celati bollettino - Centro Arti Visive

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celati bollettino - Centro Arti Visive
laboratorio dell’immaginario
issn 1826-6118
rivista elettronica
www.unibg.it/cav-elephantandcastle
DALL’ALTO
a cura di Paolo Cesaretti
ottobre 2011
CAV - Centro Arti Visive
Università degli Studi di Bergamo
ELiO GrAziOLi
Azimut
Andrebbe verificata, ma l’impressione è che l’uomo non avesse
mai pensato, mai rappresentato, il mondo visto non tanto dall’alto
quanto perpendicolarmente, dall’azimut, prima dell’invenzione della fotografia. Forse era considerato il punto di vista riservato
esclusivamente a Dio, tant’è che quando guardava dalle cime di
qualche monte o dirupo, dalle rappresentazioni pittoriche pare
che guardasse diagonalmente, delineando così una “veduta”, un
“paesaggio”, senza perdere la precisa sensazione di mantenere i
piedi per terra, di far parte di quel mondo che osservava. La visione azimutale invece stacca i piedi da terra, dà le vertigini, può far
perdere l’equilibrio. Forse le sue prime rappresentazioni andrebbero ricercate nelle vedute da ponti su acque turbinose, forse in
periodo romantico a simulare “in soggettiva”, come si dice in gergo cinematografico, la tentazione del suicidio, o da torri sul formicolio urbano a suggerire una riflessione sulla pochezza dell’individuo nella folla. in qualche modo è quello che possiamo immaginare dei filosofi di Caspar David Friedrich, rappresentati in un paesaggio in scorcio, ma la cui vista sfiora la verticalità. Quest’ultima
era più spesso quella dal basso verso l’alto, da sotto, quando l’uomo si sdraiava per terra a guardare l’elevarsi degli alberi o le nuvole, o a pensare appunto al luogo dove immaginava Dio, e l’altro
mondo.
Appena inventato il dispositivo fotografico, viene immediato l’abbinamento con la mongolfiera e numerosi sono i fotografi che vi
salgono per offrire alla gentile clientela le più strabilianti vedute
dall’alto, sempre meno diagonali e sempre più azimutali, insieme
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acrobatiche e inconsuete, ma soprattutto meno panorama, meno
estetiche, e più vedute “oggettive”, più scientifiche. La spinta principale a tali imprese è infatti lo studio a fini cartografici, per una
maggiore precisione di rappresentazione e di lettura del territorio,
da realizzare con scrupolo sperimentale. Proprio per questi fini
più la registrazione è perpendicolare e più essa è oggettiva e corrispondente, meno deformata dagli effetti prospettici, più misurabile e verificabile.
ricostruisce Thierry Gervais:
L’idea di realizzare delle fotografie aeree e di utilizzarle a fini cartografici appare nel 1855 in un’opera di Andraud, Une dernière annexe
au Palais de l’Industrie. raccolta di articoli satirici sull’Esposizione universale del 1855, questa publicazione è dedicata a una serie di invenzioni immaginarie. L’undicesimo capitolo, intitolato “Topographie N°
11. Arpentage au daguerréotype”, descrive come un geometra potrebbe prevedere di aggiornare il catasto a partire da fotografie realizzate in mongolfiera. Tenuto da tre uomini, l’aerostato dovrebbe
avere una navicella con un buco che permetta all’operatore di effettuare delle fotografie perpendicolari al suolo. Alimentato a gas da un
“tubo corda”, il pallone sarebbe mantenuto a un’altezza di 1000 metri da dove il fotografo potrebbe registrare il piano di “una superficie
di un milione di metri quadrati”. A dieci posizionamenti al giorno e
500 equipaggi, sarebbe possibile “rilevare il piano generale dell’impero [...] in 80 giornate di lavoro”. (Gervais 2001)
il lavoro è impegnativo e deve essere metodico, comportando la
divisione del terreno secondo una griglia calcolata, in base alla
quale effettuare con precisione i rilevamenti in modo che tutto
coincida senza distorsioni o parti mancanti.
Si tratta di realizzare una carta, cioè una rappresentazione dello
spazio in due dimensioni, non più convenzionale ma fotografica. La
fotografia trova subito qui la sua funzione di rappresentazione
considerata rispondente, di documento, di prova di realtà, mentre
la dimensione temporale vi è rimossa, o ancora non sentita: la fo-
Fig. 1: Nadar, Veduta aerea del quartiere dell’Etoile, 16 luglio 1868.
tografia non è ancora “istantanea”, non mostra né fa sentire il senso del tempo fissato.
Come per molte innovazioni in campo fotografico colui che per
primo prende piena consapevolezza della novità è Nadar, il quale
deposita nel 1858 un brevetto con la denominazione Un nouveau
système de photographie aérostatique, con lo scopo di “impiegare la
fotografia per il rilievo delle mappe topografiche, idrografiche e
catastali”, dove il rapporto tra carta topografica e fotografia aerea
è dichiaratamente “fondato sulla perpendicolarità dell’apparecchiatura” (citato in Gervais 2001). i risultati in realtà non sono eccellenti [Fig. 1], vari problemi tecnici rendono l’impresa di difficile realizzazione, ma soprattutto, per noi, le vedute che ne vengono prese non sono veramente così perpendicolari e restano un poco
oblique. Valgono però le intenzioni e la formulazione esplicita dei
termini della questione.
