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RIMMEL narrativa italiana 15 direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione e comunicazione: Gabriele Dadati grafica e interni: Studio Grafico Ceccherini, Milano utili consigli: Giulio Mozzi ISBN 978-88-96999-59-2 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2013 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano www.laurana.it - [email protected] Giuseppe Sforza inseguendo Gauguin LAURANA EDITORE Rapax: rapace (agg.) impetuoso, irresistibile (sost. m.) ladro 1. 2. (nome proprio) Rapace, epiteto della XXI legione (al m. pl.) Rapaci, gli Irresistibili, nome dato ai soldati di questa legione Parte 1 Introduzione numero uno Che credibilità può avere una persona che in mezzo a una folla, su una macchina decappottabile particolarmente eccentrica, di sera, inforca un paio di occhiali da sole e accendendo la radio a tutto volume vi dice: “L’importante è non farsi notare”? Le persone erano circa duemila, la macchina era la Cadillac Eldorado viola con fiamme azzurre di Gana, erano le dieci e un quarto, la radio sparava al massimo Louie Louie cantata da Iggy Pop e al suo “L’importante è non farsi notare”, l’unica cosa che sono riuscito a rispondere è stata: “Ok”. Ma forse è meglio tornare indietro. La strada è gialla e nera. Come quelle schifose vespe che in primavera vengono a visitare lo spazio tra il soffitto e i tuoi libri, per decidere se trasferirsi per le vacanze estive, come fanno le allegre famigliole con le villette al mare, mentre tu speri che insoddisfatte proseguano il loro giro e vorresti convincerle a guardare meglio il catalogo consigliando una libreria a mille chilometri dalla tua. La strada è gialla e nera, colori distinti. Il giallo delle luci che si illuminano da sole. Un chilometro di inutili luci sporche messe lì per incorniciare con il loro leggero alone la strada nera, buia. Sarebbero più dignitose spente, in ostinato silenzio, rivoluzionarie artefici di un buio inquietante; 9 invece vegetano tristi, con quella vocina soffiata, malinconiche come donnine da romanzo ottocentesco. Circondato dal vomito giallastro il tunnel nero. Ti aspetti la folata di vento gelido, le foglie secche che si alzano in un vortice e il vecchio uomo duro che si alza il bavero della giacca e socchiude gli occhi contro la polvere, contro il freddo, contro il pensiero del suo acerrimo nemico. Ma il freddo non c’è, non c’è neanche il vento, non c’è niente. L’aria è ferma; vorresti soffiare per muoverla ma non hai fiato da sprecare. L’unica luce rossa ti attira, cambia ogni cinque secondi, sola cosa che si muove, statica nel suo ciclo sempre uguale: ora, data, temperatura. Trentatré gradi. Forza della tradizione, ma il trentatré non promette niente di buono e trentatré gradi di notte sono un brutto affare. Ma non hai caldo: il caldo presuppone il calore. Tu non provi caldo: provi fastidio. Non ti senti accaldato: ti senti sporco, ti senti appiccicoso, ti senti infestato. L’afa ti toglie il fiato, il che potrebbe essere un bene, perché sai che anche il fiato fa schifo. Hai la bocca impastata e vorresti svegliarti. Ti sembra uno di quegli incubi che facevi da bambino: devi andare a scuola ma sbagli sempre strada, vaghi per la città che conosci. Ti trovi sempre in posti noti, sai dove devi andare ma non sai che strada seguire. Finché nel sogno ti stupisci, ti liberi dall’angoscia e ti dici che non puoi sbagliare la strada che fai ogni giorno da tanti anni; capisci che è un sogno. E ti svegli e ti rendi conto che è stato solo un incubo e che la tua vita continua sicura come la conosci. Ora vorresti svegliarti: ma sei già sveglio! La questione è questa, giusto per capirci: dovevo recuperare un milione di euro e un quadro di un grande pittore 10 francese che risponde al nome di Paul Gauguin. Erano le otto e quarantacinque di una calda sera d’estate, stavo vagando da due ore senza la minima idea di cosa fare e dove andare. Cosa c’entri uno studente universitario sotto pressione con una montagna di soldi e con un artista che amava spassarsela in Polinesia e frequentava olandesi con problemi mentali e capacità artistiche sovrumane è una storia lunga, ma già che ci siamo cercherò di spiegarvelo. E questo è solo il presupposto a una storia ancora più lunga e molto più assurda. E non chiedetevi se sia possibile: è possibile. Tutto comincia da una serata in discoteca e da una femmina. Al primo impatto, una gran femmina. Al secondo, la cosa peggiore che mi sia mai capitata. Ma è inutile continuare a sprecare parole, è il caso di passare ai fatti. E quindi: flashback. 