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RIMMEL
narrativa italiana
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direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica e interni:
Studio Grafico Ceccherini, Milano
utili consigli:
Giulio Mozzi
ISBN 978-88-96999-59-2
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2013 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano
www.laurana.it - [email protected]
Giuseppe Sforza
inseguendo Gauguin
LAURANA
EDITORE
Rapax: rapace
(agg.)
impetuoso, irresistibile
(sost. m.)
ladro
1.
2.
(nome proprio)
Rapace, epiteto della XXI legione
(al m. pl.) Rapaci, gli Irresistibili, nome dato ai
soldati di questa legione
Parte 1
Introduzione numero uno
Che credibilità può avere una persona che in mezzo a una
folla, su una macchina decappottabile particolarmente
eccentrica, di sera, inforca un paio di occhiali da sole e
accendendo la radio a tutto volume vi dice: “L’importante
è non farsi notare”?
Le persone erano circa duemila, la macchina era la
Cadillac Eldorado viola con fiamme azzurre di Gana, erano
le dieci e un quarto, la radio sparava al massimo Louie
Louie cantata da Iggy Pop e al suo “L’importante è non
farsi notare”, l’unica cosa che sono riuscito a rispondere è
stata: “Ok”.
Ma forse è meglio tornare indietro.
La strada è gialla e nera. Come quelle schifose vespe che in
primavera vengono a visitare lo spazio tra il soffitto e i tuoi
libri, per decidere se trasferirsi per le vacanze estive, come
fanno le allegre famigliole con le villette al mare, mentre tu
speri che insoddisfatte proseguano il loro giro e vorresti
convincerle a guardare meglio il catalogo consigliando una
libreria a mille chilometri dalla tua.
La strada è gialla e nera, colori distinti. Il giallo delle
luci che si illuminano da sole. Un chilometro di inutili luci
sporche messe lì per incorniciare con il loro leggero alone
la strada nera, buia. Sarebbero più dignitose spente, in ostinato silenzio, rivoluzionarie artefici di un buio inquietante;
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invece vegetano tristi, con quella vocina soffiata, malinconiche come donnine da romanzo ottocentesco.
Circondato dal vomito giallastro il tunnel nero.
Ti aspetti la folata di vento gelido, le foglie secche che si
alzano in un vortice e il vecchio uomo duro che si alza il
bavero della giacca e socchiude gli occhi contro la polvere,
contro il freddo, contro il pensiero del suo acerrimo nemico.
Ma il freddo non c’è, non c’è neanche il vento, non c’è
niente.
L’aria è ferma; vorresti soffiare per muoverla ma non hai
fiato da sprecare.
L’unica luce rossa ti attira, cambia ogni cinque secondi,
sola cosa che si muove, statica nel suo ciclo sempre uguale: ora, data, temperatura. Trentatré gradi. Forza della tradizione, ma il trentatré non promette niente di buono e trentatré gradi di notte sono un brutto affare.
Ma non hai caldo: il caldo presuppone il calore. Tu non
provi caldo: provi fastidio. Non ti senti accaldato: ti senti
sporco, ti senti appiccicoso, ti senti infestato.
L’afa ti toglie il fiato, il che potrebbe essere un bene,
perché sai che anche il fiato fa schifo. Hai la bocca impastata e vorresti svegliarti.
Ti sembra uno di quegli incubi che facevi da bambino:
devi andare a scuola ma sbagli sempre strada, vaghi per la
città che conosci. Ti trovi sempre in posti noti, sai dove
devi andare ma non sai che strada seguire. Finché nel sogno
ti stupisci, ti liberi dall’angoscia e ti dici che non puoi sbagliare la strada che fai ogni giorno da tanti anni; capisci che
è un sogno. E ti svegli e ti rendi conto che è stato solo un
incubo e che la tua vita continua sicura come la conosci.
Ora vorresti svegliarti: ma sei già sveglio!
La questione è questa, giusto per capirci: dovevo recuperare un milione di euro e un quadro di un grande pittore
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francese che risponde al nome di Paul Gauguin. Erano le otto
e quarantacinque di una calda sera d’estate, stavo vagando da
due ore senza la minima idea di cosa fare e dove andare.
Cosa c’entri uno studente universitario sotto pressione con
una montagna di soldi e con un artista che amava spassarsela in Polinesia e frequentava olandesi con problemi mentali
e capacità artistiche sovrumane è una storia lunga, ma già
che ci siamo cercherò di spiegarvelo. E questo è solo il presupposto a una storia ancora più lunga e molto più assurda.
E non chiedetevi se sia possibile: è possibile.
Tutto comincia da una serata in discoteca e da una femmina. Al primo impatto, una gran femmina. Al secondo, la
cosa peggiore che mi sia mai capitata.