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Un passo avanti avviene con l’invenzione del procedimento alla
gelatina al bromuro d’argento, negli anni ottanta, che accelera i
tempi di ripresa e non interferisce con la chimica delle sostanze
che circolano sul pallone aerostatico. Nel 1885 Gaston Tissandier
e Jacques Ducom mettono a punto il nuovo dispositivo e sorvolano Parigi scattando una serie di fotografie perpendicolari. il risultato è finalmente perfetto e la famosa fotografia della punta dell’isola di Saint-Louis [Fig. 2] è citatissima e riprodotta ovunque, dalle
riviste scientifiche come dalle altre, ma è e resta a lungo un caso
unico. i problemi tecnici hanno ancora la meglio e l’impresa non
ha seguito. Occorrerà aspettare l’invenzione di nuovi velivoli e
nuove procedure. Occorrerà l’interesse e l’investimento militare,
in particolare durante e dopo la Prima guerra mondiale.
Nel frattempo la ripresa aerea torna diagonale ed estetica, abbandonandosi al gusto del soggetto e della composizione piuttosto
che mirare a scopi più scientifici e progettati. i risultati sono effettivamente di grande interesse. La veduta dall’alto ha infatti un fascino tutto suo. Per ora lo si assimila perlopiù al “pittoresco”, cioè
al gusto per il car atteristico, per la veduta ampia in cui si riconosce il luogo e al tempo stesso ci si abbandona alla vaghezza e alla
serenità dello spirito, senza troppo rilevarne un vero carattere
originale, una novità che nel pittoresco non può più essere circoscritta, ma le sue conseguenze estetiche si vedranno ben presto.
intanto rimane e si perpetra la separazione, se non il conflitto, tra
scienza, o più in generale funzionalità, ed estetica, dove, come ribadiamo per quel che ci riguarda, la prima è identificata con la
presa perpendicolare e la seconda con quella obliqua. La nuova
estetica nascerà solo quando si vorrà superare questa divisione e
si vedrà il lato artistico proprio della presa perpendicolare, evidentemente con intendimenti e secondo parametri diversi da
quelli scientifici.
Le prime avvisaglie ne sono proprio quelle immagini che, scattate
a fini pittoreschi piuttosto che scientifici, azzardano comunque la
veduta perpendicolare per mostrare un punto di vista inusuale,
soprattutto di un soggetto fin troppo noto e abusato, come per
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Fig. 2: Gaston Tissandier e Jacques Ducom, La Senna, il porto dell’Hôtel-de-ville
e il ponte Louis-Philippe, alla punta dell’isola Saint-Louis, altitudine 605 m, 19
giugno 1885.
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Fig. 3: André Schelcher e Albert Omer-Décugis, La Tour Eiffel, pubblicato in
Paris vu en ballon et ses environs, 1909.
esempio la Tour Eiffel [Fig. 3]. La fotografia trova qui il suo effetto
nuovo, quello di mostrare sì le cose reali, e il noto in primis, ma in
modo diverso, secondo angolature impreviste o mai notate, con
tagli arditi mai registrati, come un nuovo modo di vedere, una
“nuova visione”, come verrà chiamata. Ad essere ricercati sono
ora infatti nuovi effetti compositivi, giochi di linee e di forme, di superfici e di masse, di bianchi e di neri. È del resto quanto sta
emergendo anche a livello propriamente artistico, con la concezione dell’“autonomia” della forma, il dipinto fatto cioè prima di
tutto di segni e colori, come aveva teorizzato Maurice Denis già
alla fine del XiX secolo e si andava elaborando da più parti nell’arte “astratta” all’inizio del XX. “Astratta” era appunto l’arte non più
mimetica nei confronti della realtà, ma pura composizione di elementi linguistici. Ancora una volta la fotografia ha un ruolo decisivo. Lo si vedrà di nuovo più avanti.
La curiosità e il fascino di queste immagini intanto danno vita a delle pubblicazioni, in volume, come la famosa Paris vu en ballon et ses
Fig. 4: Léon Gimpel, Un autobus caduto nella Senna, 27 settembre 1912.
environs di André Schelcher e Albert Omer-Décugis nel 1909, o in
articoli di riviste, come “L’illustration”, sempre all’inizio del secolo,
dove si distingue in particolare Léon Gimpel [Fig. 4] che fa della “vi-
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sion en plongée” un vero e proprio carattere personale. Con lui si
può dire che, slegata ormai dal pallone aerostatico o da altri velivoli, la veduta dall’alto è diventata uno “stile”, un carattere stilistico.
Oltre che alle ragioni di curiosità visiva o di gusto compositivo, come dicevamo, la ragione principale per cui la veduta dall’alto diventa nel primo dopoguerra una scelta stilistica è dovuto agli sviluppi formali dell’arte d’avanguardia. Così, è appunto nelle mani –
negli occhi – degli artisti ancor più che dei fotografi che la veduta
azimutale prende tutto il suo significato. Probabilmente il primo a
farne l’uso “modernista” è stato Paul Strand, già nel 1916 [Fig. 5],
con i suoi giochi d’ombra, che la presa dall’alto rende più astratti
perché meno riconoscibili gli oggetti che li proiettano. La veduta
dall’alto occupa così il centro della ricerca astrattista operata con
il medium per definizione inesorabilmente legato alla realtà. L’ombra è in effetti un soggetto molto particolare e molto fotografico.
intanto lo è come rovesciamento, o altra faccia, del nome stesso
di “fotografia”, cioè scrittura di luce, e dunque di ombra; ma l’ombra è anche un particolare tipo di fenomeno e soprattutto di segno, del genere cioè che il semiologo americano Charles S. Peirce
ha definito “indice” - ovvero legato al suo referente, la realtà, per
causalità, per contatto diretto, come l’orma, l’impronta - e non
un’icona, cioè un’immagine nel senso più diffuso del termine, legata al suo referente per analogia visiva, per rappresentazione. L’ombra è così un “meta-soggetto” fotografico, cioè un soggetto che
sta per la fotografia stessa, di cui si vuole allora evidenziare non il
lato figurativo mimetico, ma quello “indicale”, causale, di impronta
lasciata direttamente dalla luce e fissata dalla chimica della lastra
emulsionata. Oltre che il “contenuto” dell’immagine fotografica,
l’ombra diventa qui la “forma” del medium fotografico. L’altro significato della parola “proiezione” poi, per esempio quello psicologico, cioè di attribuzione ad altri di ciò che in realtà è sentimento, situazione o problema nostro, dice bene il senso dell’operazione
non solo formale della scelta stilistica qui in causa: l’autonomia della forma è svelamento dei meccanismi fallaci della rappresentazione e ricerca di autonomia tout court.