11 Da Mecenate alla croce È incredibile la potenza di certe parole. Prendiamo “excrucior”, il termine con cui si conclude la seconda più grande poesia d’amore mai scritta: c’è uno che ama e contemporaneamente odia una donna, e se tu non resisti alla curiosità e vai a domandargli come sia possibile ti risponderà che non lo sa nemmeno lui. Ma c’è poco da fare, è così. Lui lo sente, è il primo a riconoscere la contraddizione, ma anche impegnandosi nel più immane sforzo di volontà non sarebbe in grado di fare altrimenti, e infatti excrucia. “Ex” starebbe a significare “da”, “from” per gli anglofoni. Il resto della parola deriva da croce, quel simpatico supplizio che amavano usare i romani: univano due grossi pali a formare una T, ti ponevano aderente a essi e poi ti piantavano dei chiodi lunghi venti centimetri e grossi come la canna di una pistola negli avambracci, tra il radio e l’ulna. Dissanguamento minimo, in modo da fare cento chilometri di sofferenza con pochi litri di sangue. Trafiggevano principalmente muscoli, tendini, legamenti, nervi e altre parti del corpo particolarmente sensibili. Soffrivi come una bestia, ma non era questa la causa del decesso: morivi per soffocamento, lentamente, perché il tuo stesso peso ti portava a comprimere i polmoni e a schiacciarti il diaframma; per un naturale istinto di sopravvivenza usavi le ultime forze rimaste nelle braccia per sollevarti e contrastare una forza di gravità che Newton non aveva ancora spiegato, in 12 modo da tenere il corpo il più possibile dritto e disteso, ma in questo modo non facevi altro che allungare l’agonia. A essere cinici era divertente la situazione: più erano gravi le sofferenze dei condannati più questi dovevano diventare gravi e in quanto tali adeguarsi alle leggi d’attrazione proprie della loro natura. Quando avevano voglia di essere buoni, magnanimi, i carnefici latini ti spezzavano braccia e gambe, così stavi giù bello compresso e morivi prima. Colavi a picco nell’oltretomba come una mela che cade da un albero. In poche parole questa crocifissione era davvero un modo crudele e sadico per ammazzare la gente, altro che impiccagioni, sedie elettriche, fucilate alla nuca, iniezioni letali e party a base di cocktail di anestetici e sonniferi. Ma adesso che conosciamo meglio le fantasiose forme di martirio dell’antica Roma torniamo al nostro Gaio Valerio Catullo, il poeta. I suoi sentimenti sono così meravigliosamente contrastanti e lo straziano al punto che si sente in croce. Come li vuoi definire dei versi simili, sublimi? È ancora troppo poco. “Excrucior” è potenza pura. Eppure l’idea di provare emozioni laceranti come le sue non mi sfiorava nemmeno. “Odi et amo”, dice la poesia: odiavo Sisi? Diciamo, meno poeticamente, che quando diventava petulante, possessiva, sdolcinata, smorfiosa, volubile, viziata, eccessivamente frivola, cocciuta, incontentabile e capricciosa mi stava moderatamente sui coglioni. Però non arrivavo a odiarla. Era più che altro una sensazione di fastidio che col tempo diventava sempre meno tollerabile. Ma proseguiamo nell’analisi del verso: la amavo? No. Provavo affetto? Scarso. Stima? Ancora meno. Cosa ci stavo a fare insieme? Secondo il mio punto di vista non stavamo insieme. Più che altro le gravitavo intorno, come un pianeta che ruota vicino a una stella e ne trae luce. Forse sarebbe più corretto dire come un parassita vicino al suo 13 ospite, ma non mi piace definirmi così. Ecco, un simpatico scroccone, che ha iniziato raccattando le briciole e poi, visto che nessuno si lamentava, ha finito col prenderci gusto. E con questi sentimenti contrastanti nell’animo desideravo allontanarmi da lei ma non riuscivo a staccarmene. Nello specifico non riuscivo ad abbandonare: a) il suo corpo; b) i suoi soldi; c) soprattutto i suoi soldi. Quella bambina viziata mi stava