Ma è inutile continuare a sprecare parole, è il caso di
passare ai fatti. E quindi: flashback.
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Da Mecenate alla croce
È incredibile la potenza di certe parole. Prendiamo “excrucior”, il termine con cui si conclude la seconda più grande
poesia d’amore mai scritta: c’è uno che ama e contemporaneamente odia una donna, e se tu non resisti alla curiosità e
vai a domandargli come sia possibile ti risponderà che non lo
sa nemmeno lui. Ma c’è poco da fare, è così. Lui lo sente, è
il primo a riconoscere la contraddizione, ma anche impegnandosi nel più immane sforzo di volontà non sarebbe in
grado di fare altrimenti, e infatti excrucia. “Ex” starebbe a
significare “da”, “from” per gli anglofoni. Il resto della parola deriva da croce, quel simpatico supplizio che amavano
usare i romani: univano due grossi pali a formare una T, ti
ponevano aderente a essi e poi ti piantavano dei chiodi lunghi venti centimetri e grossi come la canna di una pistola
negli avambracci, tra il radio e l’ulna.
Dissanguamento minimo, in modo da fare cento chilometri di sofferenza con pochi litri di sangue. Trafiggevano
principalmente muscoli, tendini, legamenti, nervi e altre
parti del corpo particolarmente sensibili. Soffrivi come una
bestia, ma non era questa la causa del decesso: morivi per
soffocamento, lentamente, perché il tuo stesso peso ti portava a comprimere i polmoni e a schiacciarti il diaframma;
per un naturale istinto di sopravvivenza usavi le ultime
forze rimaste nelle braccia per sollevarti e contrastare una
forza di gravità che Newton non aveva ancora spiegato, in
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modo da tenere il corpo il più possibile dritto e disteso, ma
in questo modo non facevi altro che allungare l’agonia. A
essere cinici era divertente la situazione: più erano gravi le
sofferenze dei condannati più questi dovevano diventare
gravi e in quanto tali adeguarsi alle leggi d’attrazione proprie della loro natura. Quando avevano voglia di essere
buoni, magnanimi, i carnefici latini ti spezzavano braccia e
gambe, così stavi giù bello compresso e morivi prima.
Colavi a picco nell’oltretomba come una mela che cade da
un albero. In poche parole questa crocifissione era davvero
un modo crudele e sadico per ammazzare la gente, altro che
impiccagioni, sedie elettriche, fucilate alla nuca, iniezioni
letali e party a base di cocktail di anestetici e sonniferi. Ma
adesso che conosciamo meglio le fantasiose forme di martirio dell’antica Roma torniamo al nostro Gaio Valerio
Catullo, il poeta. I suoi sentimenti sono così meravigliosamente contrastanti e lo straziano al punto che si sente in
croce. Come li vuoi definire dei versi simili, sublimi? È
ancora troppo poco. “Excrucior” è potenza pura.
Eppure l’idea di provare emozioni laceranti come le sue
non mi sfiorava nemmeno. “Odi et amo”, dice la poesia:
odiavo Sisi? Diciamo, meno poeticamente, che quando
diventava petulante, possessiva, sdolcinata, smorfiosa,
volubile, viziata, eccessivamente frivola, cocciuta, incontentabile e capricciosa mi stava moderatamente sui coglioni. Però non arrivavo a odiarla. Era più che altro una sensazione di fastidio che col tempo diventava sempre meno tollerabile. Ma proseguiamo nell’analisi del verso: la amavo?
No. Provavo affetto? Scarso. Stima? Ancora meno. Cosa ci
stavo a fare insieme? Secondo il mio punto di vista non stavamo insieme. Più che altro le gravitavo intorno, come un
pianeta che ruota vicino a una stella e ne trae luce. Forse
sarebbe più corretto dire come un parassita vicino al suo
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ospite, ma non mi piace definirmi così. Ecco, un simpatico
scroccone, che ha iniziato raccattando le briciole e poi,
visto che nessuno si lamentava, ha finito col prenderci
gusto. E con questi sentimenti contrastanti nell’animo desideravo allontanarmi da lei ma non riuscivo a staccarmene.
Nello specifico non riuscivo ad abbandonare: a) il suo
corpo; b) i suoi soldi; c) soprattutto i suoi soldi. Quella
bambina viziata mi stava viziando, e aveva iniziato a farlo
dal primo momento in cui c’eravamo conosciuti. Anzi a
dire la verità anche prima, perché quando l’avevo baciata e
quando, pochi minuti dopo, mi aveva offerto da bere, grazie ai consigli del mio fedele Lesbio non avevo la minima
idea di come si chiamasse.