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Fig. 5: Paul Strand, Astrazione, ombre, 1916.
Negli anni venti gli esperimenti di veduta dall’alto si moltiplicano,
per lo più all’interno dell’impostazione estetica appena evocata,
ma spesso da posizioni del tutto diverse. Così li realizza Aleksandr
rodčenko, costruttivista russo, che nella fotografia vede il medium
nuovo, “rivoluzionario”, in opposizione alla pittura retaggio dell’ar-
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te “borghese” e del passato. Della fotografia allora vuole privilegiare le possibilità di vedute al di fuori dal consueto, ovvero al di fuori dall’inquadratura “dall’ombelico”,1 come ripeteva, con espressione alquanto significativa, in ogni suo intervento teorico:
Fotografate da tutti i punti di vista, meno che “dall’ombelico”, finché
non saranno riconosciuti legittimi gli altri modi di riprendere. Le angolazioni moderne più interessanti sono quelle “dal basso in alto” e
“dall’alto in basso” e su queste bisogna lavorare. (rodčenko 1988:
219)
Fotografare dal basso o dall’alto era considerato più moderno, più
innovativo, e anche più “comunista”, prima di tutto perché non più
borghese, ma inoltre esaltante i punti di vista reali e l’immagine
della collettività proletaria: camminando per strada, amava ripetere
rodčenko, noi vediamo i palazzi da sotto e quando guardiamo da
un balcone o da una torre o da un ponte, vediamo da sopra [Fig.
6 e Fig. 7]; d’altro canto la visione dall’altro in particolare mostra la
folla in modo “democratico”, tutti uguali, senza gerarchie, come
“classe” bene organizzata e coordinata, di individui che lavorano
insieme per il futuro.
Ma chi teorizza con più convinzione e sistematicità è László
Moholy-Nagy, primo docente di un insegnamento di Fotografia,
naturalmente nella scuola più innovativa del momento, il Bauhaus
di Walter Gropius. Per Moholy-Nagy la fotografia realizza l’“ampliamento dei limiti della rappresentazione naturalistica [...] L’apparecchio ci ha fornito possibilità sorprendenti [...] ampliamento
del campo visivo [...] squarci del mondo [mai] visti in quel modo”
e “anche le possibilità di distorsione dell’obiettivo – veduta dal
basso, dall’alto, di scorcio – non sono da valutare solo in modo
negativo, ma forniscono invece una visione ottica senza pregiudi-
1 L’espressione “dall’ombelico” si riferisce alle macchine fotografiche a pozzetto, che
venivano appunto tenute all’altezza dell’ombelico.
Fig. 6, in alto:
Aleksandr rodčenko,
Dimostrazione, 1928.
Fig. 7, a destra:
Aleksandr rodčenko,
Al telefono, 1928.
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Fig. 8: László Moholy-Nagy, Nella sabbia. Da Pittura Fotografia Film, 1925.
Fig. 9: László Moholy-Nagy, Bambole. Da Pittura Fotografia Film, 1925.
zi” (Moholy-Nagy 1925: 5). Così scrive nel 1925 nel suo innovativo Pittura Fotografia Film e ne dà le dimostrazioni.
Per quanto riguarda propriamente le vedute dall’alto, ve ne sono
tre, ognuna con una significativa didascalia. La prima è una bagnante in spiaggia, intitolata Nella sabbia [Fig. 8] e la didascalia dice: “Ciò
che una volta veniva considerato come distorto, ora costituisce
un’esperienza sbalorditiva. È un invito a capovolgere i valori della
visione. Questa immagine è girevole. Si ottengono sempre nuove
immagini” (Moholy-Nagy 1925: 59). Dunque non solo ciò che era
considerato errore secondo una visione tradizionale, va invece vi-
sto come una risorsa, e che la figura che ora vediamo capovoltaci
invita a girarla in qualsiasi direzione e che ogni volta che lo facciamo otteniamo immagini nuove, nuove possibilità, “nuovi valori”.
Provare per credere: cambia la visione e cambia il senso, che sia di
caduta o di levitazione, di schiacciamento o di sospensione o altro
ancora.
La seconda immagine è molto diversa e introduce un altro classico della modernità, la griglia, qui data dalle ombre sul piano dove
sono appoggiate due bambole, a cui si sovrappongono. il titolo è
appunto Bambole [Fig. 9] e la didascalia dice: “L’articolarsi dei chia-
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roscuri e il reticolo d’ombre sospingono il giocattolo in una dimensione fantastica” (Moholy-Nagy 1925: 90). Ora, la griglia o reticolo ha nel modernismo la funzione, astrattista per eccellenza, di
rendere l’immagine bidimensionale, non più prospettica né
profonda, tenendo ancorate alla bidimensionalità tutte le forme
presenti nella composizione – vedi le linee ortogonali nere in Piet
Mondrian. Moholy-Nagy, comunque campione anch’egli dell’astrattismo, invita invece qui a vedervi quella che definisce una “dimensione fantastica”. Vi è dunque uno spostamento dall’autonomia
della forma a quello che potremmo chiamare il senso della visione, cioè le “dimensioni” diverse che un’immagine può assumere a
seconda di come la si mostra e di come la si guarda.