viziando, e aveva iniziato a farlo dal primo momento in cui c’eravamo conosciuti. Anzi a dire la verità anche prima, perché quando l’avevo baciata e quando, pochi minuti dopo, mi aveva offerto da bere, grazie ai consigli del mio fedele Lesbio non avevo la minima idea di come si chiamasse. Se il miglior amico dell’uomo è il cane, il miglior amico della donna è il gay. Non ricordo dove ho sentito questa frase ma l’avevo fatta mia e avevo imparato a farne buon uso. Miliardi di uomini eterosessuali sin dalla notte dei tempi si arrovellano nell’illusione di riuscire a esplorare e comprendere l’universo femminile: la tendenza degli ultimi anni è quella di dare ascolto e lasciare libertà di espansione al lato femmineo della propria natura. Come se sensibilità facesse meno rima con virilità che con femminilità. Per quanto mi riguardava il lato lunare del mio animo avevo preferito darlo in usufrutto gratuito a chi avrebbe saputo farne un uso migliore, cioè uno dei miei migliori amici, che in omaggio alla sua omosessualità chiamavo affettuosamente Lesbio. Seconda doverosa incursione nella storia della poesia classica: a Saffo, come a me, piacevano le donne. Niente di strano, ti dici quando in prima superiore inizi a leggere i suoi versi. Suona molto più stravagante il nome della donna a cui dedica la sua più celebre poesia, una certa Anattoria. Il disguido prosegue quando, in un’altra lirica, trovi l’invi14 dia di Saffo per un uomo che sembra simile a un dio per il solo fatto di poterle stare vicino ad ascoltarla mentre parla e sorride. Ma quando leggi che il poeta, riferendosi a se stesso, dichiara che “un tremore tutta mi scuote”, ti accorgi che Saffo non è un nome maschile. Saffo infatti era donna ed era lesbica. Nel senso più originario del termine, essendo nata sull’isola di Lesbo. Tutte le altre donne dedite, per l’appunto, all’amore saffico prendono definizione da lei. Non è mia intenzione urtare la suscettibilità di nessuno, ma devo riconoscere che quella lesbicona di Saffo era una gran poetessa. E il nostro vecchio Gaio Catullo, uno che di poesia se ne intendeva, sarebbe d’accordo con me: intanto ha tradotto in latino quella poesia sull’uomo che sembra un dio adattandola a suo uso e consumo; inoltre in suo onore aveva scelto di nascondere l’identità della sua amata – quella dell’Odi et amo – dietro al nome immaginario di Lesbia: mica poteva scrivere “O mia Clodia, moglie di Quinto Cecilio Metello Celere, spero di riuscire presto a rendere tuo marito cornuto”. Detto fra noi credo che l’avrebbe fatto tranquillamente, solo che i nomi veri non poteva metterli. Comunque, il fratello di lei, Publio Clodio detto “il bello”, veniva chiamato da Catullo Lesbio. Si dice in giro che i due, Lesbio e Lesbia, se la facessero anche tra di loro. Il mio amico non ha sorelle, non è dedito a rapporti incestuosi, ma è lo stesso un porco e in più ha la misteriosa abitudine di autodefinirsi “il Bello”. Quindi un po’ per questo, un po’ per simpatia verso Catullo, un po’ per ammirazione verso Saffo, gli avevo attribuito quel celebre e antico pseudonimo. Il mio buon Lesbio era diventato il miglior confidente, o confessore, di molte sue amiche. Come Catullo non faceva mai i nomi, ma raccontava tutto. Chiariamo un altro punto, a me non è mai interessato entrare nell’universo femmini15 le: come diceva il grande Oscar Wilde le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese. Un mistero è bello se rimane tale. Perché un uomo che ha la possibilità di considerare la donna il più meraviglioso mistero del mondo dovrebbe togliersi questo piacere? Ma una cosa è entrare in un universo, tutt’altra è entrare in un corpo. All’occorrenza i consigli di Lesbio potevano rivelarsi un utile passepartout, o almeno lo speravo. Sulla base delle confidenze ricevute il mio amico era giunto alla conclusione che nelle discoteche l’“Amor che al cor gentil ratto s’apprende” non interessa a nessuno. Per quanto riguarda gli uomini è luogo comune ritenere che sia sempre così. Ma le donne tutti le considerano molto più romantiche. Una sera in un locale Lesbio aspettava con impazienza che un altro ragazzo si dirigesse verso il bagno. L’intenzione era quella di seguirlo. “Scusa ma se anche lui