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L’ULTIMO DEI BUGATTI?
Nasceva cento anni fa Alec
dell’automobile.
Issigonis,
progettista
rivoluzionario
Con apparente modestia, si definiva un fabbro ferraio e un ferramenta.
Odiava la matematica, e chi vi si applicava, giudicandola una materia del
tutto priva di creatività. Allo stesso modo disprezzava gli studiosi di
marketing, e asseriva che se le automobili sono fatte “dannatamente bene” si
vendono da sole, un principio rovinoso per qualunque azienda.. Sosteneva
che le vetture potevano e dovevano essere scomode: in questo modo il
conducente, necessariamente, sarebbe sempre restato in allerta. La vettura
migliore? Quella in cui il guidatore siede “come sui chiodi”. Le cinture di
sicurezza? Aggeggi per chi non sa guidare: l’importante è non causare
incidenti. Fu preso per arrogante, stravagante, ostinato, dogmatico. Si disse di
lui che era “single-minded”, ossia dominato da un ossessivo “pensiero
unico”, l’amore per le vetture piccole e la strenua ostilità verso tutto ciò che è
sovradimensionato. Insofferente, anticonvenzionale, esprimeva spesso
opinioni volutamente e narcisisticamente spiazzanti di ogni luogo comune o
verità acquisita. Tutto questo fu Alec Issigonis, un grande dell’ingegneria
automobilistica, tra i pochi progettisti britannici ad aver ottenuto fama e
notorietà mondiali, colui che rivoluzionò l’architettura dell’automobile, ed
insegnò al mondo come costruire vetture a motore trasversale e trazione
anteriore, rovesciando concetti costruttivi sedimentati da decenni ed
impostandone di nuovi che sarebbero durati fino ad oggi. Fornito di un ego
straordinario, nel bene e nel male, era consapevole di essere un genio. Ma
anche una sorta di Giano bifronte, dotato da una parte di una formidabile
creatività ed immaginazione, e dall’altra sorprendentemente rigido e chiuso
nelle sue convinzioni assolute.
Nacque cento anni fa a Smirne (ora Izmir), in Turchia, da padre greco,
naturalizzato cittadino britannico, e madre tedesca. Trascorse i primi anni in
un piacevole ambiente borghese, godendo, da figlio unico, degli agi procurati
alla famiglia dall’attività del padre e dello zio, entrambi ingegneri nautici, e
sfuggendo agli obblighi di un’educazione scolastica convenzionale. A
vegliare sulla sua istruzione erano un’anziana governante inglese, un tutor
irlandese che avrebbe dovuto instillargli i rudimenti della matematica, e
un’insegnante di greco. Il ragazzino non diede grandi soddisfazioni a
nessuno, tranne che a suo padre, da cui ereditò l’abilità al disegno, sua più
naturale forma di espressione. Si dice che il padre avesse l’abitudine di tenere
in salotto un tecnigrafo su cui schizzare qualunque idea gli venisse in mente.
Cosa che il figlio portò a curiose conseguenze: sembra che i primi schizzi
della Mini siano stati fatti…su una tovaglia. Comunque è certo che il giovane
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Alec acquisì fin da subito dimestichezza con il disegno, preferendolo alla
comunicazione verbale in cui non eccelse mai troppo. Nel 1914 la placida vita
di famiglia fu sconvolta dallo scoppio della prima guerra mondiale: come
sudditi britannici si trovarono improvvisamente in territorio nemico. Ma le
cose non migliorarono cinque anni dopo: nel 1919 vi fu l’occupazione delle
truppe greche; a cui seguì nel 1922 il ritorno dei turchi, che non esitarono a
massacrare la popolazione. L’impresa familiare di caldaie e pompe manuali
fu distrutta ma Costantino, Hulda e Alec Issigonis riuscirono a scampare al
carnaio, grazie all’intervento di una nave da guerra della Marina britannica
che evacuò a Malta i sudditi del regno. Viste le malferme condizioni di salute
del padre, Alec e la madre decisero di continuare il viaggio verso l’Inghilterra
lasciando temporaneamente Costantino sull’isola: ma il padre non ce la fece,
e morì poco dopo.
Sbarcati in Inghilterra Alec e la madre, con cui creò un legame fortissimo
destinato a durare fino alla morte di questa, nel 1972, si stabilirono a Londra.
