Manuela Stranges
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Manuela Stranges
1/2007 on-line UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E DI SCIENZA POLITICA DAEDALUS Quaderni di Storia e Scienze Sociali Direzione scientifica Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni Redattori e collaboratori Luca Addante, Olimpia Affuso, Rosa Maria Cappelli, Renata Ciaccio, Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Francesco Di Vasto, Loredana Donnici, Aurelio Garofalo, Teresa Grande, Salvatore Inglese, Francesco Mainieri, Matteo Marini, Patrizia Nardi, Saverio Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina Pellegrino, Maria Perri, Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Pia Tucci Direzione e redazione Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria 87036 Arcavacata di Rende (Cosenza). Tel. 0984 492568-67-65 E-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected] Direttore Responsabile Pia Tucci Amministrazione DAEDALUS - Laboratorio di Storia Conto Corrente Postale n.:13509872 Sede legale: via XX Settembre, 53 87012 Castrovillari (Cosenza) La rivista è stata fondata nel 1988 dal Laboratorio di Storia Daedalus Presidente: Vittorio Cappelli Numero 1/2007 on-line Numero 20/2007 seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea Pubblicato on line nel DICEMBRE 2007 ISSN 1970-2175 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI MANUELA STRANGES SUI CONCETTI DI POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE: UNA RASSEGNA BIBLIOGRAFICA “Non c’è una corretta, scientifica, condivisa definizione perché la povertà è inevitabilmente un concetto politico, e, di conseguenza, un concetto intrinsecamente dibattuto” Alcock, 2003 Introduzione Nonostante abbia da sempre fatto parte della vita sociale ed economica dei diversi paesi, la povertà è un tema sempre attuale, ancor di più oggi in ragione della persistenza del fenomeno anche in nazioni ricche. Esistono diverse definizioni di povertà, quasi tutti riconducibili a specifiche dicotomie: uni o multidimensionale, relativa o assoluta, soggettiva o oggettiva, transitoria o cronica, latente o manifesta, ecc. Tali definizioni, se utili allo scopo di cogliere alcuni caratteri del fenomeno e mettere a punto misure e grandezze, hanno però il limite di non riuscire a cogliere la dinamicità e la fluidità del concetto di povertà. La povertà non è, infatti, un fenomeno statico, ma assume continuamente nuove forme, caratteristiche, gradi di intensità, rifuggendo alle categorizzazioni. Emergono, oggi, forme di povertà differenti da quelle manifestatesi in passato, non più legate solo all’aspetto economico–monetario, ma connesse a numerose altre dimensioni che definiscono il grado di sviluppo umano dell’individuo, determinandone l’inclusione o esclusione dalla società in cui vive. Alcuni studiosi parlano di nuove povertà, distinguendole da quelle vecchie, connotate esclusivamente dalla carenza di reddito e mezzi materiali. L’aggettivo nuove sembra, però, sottendere ad un superamento delle vecchie 145 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI forme di povertà, che invece ancora esistono e, anzi, in taluni contesti si manifestano in forma maggiormente acuta. Per definire le forme di povertà che si manifestano oggi viene ampiamente utilizzato il concetto di esclusione sociale che, non essendo stato ancora chiaramente definito (come si vedrà in seguito dall’analisi della pluralità di definizioni che ne sono state fornite), finisce per comprendere diverse forme di difficoltà che l’individuo può sperimentare nel corso della sua esistenza – disagio, marginalità, povertà, precarietà, instabilità, vulnerabilità, … – in un mix più o meno intenso e disperato delle diverse condizioni. L’obiettivo del presente contributo è quello di tracciare una breve (e certamente non esaustiva) storia dei concetti di povertà ed esclusione sociale, delineandone un quadro definitorio attraverso una revisione della bibliografia internazionale in materia e l’analisi degli studi compiuti nei diversi paesi. La premessa fondamentale da cui parte il lavoro è che solo la corretta definizione del fenomeno povertà ci consente di misurarla con gli strumenti metodologici più adeguati e, quindi, di mettere a punto strategie volte alla sua eliminazione. L’evoluzione del concetto di povertà Uno dei problemi principali che bisogna affrontare nell’ambito dello studio della povertà è sicuramente quello della sua definizione, in quanto la scelta di quali dimensioni analizzare riflette una serie di fondamentali assunzioni in relazione alla sua natura e alle sue cause, e finisce, a sua volta, per influenzare e definire le metodologie di misurazione da adottare. Il termine povertà deriva dal latino pauperitas, che a sua volta deriva dal termine paucus (poco) e si connota, quindi, come la scarsità di risorse atte a soddisfare i bisogni dell’individuo. La sua definizione concettuale appare spesso compito molto più arduo che non la sua individuazione: a tal proposito nel 1971 Martin Brofenbenner si espresse affermando che la povertà può essere paragonata ad una brutta persona, che è “più facile da riconoscere che da descrivere” (p. 38). Appare, dunque, chiaro che la prima domanda cui si deve rispondere è proprio “che cos’è la povertà?”