La terza immagine, intitolata propriamente Ripresa dall’alto [Fig.
10], ha la seguente didascalia: “il fascino dell’immagine non risiede
nell’oggetto ma nella vista dall’alto e nei rapporti ben ponderati”
(Moholy-Nagy 1925: 91). È la didascalia apparentemente più ortodossamente astrattista, che richiama alla concezione dell’oggetto
rappresentato come puro “pretesto” e all’importanza invece della
composizione, dell’armonia dei rapporti tra le componenti dell’immagine, ma va in realtà ricollegata alla questione di partenza: niente paura delle distorsioni, sono un’opportunità nuova. Non sono
deformazioni espressionistiche e minacciose, segno di una visione
soggettiva, instabile e disequilibrata, che si oppone a quella oggettiva, armoniosa e rispondente, ma sono invece distorsioni propriamente “reali”. Scrive infatti Moholy-Nagy:
il segreto della loro efficacia risiede nel fatto che l’apparecchio fotografico riproduce la pura immagine ottica, mostrando così le distorsioni, le deformazioni, gli scorci, ecc. otticamente reali. [...] Ciascuno
sarà costretto a vedere ciò che è otticamente reale, di per sé significante, oggettivo, prima di poter attingere a una possibile presa di posizione soggettiva. Viene così rimossa la suggestione di immagine e di
rappresentazione impressa alla nostra visione da alcuni eccellenti pittori e rimasta intramontabile per secoli. [...] Si può dire che noi vediamo il mondo con tutt’altri occhi. (Moholy-Nagy 1925: 26-27)
Fig. 10: László Moholy-Nagy, Ripresa dall’alto. Da Pittura Fotografia Film, 1925.
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Ecco che la distorsione diventa “oggettiva”, ma questo termine
non indica più un atteggiamento scientifico ma deriva da una presa d’atto estetica: la fotografia mostra il reale così com’è, cioè in
realtà sempre distorto, sempre da un determinato punto di vista.
Questa è anzi la sua peculiarità e la sua risorsa: mostra sì le cose
come sono, ma al tempo stesso diversamente, come non le abbiamo mai viste. Questo è il presupposto del movimento che viene
chiamato “Nuova Visione”, che si forma pressoché spontaneamente negli anni venti in varie parti del mondo e in diversi contesti artistici, come se costituisse una risposta obbligata ai cambiamenti
della modernità. Basterà riferirsi a Edward Weston negli Stati Uniti,
anch’egli non scevro di vedute dall’alto, e ai tanti fotografi che
rientrano nei capitoli di ogni storia della fotografia sotto la rubrica
“fotografia modernista”. Lo spirito comune è quello di vedere e
mostrare diversamente la realtà, per mostrare come è cambiata e
come è cambiata la nostra visione; questo, paradossalmente, rappresentando meno la realtà e dando più spazio alla forma, al linguaggio visivo. Sono gli argomenti che Susan Sontag discute nel
suo testo L’eroismo della visione:
La fotografia, in quanto scrosta i vecchi involucri della visione abituale, crea un’altra maniera di vedere: intensa e insieme lucida, partecipe
e insieme distaccata; affascinata dal particolare insignificante, dedita
alla bizzarria. Ma perché la visione fotografica dia l’impressione di
contravvenire alla visione ordinaria, bisogna che sia costantemente
rinnovata da nuovi shock. (Sontag 1978: 87)
Ma torniamo alla veduta dall’alto. il maestro della “distorsione”,
tanto da intitolare così la sua serie più famosa, è stato André
Kertész. Anche il suo interesse è incentrato sulle ombre, che introducono una deformazione delle forme rispetto a come siamo
abituati a riconoscerle e perturbano il nostro sguardo [Fig. 11].
L’ombra introduce quell’alterazione – fosse pure una leggera rifrazione dovuta alla superficie su cui si proietta, che non è mai totalmente liscia e regolare – che mostra una discrasia all’interno stes-
Fig. 11: André Kertész, Torre Eiffel, 1929.
so del reale, tanto che si è potuto inserire Kertész all’interno del
movimento surrealista, anche se non ne ha condiviso in alcun modo gli slanci fantasiosi. Per Kertész comunque la fotografia stessa è
distorsione, anamorfosi, del reale, invece che sua rappresentazione
esatta e oggettiva. Siamo qui all’estremo opposto della precisione
scientifica.
Un’altra sua specialità, diventata un altro classico della veduta azimutale, è addirittura il rovesciamento: le ombre dei passanti fotografate dal balcone sembrano i passanti stessi, mentre questi diventano delle loro appendici verticali; il reale diventa l’ombra dell’ombra [Fig. 12]. È la caverna di Platone al contrario, e insieme il
suo compimento, con un supplemento di turbamento dovuto alla
straniante sensazione di uno sconvolgimento dei parametri per-
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Fig. 13:
Umbo, Il mistero della
strada, 1928.
Fig. 12: André Kertész, Ombre, 1931.
cettivi, gestaltici: i conti tra orizzontale e verticale non tornano, la
piattezza dell’ombra lascia irrisolto il rovesciamento, la tridimensionalità dei corpi diventa incongrua, il nostro sguardo non riesce
veramente ad “aggiustare” la visione. È il senso del rovesciamento
che hanno mostrato rosalind Krauss e Yve-Alain Bois nel loro saggio sull’“informe” batailliano, un’anticategoria che decostruisce le
categorie, quelle percettive così come quelle “metafisiche” (Bois e
Krauss 2003; Krauss 1996: 169-204).
in modo più leggero, più giocoso, tanto da entrare nel mondo della pubblicità, un altro maestro del gioco di ombre è Umbo (pseudonimo di Otto Maximilian Umbehr), che ne approfitta per realizzare anche delle ammiccanti scenette, dove l’azione della persona
sembra ora svolta dall’ombra. Come per esempio lo spazzino che
spazza [Fig. 13]. E che cosa spazza allora? Oppure può sembrare
che lo spazzino spazzi l’ombra per far posto al bianco, alla luce,
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Fig. 15: Bombardamento su roma, 19 luglio 1945.