Hulda era pienamente conscia delle qualità artistiche di suo figlio e lo
sollecitò ad iscriversi ad una scuola d’arte. Alec, per naturale vocazione e per
istintiva propensione a fare da “bastian contrario”, optò per la facoltà
d’ingegneria. Si iscrisse dunque nel 1923, diciassettenne, al Battersea
Polytechnic, nella parte sudest di Londra. Dove fu sonoramente bocciato per
tre volte consecutive all’esame di ammissione per la sua assoluta mancanza
di preparazione matematica. Fu da quell’esperienza che derivò il suo
postulato secondo cui “La gente creativa odia la matematica. La matematica è
nemica di ogni creativo vero, a meno di diventare un Einstein e di studiarla nel senso
astratto, filosofico, cercando di capire perché esistono i numeri e le cose”.
Comunque, dopo un corso di tre anni (e sia pure con un ennesimo insuccesso
nell’esame di matematica) uscì nel 1928 con in mano un diploma di
ingegneria meccanica. “The fun is over, get a job*” sembra sia stato lo
stringente invito della madre al termine del viaggio premio seguito al
conseguimento del diploma. Alec obbedì. Venne a sapere che Edward Gillet,
titolare di uno studio d’ingegneria al 66 di Victoria Street a Londra, cercava
un disegnatore. Si presentò, fu assunto. Era il primo gradino di una carriera
che l’avrebbe portato ad occupare una delle più influenti posizioni
dell’industria motoristica britannica.
Gillet aveva inventato un tipo di trasmissione semiautomatica, e nei cinque
anni che seguirono si servì di Issigonis come disegnatore e come agente di
commercio. Un incarico che permise a quest’ultimo di entrare in contatto con
un’infinità di persone, dislocate nelle aziende nevralgiche del comparto
motoristico, e di intrecciare relazioni ed amicizie che gli furono
successivamente molto preziose. Per esempio con Norman Wishart,
ingegnere capo alla Humber, che insieme alla Rover aveva deciso di
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acquistare il brevetto Gillet. La felice intuizione di Gillet fu però presto
superata dagli eventi: la General Motors inventò il cambio sincronizzato, il
che rese il dispositivo Gillet obsoleto dalla sera alla mattina. Alec si rese conto
che stava sprecando il suo tempo, e non esitò ad accettare la proposta che gli
fece Wishart di trasferirsi alla Humber, come disegnatore tecnico nel settore
sospensioni e sterzo. Nel 1933 traslocò dunque a Coventry, dove condivise
alloggio e tempo libero con George Dowson, appassionato di meccanica al
pari di lui, con cui concepì nei momenti liberi la Lightweight Special, una
curiosa ed avveniristica vettura da corsa, realizzata interamente a mano dai
due amici. L’idea era scaturita da una Austin Seven Ulster sovracompressa
acquistata qualche tempo prima grazie alla vendita di un prezioso solitario
materno. Con questa avevano cominciato a partecipare a qualche gara (Lewes
Speed Trials, Shelsley Walsh Hill Climb), giusto quel tanto per prenderci
sempre più gusto e desiderare una vettura da corsa fatta secondo le proprie
idee. Senza pensarci tanto cominciarono a metter giù i primi disegni,
schizzati su una parete del garage per fare prima, e quindi a costruirsi a mano
ogni pezzo, mancando gli strumenti adatti che sarebbero stati al di fuori delle
possibilità economiche dei due. Passarono sei anni prima che la vettura fosse
in grado di funzionare; e quando lo fu, ottenne ottimi risultati nella classe
750. Di lì a poco, però, scoppiò la seconda guerra mondiale che pose la parole
fine a sperimentazioni sportive. In anni successivi Issigonis liquidò la
faccenda definendola “una frivolezza della mia vita. Non è stato tanto un esercizio
di design quanto un mezzo per insegnarmi ad usare le mani. George ed io abbiamo
imparato a costruirci qualcosa per noi stessi partendo dal primo abbozzo”. Fu invece
qualcosa di più di una semplice esercitazione tecnica. La Lightweight aveva
un design unico ed era strutturalmente molto avanzata per gli anni trenta,
con sospensioni indipendenti, tenuta di strada ed accelerazioni straordinarie,
telaio in compensato rivestito d’alluminio. Il tutto fu realizzato basandosi su
dettagliati disegni tridimensionali a matita schizzati a mano libera da Alec.