dovesse andarci, e tu lo segui, dopo che fai?”, gli chiesi incuriosito dalla situazione. “Crei un contatto”, rispose sintetico. “Cioè?” “T’avvicini, se lui non si imbarazza e non si sposta è fatta”. “Sì, ma prima cosa dici?” “Non c’è niente da dire”, rispose laconico. “Vuoi dire che non ci parli nemmeno? Gli salti addosso e basta?”, chiesi stupito. “Al massimo due parole di circostanza, ma non di conoscenza”, disse con naturalezza. “Non gli chiedi nemmeno come si chiama?” “Cosa mi frega di come si chiama? La maggior parte della gente che ho beccato in giro non so come si chiamava. Con me, per il fatto che sono gay, molte amiche si 16 lasciano andare alle confidenze”, continuò facendosi più malizioso. “Guarda che a tante ragazze non dispiacerebbe una cosa simile. Magari vanno in discoteca e hanno voglia di divertirsi e invece trovano uno che si perde in chiacchiere noiose senza concludere niente. Piuttosto sarebbe meglio una cosa simile, una cosa un po’ pazza. È chiaro, prima devi leggerci l’attrazione”. Per questo motivo qualche sera dopo mentre guardavo la ragazza che avevo accanto sapevo il gusto del suo lucidalabbra, sapevo che aveva il piercing sulla lingua, sapevo quanti denti avesse in bocca, ma non sapevo il suo nome. La conoscevo di vista da molto tempo. A dirla tutta le morivo dietro dalla prima volta che l’avevo vista: capelli corti tagliati a caschetto, indecisi tra il biondo e il castano chiaro, leggermente più scalati dietro; un ciuffo che si tuffava in continuazione sulla fronte fin quasi a coprire gli occhi color nocciola, grandi, maliziosamente infantili. Occhi simili di solito vengono definiti da cerbiatta: lei era Bambi nel trailer di un cartone animato che ti promette la possibilità di trasformarsi da un momento all’altro in un film erotico. Nasino piccolo leggermente schiacciato. Non molto alta, anzi bassina, ma funzionale, come quei bilocali in cui nonostante lo spazio ridotto non manca assolutamente nulla. Ogni suo minimo gesto mi risultava eccitante, e un tic in particolare. Ponete due giumente in calore in una gabbia; in una seconda gabbia adiacente inserite un cavallo maschio in età riproduttiva e osservate attentamente la sua reazione: questo è all’incirca ciò che accadeva nel mio animo quando Sisi tirava fuori la lingua e si faceva scorrere il piercing sui denti, con la testa leggermente reclinata all’indietro e la faccina imbronciata. Mentre da lontano mi dilettavo, secondo gli insegnamenti di Lesbio, nella lettura dell’attrazione che si era 17 instaurata tra noi, Sisi tirò fuori il piercing e se lo passò sui denti sfiorando il labbro superiore, poi si voltò e si diresse verso il bagno guadando il fiume di gente che affollava la discoteca. Io le corsi dietro, la raggiunsi e proseguii tenendomi a un passo dalle tasche posteriori dei suoi jeans. Arrivati nello stretto e isolato corridoio che portava ai bagni lei si voltò, mi sorrise, io mi avvicinai, lei non mostrò imbarazzo, non provò a spostarsi e io, senza nemmeno due parole di circostanza, assaggiai il suo lucidalabbra rosa al gusto di lamponi. Dopo un tempo difficilmente quantificabile ci staccammo e quella grandissima zoccola, perché di lì a pochi mesi tale si sarebbe rivelata, abbassò la testa coprendosi il sorriso con la mano, mostrando così un candido stupore per la piccola pazzia che avevamo appena commesso. A quel punto iniziò il sogno. “Vieni, ti offro da bere”, disse lei rialzando la testa ancora sorridente. La cosa che più mi era piaciuta del “sistema Lesbio” era la possibilità di ottenere il massimo risultato col minimo costo. Ogni volta che uno ci prova con una ragazza la prima frase è sempre la domanda “posso offrirti qualcosa da bere”. Con la tattica dell’agguato questa frase scontata finiva in soffitta. Terza e ultima doverosa incursione nella storia della poesia classica: se a Catullo gli parlavi con interesse delle “Idi di marzo” probabilmente ti avrebbe chiesto se eri rincoglionito. Letteralmente. Non è una mia mancanza di rispetto attribuirgli queste parole, il ragazzo era volgare di suo. In alcune poesie ha definito gli Annali di Volusio “cacata carta”, cioè cartacce merdose, un amico di Giulio Cesare, Mamurra, l’aveva soprannominato “mentula”, cioè minchia, e ha descritto come famelico il retro del figlio di un tale Vibennio. Chissà 18 perché queste cose non te le insegnano mai a scuola: è naturale che poi uno non si appassiona alla poesia. Ma tralasciando il turpiloquio poetico il punto è che il quindici marzo per Catullo era un giorno come un altro, dato che il povero poeta è morto appena trentenne più o meno nel 54 avanti Cristo, ben dieci anni prima del decesso di Giulio Cesare. Con il quale tra l’altro non andava troppo d’accordo, un po’ per come gli trattava gli amici e un po’ perché non amava i potenti. Allora come oggi no intrallazzi col potere, no soldi, no party, tanto che Catullo invitando a casa sua l’amico Fabullo gli consigliava, se voleva mangiare bene, di portarsi la cena. L’impero era ancora lontano, Augusto era solo un bambino e Mecenate, appena quattordicenne, non aveva ancora reso il suo nome proverbiale. Magari se avesse retto ancora qualche anno il nostro poeta sarebbe entrato nel giro e invece morì depresso e con la borsa piena di ragnatele. Io non avevo la minima intenzione di fare la stessa fine e il mio grande obiettivo era quello di riuscire a trovare in tempo un prolifico e munifico mecenate. Perché la vita del dissoluto può rivelarsi estremamente costosa e la mia borsa il più delle volte sembrava il museo nazionale degli aracnidi. Non so perché ma sentendo quella frase intravidi la possibilità di aver trovato uno sponsor a lungo termine. Il metodo Lesbio si basava sulla toccata e fuga, ma una che ti offre da bere dopo che le sei saltato addosso non potevo lasciarmela scappare. Io e Sisi parlammo dieci minuti bevendoci i drink. Poi le proposi di uscire e insieme ci fermammo davanti alla porta, nella zona transennata riservata ai fumatori. “Tu fumi?”, chiese. “Sì, ma non ho sigarette...”, dissi mentre cercavo di tirare fuori il pacco di tabacco incastrato nella tasca posteriore dei jeans. 19 “Sai qual è una cosa che non mi piace? Quelli che se le fanno da soli le sigarette, sembrano dei barboni”. Razza di rompicoglioni, pensai mentre facevo sparire il tabacco nella tasca. “Vuoi che andiamo a comprarle?”, chiesi. “No, io non fumo”, rispose. Non fuma e anche rompe il cazzo, pensai. Scaricala subito, è solo una nana viziata, mi consigliò il cervello. Non ci penso nemmeno a scaricare una che mi offre da bere, risposi. “Allora torniamo giù, così non prendi freddo, piccola”, le dissi scolandomi il bicchiere. “Sei gentile, mi piacciono i ragazzi cavallereschi. Ti sei meritato un altro giro”, rispose lei imitandomi e buttando giù il drink tutto d’un fiato. Usava dei termini del cazzo ma continuava a offrire. Rientrai dietro di lei esultando, con i violini e i fiati di Vivaldi che mi risuonavano nella testa mentre i neuroni in coro inneggiavano un “gloria in excelsis deo”. Dopo aver trascorso insieme la serata a spese sue ci lasciammo con l’intenzione di rivederci. Dopo qualche giorno uscimmo per aperitivi e lei continuò a insistere per offrire. Poi la frequentazione diventò quasi quotidiana. Veniva a casa mia e diceva di avere voglia di uscire a cena, io rispondevo che i tempi erano duri, c’era la crisi economica, l’inflazione galoppante, e lei rispondeva di stare tranquillo che avrebbe offerto lei. Simulavo educata contrarietà, mi dicevo imbarazzato, ma alla fine accettavo. Entravamo in un negozio e provavo qualcosa, lei chiedeva perché non lo comprassi, rispondevo che costava troppo e lei prontamente tirava fuori la carta di credito. Avevo voglia di qualche gingillo necessariamente super20 fluo? Ne parlavo appassionatamente, spiegavo dove l’avevo visto e dopo un paio di giorni arrivava Babbo Natale. Iniziai a prenderci gusto: lei ci teneva a ricoprirmi di regalini e io la ricoprivo di appassionate descrizioni. Dopo un po’ la cosa si fece seria. Un giorno Sisi venne a casa mia e disse che aveva voglia di farsi un fine settimana in giro, un piccolo viaggio sola con me. Tirai fuori la congiuntura internazionale, i cambi sfavorevoli, il taglio dei tassi d’interesse e il loro istantaneo rialzo, il deficit pubblico, le tasse per pagare la guerra di Libia, la campagna d’Etiopia e le guerre puniche; alla fine come al solito disse che sponsorizzava tutto lei e