Fig. 14:
Umbo, Senza titolo,
1931.
della polvere per terra. Ma ad Umbo soprattutto piace giocare
con i bagni di sole [Fig. 14]. Quest’ultimo è peraltro un nuovo soggetto molto significativo per la fotografia, e anche per il nostro argomento. Qui infatti la tintarella solare è metafora della fotografia
stessa, che è impronta di luce come l’abbronzatura, per noi ulteriormente significativa perché la macchina fotografica occupa allora esplicitamente il posto del sole, nuovo candidato laicissimo, dopo Dio, all’apice azimutale della visione. Per quanto semischerzosamente, è un’indicazione di uno spostamento in atto che avrà ben
ulteriori conseguenze.
Poi viene il lungo periodo delle dittature e l’arresto degli sviluppi
dell’arte, che passa in clandestinità o emigra oltreoceano. Si fotografa meno, potremmo dire, ma si vede sempre più dall’alto. La vi-
sione azimutale ha un suo nuovo sviluppo militare, con il perfezionamento tecnologico sia dei velivoli sia delle tecniche fotografiche.
Gli aerei sorvolano e scattano fotografie in quantità per controllare il territorio o per spiarlo a caccia di obiettivi, e poi per provare
o verificare che il bersaglio è stato colpito. Le immagini nuove sono quelle dei bombardamenti [Fig. 15], nuvole di polvere e fumo
che chiazzano il paesaggio come macchie innaturali. Qui, sempre
più inquietante, la macchina fotografica sta al posto dell’arma che
ha sparato: è l’altra grande metafora dello “scatto”, shoot in inglese, che significa anche colpo, sparo, in perfetta identificazione tra
macchina fotografica e arma, tra fissazione dell’immagine e morte.
Nella seconda metà del secolo la veduta dall’alto assume nuovi significati. Da un lato uno esistenziale e umanista, dall’altro uno concettuale e freddo, linguistico e distaccato, ma tornano anche, rinnovati, la funzione documentaria e quella cartografica, il tutto, azzardiamo, in preparazione dell’attuale situazione. ripercorriamone dunque i passi fondamentali attraverso qualche esempio eccellente.
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Fig. 16: Mario Giacomelli. Dalla serie Presa di coscienza sulla natura, 19542000.
il primo, tipico del dopoguerra, è quello di Mario Giacomelli. Volando in aereo sulle campagne marchigiane, a partire dagli anni
cinquanta Giacomelli “riprende coscienza” della natura, anzi “sulla
natura”, come titola la serie [Fig. 16], con preposizione che, oltre a
restituire la dimensione letterale del volo, rende il doppio senso
della presa di coscienza, sia della natura, sia dell’uomo che agisce
sulla natura. Sono infatti immagini di tracce, rese quasi astratte e
insieme fortemente marcate dall’accentuazione dei contrasti, del
lavoro dell’uomo sulla terra, solchi di arature, strade, filari di alberi,
“composizione” dei campi di lavorazione diversa. Simili ai quadri
che si fanno in quegli anni nella corrente detta informale, vicini a
Alberto Burri, della fotografia mantengono il legame stretto con la
realtà, mentre la veduta dall’alto permette l’appiattimento bidimensionale, qui non puro vezzo formalista ma necessità stessa
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della metafora forte di Giacomelli. Esso infatti evidenzia la somiglianza tra la terra lavorata, le sue pieghe, le sue curve, i solchi dell’aratura, le chiazze degli alberi, le linee dei viottoli, e il corpo di chi
la lavora, le sue rughe, le sue ferite, la pelle bruciata dal sole e rosa
dal sudore, ovvero il rovesciamento di essere ed esistere, come
scandiva la filosofia del periodo. E non sfugga la lezione di Giacomelli per cui, sfruttando l’assimilazione anche della fotografia come
traccia ai solchi della terra e alle rughe della pelle, ribadisce che
anche il risultato artistico si ottiene solo alle stesse condizioni di
“lavoro”, con la stessa fatica e sofferenza. L’aereo di Giacomelli è
così l’esatto opposto di quello di guerra.
Su tutt’altro registro agisce la cosiddetta Arte Concettuale, che
della fotografia fa un uso strumentale e linguistico, da “grado zero
della scrittura”, per riprendere la felice formula di roland Barthes.
La fotografia vi è strumento neutro di registrazione del concetto; il
che non va da sé, perché, ovviamente, la fotografia non registra il
pensiero bensì la realtà. Da qui il paradosso della “neutralità” del
medium fotografico. La soluzione la fornisce il readymade: secondo
il gesto radicale di Marcel Duchamp che presenta un comune oggetto tale e quale come opera d’arte, la fotografia non viene più
concepita né come rappresentazione né come traccia, ma a sua
volta come prelievo, evidentemente non dell’oggetto stesso ma
della sua immagine. L’immagine sta per la cosa, tanto è vero che –
questo lo “specifico” fotografico su cui si basa tale concezione –
non seleziona, prende tutto ciò che entra nel campo visivo, e lo
tiene così com’è.