Se il miglior amico dell’uomo è il cane, il miglior amico
della donna è il gay. Non ricordo dove ho sentito questa
frase ma l’avevo fatta mia e avevo imparato a farne buon
uso. Miliardi di uomini eterosessuali sin dalla notte dei
tempi si arrovellano nell’illusione di riuscire a esplorare e
comprendere l’universo femminile: la tendenza degli ultimi
anni è quella di dare ascolto e lasciare libertà di espansione
al lato femmineo della propria natura. Come se sensibilità
facesse meno rima con virilità che con femminilità. Per
quanto mi riguardava il lato lunare del mio animo avevo
preferito darlo in usufrutto gratuito a chi avrebbe saputo
farne un uso migliore, cioè uno dei miei migliori amici, che
in omaggio alla sua omosessualità chiamavo affettuosamente Lesbio.
Seconda doverosa incursione nella storia della poesia
classica: a Saffo, come a me, piacevano le donne. Niente di
strano, ti dici quando in prima superiore inizi a leggere i
suoi versi. Suona molto più stravagante il nome della donna
a cui dedica la sua più celebre poesia, una certa Anattoria.
Il disguido prosegue quando, in un’altra lirica, trovi l’invi14
dia di Saffo per un uomo che sembra simile a un dio per il
solo fatto di poterle stare vicino ad ascoltarla mentre parla
e sorride. Ma quando leggi che il poeta, riferendosi a se
stesso, dichiara che “un tremore tutta mi scuote”, ti accorgi che Saffo non è un nome maschile. Saffo infatti era
donna ed era lesbica. Nel senso più originario del termine,
essendo nata sull’isola di Lesbo. Tutte le altre donne dedite, per l’appunto, all’amore saffico prendono definizione da
lei. Non è mia intenzione urtare la suscettibilità di nessuno,
ma devo riconoscere che quella lesbicona di Saffo era una
gran poetessa. E il nostro vecchio Gaio Catullo, uno che di
poesia se ne intendeva, sarebbe d’accordo con me: intanto
ha tradotto in latino quella poesia sull’uomo che sembra un
dio adattandola a suo uso e consumo; inoltre in suo onore
aveva scelto di nascondere l’identità della sua amata –
quella dell’Odi et amo – dietro al nome immaginario di
Lesbia: mica poteva scrivere “O mia Clodia, moglie di
Quinto Cecilio Metello Celere, spero di riuscire presto a
rendere tuo marito cornuto”. Detto fra noi credo che
l’avrebbe fatto tranquillamente, solo che i nomi veri non
poteva metterli. Comunque, il fratello di lei, Publio Clodio
detto “il bello”, veniva chiamato da Catullo Lesbio. Si dice
in giro che i due, Lesbio e Lesbia, se la facessero anche tra
di loro. Il mio amico non ha sorelle, non è dedito a rapporti incestuosi, ma è lo stesso un porco e in più ha la misteriosa abitudine di autodefinirsi “il Bello”. Quindi un po’ per
questo, un po’ per simpatia verso Catullo, un po’ per ammirazione verso Saffo, gli avevo attribuito quel celebre e antico pseudonimo.
Il mio buon Lesbio era diventato il miglior confidente, o
confessore, di molte sue amiche. Come Catullo non faceva
mai i nomi, ma raccontava tutto. Chiariamo un altro punto,
a me non è mai interessato entrare nell’universo femmini15
le: come diceva il grande Oscar Wilde le donne sono fatte
per essere amate, non per essere comprese. Un mistero è
bello se rimane tale. Perché un uomo che ha la possibilità
di considerare la donna il più meraviglioso mistero del
mondo dovrebbe togliersi questo piacere? Ma una cosa è
entrare in un universo, tutt’altra è entrare in un corpo.
All’occorrenza i consigli di Lesbio potevano rivelarsi un
utile passepartout, o almeno lo speravo. Sulla base delle
confidenze ricevute il mio amico era giunto alla conclusione che nelle discoteche l’“Amor che al cor gentil ratto s’apprende” non interessa a nessuno. Per quanto riguarda gli
uomini è luogo comune ritenere che sia sempre così. Ma le
donne tutti le considerano molto più romantiche.
Una sera in un locale Lesbio aspettava con impazienza
che un altro ragazzo si dirigesse verso il bagno.
L’intenzione era quella di seguirlo.
“Scusa ma se anche lui dovesse andarci, e tu lo segui,
dopo che fai?”, gli chiesi incuriosito dalla situazione.
“Crei un contatto”, rispose sintetico.
“Cioè?”
“T’avvicini, se lui non si imbarazza e non si sposta è
fatta”.
“Sì, ma prima cosa dici?”
“Non c’è niente da dire”, rispose laconico.
“Vuoi dire che non ci parli nemmeno? Gli salti addosso
e basta?”, chiesi stupito.
“Al massimo due parole di circostanza, ma non di conoscenza”, disse con naturalezza.
“Non gli chiedi nemmeno come si chiama?”