dopo due giorni eravamo sull’aereo. Dopo di che persi il controllo: week end a Parigi, week-start a Barcellona, week-middle a Madrid, fino all’intera week a sollazzarmi su una spiaggia sotto al caldo sole d’Egitto. Diventai un mantenuto a trecentosessanta gradi. Non avevo idea dove prendesse tutti quei soldi, ma non mi interessava. Mi aveva solo detto che suo padre era molto ricco e a me questo bastava. Non ero mai stato a casa sua, da un lato per evitare contatti col mio reale finanziatore, dall’altro perché non era necessario dato che il mio sollazzo veniva volentieri a domicilio. Ogni tanto mi veniva voglia di dirle “passo io da te”, soprattutto quando si piazzava a casa mia e diventava, come ho già detto, fastidiosa, capricciosa, appiccicosa, o quando mi costringeva a lunghe serate con le sue amiche Bibi, Vivi, Chichi e altri nomignoli del cazzo; ma i mecenati sono talmente rari che avevo paura di perderla. Ma come dice un detto certa gente è meglio perderla che trovarla e se fossi stato a casa sua, avessi conosciuto suo padre, avessi capito meglio chi era Sisi, non solo l’avrei persa, ma l’avrei buttata io. 21 A Gennaro Strazzafico non piaceva il suo nome e come sua figlia preferiva farsi chiamare con un simpatico diminutivo: il Capo. Capo di che, l’avrei scoperto dopo. Sua figlia Crocifissa invece preferiva farsi chiamare con un soprannome molto meno minaccioso, Sisi. Le differenze finivano qua. Perché Sisi come suo padre voleva controllare il territorio, voleva avere tutto nelle sue mani, me compreso. Non mi stava mantenendo, Sisi mi stava comprando. Aveva bisogno di qualcuno che stesse sempre lì ad aspettarla, pronto ad adorarla, anche per finta. Mi usava come compagno di giochi, mi considerava il suo bambolotto. Finché ero un bambolo gonfiabile part-time la cosa non mi dispiaceva, ma la ragazza mi voleva a tempo pieno. Un brutto mattino Crocifissa Strazzafico decise che era giunto il momento di presentarmi alla famiglia e da quel momento cominciarono le mie croci. Come Catullo, non potei fare altro che iniziare a “excruciare”. 22 Il Capo Se c’è luna piena svegliarsi con la luna storta non è un gran problema: per quanto la giri rimane sempre un cerchio. Ma quella notte la luna non era ancora piena. La mattina, appena sveglio, se vuoi ascoltare musica per cominciare bene la giornata, hai solo tre scelte: se vuoi cantare, vecchie canzoni italiane. Se vuoi ascoltare, magari continuando a rigirarti nel letto, i Beatles. Con i Beatles non si sbaglia mai. Al massimo musica classica, risveglio dolce: si parte col grande Mozart, uno che ti raddrizza non solo la luna, ma anche il sole e tutte le altre stelle, e si finisce con Beethoven o Rossini, quelli col finale che fa vibrare i muri, quelli che ti fanno schizzare fuori dal letto pronto ad aggredire il mondo. Ma se vuoi andare sul sicuro, se vuoi proprio iniziare alla grande, hai solo una scelta: rock ‘n’ roll! Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Grand Funk, Patti Smith, i Doors, i Kinks e roba del genere. Le canzonette, quelle canzonette anni ’60 cantate da gruppi femminili americani, mi piacevano. Erano ottime se facevi una serata tra amici, se ballavi sulla spiaggia, se ti imboscavi con una ragazza. Se poi ti imboscavi con una ragazza sulla spiaggia durante una serata tra amici, quelle canzoni erano perfette. Ma la mattina, appena sveglio, mi piacevano decisamente meno. Soprattutto se mi svegliavo la mattina del 12 agosto con la bocca che sapeva di fondo di bicchiere e portacenere, dopo aver dormito poche ore, in 23 due in un letto singolo, tra lenzuola zuppe di sudore per la nottata rovente. Sisi si era già alzata e vagava per la mia casa cantando una di queste canzonette. La sua voce stonata mi svegliò e, nonostante ne mancasse ancora solo un pezzettino, mi svegliai comunque con la luna storta. “Sta rompicoglioni...”, dissi rotolandomi intorno al cuscino. Sisi venne a stendersi accanto a me. Continuava a cantarmi nell’orecchio e iniziò anche a giocherellare con il mio orecchio. “Sei sveglio, ciccino?”, chiese. “Adesso sì...”, dissi senza entusiasmo. Ok, io parlavo con il mio cervello, ma non ero uno schizzato, non sentivo le voci. Fino a prova contraria eravamo in