. Una volta fornita tale definizione si potrà, infatti, procedere all’individuazione di misure adeguate per la sua valutazione quantitativa e alla messa a punto di strumenti di analisi mirati. La prime definizioni di povertà erano legate soprattutto alla mancanza di reddito e di beni materiali: nel 1901 Seebhom Rowntree, il cui lavoro è considerato il primo studio di carattere scientifico sulla povertà, definì povere quelle famiglie la cui indisponibilità di reddito era tale da non garantire la 146 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI “pura efficienza fisica”. In verità vi erano già stati degli studi sulla povertà, come quello di Charles Booth del 1887, nel quale l’autore tentò una stima della povertà nella città di Londra, correggendo al ribasso le idee del tempo secondo cui un terzo della popolazione londinese viveva in situazioni di povertà (pervenendo, invece, ad un valore del 5%) e facendo anche ad una classificazione della popolazione in otto classi sociali, quattro delle quali si riferivano a persone in stato di povertà (cfr. Parisi, 2004, pp. 7-8). La definizione di povertà elaborata da Rowntree era di tipo assoluto: egli infatti calcolò una linea di povertà, espressa come ammontare monetario minimo richiesto per avere un’alimentazione adeguata al mantenimento dell’efficienza fisica e affrontare le spese basilari per l’abbigliamento e l’abitazione. Rowntree effettuò anche una distinzione tra povertà primaria e secondaria, riferendosi col primo termine a quelle famiglie che vivevano sotto la soglia di povertà da lui stimata, e col secondo a quelle famiglie o individui che, pur essendo al di sopra di questa soglia, continuavano comunque a vivere in situazioni di povertà. La definizione elaborata da Rowntree, legata solo alla mancanza dei mezzi necessari per la sopravvivenza, appare poco attuale oggi, come sottolinea De Bartolo (2001, p.103): “voler applicare questa definizione alla società di oggi non permetterebbe di cogliere l’attualità del fenomeno: infatti oggi la povertà non è soltanto la mancanza di cibo ma è legata anche ad altri fattori.” Rowntree, che seguì i passi di Booth, adottando però una differente metodologia (Ruggeri Laderchi et al., 2003), quella dell’intervista, pervenne ad una quantificazione dei poveri nell’area di York nella misura del 30% della popolazione. Negli studi che si sono susseguiti nel XX secolo ha preso piede la visione della povertà come fenomeno relativo, la cui manifestazione (e, di conseguenza, la cui analisi) è fortemente connessa alla situazione sociale ed economica del paese di riferimento: tra i primi studi in questa direzione possiamo citare quelli economici di Townsend (1974; 1979) e Towsend e Abel– Smith (1965), e quelli più sociologici di Stouffer et al. (1949) e Runciman (1966). In particolare Townsend, nei suoi studi, parla di povertà relativa, legandone il concetto all’organizzazione sociale complessiva in termini di redistribuzione delle risorse e di condizioni di vita (DE BARTOLO, 2001, p. 103). Le definizioni successive di povertà avranno tutte la medesima considerazione di fondo in merito alla sua relatività. Nel 1984 il Consiglio Europeo dei Ministri definì i poveri come “[…] le persone le cui risorse (materiali, culturali, sociali) sono così limitate da escluderle dal minimo accettabile stile di vita dello Stato Membro nel quale essi vivono”. 147 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI Uno dei principali sostenitori dell’abbandono dell’equivalenza completa tra povertà e basso reddito (pur riconoscendo che comunque il reddito ha un ruolo nella determinazione dei livelli di povertà degli individui e delle famiglie) fu l’economista indiano Amartya K. Sen (1984), il quale sottolinea come “[…] essere poveri in una società ricca è già di per sé un handicap in termini di capacità […]. La deprivazione relativa nello spazio dei redditi può implicare una deprivazione assoluta nello spazio delle capacità. In un paese che è in generale ricco, può essere necessario un reddito maggiore per comprare merci sufficienti ad acquisire le stesse funzioni sociali, come «apparire in pubblico senza vergogna». Lo stesso può dirsi per la capacità di «prendere parte alla vita della comunità»”. L’attenzione ad una visione più ampia del benessere, che non fosse legata esclusivamente al reddito era già presente nel pensiero di alcuni padri delle scienze economiche, da Adam Smith a Karl Marx (ATKINSON, 1975), passando per Thomas Malthus e David Ricardo. Smith, ad esempio, già nel 1776 parlando di povertà si espresse con queste parole: “[…] una camicia di tela, non è rigorosamente parlando, necessaria all’esistenza, ma attualmente, nella maggior parte d’Europa, un giornaliero rispettabile si vergognerebbe di apparire in pubblico senza una camicia di tela; la sua mancanza denoterebbe quel disgraziato grado di povertà cui si presume che nessuno possa arrivare senza una condotta estremamente cattiva […]”. Tralasciando il giudizio di merito che Smith esprime nella parte conclusiva di questo suo pensiero, possiamo comunque ravvisare una definizione (prototipale) di povertà relativa, che ne lega la manifestazione al contesto di riferimento. Negli anni successivi, poi, il dibattito economico e l’attenzione degli studiosi si spostarono sui tassi di crescita e sui problemi di contabilità nazionale, oscurando la prospettiva ampia dello sviluppo che si era già manifestata. L’idea di fondo che guidava gli studiosi del tempo era che la crescita del PIL complessivo e del PIL procapite avrebbero avuto effetti positivi su tutta la