Nel frattempo erano successe molte cose. Wishart era morto
improvvisamente nel 1935, a soli 36 anni. L’anno successivo Issigonis decise
di accettare la proposta che gli fece la Morris Motors, società fondata nel 1912
da William Morris e impegnata nella produzione di massa di vetture a basso
prezzo. Ne era Managing Director Leonard Lord, affascinato dai metodi
americani di parcellizzazione del lavoro e che perciò importò dall’America
anche la parcellizzazione degli uffici di progettazione, divisi nei settori
motore, cambio, sospensioni, assali. Alec fu inserito nel reparto di
progettazione degli assali posteriori. E il suo primo gesto di dipendente
Morris fu un rifiuto. “Not on your bloody life”, si racconta sia stata la sua
risposta: “non farò un assale posteriore; ma se volete vi progetto la sospensione”. In
realtà già questo era una concessione da parte sua (ma i colleghi faticarono a
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capirlo, particolarmente Cordey, l’infelice ingegnere che era stato incaricato
della sospensione e che fu invece da lui sostituito), perché intimamente
convinto che un’automobile andasse progettata nel suo insieme
(possibilmente da lui stesso), come entità unica, e non un pezzo alla volta con
una progettazione a sé stante, scollegata dal resto.
Alla Morris iniziò a lavorare, dal 1937, con Jack Daniels, creando un sodalizio
destinato a durare trent’anni. Daniels infatti si rivelò abilissimo a trasformare
gli schizzi a matita di Issigonis in disegni esecutivi. La guerra interruppe per
qualche anno il progetto della Morris di realizzare una piccola vettura dotata
di buona tenuta di strada e maneggevolezza. Issigonis, che scampò il servizio
militare, durante gli anni di guerra rimase allo stabilimento di Cowley (vicino
ad Oxford), dedicandosi alla progettazione di veicoli anfibi e di una curiosa
carriola a motore adatta ad essere paracadutata e utilizzata nella giungla.
Già però nel 1941 riprese vigore lo studio di una vettura popolare, compatta,
a due posti, da produrre in grande serie. Il progetto, denominato
inizialmente Mosquito, sfociò nella famosa Morris Minor. Issigonis aveva
ottenuto di poter pensare ad un veicolo nuovo, senza l’obbligo di basarsi su
componenti di un telaio già in produzione. Nel 1942 era pronto il primo
modello in scala; nel 1943 fu realizzato il prototipo. Il veicolo che ne risultò
era da attribuire interamente alla matita di Issigonis, che disegnò ogni più
piccolo particolare, persino “il pulsante che apre lo scomparto dei guanti, e le
maniglie delle portiere”. La sistemazione del motore era scandalosamente
avanzata: fu sistemato davanti alle ruote anteriori, e si trattò inizialmente di
un quattro cilindri a valvole laterali da 800 e da 1100 cc, scelto per il basso
baricentro, successivamente sostituito dal 4 cilindri da 918 cc della Serie E
Eight. Altro elemento rivoluzionario: le ruote, di diametro più piccolo
dell’usuale.
Quando, nel 1945, al Presidente lord Nuffield fu presentato il modello statico
in scala 1:1 successe un disastro. Lord Nuffield lo trovò bruttissimo e si chiese
perché avrebbe dovuto togliere dalla produzione la Eight, modello
d’anteguerra che si vendeva ancora bene, per mettere sul mercato una vettura
che sembrava, in brutto, un uovo in camicia (“a poached egg”). Persino il
nome, Mosquito, gli pareva mal scelto. E la situazione non cambiò quando
qualcuno gli propose di sostituirlo con Minor. I progettisti si rimisero al
lavoro, fu fissato il termine di gennaio 1947 per ottenere il suo assenso. Che
non venne. Passò anche luglio 1947. Fortunatamente, il nuovo amministratore
delegato, Reginald Hanks, nominato nel novembre 1947 al posto del
dimissionario Miles Thomas, riuscì dove Sir Miles aveva fallito. Convinse
Lord Nuffield che il nuovo modello poteva funzionare, e finalmente la Morris
Minor fu presentata dalla Nuffield Organisation (di cui la Morris Motors era
la componente principale) al London Motor Show di fine ottobre 1948 come
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“la più avanzata utilitaria del mondo”. Fu un successo di pubblico, di vendite
e di critica. Insieme alle sue sorelle Morris Oxford e Morris Six, fu salutata
come la risposta britannica alle esigenze degli automobilisti di tutti il mondo,
come la rivoluzione di quanto fino a quel momento realizzato nel campo
delle vetture di piccola cilindrata ma di lusso. “E’ il trionfo della bella estetica
applicata su un telaio di piccole dimensioni”, un apprezzamento non male per un
designer, che all’indomani della presentazione della sua nuova creatura non
esitò a definirsi “l’ultimo dei Bugatti”, con presunzione non del tutto
ingiustificata. Tra i tanti pregi, la Minor vantava una eccellente
maneggevolezza, riflesso della grande competenza che Issigonis aveva
acquisito nel campo delle sospensioni, grazie anche agli insegnamenti di
Maurice Olley, specialista delle sospensioni e già dirigente alla Rolls Royce.