due nella mia stanza. “Che carini che sono...”, disse la terza voce a prova contraria. Mi sollevai di scatto e accanto al letto c’era un omaccione grasso, con le guance cadenti da bulldog, la bocca grossa e umida. Sotto agli occhi piccoli e stupidi non aveva due borse, aveva due valigie. L’occhio sinistro era semichiuso, era mezzo orbo il grassone. Se ne stava seduto su una delle sedie della mia cucina con il ventre enorme che si sollevava al ritmo del suo rantolo. Ansimava e sudava con un mezzo sorriso idiota stampato sulla faccia, mentre si passava con le mani corte e tozze un fazzoletto sul collo taurino. “Chi cazzo sei?”, chiesi. “Lui è il mio papà”, disse Sisi giuliva. “Capo vuoi che ti lascio solo?”, disse un tipo alto e magro, con la faccia scavata e due baffetti neri e sottili, che stava in piedi accanto alla sedia. 24 “No Gaetano, tu puoi restare. Principessina vai di là che noi dobbiamo discutere tra uomini”, rispose il grassone parlando lentamente. Perfetto, il padre di Sisi stava seduto in camera mia e lo chiamavano Capo. “Perché è in camera mia... papà di Sisi?”, chiesi. “Puoi chiamarmi Capo”, rispose il Capo. “Mi piaci, hai la faccia da bravo ragazzo”, continuò. “Io e Sisi abbiamo solo dormito stanotte, non abbiamo fatto altro”, dissi svelto. “Ma credi che io sono scemo? Sono stato anch’io giovane”, disse il Capo. “Sono un po’ geloso ma sapevo che prima o poi la mia principessina si trovava un ragazzo. E sono contento che sei tu. Te l’ho detto mi piaci. E so che hai intenzioni serie”. “Intenzioni serie?”, chiesi dubbioso, stando sempre mezzo sollevato nel letto con i gomiti piantati nel cuscino. “Sì, intenzioni serie. Solo un bravo ragazzo serio e innamorato poteva piacere a una ragazza pura come la mia principessina”. “Un altro l’avrei ammazzato, se lo trovavo a letto con la mia principessina. Ma voi siete innamorati e tu sei un bravo ragazzo e sono contento”. “Ammazzato nel senso...”, dissi. “Di ammazzato. Lo scannavo come un porco”, disse il Capo con la camicia che ormai sudava di sudore proprio. “In senso metaforico...”, dissi. “E che significa?”, chiese il Capo. “Per finta. Così per dire”. “Macché per finta. Lo ammazzavo proprio, con le mie mani. Gli piantavo un coltello e lo squartavo in due. 25 “Ma con te è diverso. Che bello vedervi così innamorati”, continuò lui sospirando con gli occhi umidi. “È chiaro, io ho intenzioni serie”, dissi convinto. “Spero che il primo nipotino lo chiamate come me”, disse il Capo commosso. “Sicuramente”. Mi immaginavo la scena: io che correvo dietro a un nanetto grasso e sudato, che cercava di squartare i suoi amichetti con un coltello da macellaio mentre gli gridavo: “Capo, ti ho detto di non uccidere i tuoi amici”. “Però”, disse il Capo serio con l’indice alzato, “devi prima fare una cosa: devi entrare a far parte della famiglia”. Non sapevo cosa aspettarmi. Una cena con tutti i parenti? Troppo facile. Baci mafiosi? Più probabile. Riti d’iniziazione tribali? Cerimonie massoniche? Scannare porci su commissione? “E in cosa consiste questo ingresso in famiglia?”, chiesi. “Devi lavorare per me”, rispose il Capo. L’omicidio su commissione guadagnava punti. “Che lavoro fa, Capo?”, chiesi. “Devi fare un lavoro per me, per dimostrarmi se vali, se ti meriti davvero la mia principessina”, disse lui senza ascoltarmi. “Cosa dovrò fare?”, chiesi. “Un riscatto”. “Sarò io il riscatto o devo ritirare un riscatto?” “Devi pagare un riscatto. Conosci la Banda?”, disse il Capo. “Quella che suona?” “No, aspetta, ho sbagliato. Come si fanno chiamare quelli?”, chiese il capo al suo scagnozzo. “Il Clan, Capo”. 