popolazione, in termini di aumento dell’occupazione, di maggiori opportunità economiche e, di conseguenza, di innalzamento degli standard di vita e di riduzione della povertà e delle disuguaglianze: tale meccanismo è conosciuto il letteratura con il termine di Trickle Down Mechanism e suppone che i benefici della crescita finiscono per sgocciolare anche su coloro che stanno al di sotto e che non hanno partecipato in prima persona la processo di crescita stesso. L’osservazione dei dati statistici rilevati mostrò, però, che ciò non si era realizzato nel concreto: negli anni 50 e 60 ci si rese, infatti, conto che alla crescita del PIL che si stava realizzando nei paesi in via di sviluppo non cor148 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI rispondeva una parallela diminuzione della povertà e un’affermazione dello sviluppo umano. Iniziò, allora, a profilarsi con maggiore forza l’idea che il reddito non fosse un indicatore soddisfacente del grado di sviluppo di una popolazione. Fino ad allora solo sporadiche (e, in verità, inascoltate) voci si levarono in contrasto alla visione che la crescita economica si sarebbe tradotta in maggiore sviluppo e riduzione della povertà. Ad esempio, già a partire dagli anni 50, l’economista liberale Viner (1953), in solitudine pressoché totale (se si esclude il sostegno di Bauer, 1956, 1976), denunciò quelli che riteneva degli atti immorali: parlando di insufficienza della crescita, l’economista si soffermò sugli aiuti indiscriminati, sottolineando come questi non fossero esplicitamente rivolti all’abolizione della povertà (VINER, 1968, pp. 781-801). L’economista pakistano Mahbub ul Haq, ispiratore e ideatore dei Rapporti sullo sviluppo umano, scrisse nel 1971: “Ci avevano insegnato ad occuparci solo del prodotto interno lordo perché poi quest’ultimo si sarebbe preso cura della povertà. Ribaltiamo questa opinione, occupiamoci della povertà perché ciò, a sua volta, si prenderà cura del prodotto interno lordo. In altri termini, preoccupiamoci del contenuto del prodotto lordo, ancor più del suo tasso di incremento.” (UNDP, 1990). Iniziava a delinearsi con forza il divorzio tra gli economisti utilitaristi, le cui analisi dei livelli di sviluppo dei diversi paesi si basavano solo sul reddito pro capite, e i tanti studiosi che palesavano la necessità di un’analisi multifattoriale. Nel 1973 Johnson parlò di povertà come di situazione di inaccettabili privazioni a livello sociale, rimandando, dunque, ad una concezione relativa in cui la situazione dei poveri e il loro tenore di vita non è misurato in maniera assoluta, ma con riferimento alla situazione ed agli standard della società di appartenenza. Si tratta, dunque, di capire quali sia l’ammontare di reddito necessario per essere socialmente integrati: tale livello può essere indipendente dall’ammontare necessario per soddisfare certi bisogni, ma piuttosto è più dipendente dal livello d’ineguaglianza della società (Livraghi, 1999, p. 4). In merito a ciò Sen (1992) sottolinea come “[…] il grado di adeguatezza dei mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle effettive capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare […]” (p. 156), e come “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di povertà deve essere basato sull'inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle caratteristiche individuali) […]” (p. 157). Quindi il metro di misura della povertà non è il reddito di un individuo, ma lo sviluppo delle sue capacità in relazione al contesto in cui vive. 149 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI Nel Rapporto 1997 della Commissione di Indagine sulla Povertà e sull’Emarginazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri si legge: “Emerge una realtà del disagio individuale e di gruppi a molte, e diverse, dimensioni: le disuguaglianze dei redditi e dei consumi; l’articolazione delle situazioni di emarginazione nel territorio, nelle grandi città e nelle campagne; l’aggravarsi della mancata soddisfazione di taluni bisogni fondamentali come la casa, la salute, l’occupazione, l’istruzione, le disparità intergenerazionali; le nuove povertà in rapporto alla cultura e all’accesso alle nuove tecnologie. Questi aspetti, vecchi e nuovi, richiedono un adeguamento dei quadri analitici e concettuali, ed un arricchimento della gamma di indicatori disponibili per fare il punto sull’evoluzione della povertà e dell’emarginazione” (1998). Questa definizione ci rimanda al concetto di povertà multidimensionale (che sarà analizzato in seguito), in cui la povertà non più legata solo ad una condizione di privazione economica, ma ad una serie di privazioni di carattere sociale, culturale, ambientale, ecc. Il Rapporto Eurispes 2005 sulla situazione dell’Italia così si esprime in relazione alla povertà nel nostro paese, attribuendole la connotazione di fenomeno “fluttuante”, e mettendone in evidenza tutti i caratteri di multidimensionalità di cui si accennava: “La povertà italiana ha sempre avuto un carattere complesso e multidimensionale. Infatti, alcune situazioni di tipo endemico fanno riferimento a catene causali come la numerosità del nucleo familiare, una scarsa qualificazione culturale oppure la perdita del lavoro da parte del capofamiglia, il risiedere in aree del Paese sprovviste di determinati servizi di assistenza e di tutela dell’infanzia, la presenza di anziani con problemi di autosufficienza, l’erosione del potere