto ai proletari e ai lavoratori libici e di tutti i paesi coinvolti, mentre
i capitalisti si fregano le mani per i profitti
che ne stanno ricavando. Il proletariato non
ha da richiedere democraticamente una riduzione delle spese militari o a una generica cessazione degli interventi di guerra;
deve ricostituire la sua organizzazione di
classe per opporsi con la forza al militarismo borghese, per opporre alla guerra tra gli
Stati la guerra di classe del proletariato di
ogni paese contro il capitalismo mondiale.