“Cosa mi frega di come si chiama? La maggior parte
della gente che ho beccato in giro non so come si chiamava. Con me, per il fatto che sono gay, molte amiche si
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lasciano andare alle confidenze”, continuò facendosi più
malizioso. “Guarda che a tante ragazze non dispiacerebbe
una cosa simile. Magari vanno in discoteca e hanno voglia
di divertirsi e invece trovano uno che si perde in chiacchiere noiose senza concludere niente. Piuttosto sarebbe meglio
una cosa simile, una cosa un po’ pazza. È chiaro, prima
devi leggerci l’attrazione”.
Per questo motivo qualche sera dopo mentre guardavo la
ragazza che avevo accanto sapevo il gusto del suo lucidalabbra, sapevo che aveva il piercing sulla lingua, sapevo
quanti denti avesse in bocca, ma non sapevo il suo nome.
La conoscevo di vista da molto tempo. A dirla tutta le
morivo dietro dalla prima volta che l’avevo vista: capelli corti
tagliati a caschetto, indecisi tra il biondo e il castano chiaro,
leggermente più scalati dietro; un ciuffo che si tuffava in continuazione sulla fronte fin quasi a coprire gli occhi color nocciola, grandi, maliziosamente infantili. Occhi simili di solito
vengono definiti da cerbiatta: lei era Bambi nel trailer di un
cartone animato che ti promette la possibilità di trasformarsi
da un momento all’altro in un film erotico. Nasino piccolo
leggermente schiacciato. Non molto alta, anzi bassina, ma
funzionale, come quei bilocali in cui nonostante lo spazio
ridotto non manca assolutamente nulla. Ogni suo minimo
gesto mi risultava eccitante, e un tic in particolare. Ponete due
giumente in calore in una gabbia; in una seconda gabbia adiacente inserite un cavallo maschio in età riproduttiva e osservate attentamente la sua reazione: questo è all’incirca ciò che
accadeva nel mio animo quando Sisi tirava fuori la lingua e si
faceva scorrere il piercing sui denti, con la testa leggermente
reclinata all’indietro e la faccina imbronciata.
Mentre da lontano mi dilettavo, secondo gli insegnamenti di Lesbio, nella lettura dell’attrazione che si era
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instaurata tra noi, Sisi tirò fuori il piercing e se lo passò
sui denti sfiorando il labbro superiore, poi si voltò e si
diresse verso il bagno guadando il fiume di gente che
affollava la discoteca. Io le corsi dietro, la raggiunsi e proseguii tenendomi a un passo dalle tasche posteriori dei
suoi jeans. Arrivati nello stretto e isolato corridoio che
portava ai bagni lei si voltò, mi sorrise, io mi avvicinai, lei
non mostrò imbarazzo, non provò a spostarsi e io, senza
nemmeno due parole di circostanza, assaggiai il suo lucidalabbra rosa al gusto di lamponi.
Dopo un tempo difficilmente quantificabile ci staccammo e quella grandissima zoccola, perché di lì a pochi mesi
tale si sarebbe rivelata, abbassò la testa coprendosi il sorriso con la mano, mostrando così un candido stupore per la
piccola pazzia che avevamo appena commesso. A quel
punto iniziò il sogno.
“Vieni, ti offro da bere”, disse lei rialzando la testa ancora sorridente.
La cosa che più mi era piaciuta del “sistema Lesbio” era
la possibilità di ottenere il massimo risultato col minimo
costo. Ogni volta che uno ci prova con una ragazza la prima
frase è sempre la domanda “posso offrirti qualcosa da
bere”. Con la tattica dell’agguato questa frase scontata finiva in soffitta.
Terza e ultima doverosa incursione nella storia della poesia classica: se a Catullo gli parlavi con interesse delle “Idi di
marzo” probabilmente ti avrebbe chiesto se eri rincoglionito.
Letteralmente. Non è una mia mancanza di rispetto attribuirgli queste parole, il ragazzo era volgare di suo. In alcune poesie ha definito gli Annali di Volusio “cacata carta”, cioè cartacce merdose, un amico di Giulio Cesare, Mamurra, l’aveva soprannominato “mentula”, cioè minchia, e ha descritto
come famelico il retro del figlio di un tale Vibennio. Chissà
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perché queste cose non te le insegnano mai a scuola: è naturale che poi uno non si appassiona alla poesia. Ma tralasciando il turpiloquio poetico il punto è che il quindici marzo per
Catullo era un giorno come un altro, dato che il povero poeta
è morto appena trentenne più o meno nel 54 avanti Cristo,
ben dieci anni prima del decesso di Giulio Cesare. Con il
quale tra l’altro non andava troppo d’accordo, un po’ per
come gli trattava gli amici e un po’ perché non amava i
potenti. Allora come oggi no intrallazzi col potere, no soldi,
no party, tanto che Catullo invitando a casa sua l’amico
Fabullo gli consigliava, se voleva mangiare bene, di portarsi
la cena. L’impero era ancora lontano, Augusto era solo un
bambino e Mecenate, appena quattordicenne, non aveva
ancora reso il suo nome proverbiale. Magari se avesse retto
ancora qualche anno il nostro poeta sarebbe entrato nel giro
e invece morì depresso e con la borsa piena di ragnatele. Io
non avevo la minima intenzione di fare la stessa fine e il mio
grande obiettivo era quello di riuscire a trovare in tempo un
prolifico e munifico mecenate. Perché la vita del dissoluto
può rivelarsi estremamente costosa e la mia borsa il più delle
volte sembrava il museo nazionale degli aracnidi.