26 “Ecco, lo conosci il Clan?” Conoscevo il Clan dei Corleonesi, il Clan di Celentano e tanti altri. Qualcosa mi diceva che non parlava del secondo. “No, non lo conosco”. Il Clan, come mi spiegò il Capo, era una specie di organizzazione criminale emergente. Gente nuova, la definì lui. Non erano veri professionisti, ma cercavano di diventarlo. Gestivano un ristorante in centro, una bettola, che doveva servire in teoria come strumento per riciclare soldi. In realtà era la loro unica fonte attuale di reddito. E lo sarebbe stata per parecchio tempo, secondo il Capo, perché era gente che non aveva speranze di emergere. Avevano tentato di entrare in vari traffici, ma sempre senza riuscirci. Quelli non erano come lui, diceva il Capo, non avevano le capacità, non avevano lo stile, non avevano il senso degli affari. Ogni tanto erano fortunati e riuscivano a mettere a segno qualche colpo, come era successo con lui. “E così devo pagare il riscatto al Clan”, dissi alla fine. “No, preferisco di no. Meglio se lo rubi. Il riscatto sarebbe utile per loro, sarebbero un sacco di soldi. Io non voglio rafforzarli”, disse il Capo. “Io sono uno studente, non sono un ladro, non so rubare. Non ci riuscirò mai”. “Guarda che non hai capito, non puoi rifiutarti. Non ho detto che puoi scegliere se farlo o no. Ti sei portato a letto la mia principessina e ora devi entrare nella famiglia”, disse il Capo serio. “Altrimenti?”, chiesi temendo la risposta. “Altrimenti ti scanno come un porco, anche se sei innamorato della mia principessina”. “Mi ha convinto. Ma cosa devo rubare, una persona?” “Intanto non è che devi, preferisco che tu lo rubi. E non è una persona, ma un quadro. Il Clan è riuscito a rubarme27 lo e vale un sacco di soldi. È un quadro di... Gaeta’ come si chiama quello là?”, chiese il Capo al suo uomo. “Gauguin, Capo”. “Cazzo, un Gauguin?”, esclamai. “Eh, quello là. Lo conosci? Io non l’avevo mai sentito. Ma vale un sacco di soldi, per quello l’ho comprato. Da quello che so il quadro è nel ristorante. Uno mi ha dato l’informazione e dice che lo tengono nel magazzino, dietro”, disse il Capo. “Senti”, continuò, “voglio essere generoso. Sei innamorato di mia figlia e poi effettivamente sei giovane e non sei esperto. Facciamo così: se vuoi paghi il riscatto, altrimenti se riesci a rubare il quadro ti puoi tenere i soldi. Come regalo”. “Quindi posso andare al ristorante, pagare il riscatto e riportarle il quadro?” “Mi dispiacerebbe dare i miei soldi al Clan, ma fallo se è quello che vuoi”. “Non ho dubbi, è quello che voglio”. “Comunque pensaci”. “Ci penserò”, dissi per farlo contento. “Allora noi andiamo di là, tu alzati e preparami un caffè, poi vieni che ti do i soldi”. “E quanti sono questi soldi?”, chiesi mentre uscivano dalla stanza. “Un milione di euro”. I dubbi ci misero un attimo ad arrivare. Mi infilai un paio di jeans e una maglietta e raggiunsi il Capo in salotto. Lui mi diede una valigetta nera di pelle. “Tieni, questa è la chiave. Ci sono tutti”, mi disse il Capo. “Credevo ci volesse un container per tenere tutti questi soldi”, dissi mentre l’aprivo. 28 Non ne avevo mai visti tanti tutti insieme. Quaranta mazzette da venticinquemila euro, cinquanta banconote da cinquecento euro a mazzetta. Erano invitanti. Era questa la svolta che aspettavo? Ci avrei pensato. “Quando dovrei portare i soldi?”, chiesi. “Stasera, alle sette e mezza, al ristorante. Il quadro me lo porti domani mattina alle sette e mezza, a casa. Puntuale. Abito nel palazzo in fondo al viale del ristorante, nella piazzetta con la fontana”. “Tutto chiaro”, risposi. “Un’ultima cosa: se pensi di scappare coi soldi o di tenerti il quadro o se arrivi domani mattina senza il mio quadro, sai cosa ti succede?” “Scannato come un porco”, dissi. “È sveglio il ragazzo...”, disse il Capo al suo uomo. “Vieni amore di papà, andiamo”, disse il Capo a Sisi che stava ancora cantando con la sua voce stonata quando rientrai in salotto con le tazzine. “E il caffè?”, chiesi. “M’è passata la voglia”, rispose il Capo consegnandomi la chiave della valigetta. “Scusa Sisi, ma come faceva tuo padre a sapere dove eravamo?”, le chiesi mentre usciva da casa mia. “Gliel’ho detto io, ciccino. Gli ho telefonato stamattina. Volevo fartelo conoscere”. “Ora è tutto più chiaro”. “Perché, ti dispiace?” “No, amore, hai fatto benissimo”, dissi per non fare la fine del porco. Erano già le due di pomeriggio. Non avevo dormito poco. Era successo tutto troppo in fretta. Ero ancora mezzo addormentato. Stavo sognando? No, la valigetta era sul 29 tavolo del mio salotto. Ed era reale. Dovevo calmarmi, riflettere, capire la situazione e decidere cosa fare. Andai in cucina, mi preparai un caffè lungo all’americana, mi rollai una sigaretta con i fondi del pacco di tabacco, misi su Janis Joplin e mi sedetti sulla mia poltrona a pensare. 30