Ebbene, anche nella fotografia concettuale vi è almeno un caso
famoso di veduta dall’alto, non per niente azimutale, perché appunto ancora più radicalmente neutra, pseudocartografica,
pseudoscientifica. Si tratta di Thirtyfour Parking Lots di Ed ruscha,
del 1967 [Fig. 17], trentaquattro fotografie appunto di aree di
parcheggio, vuote di automobili, riprodotte in un piccolo libroopera. il parcheggio, luogo caratteristico dei tempi dell’automobile, delle grandi città, dei luoghi di lavoro e di ritrovo, diventa la
metafora dell’arte e della fotografia, spazio in attesa, “allevamen-
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Fig. 18: Michael Heizer, Nevada Depression n. 1, 1968.
Fig. 17: Ed ruscha. Dal libro Twentyfour Parking Lots, 1967.
to” di automobili – per usare l’espressione coniata da Duchamp
per il suo Allevamento di polvere, la foto fatta scattare a Man ray,
dall’alto, tanto da essere in un primo momento intitolata dal fotografo Paesaggio visto a volo d’uccello. il parcheggio attende le
auto come la lastra fotografica l’immagine che la riempia; l’automobile è il corrispettivo della macchina fotografica. il progetto
fotografico di ruscha è il censimento dei parcheggi di una zona,
come ha fatto negli altri libri-opera per le stazioni di servizio
lungo un percorso stabilito e per tutte le case su entrambi i lati
di una via.
Funzione ben diversa da quella puramente documentaria – non si
finisce mai di sottolinearlo, perché capita tuttora che si scambi la
fotografia per l’opera – è quella della fotografia da parte della
Land Art. Questo tipo di arte, com’è noto, ha portato l’opera alla
scala del paesaggio e proprio per questo ha un legame intrinseco
con la veduta e con quella dall’alto in particolare. Mentre, come
ribadiamo, l’opera in sé – cioè le linee tracciate, gli scavi o le costruzioni sul terreno – non è mai visibile da terra nel suo insieme
e va “esperita” dall’interno, percorrendone il tracciato o la costruzione, solo la fotografia dall’aereo può restituirne la veduta [Fig.
18]. in alcuni casi, come in quello paradigmatico di Desert Cross di
Walter De Maria, del 1969 [Fig. 19], l’opera è a tal punto comprensibile solo dalla veduta aerea da far pensare che sia stata realizzata proprio per questo, dunque, diciamo, non da esperire sul
terreno ma in volo. L’ispirazione di tali interventi infatti pare essere venuta dagli antichi tracciati detti linee di Nazca, misteriosi pro-
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Fig. 20: Luc Delahaye, 11 September Memorial, 2002. Courtesy Luc
Delahaye.
Fig. 19: Walter De Maria, Desert Cross, 1969.
prio perché leggibili solo dal cielo, laddove non esistono punti elevati nei dintorni né esisteva all’epoca la tecnologia per volare.
Opere fatte solo per gli dei, ovvero, per citare Walter Benjamin,
per il culto? E oggi, quelle della Land Art, per il culto dell’arte, ovvero per recuperare il valore cultuale all’arte? Se è così, anche in
questo caso la funzione della fotografia non è più così puramente
documentaria, e tanto più quanto più è azimutale, cioè, potremmo
dire, assoluta, che sta ancora una volta al posto dello sguardo assoluto, non di uno soggettivo che varia secondo il gusto o l’interpretazione.
Veniamo così ai decenni più recenti. Quali altri cambiamenti verificabili nella veduta dall’alto possiamo segnalare? La cornice è sempre la stessa, a noi pare, ma al suo interno gli elementi variano o si
dispongono diversamente. Così è per un caso interessante studiato da Quentin Bajac. Si tratta della “svolta” di un rinomato fotoreporter francese, Luc Delahaye, che, scontento delle immagini di
genere e nutrendo proprie ambizioni artistiche, ha introdotto nel
reportage il formato panoramico, dunque a scena aperta e da relativamente lontano [Fig. 20]. L’immagine perde in questo modo in
efficacia e dettaglio nella presa dell’evento, ma guadagna invece
una visione più ampia e contestuale. L’intento dichiarato è quello
“di riconciliare in maniera dialettica e in’unica immagine alcune
tensioni antagoniste” nell’ambito del reportage, così riassunte:
“presenza al soggetto/assenza al mondo; prossimità della testimonianza fotografica/distanza dello sguardo critico; forma documentaria/formato spettacolare; veduta generale/frammentazione”
(Bajac 2005: 34). Questa la posta in gioco: la ripresa panoramica
permette di recuperare ciò che solitamente nel reportage resta
“fuori campo”, non mostrato, non detto, cioè il contesto, la veduta
d’insieme.
Ma non è tutto, perché la scena allargata comporta soprattutto
una composizione diversa, un’organizzazione dello spazio particolare, una dialettica tra quantità di sottoscene e di particolari e una
visione d’insieme che li contiene, che fa da sfondo ma domina al
punto da venire come in primo piano. Soprattutto, in questo tanto
più vicina alla veduta azimutale, quando non è presente la linea
dell’orizzonte. La scena si spande sul vasto campo, senza centro e
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Fig. 21: Andreas Gursky, Rimini, 2003. Courtesy Andreas Gursky.
senza gerarchia. Anche il tempo cambia e da istantaneo, rapido,
forzato, si fa lento, lungo, disteso. Delahaye lo descrive come un’esperienza di “unità silenziosa con il reale, riunificazione di sé con il
mondo”, “l’impressione di essere sul balcone della Storia” (Bajac
2005: 34-35).