d’acquisto dei redditi.” Quindi il Rapporto dell’Eurispes rileva come esistano nuove forme di povertà che si slegano dal concetto tradizionale di privazione di reddito, assumendo connotazioni e caratteri del tutto peculiari che coinvolgono gruppi diversi di popolazione: “La marginalizzazione di strati sempre più ampi della popolazione, la riproduzione di modalità nuove di esclusione economica, la manifestazione di forme di “povertà fluttuante” non si traducono soltanto in situazioni di carenza materiale ed economica.” (pp. 11-12) Nascita e sviluppo del concetto di esclusione sociale Il concetto di esclusione sociale è stato introdotto nella letteratura scientifica a partire dagli anni ’70, in considerazione dell’impossibilità di misurare i nuovi volti della povertà occidentale con le grandezze tradizionalmente ap150 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI plicate. L’esclusione sociale si configura oggi come un fenomeno fortemente radicato nella società attuale, “[…] tale da investire e talvolta compromettere numerosi aspetti comportamentali nel rapporto tra il cittadino e la società stessa in cui vive […]” (Capacci e Castagnaro, 2003, p. 1). Il primo uso del termine “esclusione sociale” per descrivere i processi di marginalizzazione e deprivazione che emergono nei paesi sviluppati, viene fatto risalire al 1974 e attribuito a Lenoir, segretario di stato francese per l’Azione Sociale (Ruggeri Laderchi et al, 2003, p. 20). Tale concetto venne ben presto trasferito dal dibattito strettamente politico a quello accademico e scientifico, dando il via ad una serie di riflessioni sulla natura dell’esclusione sociale, ma anche sulle sue possibilità di misurazione. A livello europeo esiste oggi una notevole attenzione su questi temi: nel 1995 l’Unione Europea definì l’esclusione sociale come un processo attraverso cui gli individui o i gruppi sono completamente o parzialmente esclusi dalla piena partecipazione nella società in cui vivono (European Foundation, 1995), mentre nel 2002, Dragana Avramov, in una pubblicazione del Consiglio Europeo, definì l’esclusione sociale come la risultante dell’accumulazione di numerosi handicap sociali, che porta, quindi, ad una condizione di deprivazione. Egli aggiunge, inoltre, come gli individui sperimentino l’esclusione sociale sia da un punto di vista oggettivo (deprivazione), sia da un punto di vista soggettivo (insoddisfazione), e come questa si manifesti in molti dei più importanti “domini” dell’attività umana, dall’istruzione al lavoro, dalla partecipazione alla comunicazione, dal consumo di beni e servizi al tempo libero (Avramov, 2002, p. 87). Gli aspetti dell’esclusione connessi alla vita sociale, economica e culturale di ogni individuo sono estremamente numerosi, e questo determina problemi di identificazione, essendo il fenomeno dell’esclusione il peggio definito e più difficile da interpretare dei concetti di deprivazione (Ruggeri Laderchi et al. 2003, p.22), e difficoltà nell’effettuare una misurazione adeguata con una metodologia ad hoc (Capacci e Castagnaro, 2003, p. 1). Gli approcci di misura devono necessariamente essere multidimensionali, perché multidimensionale è il fenomeno. Nei primi anni 90 Bouget e Nogues (1993) hanno individuato ben 22 termini utilizzati per descrivere il fenomeno dell’esclusione all’interno di diverse ricerche e studi, a riprova del fatto che non esiste un accordo concettuale o di definizione su questo aspetto. Molti autori (Atkinson, 1998; Room, 1999; Micklewright, 2002) concordano sulle caratteristiche principali dell’esclusione sociale, ossia la relatività, la dinamicità e la multidimensionalità, mentre per quanto riguarda le specifiche dimen151 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI sioni da prendere in considerazione nella definizione di un indicatore di esclusione sociale c’è ancora un certo disaccordo tra gli studiosi. Una necessaria considerazione in relazione a questo approccio allo studio della povertà è che esso risulta più adatto a studiare il fenomeno nei paesi sviluppati, che non in quelli in via di sviluppo. Per questi ultimi possono essere validamente impiegati gli indicatori di sviluppo umano e di privazione umana (come quello presentati annualmente dalle Nazioni Unite). Il concetto di esclusione sociale, del resto, si presta bene a descrivere la situazione di paesi che hanno comunque raggiunto un certo grado di sviluppo socio–economico, mentre appare inadeguato e poco significativo per l’applicazione in contesti che sperimentano ancora povertà estreme. Si pensi, ad esempio, al fatto che una delle dimensioni dell’esclusione sociale è la disoccupazione, che non ha alcun senso misurare in contesti di economie arretrate, dove permangono strutture e forme di lavoro premoderne. La misurazione in termini di privazione di mezzi materiali, istruzione e longevità (come accade per l’IPU delle Nazioni Unite) sembra essere, nei contesti non sviluppati, maggiormente significativa. Ciononostante ci sono stati dei tentativi di applicazione delle misure di esclusione sociale ai paesi non sviluppati: Nayak nel 1994 in India; Rodgers et al. nel 1995 per la Tanzania, il Camerun e la Tailandia; Bedoui e Gouia nel 1996 in Tunisia; Figueroa, Altamirano e Sulmont nel 1996 in Peru; Appasamy et al. nel 1996 in India; Cartaya et al. nel 1997 in Venezuela; Mearns e Sinha nel 1999 in India. Alcuni di questi lavori empirici, senza volerne mettere in