Nel progettare l’assale anteriore della Minor Issigonis non scordò la lezione
della Leighweight. Sperimentandola durante le sessioni di prova di una gara,
nel lontano 1939, era inciampato per caso negli straordinari vantaggi di una
campanatura negativa. “La macchina – raccontò anni dopo – stava rivelandosi
quasi incontrollabile. Quando ci si trova in affanno si tende a fare cose senza senso, e
noi provammo ad abbassare considerevolmente il retro della macchina. Le sessioni di
prova stavano per finire e ci trovammo a compiere gli ultimi giri con una vettura con
delle ridicole “gambe storte”. Il risultato dell’ inclinazione molto negativa delle ruote
posteriori fu invece sorprendente. Questa scoperta del tutto casuale mi insegnò una
lezione fondamentale”. Lezione che applicò genialmente sulla Morris Minor.
Tanto entusiasmo continuava a non essere condiviso da Lord Nuffield, che si
guardò bene persino dal farsi fotografare, a scopo pubblicitario, a bordo della
Minor. Fu comunque la prima automobile inglese a raggiungere il milione di
esemplari prodotti (1960); nel 1971, quando cessò la produzione, ne erano
stati venduti 1.200.000 esemplari.
Incoraggiato da tanto successo, Issigonis continuò a lavorare alla Morris (nel
1948 era stato nominato ingegnere capo) fino al 1952, quando vi fu la fusione
tra Morris e Austin. In realtà si trattò dell’assorbimento della Morris da parte
di Austin, che diede vita alla British Motor Corporation (BMC), presidente
Leonard Lord.
Il carattere di Issigonis, eccentrico, schietto, per nulla incline ai compromessi,
e istintivamente ostile a tutto ciò che era di grandi dimensioni, incluse le
grandi organizzazioni industriali, lo portò ad andarsene seduta stante. Giocò
il timore, o la certezza, di vedere ridimensionata la propria libertà creativa, e
anche la voglia di mettersi alla prova altrove. Il 5 giugno firmò un generoso
contratto che lo legava alla Alvis, industria automobilistica di Coventry dalla
raffinata produzione. L’obiettivo era realizzare una vettura sportiva a cinque
posti, motore ad otto cilindri a V di tre litri, da produrre in 5.000 esemplari
all’anno. Volume questo difficilmente raggiungibile perché la capacità
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produttiva della Alvis non superava le 2.000 unità. Ma non fu solo questo a
pesare negativamente. Lo stesso Issigonis, man mano che il progetto
avanzava, ne era sempre meno convinto, e quando la Alvis stessa decise di
accantonarlo, per motivi di costi, fu quasi sollevato. Sollievo favorito dal fatto
che intanto (siamo nel 1955) era arrivata una telefonata di Leonard Lord, che
lo richiamava alla BMC con una buona proposta. Il 23 novembre 1955 la
rivista londinese “The Motor” pubblicava un comunicato congiunto di
J.J.Parkes (Presidente della Alvis) e di Leonard Lord (Presidente della BMC)
che annunciava il ritorno di Issigonis alla BMC in un ruolo non “specificato”.
La Minor continuava a vendersi molto bene, ma era chiaro che prima o poi la
si sarebbe dovuta sostituire o perlomeno affiancare ad un modello nuovo.
Nei quartieri generali di Longbridge, Issigonis si circondò di una squadra
ristretta ma validissima: Chris Kingham, John Sheppard (che venivano dalla
Alvis), e Jack Daniels, che inizialmente si misero a lavorare su una versione
aggiornata del prototipo 8V vanamente sviluppato in Alvis. Ma successe
qualcosa che sconvolse tutti i precedenti piani.
