Il mattone delle langhe

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Il mattone delle langhe
Categoria adulti traccia n. 1
Il mattone delle Langhe
“Il futuro appartiene a chi crede alla bellezza dei propri sogni” Eleonor Roosvelt
“Signora Talli deceduta. Stop. Esequie lunedì. Stop.” Nella freddezza del telegramma, ultimo guscio
per la vita di una donna vissuta in silenzio, s’accende in me l’eco di un ricordo buono come il pane,
caldo come deve esserlo il forno in cui si cuociono le ciambelle, né troppo bollente, né troppo freddo.
Un ricordo la cui crosta, coriacea come una corazza, nasconde un cuore morbido, visibile solo a chi
non si accontenti di guardare le cose in modo superficiale.
“Una donna strana, la Maria” mi aveva sussurrato la direttrice, puntando il dito in direzione di una
signora elegante dallo sguardo vacuo... spiccava nella folla degli ospiti proprio per il distacco con cui
passava le giornate a fissare il vuoto.
Prossima alla laurea in psicologia, avevo scelto le case di riposo come argomento di tesi. Era mia
intenzione dimostrare l’importanza dell’ascolto, per questo mi concentrai su di lei. Per entrare in
relazione con Maria provai di tutto, ma ogni sforzo si rivelò vano, perfino all’ora dei pasti preferiva la
quiete della sua stanza all’allegro vociare del refettorio. La svolta, improvvisa quanto inattesa,
avvenne di fronte a un dolce.
“Il mattone delle Langhe! Non lo mangiavo da una vita, per l’esattezza dal giorno in cui mia madre si
è ammalata. Era il mio dolce preferito, me lo preparava una volta all’anno in occasione della festa di
Cossano Belbo. Aveva imparato a farlo dalla suocera, subito dopo il matrimonio. Sapete, mamma era
una mondina, mio padre l’aveva conosciuta per caso, un giorno che aveva accompagnato il nonno
alla risaia...” disse Lucia, perdendosi nei sapori dell’infanzia.
Non era la prima volta che compravo un dessert per le signore della casa di riposo, ma quel giorno in
particolare negli occhi della scorbutica si accese una scintilla di interesse.
“È golosa” mi dissi, convinta di aver scoperto una breccia nella calce dell’apatia.
Porzionai il dolce con gesti solenni, continuando a osservare le sue reazioni con la coda dell’occhio.
“È buono, ma si sente che le nocciole non sono di qui. Questa non è la Tonda Gentile Trilobata”,
obiettò Marta, inarcando le sopracciglia.
A parlare era la sua esperienza di raccoglitrice, ma per evitare che quella affermazione potesse
innescare una discussione, mi affrettai a chiedere:“Chi di voi sa la ricetta?” Potremmo provare a
farne uno uguale con gli ingredienti migliori, che ne dite?”
La mia proposta aveva un intento socializzante, mai però avrei pensato che a coglierla sarebbe stata
proprio Maria:“Biscotti intinti nel caffè alternati a strati di crema, burro e cacao, il tutto ricoperto da
una finissima granella di nocciola ben tostata.”
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“Lo hai mai preparato?”
“Centinaia di volte... ho iniziato a lavorare tra i sacchi di farina e i forni quando ero alta un soldo di
cacio.”
“Bene, ti va di rifarlo per noi?”
“Io ti insegno e tu lo prepari.”
“Ma se non ho mai cotto nemmeno un uovo al tegamino!”
“Beh, è giunta l’ora di imparare.”
Nella convinzione di dover seguire alla lettera una ricetta, accettai, ma invece di darmi le dosi esatte,
Maria mi incoraggiò ad assaggiare le materie prime, a usare l’occhio al posto della bilancia, ad
affondare le mani, o - come le chiamava lei- le forchette di Dio nel composto, a lasciare al palato
l’ultima parola. Mescolavo, inzuppavo, assaggiavo, tritavo, sbriciolavo, felice del solo fatto di sentirla
parlare. I ricordi le uscivano di bocca con l’urgenza di un torrente in piena, possedevano una energia
tale da inondare i fornelli, il marmo del tavolo, il pavimento, le stesse pareti. Più mi trascinava nel
passato e più io combinavo disastri. Su quel sentiero lastricato di spine, mi persi e la ritrovai, proprio
nel momento esatto in cui anche la mia imbranataggine, come una bagna, iniziava a schizzare da
tutte le parti. Mi raccontò di suo padre e di quanto fosse autoritario. Di come, alla sua nascita, avesse
deciso di darla in sposa a un possidente della zona. Aveva appena compiuto dodici anni, quando le
fu presentato un vecchio viticultore.
“Se non volete lasciarmi studiare, io me ne vado. Avete capito, padre? Me ne vado” aveva detto,
quella stessa sera, stanca di imposizioni.