È, questa di essere spettatori che vedono lo “spettacolo”, che sia
la Storia o altra scena, una sensazione molto condivisa nella situazione attuale, in cui tutto sembra avvenire a una certa distanza e
senza di noi, senza che ne siamo direttamente implicati. Delahaye,
fa notare Bajac, a differenza di altri, conservando qui il suo spirito
di fotoreporter, resta tuttavia “a scala umana”, in modo da poter
ancora esercitare un giudizio sulla situazione, e lasciare che anche
chi guarda l’immagine possa farsene. Altri autori, senza retaggi da
fotoreporter, hanno spinto fino all’estremo tali premesse, facendo
della veduta dall’alto l’inquadratura che corrisponde all’all-over
contemporaneo, al moto browniano della condizione odierna, al
Fig. 22: Andreas Gursky, Chicago Board of Trade II, 1999. Courtesy Andreas
Gursky.
limite del caos incontrollabile e incontrollato, della globalizzazione
assoluta, non più a scala umana, non più giudicabile, tutta “spettacolo”, tutta immagine.
Così Andreas Gursky, che della veduta dall’alto ha fatto largo uso
e una sua vera e propria scelta stilistica [Fig. 21, Fig. 22]. Più le riprese sono azimutali, più il risultato è ipnotico. Pura superficie, senza effetti prospettici e profondità, le forme sono sparse in maniera
uniforme, che siano omogeneamente spaziate o affollate fino all’estremo, l’effetto decorativo assume tutto il suo significato simbolico: tutto è sullo stesso piano, tutto ha lo stesso valore, forse nessuno, forse tutti. È il baluginio dell’informe, il senso della vertigine:
lo spettatore si trova al tempo stesso proiettato sulla superficie a
pensare per analogia al proprio posto nella texture e identificato
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con la posizione della macchina fotografica al di sopra di tutto,
senza poter decidere o scegliere tra una delle due posizioni, preso
come in una zoomata continua, un avanti e indietro, su e giù, senza
fine: è l’inconscio ottico secondo rosalind Krauss, l’immagine pulsante, corporea e pulsionale (Krauss 2008).
Una delle ultime serie di Gursky, intitolata Oceani, del 2010 [Fig.
23], è costituita da vedute che più azimutali non si può, ma sono
per molti versi l’opposto esatto di quelle appena ricordate. Ora la
quasi totalità della superficie è per così dire “vuota”, ovvero figurante l’oceano, mentre le terre, il “pieno”, sono sui bordi, dentro
l’immagine solo per quel tanto che serve a circoscrivere il “vuoto”.
in realtà è solo l’altra faccia della medaglia, un vuoto che è pienissimo e pieno proprio di quello stesso formicolio, ora significativamente liquido – significativo perché è l’origine della vita e perché
rimanda alla definizione baumaniana dell’odierna società come “liquida” – e di riflessi luminosi che animano la superficie e ci restituiscono la luce che la colpisce.
La ripresa satellitare è l’esito più attuale della veduta azimutale. Essa incarna le due facce opposte dell’attualità, quella della sua versione militare-poliziesca e quella della sua disponibilità online;
quella dei sistemi di controllo che si fanno sempre più totali e minacciosi, e quella della libertà di vedere ovunque, di viaggiare senza spostarsi; quella paranoica del sentirsi sempre spiati e quella
giocosa del potersi posizionare ovunque. Non c’è serial televisivo
poliziesco oggi che non abbia come intercalare tra una scena e
l’altra una veduta aerea sulla città, affascinante e al tempo stesso
simbolica: siamo tutti sotto lo sguardo panottico delle forze dell’ordine, la polizia è identificata nella visione diffusa e totale. “Dal
punto di vista poliziesco siamo tutti criminali in potenza”, stigmatizza Jean Baudrillard (Baudrillard 2006: 22). Dal punto di vista
estetico, verrebbe da dire, siamo tutti osservati e non più osservatori, personaggi rappresentati e non spettatori, quadro e non autore.
Baudrillard parla di “una trascendenza verso il basso” (Baudrillard
2006: 19), non più verso l’alto, verso Dio o verso un’oggettività
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Fig. 23: Andreas Gursky, Ocean II, 2010. Courtesy Andreas Gursky e Gagosian Gallery, Beverly Hills.
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scientifica – e siamo al rovesciamento del nostro punto di partenza –, ma verso la realtà “integrale”, verso il mondo come “presenza immediata, totale, di una cosa a se stessa, di ciò che è identico a
se stesso” (Baudrillard 2006: 24), “spazio reale” come si dice “tempo reale”, in diretta, senza differimento né scarto. E mentre Baudrillard assimila tale immanenza e integralità esattamente al lato
opposto della realtà, cioè al Virtuale, compimento iperreale del
reale stesso, sua sparizione nell’apparenza assoluta, Peter Sloterdijk
rincara la dose parlando della fine di un’era. Con lo sviluppo della
tecnologia che ha portato alla costruzione non solo di satelliti ma
di stazioni spaziali, piccoli – per ora – mondi artificiali che ospiteranno esseri umani, si lascia lo “stadio dell’esperienza di sé per
estensione ed espansione per entrare in quello dell’esperienza per
trapianto e impianto” (Sloterdijk 2009: 32), cioè si passa dalla tecnica come espansione e protesi degli organi umani all’“impianto di
un mondo là dove era il nulla e al trapianto di un mondo esistenziale adattato all’uomo in contenitori di mondo esterni” (Sloterdijk
2009: 32-33); cioè, ancora, dalla costruzione di protesi e prolungamenti di organi alla costruzione di succedanei del mondo e al
prolungamento dell’ambiente che ritenevamo fin qui come l’unico
luogo possibile per l’essere-al-mondo che è l’uomo. Passiamo ora
a un essere-al-mondo-2, una delle cui conseguenze, argomenta
Sloterdijk, è che “gli universi basati sulla terra (in altre parole le
culture) possono per la prima volta levare gli occhi in direzione di
un sovra-mondo comune che esiste realmente” (Sloterdijk 2009:
34). Abbiamo così per la prima volta a che fare con una “trascendenza tecnica” creata dall’uomo stesso, in cui
l’asimmetria metafisica tra la trascendenza divina e gli esseri umani è
sostituita dall’asimmetria di posizione tra la stazione spaziale e la stazione terrestre, [cosicché] il volo spaziale ha trovato la soluzione più
elegante al problema più antico della metafisica: risolve l’enigma della
discontinuità ontologica tra il più alto e il più basso instaurando con
certezza pragmatica un continuum tra l’essere-al-mondo-1 e l’essere-al-mondo-2. (Sloterdijk 2009: 34-35)
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Fig. 24: Fabio Sandri, Appartamento, 2007. Courtesy Galleria Artericambi, Verona.