dubbio la validità, sembrano però sganciati dal contesto di riferimento (Ruggeri Laderchi et al., 2003, p. 22): le scelte in relazione alle dimensioni analizzate non appaiono sufficientemente giustificate, né vi sono riferimenti espliciti alla situazione normale della società di riferimento (il commento degli autori si riferisce ai lavori di Rodgers et al., 1995; Bedoui e Gouia, 1996; Appasamy, 1996; Cartaya, 1997). Uno studio realizzato da Ruhi Saith nel 2001 ripercorre brevemente le ricerche sull’esclusione sociale effettuate nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo, realizzando anche una distinzione tra le varie forme di esclusione sociale (dal Welfare State, dalla sicurezza sociale, in relazione alla disoccupazione, ecc.). Molto numerosi sono stati gli studi compiuti nei paesi industrializzati, la maggior parte dei quali si sono concentrati sul ruolo svolto dalla disoccupazione come punto di partenza per la definizione e la misurazione dell’esclusione sociale (Saith, 2001, p. 4). Tra questi: Whelan e Whelan (1995); Paugam (1995) sulla Francia e Paugam (1996) su vari paesi dell’Europa; Burchardt et al. (1999) sulla Gran Bretagna; Jonsson (1999) che 152 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI si è concentrato sull’analisi dell’esclusione sociale per genere; Mastropietro (2002) che, nell’ambito del progetto “Action Research on Social Exclusion and Poverty” del Cerfe, ha realizzato delle linee guida sulla povertà e l’esclusione sociale a Roma, Parigi e Londra. Povertà ed esclusione sociale: due facce della stessa medaglia? Il nodo teorico relativo alla distinzione tra povertà ed esclusione sociale rimane ancora da sciogliere. Il dibattito sull’ambivalenza o meno dei due concetti è ancora estremamente articolato all’interno dei contesti scientifici ed accademici. Secondo alcuni “non è chiaro se l’esclusione sociale ‘comprenda’ la povertà o viceversa, oppure se si tratta, invece, di due nozioni collegate ma disgiunte” (Cerfe, 1999, p. 11), mentre secondo altri il concetto di esclusione sociale va sostituito a quello di povertà (Negri, 1995, pp. 5-22), cercando di prendere in considerazione non solo i tratti economici del fenomeno della povertà, ma anche dando conto dei diversi meccanismi che sottostanno al processo di impoverimento (Saraceno, 1993, pp. 23-26). Alcuni studiosi considerano il concetto di esclusione sociale come un’ulteriore specificazione del concetto di povertà, altri invece ritengono che sia un suo “allargamento” a più dimensioni, diverse da quella strettamente economica. La questione, dunque, ridotta ai minimi termini, consiste nel determinare se l’esclusione sociale e la povertà siano da considerarsi un unico fenomeno oppure due fenomeni distinti, e, in quest’ultimo caso, quali siano le reciproche relazioni tra essi (sovrapposizione, inclusione, ecc.) (Cerfe, 1999, p. 49). Molti studiosi focalizzano l’attenzione sull’opportunità di utilizzare i due concetti in contesti differenti: il concetto di povertà, come già accennato, andrebbe utilizzato soprattutto nei contesti sottosviluppati, mentre per i contesti sviluppati andrebbe più propriamente utilizzato quello di esclusione sociale (Negri, 1995; Capacci e Castagnaro, 2003). Per quanto riguarda la nascita dei due concetti Walker (1995, pp. 102-128) sostiene che la povertà sia di origine anglosassone, mentre il concetto di esclusione sociale abbia un’origine francese. Secondo l’impostazione teorica di Walker, sulla base del concetto di povertà, la società è vista come un insieme di individui in competizione economica tra di loro, che porta alcuni ad avere redditi più elevati rispetto alle proprie necessità, mentre altri rischiano di non avere l’essenziale. Basando l’analisi sul concetto di esclusione sociale, invece, la società è vista come un insieme di individui che condividono un ordine morale che comporta diritti e doveri, e l’esclusione sociale si sostanzia nell’allontanamento da tale ordine 153 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI morale. Le cause di questo allontanamento possono essere molteplici, ivi compresa la carenza di reddito. In realtà la relazione tra povertà ed esclusione sociale, nonostante i numerosi tentativi teorici e concettuali, non è ancora chiaramente definita e le due nozioni sono spesso combinate insieme nel definire il quadro complessivo di deprivazione di una determinata area. I tentativi di proporre una distinzione (anche se chiaramente non può trattarsi di una distinzione netta) sono stati numerosi, e quasi tutti riflettono, in particolare, le differenze in termini di definizioni adottate e di modalità conoscitive dei due processi: ad esempio, si potrebbe considerare la povertà come uno stato di deprivazione di risorse che colpisce gli individui e l’esclusione sociale come un processo prodotto dall’accumulazione e dall’interazione tra loro di fattori di rischio sociale, che spingono l’individuo verso una condizione di povertà. Quindi, mentre la povertà si caratterizza come uno stato di deprivazione, l’esclusione sociale si caratterizza come un processo di impoverimento. Volendo necessariamente individuare degli elementi analitici e concettuali che permettano di distinguere il concetto di povertà da quello di esclusione sociale (Jehoel–Gijsbers, 2004), possiamo sintetizzarne alcuni nella tabella 1. Una distinzione netta appare in relazione alle modalità di rilevazione, in quanto la povertà è misurata