E’ alla crisi di Suez del settembre 1956 che dobbiamo la Mini. Il risultato della
improvvisa tensione che si creò tra Egitto, Israele, Francia, Inghilterra, Stati
Uniti e Russia per il controllo del cruciale canale di Suez provocò un’
improvvisa ed imprevedibile contrazione a livello mondiale nella produzione
del petrolio. La sensazione che si diffuse fu che questa situazione avrebbe
potuto durare molto a lungo. E la risposta dei costruttori automobilistici non
si fece attendere. Presero piede (anche se in percentuale molto minore del
loro impatto visivo, non superarono mai lo 0,1 del mercato) le cosiddette
“bubble-cars”, ossia macchinette superutilitarie a tre o anche a quattro ruote,
azionate da motorini motociclistici e con carrozzerie a forma di uovo con tetti
di plastica: come le Messerschmitt, ed una pletora di altre marche tedesche.
La leggenda racconta che un giorno Leonard Lord, contrariato anche per
motivi patriottici, sbottò di fronte ad Issigonis: “Basta con queste dannate
orribili bubble-cars germaniche. Buttiamole fuori dal mercato costruendo una
automobile vera e propria in miniatura”. E così iniziò il progetto della Mini.
Per Issigonis era meglio di un invito a nozze. Da sempre sostenitore che la
vera sfida del design era progettare una vettura piccola, non un’automobile
di grandi dimensioni, con buona pace di Rolls – Royce, iniziò
immediatamente (il tempo concessogli era poco, bisognava arrivare
all’approntamento delle linee di montaggio nel più breve tempo possibile) a
schizzare fogli su fogli. L’unico vincolo da rispettare, sempre per questioni di
tempo, era il motore: doveva essere scelto tra quelli in produzione, ed
Issigonis optò per il quattro cilindri raffreddato ad acqua della Serie A.
Convinto che la stabilità dipendeva dalla parte anteriore più pesante del resto
(nose heaviness), decise di collocare il motore anteriormente. Ma poiché per
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ottenere buone prestazioni da una vettura piccola occorre appesantire il più
possibile le ruote motrici, non ebbe dubbi: si sarebbe trattato di una trazione
anteriore. Dal punto di vista dell’ingombro, ossia per risparmiare il più
possibile spazio, la migliore soluzione era collocare il motore trasversalmente,
anziché longitudinalmente. Il che per Issigonis non era una novità assoluta.
Aveva già pensato ad una trazione anteriore con motore anteriore trasversale,
ed infatti aveva realizzato una Morris sperimentale con questa architettura.
Niente però era simile alla vettura che stava nascendo giorno dopo giorno
dalla sua matita. In questa nuova “automobile in miniatura”, che doveva
essere piccola fuori ma spaziosa dentro, il volume riservato ai passeggeri e al
loro bagaglio non sarebbe stato inferiore all’80 per cento della lunghezza
complessiva della vettura, un’abitabilità senza precedenti. E alla trazione
anteriore con motore anteriore disposto trasversalmente in blocco con la
trasmissione, si aggiunsero presto altre caratteristiche rivoluzionarie. La ADO
15, così si chiamò inizialmente il progetto della Mini (Austin Design Office
Project 15) fu la prima vettura prodotta in grande serie ad avere sospensioni
indipendenti con elementi elastici in gomma, ruote da dieci pollici (frutto di
una collaborazione istituita con la Dunlop), e radiatore laterale. Grande fu
anche la rapidità con cui Issigonis guidò il progetto. Quattro mesi dopo
l’invito di Leonard Lord a procedere furono realizzati i primi modelli in
legno (mock-ups), e nell’ottobre del 1957 due prototipi giravano già per
strada. Nel luglio del 1958 Lord provò la vettura e ne fu entusiasta. Il 26
agosto del 1959 il nuovo modello, che aveva strada facendo acquisito il nome
Mini , fu presentato alla stampa: una velocità di realizzazione sorprendente,
spiegata anche con il fatto che furono pochissime le modifiche che in corso
d’opera fu necessario apportare al progetto, il che da’ la misura di quanto
progetto e progettista fossero congeniali l’uno all’altro.
Commercializzata, inizialmente, sia come Austin Seven sia come Morris Mini
Minor, lasciò molti osservatori a bocca aperta. Si trattava di un cambio
radicale per l’industria automobilistica britannica, solidamente ancorata alla
tradizionale configurazione “motore anteriore/trazione posteriore”.