Tanto può portarsi filosoficamente con sé il rovesciamento della
visione azimutale. Noi concludiamo esteticamente su altri sbocchi,
riprendendo il filo della versione indicale dell’immagine fotografica.
Esiste infatti un’altra veduta azimutale che invece di evocare comunque una trascendenza, che sia verso l’alto o verso il basso,
tecnica o altro, si attiene per così dire alle tracce del e nel mondo.
Anche se la distanza tra l’oggetto e la sua traccia è minima o poca, l’impronta è infatti un segno azimutale, una forma lasciata verticalmente. La sua caratteristica primaria è quella di essere, come
ogni orma, in scala 1 a 1, dunque perfettamente equivalente, aderente al reale, non solo perché lasciata direttamente da esso ma
perché sovrapponibile, rispondente.
Una superimpronta in fotografia – che è già un’impronta, come ricordiamo –è quel procedimento che viene chiamato fotogramma,
già di tradizione avanguardista, prima costruttivista (schadografia)
e poi surrealista (rayogramma), ripreso recentemente su larga scala da Fabio Sandri. Consiste in una “fotografia” realizzata senza
macchina fotografica, senza scatto, appoggiando direttamente gli
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Fig. 26: Andreas Gefeller, Senza titolo, 2003. Courtesy Andreas Gefeller.
Fig. 25: Fabio Sandri, Io, 2003. Courtesy Galleria Artericambi, Verona.
oggetti alla lastra sensibile e dando luce in modo che ne resti appunto l’impronta diretta. Sandri ha usato questa tecnica per degli
spettacolari fotogrammi di intere stanze [Fig. 24], del suo atelier,
della casa dove abita, delle gallerie dove di volta in volta ha esposto. Si apprezzerà come la riduzione in bianco nero e la pura sostanza luminosa dell’impronta, con i giochi di opacità e trasparenze, mentre restituiscono la realtà per contatto diretto, la mostrano
tuttavia in forma più di apparizione che di presenza, più di fantasma che di sostanza. Ad essere reale qui è più l’immagine stessa
che ciò che figura.
Ma dove la veduta dall’azimut risulta più evidente e al tempo stesso più impressionante è in Io, del 2003 [Fig. 25]. Si tratta, come
scandisce il titolo, di un “autoritratto”, ovvero dell’impronta dell’artista, di cui vediamo in bianco la sagoma del corpo e all’interno, di
un bianco particolarmente luminoso, l’orma delle scarpe, segno
che il profilo generale è dovuto a una luce che proviene esattamente da sopra la testa, verticalmente appunto. Abbiamo così,
condensato, tutto l’effetto e il senso della veduta azimutale; che sia
evidenziata su se stesso piuttosto che su oggetti o altro, rende più
efficace e diretta l’implicazione dell’operazione: così appare l’io
nella veduta dall’alto, compresso e al tempo stesso ben piantato
per terra. Questo è l’io, appunto, e questo è l’“io” che – sfruttando il duplice significato del titolo – l’immagine stessa dice. Esasperando il filo del nostro discorso, si potrebbe qui dire addirittura
che questa immagine è il rimosso delle altre immagini, la macchia
cieca, il posto dell’assente nella pretesa paranoica di dominare tutto dall’alto, di rappresentarlo tale e quale, di mappare il mondo.
infine un caso singolare è reso possibile dalle tecnologie recenti,
tanto che vorremmo chiamarlo di “scansione”, come quella dello
scanner, che passa dunque lo sguardo e la registrazione a filo di
tutto ciò che vuole riprodurre, scorrendo sulla superficie e dun-
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la vita, di cui tuttavia in ogni immagine, anche in quella che più si
pretende oggettiva e distaccata, rimangono inesorabilmente depositate le tracce.
BIBLIOGRAFIA
Fig. 27: Andreas Gefeller, Senza titolo, 2005. Courtesy Andreas Gefeller.
que non più rappresentando da un unico punto di vista, e ripristinando dell’impronta, a differenza del fotogramma, la sua apparenza di rappresentazione. L’autore si chiama Andreas Gefeller, che
restituisce l’immagine di grandi superfici, spesso anche lui, come
Sandri, degli interi appartamenti, fotografandoli dall’alto pezzo per
pezzo, in modo che alla fine siano in scala perfetta, senza distorsioni [Fig. 26, Fig. 27]. Per lo più sono anche nel suo caso spazi vuoti
o abbandonati, come gli appartamenti in fase di abbattimento degli edifici. Parrebbe inutile dire qui che questi spazi portano le
tracce di azioni e di vite che sono state o che saranno, metafora
principe della fotografia, ma in fondo la questione sta proprio qui:
queste immagini ora perfettamente mappali, cartografiche, quanto
di più vicino al sogno scientifico della veduta azimutale, mostrano
in realtà come ciò che vi mancherebbe sarebbe nientemeno che
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