solo in termini di deprivazione monetaria, mentre l’esclusione sociale va al di là della dimensione economica, caratterizzandosi come un processo di svantaggio sociale, comprendente più dimensioni e per tale ragione deve essere misurata con riferimento a più variabili esplicative. Inoltre è chiaro come il concetto di esclusione sociale riguardi non solo gli individui o le famiglie, ma anche e soprattutto il contesto dove essi vivono e tentano di inserirsi (Böhnke, 2001; Sassen, 1999; Castel, 1995; Mingione, 1991). A queste considerazioni sulla suddivisione netta tra povertà ed esclusione si oppongono le teorie di molti studiosi, secondo cui la distinzione ha ormai poco senso, giacché la definizione di povertà tende ad allargarsi: gli sviluppi recenti nelle ricerche sul fenomeno spostano l’attenzione da un approccio statico basato sul reddito ad un approccio dinamico che includa anche altri aspetti relativi allo standard di vita (Walker e Ashworth, 1994; Leibfried et al., 1995). In particolare, secondo alcuni il concetto di deprivazione relativa si va progressivamente avvicinando alla definizione di esclusione sociale (Townsend, 1979; Gordon e Pantanzis, 1997; Halleröd, 1995; Whelan e Whelan, 1995; Andreß, 1999, Böhnke e Delhey, 1999a e 1999b). Anche in considerazione di tali riflessioni, i concetti di povertà ed esclusione sociale mostrano ancora delle differenze sostanziali, sia sul piano concettuale, sia su quello empirico: è indubbio che, mentre per la misurazione 154 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI della povertà si ricorre ancora alla misurazione del reddito o dei consumi, per la misurazione dell’esclusione sociale occorre fare uno sforzo ulteriore per l’individuazione delle diverse dimensioni di analisi. L’esclusione sociale, infatti, può essere definita in riferimento a diversi aspetti, sia economici (ad esempio, la capacità di disporre di beni e servizi ritenuti essenziali), che sociali (la partecipazione sociale, il coinvolgimento politico e democratico, l’integrazione sociale, ecc.). Quindi la povertà monetaria è certamente un aspetto centrale dell’esclusione sociale, ma non l’unico e decisivo. Tab. 1 – Elementi distintivi tra povertà ed esclusione sociale POVERTÀ Approccio analitico Statico: la povertà fa riferimento ad una data situazione reddituale, quindi descrive una situazione statica ESCLUSIONE SOCIALE Dinamico: l’esclusione sociale descrive i processi di impoverimento e di non inclusione, quindi si tratta di un’analisi dinamica Dimensioni considerate Unidimensionale: la povertà è studiata con riferimento ad una sola variabile (reddito o consumi) Multidimensionale: l’esclusione sociale è studiata con riferimento a numerose variabili sociali Unità di analisi Famiglia o individuo: la povertà descrive la situazione in riferimento al singolo individuo o al nucleo familiare, quindi può essere interpretata come una carenza di risorse dell’individuo o della famiglia Società: l’esclusione sociale fornisce informazioni su un’intera società, quindi può essere interpretata come una carenza di risorse dell’intera comunità (ad esempio la carenza di dotazioni infrastrutturali) Elementi di analisi Distribuzione delle risorse: lo studio della povertà ha come elemento centrale di analisi la distribuzione delle risorse e dei beni Aspetti relazionali: l’esclusione sociale si riferisce ad aspetti relazionali, quali, ad esempio, la partecipazione sociale, la coesione sociale, l’integrazione, la condivisione di norme e valori, ecc. 155 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI Differenti approcci concettuali, differenti risultati analitici La difficoltà di mettere a punto politiche di intervento per la riduzione della povertà va in parte ricondotta al problema di individuare un metodo univoco di definizione e di misura del fenomeno. Ogni metodo proposto sarà, infatti, caratterizzato da elementi arbitrari e soggettivi, che finiranno per influenzare i risultati ottenuti nelle diverse misurazioni. Ogni metodo, inoltre, può tradursi nella possibilità di acquisire maggiori informazioni da un lato, ma anche di perderne dall’altro. Ruggeri Laderchi et al. (2003) fanno notare che, mentre un approccio monetario suggerisce di focalizzare gli interventi sull’aumento dei redditi (attraverso strumenti quali la crescita economica, la redistribuzione, ecc.), l’approccio delle capabilities tende ad enfatizzare maggiormente la fornitura di beni pubblici. Inoltre bisogna anche considerare che, come già rilevato, taluni approcci possono essere validi se applicati in particolari contesti (ad esempio nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo), ma rivelarsi inefficaci in altri (nei paesi sviluppati), e viceversa. Per quanto riguarda la distinzione sin qui realizzata, se si decide di misurare il fenomeno come povertà, sarà necessario prendere in esame una variabile economica esplicativa (solitamente la spesa per consumi), mentre se si decide di misurarla come esclusione sociale sarà necessario osservare più variabili. In un recente lavoro (Stranges, 2006a) abbiamo messo in evidenza come la graduatoria delle regioni italiane per povertà monetaria (dati riferiti al 2002) non corrisponda alla graduatoria per esclusione sociale, definita in questo caso con riferimento ad alcune variabili fornite dalla statistica pubblica (ISTAT, 2003): disagio abitativo (difficoltà connesse alle condizioni fisiche dell’abitazione o