Laurence Pomeroy, allora direttore della rivista The Motor, nel 1939 aveva
pubblicato un interessante articolo dal titolo “Una vettura non
convenzionale”, in cui sosteneva i vantaggi derivanti dal sistemare un piccolo
motore trasversalmente al telaio anziché longitudinalmente ad esso (e tra
l’altro battezzando la curiosa vetturetta Mini-motor). Issigonis però, che
potrebbe aver letto questo articolo e averne tratto ispirazione, si spinse ben
più in là, collocando la scatola del cambio sotto il motore e posizionandola
nell’alloggiamento dell’albero motore, con la trasmissione tra i due elementi.
Era il colpo di genio finale, anche se costoso, di cui Pomeroy ebbe a dire: “Ora
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che è stato fatto…non si capisce perché non sia mai stato fatto prima”. Che è
quello che si dice di tutte le soluzioni creative, ingegnose e…semplici.
Anche la linea della vettura sconcertò, all’inizio. Non esprimeva alcuna
ricerca di stile; d’altronde, uno degli aforismi preferiti da Issigonis era
“Styling is designing for obsolescence”, che in italiano, tradendo la splendida
concisione inglese, si potrebbe rendere con “fare stile significa fare un design
condannato all’obsolescenza”. Con le ruote agli angoli della scocca, la forma
della Mini non concede nulla al decorativo o allo “stile”, ma consegue
direttamente, si potrebbe dire necessariamente, dalla funzione della
macchina, ospitare quattro persone e il motore. “Una automobile dovrebbe
prendere la sua forma dalla ricerca ingegneristica che contiene (profusa in essa)”. Il
prodotto che ne risulta non è bello nel senso classico del termine, ma
sicuramente possiede un’armonia di proporzioni che lo rende eterno. E non
assomigliava a nessun’altra automobile in commercio, come sottolineò
orgogliosamente il suo creatore, assertore del “never, never copy the
concorrence” (non copiare mai e poi ma la concorrenza).
L’accoglienza fu tiepida. La gente si chiedeva “ma cos’è quella roba?”. La
crescita di consensi fu lenta. Già però nel 1962 era la vettura Morris più
venduta: la sua maneggevolezza, la sua tenuta di strada la rendevano
piacevolissima da guidare. E non furono estranee al suo crescente successo di
vendite le straordinarie vittorie sportive della versione Cooper: i Rallies di
Montecarlo del 1964, 1965 e 1967, i rallies delle Alpi del 1963 e del 1967, il
Rally dei Tulipani e il Rally di Mezzanotte del 1962, il RAC del 1965, il Rally
dell’Acropoli del 1967, per citarne solo alcune.
Il fatto però di cui nessuno sembrava preoccuparsi, tantomeno il Presidente
George Harriman, succeduto a Leonard Lord nel 1961, era che la Mini era
venduta ad un costo troppo basso rispetto a quello di produzione (496
sterline la versione base); stessa cosa tra l’altro che riguardò anche la 1100
derivata, del 1962. Inoltre le vetture non erano mai sottoposte a restyling,
perché Issigonis era convinto (e le sue convinzioni, come si è visto, si
traducevano in granitiche certezze) che producendo vetture avanzate dal
punto di visto tecnico le costose modifiche successive potevano essere
evitate. Il problema era che sia Issigonis sia Harriman non avevano
esperienza, né competenza, di marketing. Peggio: disprezzavano
apertamente le ricerche di mercato, e le procedure di pianificazione
produttiva, come era costume invece, per esempio, alla Ford. Questo
approccio così dogmatico e rigido sfociò nella concezione della 1800 del 1964,
una automobile a trazione anteriore molto poco fortunata. Goffa, spartana ai
limiti del disadorno, non raggiunse mai gli sperati risultati di vendita.
D’altronde era scomoda (fu definita “un disastro ergonomico”) e lamentava
uno sterzo troppo pesante. Issigonis, come egli stesso candidamente ammise,
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non si trovava a suo agio nel progettare vetture grandi. La crisi non si sentì
subito, troppo grande lo slancio ottenuto con la Mini. Nei primi anni sessanta
i numeri ancora rincuoravano: il 1965 registrò oltre 727.000 vetture Morris
prodotte, corrispondenti al 35% del mercato britannico. Ma nel 1967 vi fu la
prima perdita (3,2 milioni di sterline). Nel 1968, a nove anni dal lancio della
Mini, la British Motor Holdings fu assorbita dalla Leyland Motor
Corporation, finendo così sotto il controllo statale: un disastro annunciato.