Non so perché ma sentendo quella frase intravidi la possibilità di aver trovato uno sponsor a lungo termine.
Il metodo Lesbio si basava sulla toccata e fuga, ma una
che ti offre da bere dopo che le sei saltato addosso non
potevo lasciarmela scappare.
Io e Sisi parlammo dieci minuti bevendoci i drink.
Poi le proposi di uscire e insieme ci fermammo davanti
alla porta, nella zona transennata riservata ai fumatori.
“Tu fumi?”, chiese.
“Sì, ma non ho sigarette...”, dissi mentre cercavo di tirare fuori il pacco di tabacco incastrato nella tasca posteriore
dei jeans.
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“Sai qual è una cosa che non mi piace? Quelli che se le
fanno da soli le sigarette, sembrano dei barboni”.
Razza di rompicoglioni, pensai mentre facevo sparire il
tabacco nella tasca.
“Vuoi che andiamo a comprarle?”, chiesi.
“No, io non fumo”, rispose.
Non fuma e anche rompe il cazzo, pensai.
Scaricala subito, è solo una nana viziata, mi consigliò il
cervello.
Non ci penso nemmeno a scaricare una che mi offre da
bere, risposi.
“Allora torniamo giù, così non prendi freddo, piccola”,
le dissi scolandomi il bicchiere.
“Sei gentile, mi piacciono i ragazzi cavallereschi. Ti sei
meritato un altro giro”, rispose lei imitandomi e buttando
giù il drink tutto d’un fiato.
Usava dei termini del cazzo ma continuava a offrire.
Rientrai dietro di lei esultando, con i violini e i fiati di
Vivaldi che mi risuonavano nella testa mentre i neuroni in
coro inneggiavano un “gloria in excelsis deo”.
Dopo aver trascorso insieme la serata a spese sue ci
lasciammo con l’intenzione di rivederci. Dopo qualche
giorno uscimmo per aperitivi e lei continuò a insistere per
offrire. Poi la frequentazione diventò quasi quotidiana.
Veniva a casa mia e diceva di avere voglia di uscire a
cena, io rispondevo che i tempi erano duri, c’era la crisi
economica, l’inflazione galoppante, e lei rispondeva di
stare tranquillo che avrebbe offerto lei. Simulavo educata
contrarietà, mi dicevo imbarazzato, ma alla fine accettavo. Entravamo in un negozio e provavo qualcosa, lei chiedeva perché non lo comprassi, rispondevo che costava
troppo e lei prontamente tirava fuori la carta di credito.
Avevo voglia di qualche gingillo necessariamente super20
fluo? Ne parlavo appassionatamente, spiegavo dove
l’avevo visto e dopo un paio di giorni arrivava Babbo
Natale. Iniziai a prenderci gusto: lei ci teneva a ricoprirmi
di regalini e io la ricoprivo di appassionate descrizioni.
Dopo un po’ la cosa si fece seria. Un giorno Sisi venne a
casa mia e disse che aveva voglia di farsi un fine settimana in giro, un piccolo viaggio sola con me. Tirai fuori la
congiuntura internazionale, i cambi sfavorevoli, il taglio
dei tassi d’interesse e il loro istantaneo rialzo, il deficit
pubblico, le tasse per pagare la guerra di Libia, la campagna d’Etiopia e le guerre puniche; alla fine come al solito
disse che sponsorizzava tutto lei e dopo due giorni eravamo sull’aereo. Dopo di che persi il controllo: week end a
Parigi, week-start a Barcellona, week-middle a Madrid,
fino all’intera week a sollazzarmi su una spiaggia sotto al
caldo sole d’Egitto.