all’area in cui si vive), difficoltà di accesso ai servizi di base (sanitari e per l’infanzia) e difficoltà di acquisto di beni e servizi essenziali (cibo necessario, cure mediche necessarie, pagare bollette). Se osservando il ranking delle regioni per povertà monetaria la posizione peggiore era occupata dalla Calabria (poi scesa in quarta posizione dopo Sicilia, Campania e Basilicata nel 2005), la prima regione per difficoltà di utilizzo dei servizi sanitari era, invece, la Sardegna (ottava nella graduatoria per povertà monetaria), mentre la prima regione per difficoltà di utilizzo dei servizi per l’infanzia era Piemonte (tredicesima in quell’anno per povertà economica). Questi dati ci consentono di riflettere sul fatto che la povertà economica non esaurisce tutte le forme di disagio e deprivazione che gli individui e le famiglie possono sperimentare (Stranges, 2006a, p. 67) e, soprattutto, come tali forme di disagio 156 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI possano mostrarsi anche in contesti ricchi, dove non si manifesta povertà monetaria. Tutte queste forme di deprivazione non strettamente monetaria devono essere inserite sotto l’etichetta più ampia di esclusione sociale. Anche nel presentare tali dati occorre considerare che qualunque assunzione sulle dimensioni da considerare presuppone la necessità di tralasciarne delle altre che, comunque, potrebbero essere ugualmente importanti nel definire la situazione di una data area in termini di esclusione sociale. Oltre a ciò occorre prendere in considerazione che dover analizzare più indicatori congiuntamente appare compito più arduo che non osservare un solo valore (come quando si guarda solo all’incidenza della povertà monetaria). Per superare tale problema si sta facendo strada il ricorso ad indicatori di tipo sintetico che consentano di mettere insieme più dimensioni, ottenendo, però, un unico valore. Vi sono state alcune applicazioni di questo tipo, tra cui: Castellani (1999), Cagiano de Azevedo et al. (2001), Capacci e Castagnaro, (2003), Stranges (2006b e 2007a). In questi ultimi lavori (Stranges 2006b e 2007a), in particolare, l’esclusione sociale viene misurata con riferimento a tre dimensioni (selezionate sulla base di alcune analisi statistiche preliminari e sulla revisione della bibliografia sull’argomento) ritenute fondamentali nel definire il grado complessivo di esclusione/inclusione sociale delle regioni italiane: la dimensione economica, quella sociale e quella umana. La dimensione economica è stata misurata come disoccupazione, essendo l’esclusione dal mercato del lavoro la prima fonte di mancanza di reddito e, quindi, di povertà economica; la dimensione sociale è stata misurata utilizzando due variabili di esclusione fornite dall’Istat, il disagio abitativo e le difficoltà di acquisto di beni necessari (che sono quelle che mostrano l’incidenza maggiore nelle regioni italiane); il disagio umano è stato, infine, misurato come mancanza di conoscenze (percentuale di persone che hanno come titolo massimo la licenza media inferiore). I risultati ottenuti nell’applicazione dell’indice sintetico di esclusione sociale alle regioni italiane confermano che la povertà monetaria non è l’unico elemento da considerare nel definire il grado di esclusione nelle diverse aree del paese e che vi sono regioni ricche dove si manifestano con forza forme di marginalizzazione e di vulnerabilità sociale non necessariamente connesse alla sfera economica (Stranges, 2006b e 2007a). Infine, non si può non rilevare l’importanza che le misure oggettive di povertà siano affiancate da quelle soggettive. Poiché la povertà soggettiva misura la percezione che gli individui della propria condizione economica, l’integrazione di questa prospettiva con quella oggettiva può aiutare a mettere in luce le sfaccettature del disagio, oltre a favorire la definizione di strategie 157 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI di riduzione della povertà che tengano conto anche del punto di vista dei soggetti direttamente coinvolti (Stranges, 2006c E 2007B). ALCUNE RICERCHE RECENTI (CALLAN ET AL., 1996; LAYTE ET AL., 2001; MUFFELS et al., 2003) si sono concentrate sul tentativo di integrare le due misure attraverso la costruzione di indici additivi di deprivazione. Un recente rapporto Cerfe a cura di Quaranta et al. (2005), ripercorrendo diversi studi e ricerche sulla povertà, individua cinque aree tematiche che emergono nel dibattito accademico e politico–istituzionale sul tema della povertà, la seconda delle quali è la soggettivizzazione dei poveri, intesa come riconoscimento a questi ultimi del ruolo di attori propositivi nelle politiche di lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Ciò si concretizza nella necessità di maggiore peso alla percezione soggettiva che i poveri stessi hanno della propria condizione. Se è vero, dunque, che la misurazione della povertà e la successiva messa a punto di strategie di eliminazione devono basarsi su un approccio esogeno (misurazione oggettiva), in grado di garantire un sufficiente livello di astrazione analitica dal problema, è pur vero che l’integrazione della prospettiva endogena di analisi (misurazione soggettiva) può aprire nuovi orizzonti nello studio del fenomeno, facilitando la caratterizzazione della situazione di specifici sottogruppi di popolazione (Stranges, 2007b). Riflessioni conclusive Dalla revisione della letteratura e degli studi