Con la nomina di Harry Webster come Direttore Tecnico della nuova
Divisione Austin Morris, il ruolo di Issigonis fu fortemente ridimensionato
(Direttore della Ricerca). Nel 1971, per sopraggiunti limiti di età, il progettista
si ritirò dall’attività a tempo pieno, rimanendo però collegato all’azienda
come Advanced Design Consultant, un riconoscimento anche al lavoro
straordinario svolto fino a quel momento dal punto di vista della
progettazione. Morì nel 1988, a quasi ottantadue anni.
Colui che si definì l’ultimo dei Bugatti non peccava certo di modestia. Rimane
il fatto, indiscusso, che dopo Issigonis la storia del design automobilistico
cambiò per sempre, esattamente come il “sistema Panhard” nel 1891, con la
sua (allora) rivoluzionaria configurazione motore avanti/trazione dietro
condizionò la storia dell’auto per più di sessant’anni.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
(2006)
bibliografia
“Alec Issigonis”, by Ronald Barker, in “Automobile Design: great designer
and their work”, by Ronald Barker & Anthony Harding, Robert Bentley Inc.,
Cambridge, Mass. 1970
“Alec Issigonis. An Ironmonger among the Academics”, by Jonathan Wood,
in “Automobile Quarterly”, vol. 40, n. 1, march 2000
www.designmuseum.org/design
“Issigonis”, in Thoroughbred & Classic Cars, december 1988; january 1989
www.motorbox.com
www.austin-rover.co.uk/issiinterf.htm
*”il divertimento è finito, trovati un lavoro”
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Sul secondo numero di Style Auto. Architettura della carrozzeria (estate – autunno 1963)
Issigonis pubblicò un interessante articolo sulla sua ultima creazione,la IM3. In realtà, il
testo non aveva per argomento diretto la IM3 ma riaffermava la filosofia del design di
Issigonis, cioè i concetti informativi che il geniale progettista ha seguito nel creare la
vettura. Ci pare interessante riproporlo integralmente, proprio per ascoltare “dal vivo” la
voce di Issigonis.
Sui può forse affermare che una delle maggiori critiche che si possono fare alla concezione
di una moderna autovettura è quella di non riuscire a soddisfare uno degli obiettivi
fondamentali della sua progettazione, che sarebbe quello di assicurare uno spazio
adeguato ai passeggeri in relazione alla sua lunghezza totale. Le vetture sono prima di
tutto fabbricate per trasportare passeggeri, ed è quindi strano dover notare che tale
insufficienza in fatto di confortevolezza peggiora man mano che le dimensioni della
vettura crescono.
Può sembrare che il progettista moderno abbia completamente perso di vista i semplici
requisiti di spazio necessario ad una persona di corporatura media per poter stare seduta
comodamente. Se ad esempio esaminiamo qualche vettura moderna di 4,5 metri di
lunghezza totale, troviamo che nel comparto posteriore lo spazio risulta tanto insufficiente
da non consentire, ad un uomo di statura media, di distendere le gambe neanche in
misura minima. Le vetture analoghe di trent’anni fa erano molto più comode in fatto di
abitabilità. A quei tempi i motori erano molto voluminosi e non si pensava ancora di
montare il gruppo motopropulsore direttamente sulle ruote anteriori. Ed allora, perché gli
occupanti di una moderna vettura debbono sottostare ad una tale mancanza di comfort?
Una risposta pronta non meditata a questa domanda sarebbe che l’automobile di oggi è
concepita per trasportare un maggior volume di bagaglio nel suo interno, per cui risulta
necessario restringere la sistemazione dei sedili del veicolo. Tale modo di pensare è
profondamente errato, perché in sostanza esso è la risultante di una ricerca di mercato che
trae le proprie conclusioni basandosi su puri dati statistici. Alcune delle vetture europee,
più affermate commercialmente, hanno poco o punto spazio per la sistemazione del
bagaglio.
Questo perché la forma dell’automobile moderna ha subito una evoluzione secondo linee
sbagliate. Essa è diventata vittima della moda, piuttosto che conseguenza della logica. La
moda è transitoria, mentre invece la logica non lo é.
In America, dove la produzione di veicoli da parte di una sola Casa automobilistica risulta
enorme rispetto a una qualunque fabbrica europea, sarebbe forse ammissibile sfruttare la
moda. In Europa dovremmo invece sforzarci di evolvere la forma delle nostre vetture
tenendo presente una prospettiva più pratica. La forma della vettura è oggi
essenzialmente costituita da tre scomparti separati: in quello anteriore è sistemato il
motore, quello centrale è destinato ai passeggeri e quello posteriore ai bagagli. E’ evidente
che una tale configurazione può dare come risultato un’estetica accettabile solamente se i
tre scomparti sono giustamente proporzionati fra loro.