Diventai un mantenuto a trecentosessanta gradi. Non
avevo idea dove prendesse tutti quei soldi, ma non mi interessava. Mi aveva solo detto che suo padre era molto ricco e
a me questo bastava. Non ero mai stato a casa sua, da un lato
per evitare contatti col mio reale finanziatore, dall’altro perché non era necessario dato che il mio sollazzo veniva volentieri a domicilio. Ogni tanto mi veniva voglia di dirle “passo
io da te”, soprattutto quando si piazzava a casa mia e diventava, come ho già detto, fastidiosa, capricciosa, appiccicosa,
o quando mi costringeva a lunghe serate con le sue amiche
Bibi, Vivi, Chichi e altri nomignoli del cazzo; ma i mecenati sono talmente rari che avevo paura di perderla.
Ma come dice un detto certa gente è meglio perderla che
trovarla e se fossi stato a casa sua, avessi conosciuto suo
padre, avessi capito meglio chi era Sisi, non solo l’avrei
persa, ma l’avrei buttata io.
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A Gennaro Strazzafico non piaceva il suo nome e come
sua figlia preferiva farsi chiamare con un simpatico diminutivo: il Capo. Capo di che, l’avrei scoperto dopo.
Sua figlia Crocifissa invece preferiva farsi chiamare con
un soprannome molto meno minaccioso, Sisi. Le differenze finivano qua. Perché Sisi come suo padre voleva controllare il territorio, voleva avere tutto nelle sue mani, me
compreso. Non mi stava mantenendo, Sisi mi stava comprando. Aveva bisogno di qualcuno che stesse sempre lì ad
aspettarla, pronto ad adorarla, anche per finta. Mi usava
come compagno di giochi, mi considerava il suo bambolotto. Finché ero un bambolo gonfiabile part-time la cosa non
mi dispiaceva, ma la ragazza mi voleva a tempo pieno.
Un brutto mattino Crocifissa Strazzafico decise che era
giunto il momento di presentarmi alla famiglia e da quel
momento cominciarono le mie croci.
Come Catullo, non potei fare altro che iniziare a “excruciare”.
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Il Capo
Se c’è luna piena svegliarsi con la luna storta non è un gran
problema: per quanto la giri rimane sempre un cerchio. Ma
quella notte la luna non era ancora piena.
La mattina, appena sveglio, se vuoi ascoltare musica per
cominciare bene la giornata, hai solo tre scelte: se vuoi cantare, vecchie canzoni italiane. Se vuoi ascoltare, magari
continuando a rigirarti nel letto, i Beatles. Con i Beatles
non si sbaglia mai. Al massimo musica classica, risveglio
dolce: si parte col grande Mozart, uno che ti raddrizza non
solo la luna, ma anche il sole e tutte le altre stelle, e si finisce con Beethoven o Rossini, quelli col finale che fa vibrare i muri, quelli che ti fanno schizzare fuori dal letto pronto ad aggredire il mondo. Ma se vuoi andare sul sicuro, se
vuoi proprio iniziare alla grande, hai solo una scelta: rock
‘n’ roll! Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Grand Funk, Patti
Smith, i Doors, i Kinks e roba del genere.
Le canzonette, quelle canzonette anni ’60 cantate da
gruppi femminili americani, mi piacevano. Erano ottime se
facevi una serata tra amici, se ballavi sulla spiaggia, se ti
imboscavi con una ragazza. Se poi ti imboscavi con una
ragazza sulla spiaggia durante una serata tra amici, quelle
canzoni erano perfette. Ma la mattina, appena sveglio, mi
piacevano decisamente meno. Soprattutto se mi svegliavo
la mattina del 12 agosto con la bocca che sapeva di fondo
di bicchiere e portacenere, dopo aver dormito poche ore, in
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due in un letto singolo, tra lenzuola zuppe di sudore per la
nottata rovente.
Sisi si era già alzata e vagava per la mia casa cantando
una di queste canzonette. La sua voce stonata mi svegliò e,
nonostante ne mancasse ancora solo un pezzettino, mi svegliai comunque con la luna storta.
“Sta rompicoglioni...”, dissi rotolandomi intorno al
cuscino.
Sisi venne a stendersi accanto a me. Continuava a cantarmi nell’orecchio e iniziò anche a giocherellare con il mio
orecchio.
“Sei sveglio, ciccino?”, chiese.
“Adesso sì...”, dissi senza entusiasmo.
Ok, io parlavo con il mio cervello, ma non ero uno
schizzato, non sentivo le voci. Fino a prova contraria eravamo in due nella mia stanza.
“Che carini che sono...”, disse la terza voce a prova contraria.
Mi sollevai di scatto e accanto al letto c’era un omaccione grasso, con le guance cadenti da bulldog, la bocca grossa e umida. Sotto agli occhi piccoli e stupidi non aveva due
borse, aveva due valigie. L’occhio sinistro era semichiuso,
era mezzo orbo il grassone. Se ne stava seduto su una delle
sedie della mia cucina con il ventre enorme che si sollevava al ritmo del suo rantolo. Ansimava e sudava con un
mezzo sorriso idiota stampato sulla faccia, mentre si passava con le mani corte e tozze un fazzoletto sul collo taurino.