“Quella è la porta” si era sentita rispondere.
Me la immaginavo vagare per le strade, con due stracci per bagaglio e pochi spiccioli in tasca.
Piccola com’era, non le era stato facile trovare una sistemazione: nei primi mesi aveva fatto la
lavapiatti, si era nutrita di avanzi e aveva dormito di nascosto nello scantinato dello stesso ristorante
in cui prestava servizio. Quando il capo cuoco aveva iniziato a importunarla, con i suoi risparmi
aveva affittato una camera in una pensione. La settimana dopo era stata assunta da un fornaio, in
qualità di garzone. Il suo compito era occuparsi delle consegne, ma ben presto il padrone le aveva
permesso di mettere le mani in pasta, dando così il via alla sua carriera.
La seconda volta che ci ritrovammo a cucinare assieme, Maria passò dagli insegnamenti alla pratica.
Mentre mischiava energicamente burro e zucchero, mi parlava del negozio che aveva aperto in
centro ad Alba. Ricordi dolci in cui si nascondeva un nocciolo duro come una sassata. A venti anni
esatti dalla fuga, quando ormai era una pasticcera famosa, casualmente era venuta a sapere della
morte della madre. Al funerale, di fronte a un padre ripiegato sul proprio dolore, messo da parte
l’orgoglio, aveva deciso di tornare a casa. Non aveva però ancora fatto i conti colla cocciutaggine del
genitore.
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“Sei solo una vecchia zitella, mi fai pena” aveva sentenziato il vecchio, nel vederla apparire sulla
soglia di casa, ma lei, nonostante l’umiliazione, aveva finto di non sentire.
‘Non ti lascerò annaspare nel tuo mondo, ti conquisterò con i miei dolci’, si era ripromessa, di fronte a
tanta testardaggine. Il padre, però, l’aveva buttata fuori casa, proprio il giorno dell’inaugurazione della
sua pasticceria.
“Cosa farete senza di me?” gli aveva domandato. Pensando di avere una carta vincente, aveva poi
rincarato la dose “vi rendete conto che non siete nemmeno in grado di prepararvi da mangiare?”
“E lui cosa ti ha risposto?” le chiesi, interrompendola per la prima volta.
“Nulla. Ma era normale che accadesse. Nel tentativo di dimostrargli che valevo qualcosa, ho finito per
sbagliare. Se te ne vai sbattendo le porte, non puoi pretendere di non pagare pena” mi rispose,
dandomi una lezione di vita.
Il telegramma pesa tra le mani, dovrei telefonare, chiedere un giorno di permesso dal lavoro, ordinare
un mazzo di fiori, e invece mi metto a cucinare. Apro il ricettario, lì conservo le ricette di tutti i suoi
dolci. “Difendi i tuoi sogni, ma evita una frattura netta. Se farai quel tipo di passo, non potrai più
tornare indietro, la gioia che proverai in quel momento ti sembrerà piena di promesse, in realtà il
futuro avrà un sapore così amaro che nessuna leccornia riuscirà ad addolcirlo. Fatti valere ma non
arrivare al punto di rottura, i legami sono parte di te, se li strappi rischi di sfiorire come una
margherita strappata alla terra e lasciata senz’acqua” mi aveva detto quel giorno in cucina, intuendo,
chissà come, che anche io ero prossima al punto di rottura con la famiglia. Mio padre voleva
impedirmi di intraprendere la professione di analista, gli strizzacervelli mi fanno schifo, questo mi
ripeteva tutte le sere, e io non ne potevo più. Eppure Maria aveva ragione, le separazioni forzate,
soprattutto se dettate dalla cocciutaggine, portano tanta tristezza, peccato che i manuali di psicologia
non lo insegnino. Assieme al dolce, inforno quel consiglio, aspettando che s’espanda nell’aria il
profumo di ciò che esso mi ha portato. Lavoro nell’ospedale di Asti, ma tutte le sere torno a casa, una
casa fatta di pietre di Langhe e travi di castagno a vista. Una casa circondata dal terreno in cui le mie
stesse radici hanno cuore e memoria, una casa in cui mio padre e io continuiamo a essere una
famiglia. A cena, come dessert, gli servirò il mio dolce e gli racconterò la mia giornata; lui, come al
solito, farà finta di non sentirmi, ma io so che non si perderà nemmeno una parola di quel che gli dirò.
Ho inseguito il mio sogno, sono diventata una analista, ma lo devo a Maria se non mi sono seccata
come un nocciolo estirpato dalla collina. Guardo i miei amati promontori: oltre la finestra, oltre la
nebbia che li avvolge, puntano dritti al cielo. Più li guardo e più mi piace pensare che, dopo tanto
dolore, dopo tanta fatica, dopo un lungo tempo senza luce e senza serenità, anche Maria sia
finalmente riuscita a ritrovare suo padre in un cielo di pace.
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