realizzati a livello internazionale appare chiaro come il fenomeno della povertà sia estremamente complesso, di difficile concettualizzazione ed interpretazione, e quindi, di conseguenza, di difficile misurazione. Il modo in cui viene definita la povertà (scelte concettuali), e il modo in cui si decida di studiarla (scelte relative all’approccio) e misurarla (scelte metodologiche) influenzano i risultati che si ottengono. Le definizioni adottate in fase preliminare influiscono sulle misure che vengono poi utilizzate, determinando differenze nei risultati raggiunti. Nella misura della povertà e dell’esclusione sociale esiste un’enorme vastità di approcci, di definizioni, di studi effettuati. Il punto di partenza per mettere ordine in tale mole di informazioni è fornire una definizione più chiara di cosa sia l’esclusione sociale, per poter poi decidere quali dimensioni considerare nella sua misurazione. Emerge la necessità di ripensare la povertà contemporanea, prendendone in considerazione il carattere multidimensionale e le diverse forme di manifestazione che questa può avere. Il concetto di esclusione sociale sembra pre158 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI starsi meglio alla definizione della povertà contemporanea: l’esclusione appare come un fenomeno complesso nella cui manifestazione si combinano insieme marginalità economica, discriminazione culturale ed esclusione dalla vita civile e democratica. Essa tende ovviamente a manifestarsi all’interno dei gruppi sociali svantaggiati. È necessario, a tal proposito, prendere in considerazione alcuni fattori che possono favorire l’esclusione sociale: ad esempio, le disabilità fisiche e psichiche, il sesso (le donne sono maggiormente svantaggiate), l’età (come abbiamo visto dai dati sulla povertà, le persone anziane sono maggiormente esposte all’indigenza), la composizione del nucleo familiare (la presenza di bambini e anziani in particolare) oppure l’appartenenza ad un’etnia o ad una cultura diversa da quella dominante (ad esempio gli immigrati, le minoranze etniche, linguistiche, religiose). A ben guardare, si tratta di situazioni di appartenenza a gruppi o comunità che non fanno parte della dinamica economica, o rivestono un ruolo marginale. L’esclusione sociale non è dunque una condizione statica di singoli e gruppi particolari in una società (come può invece dirsi per la povertà), bensì un percorso dinamico di progressiva deprivazione: nella spirale che si genera s’intrecciano e si accumulano numerosi fattori, che s’influenzano e si rafforzano vicendevolmente. Tali processi finiscono per incidere su tutta la comunità interessata, configurando problemi di vulnerabilità sociale, disuguaglianze e discriminazioni, ingiustizia sociale all’interno della popolazione. Se questo è il concetto di povertà a cui facciamo riferimento, da questa riflessione ne discende un’altra: occorre ripensare le strategie per la riduzione della povertà non solo in termini redistributivi, ma anche in termini strutturali ed infrastrutturali, al fine di tenere conto anche degli indicatori di disagio sociale che si manifestano con forza anche in contesti ricchi. Quando si parla di esclusione sociale bisogna anche tenere conto di questo carattere dinamico e multidimensionale (cfr. Bourdieu, 1991; Paugam, 1997; Saraceno, 1993; Wilson, 1987 e 1993) nella definizione dei programmi di inclusione sociale e degli interventi di lotta alla marginalità, considerando che si tratta di un problema di inadeguatezza più che di scarsezza: il metro di misura del fenomeno, pertanto, non può essere il reddito di un individuo o la disponibilità di risorse ed infrastrutture, ma la sua capacità di far funzionare ciò di cui dispone secondo le proprie necessità. Questa riflessione ci rimanda alla teoria del capability approach del Premio Nobel Amartya Sen: “[…] il grado di adeguatezza dei mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle effettive capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare […]”, e “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di povertà deve essere basato sull'inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili 159 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle caratteristiche individuali) […]” (Sen, 1992, pp. 156 – 157). Se l’esclusione sociale è un fenomeno così complesso, necessariamente complessi dovranno essere gli sforzi per misurarla e per combatterla. L’obiettivo dei governi non deve essere più solo quello di innalzare il reddito delle famiglie più povere (condizione, in ogni caso, fondamentale per sconfiggere la povertà), ma anche quello di creare un ambiente socialmente vivibile da tutti, in cui le persone possano integrarsi e svilupparsi in quanto esseri umani. Il primo passo deve essere quello di pervenire a definizioni più chiare: l’esclusione sociale non è solo povertà, ma include tutti quei fenomeni che, a livello individuale o collettivo, comportano una mancata realizzazione dell’individuo in quanto membro della società in cui vive. La povertà monetaria è certamente un aspetto centrale dell’esclusione sociale, ma non l’unico e decisivo. 160 Daedalus 2007 RASSEGNE/DISCUSSIONI Riferimenti bibliografici ALCOCK P. (2003), Understanding Poverty, MacMillan, Londra, ANDREß, H.J. (1999), Leben in Armut. Analysen der Verhaltensweisen armer Haushalte mit Umfragedaten, Opladen: Westdeutscher Verlag. 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