“Chi cazzo sei?”, chiesi.
“Lui è il mio papà”, disse Sisi giuliva.
“Capo vuoi che ti lascio solo?”, disse un tipo alto e
magro, con la faccia scavata e due baffetti neri e sottili, che
stava in piedi accanto alla sedia.
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“No Gaetano, tu puoi restare. Principessina vai di là che
noi dobbiamo discutere tra uomini”, rispose il grassone
parlando lentamente.
Perfetto, il padre di Sisi stava seduto in camera mia e lo
chiamavano Capo.
“Perché è in camera mia... papà di Sisi?”, chiesi.
“Puoi chiamarmi Capo”, rispose il Capo. “Mi piaci, hai
la faccia da bravo ragazzo”, continuò.
“Io e Sisi abbiamo solo dormito stanotte, non abbiamo
fatto altro”, dissi svelto.
“Ma credi che io sono scemo? Sono stato anch’io giovane”, disse il Capo.
“Sono un po’ geloso ma sapevo che prima o poi la mia
principessina si trovava un ragazzo. E sono contento che
sei tu. Te l’ho detto mi piaci. E so che hai intenzioni serie”.
“Intenzioni serie?”, chiesi dubbioso, stando sempre
mezzo sollevato nel letto con i gomiti piantati nel cuscino.
“Sì, intenzioni serie. Solo un bravo ragazzo serio e innamorato poteva piacere a una ragazza pura come la mia principessina”.
“Un altro l’avrei ammazzato, se lo trovavo a letto con la
mia principessina. Ma voi siete innamorati e tu sei un bravo
ragazzo e sono contento”.
“Ammazzato nel senso...”, dissi.
“Di ammazzato. Lo scannavo come un porco”, disse il
Capo con la camicia che ormai sudava di sudore proprio.
“In senso metaforico...”, dissi.
“E che significa?”, chiese il Capo.
“Per finta. Così per dire”.
“Macché per finta. Lo ammazzavo proprio, con le mie
mani. Gli piantavo un coltello e lo squartavo in due.
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“Ma con te è diverso. Che bello vedervi così innamorati”, continuò lui sospirando con gli occhi umidi.
“È chiaro, io ho intenzioni serie”, dissi convinto.
“Spero che il primo nipotino lo chiamate come me”,
disse il Capo commosso.
“Sicuramente”.
Mi immaginavo la scena: io che correvo dietro a un
nanetto grasso e sudato, che cercava di squartare i suoi amichetti con un coltello da macellaio mentre gli gridavo:
“Capo, ti ho detto di non uccidere i tuoi amici”.
“Però”, disse il Capo serio con l’indice alzato, “devi
prima fare una cosa: devi entrare a far parte della famiglia”.
Non sapevo cosa aspettarmi. Una cena con tutti i parenti? Troppo facile. Baci mafiosi? Più probabile. Riti d’iniziazione tribali? Cerimonie massoniche? Scannare porci su
commissione?
“E in cosa consiste questo ingresso in famiglia?”,
chiesi.
“Devi lavorare per me”, rispose il Capo.
L’omicidio su commissione guadagnava punti.
“Che lavoro fa, Capo?”, chiesi.
“Devi fare un lavoro per me, per dimostrarmi se vali, se
ti meriti davvero la mia principessina”, disse lui senza
ascoltarmi.
“Cosa dovrò fare?”, chiesi.
“Un riscatto”.
“Sarò io il riscatto o devo ritirare un riscatto?”
“Devi pagare un riscatto. Conosci la Banda?”, disse il
Capo.
“Quella che suona?”
“No, aspetta, ho sbagliato. Come si fanno chiamare
quelli?”, chiese il capo al suo scagnozzo.
“Il Clan, Capo”.
26
“Ecco, lo conosci il Clan?”
Conoscevo il Clan dei Corleonesi, il Clan di Celentano e
tanti altri. Qualcosa mi diceva che non parlava del secondo.
“No, non lo conosco”.
Il Clan, come mi spiegò il Capo, era una specie di organizzazione criminale emergente. Gente nuova, la definì lui.
Non erano veri professionisti, ma cercavano di diventarlo.
Gestivano un ristorante in centro, una bettola, che doveva
servire in teoria come strumento per riciclare soldi. In realtà era la loro unica fonte attuale di reddito. E lo sarebbe
stata per parecchio tempo, secondo il Capo, perché era
gente che non aveva speranze di emergere. Avevano tentato di entrare in vari traffici, ma sempre senza riuscirci.
Quelli non erano come lui, diceva il Capo, non avevano le
capacità, non avevano lo stile, non avevano il senso degli
affari. Ogni tanto erano fortunati e riuscivano a mettere a
segno qualche colpo, come era successo con lui.