Purtroppo anche la lunghezza del comparto posteriore è quella che contribuisce
maggiormente a dare un aspetto di modernità, e quindi tende ad essere continuamente
aumentata. E’ questa la considerazione che ci fa credere che la sistemazione dei bagagli a
spese dello spazio passeggeri sia richiesta dalla maggioranza del pubblico.
Il continuo allungamento della parte posteriore della vettura, nella ricerca di un’eleganza
maggiore e possibilmente di un maggiore spazio per i bagagli, sarebbe giustificabile anche
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se la vettura diventasse più grande. Invece, contrariamente alle tendenze americane, la
lunghezza della vettura europea sta, caso mai, diventando più ridotta, e ciò sia per ragioni
pratiche che economiche. Pertanto l’eleganza viene ottenuta a spese dello spazio interno
nel quale i posti risultano stretti e scomodi.
Ma esistono pure altre ragioni di natura più tecnica che depongono a favore della necessità
di rivedere la forma delle moderne vetture. Le auto aventi un passo lungo rispetto alla
distribuzione delle relative masse sono soggette ad elevate frequenze di beccheggio, con
conseguenti scadenti caratteristiche di marcia. Causa, questa, per cui circa venticinque
anni fa venne abbandonata la pratica di disporre le ruote alle estremità del veicolo; ma ciò
facendo venne pure annullato uno dei fattori che contribuivano maggiormente a garantire
una grande docilità di guida e una buona tenuta di strada.
Tuttavia, i recenti sviluppi nel campo delle sospensioni hanno dimostrato che la frequenza
del beccheggio della vettura non è più vincolata dalle dimensioni del passo, in quanto la
moderna tecnologia offre la possibilità di attuare il meglio in ogni caso. Comfort di marcia
e manovrabilità non sono più in antitesi tecnica. Ma possiamo adattare questa nuova
filosofia alla forma della vettura moderna? La sistemazione delle ruote alle estremità del
veicolo produce un equilibrio del tutto inaccettabile dal punto di vista estetico. La parte
posteriore, che per anni ha continuato ad allungarsi per motivi di estetica, diviene
un’appendice strutturale insignificante se le ruote posteriori vengono sistemate alle
estremità del veicolo ma l’effetto, giudicato sotto qualsiasi punto di vista, non è affatto
piacevole. La difficoltà di sistemare le ruote all’estremità del veicolo può essere superata
soltanto se ritorniamo ai vecchi concetti che presiedevano alla progettazione delle vetture,
eliminando cioè il vano posteriore. Si ristabilirebbe così quell’equilibrio estetico proprio
delle vetture di una volta che univano la grazia all’eleganza.
Il passo più lungo ci mette in grado di ottenere una migliore manovrabilità e la forma
risultante presenta pure un migliore aspetto pratico, dato che abitacolo e vano bagagli
sono così sistemati in un unico scomparto.
Il progettista gode perciò di maggiore libertà, gli si offrono più ampie possibilità di
sistemazione interna, potendo sfruttare lo spazio nel modo migliore senza doversi
preoccupare dell’aspetto esterno. A tale riguardo è interessante notare che, sulla
maggioranza delle moderne autovetture, un aumento del 30 per cento nello spazio per le
gambe dei passeggeri comporta solamente una riduzione di circa il 6 per cento sulla
lunghezza del vano bagagli.
Risulta quindi veramente possibile ottenere un buon comfort interno con una carrozzeria
che, pur seguendo i propri postulati stilistici, non riduca sensibilmente lo spazio riservato
ai bagagli. Le vetture piccole, nelle quali la mancanza di spazio è sempre stato un
problema grave, hanno seguito la teoria dei due comparti per molti anni. Ed allora perché
vediamo costruire nuove vetture di questa classe che si allontanano da questo schema
logico? Perché mai non tutte le vetture evolvono su queste linee, quale che sia la loro
dimensione? Per l’avvenire dobbiamo cercare di raggiungere l’eleganza seguendo linee
più pratiche. L’eliminazione di fattori contrastanti in un insieme unico é la caratteristica
del design che si deve sfruttare al massimo.
Sotto questo aspetto la vettura odierna presenta grandi possibilità di perfezionamento.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
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