“E così devo pagare il riscatto al Clan”, dissi alla fine.
“No, preferisco di no. Meglio se lo rubi. Il riscatto sarebbe utile per loro, sarebbero un sacco di soldi. Io non voglio
rafforzarli”, disse il Capo.
“Io sono uno studente, non sono un ladro, non so rubare. Non ci riuscirò mai”.
“Guarda che non hai capito, non puoi rifiutarti. Non ho
detto che puoi scegliere se farlo o no. Ti sei portato a letto
la mia principessina e ora devi entrare nella famiglia”, disse
il Capo serio.
“Altrimenti?”, chiesi temendo la risposta.
“Altrimenti ti scanno come un porco, anche se sei innamorato della mia principessina”.
“Mi ha convinto. Ma cosa devo rubare, una persona?”
“Intanto non è che devi, preferisco che tu lo rubi. E non
è una persona, ma un quadro. Il Clan è riuscito a rubarme27
lo e vale un sacco di soldi. È un quadro di... Gaeta’ come si
chiama quello là?”, chiese il Capo al suo uomo.
“Gauguin, Capo”.
“Cazzo, un Gauguin?”, esclamai.
“Eh, quello là. Lo conosci? Io non l’avevo mai sentito.
Ma vale un sacco di soldi, per quello l’ho comprato. Da
quello che so il quadro è nel ristorante. Uno mi ha dato l’informazione e dice che lo tengono nel magazzino, dietro”,
disse il Capo.
“Senti”, continuò, “voglio essere generoso. Sei innamorato di mia figlia e poi effettivamente sei giovane e non sei
esperto. Facciamo così: se vuoi paghi il riscatto, altrimenti se
riesci a rubare il quadro ti puoi tenere i soldi. Come regalo”.
“Quindi posso andare al ristorante, pagare il riscatto e
riportarle il quadro?”
“Mi dispiacerebbe dare i miei soldi al Clan, ma fallo se
è quello che vuoi”.
“Non ho dubbi, è quello che voglio”.
“Comunque pensaci”.
“Ci penserò”, dissi per farlo contento.
“Allora noi andiamo di là, tu alzati e preparami un caffè,
poi vieni che ti do i soldi”.
“E quanti sono questi soldi?”, chiesi mentre uscivano
dalla stanza.
“Un milione di euro”.
I dubbi ci misero un attimo ad arrivare.
Mi infilai un paio di jeans e una maglietta e raggiunsi il
Capo in salotto. Lui mi diede una valigetta nera di pelle.
“Tieni, questa è la chiave. Ci sono tutti”, mi disse il
Capo.
“Credevo ci volesse un container per tenere tutti questi
soldi”, dissi mentre l’aprivo.
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Non ne avevo mai visti tanti tutti insieme. Quaranta
mazzette da venticinquemila euro, cinquanta banconote da
cinquecento euro a mazzetta. Erano invitanti.
Era questa la svolta che aspettavo? Ci avrei pensato.
“Quando dovrei portare i soldi?”, chiesi.
“Stasera, alle sette e mezza, al ristorante. Il quadro me lo
porti domani mattina alle sette e mezza, a casa. Puntuale.
Abito nel palazzo in fondo al viale del ristorante, nella
piazzetta con la fontana”.
“Tutto chiaro”, risposi.
“Un’ultima cosa: se pensi di scappare coi soldi o di
tenerti il quadro o se arrivi domani mattina senza il mio
quadro, sai cosa ti succede?”
“Scannato come un porco”, dissi.
“È sveglio il ragazzo...”, disse il Capo al suo uomo.
“Vieni amore di papà, andiamo”, disse il Capo a Sisi che
stava ancora cantando con la sua voce stonata quando rientrai in salotto con le tazzine.
“E il caffè?”, chiesi.
“M’è passata la voglia”, rispose il Capo consegnandomi
la chiave della valigetta.
“Scusa Sisi, ma come faceva tuo padre a sapere dove
eravamo?”, le chiesi mentre usciva da casa mia.
“Gliel’ho detto io, ciccino. Gli ho telefonato stamattina.
Volevo fartelo conoscere”.
“Ora è tutto più chiaro”.
“Perché, ti dispiace?”
“No, amore, hai fatto benissimo”, dissi per non fare la
fine del porco.
Erano già le due di pomeriggio. Non avevo dormito
poco.
Era successo tutto troppo in fretta. Ero ancora mezzo
addormentato. Stavo sognando? No, la valigetta era sul
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tavolo del mio salotto. Ed era reale. Dovevo calmarmi,
riflettere, capire la situazione e decidere cosa fare.
Andai in cucina, mi preparai un caffè lungo all’americana,
mi rollai una sigaretta con i fondi del pacco di tabacco, misi
su Janis Joplin e mi sedetti sulla mia poltrona a pensare.
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