Manuela Stranges

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Manuela Stranges
1/2007
on-line
UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA
DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E
DI SCIENZA POLITICA
DAEDALUS
Quaderni di Storia e Scienze Sociali
Direzione scientifica
Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni
Redattori e collaboratori
Luca Addante, Olimpia Affuso, Rosa Maria Cappelli, Renata Ciaccio,
Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Francesco Di Vasto, Loredana
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La rivista è stata fondata nel 1988
dal Laboratorio di Storia Daedalus
Presidente: Vittorio Cappelli
Numero 1/2007 on-line
Numero 20/2007 seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea
Pubblicato on line nel DICEMBRE 2007
ISSN 1970-2175
Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
MANUELA STRANGES
SUI CONCETTI DI POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE:
UNA RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
“Non c’è una corretta, scientifica,
condivisa definizione perché la povertà è inevitabilmente un concetto
politico, e, di conseguenza, un concetto intrinsecamente dibattuto”
Alcock, 2003
Introduzione
Nonostante abbia da sempre fatto parte della vita sociale ed economica
dei diversi paesi, la povertà è un tema sempre attuale, ancor di più oggi in ragione della persistenza del fenomeno anche in nazioni ricche. Esistono diverse definizioni di povertà, quasi tutti riconducibili a specifiche dicotomie: uni
o multidimensionale, relativa o assoluta, soggettiva o oggettiva, transitoria o
cronica, latente o manifesta, ecc. Tali definizioni, se utili allo scopo di cogliere alcuni caratteri del fenomeno e mettere a punto misure e grandezze, hanno
però il limite di non riuscire a cogliere la dinamicità e la fluidità del concetto
di povertà. La povertà non è, infatti, un fenomeno statico, ma assume continuamente nuove forme, caratteristiche, gradi di intensità, rifuggendo alle categorizzazioni.
Emergono, oggi, forme di povertà differenti da quelle manifestatesi in
passato, non più legate solo all’aspetto economico–monetario, ma connesse a
numerose altre dimensioni che definiscono il grado di sviluppo umano
dell’individuo, determinandone l’inclusione o esclusione dalla società in cui
vive. Alcuni studiosi parlano di nuove povertà, distinguendole da quelle vecchie, connotate esclusivamente dalla carenza di reddito e mezzi materiali.
L’aggettivo nuove sembra, però, sottendere ad un superamento delle vecchie
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forme di povertà, che invece ancora esistono e, anzi, in taluni contesti si manifestano in forma maggiormente acuta. Per definire le forme di povertà che
si manifestano oggi viene ampiamente utilizzato il concetto di esclusione sociale che, non essendo stato ancora chiaramente definito (come si vedrà in
seguito dall’analisi della pluralità di definizioni che ne sono state fornite),
finisce per comprendere diverse forme di difficoltà che l’individuo può sperimentare nel corso della sua esistenza – disagio, marginalità, povertà, precarietà, instabilità, vulnerabilità, … – in un mix più o meno intenso e disperato
delle diverse condizioni.
L’obiettivo del presente contributo è quello di tracciare una breve (e certamente non esaustiva) storia dei concetti di povertà ed esclusione sociale, delineandone un quadro definitorio attraverso una revisione della bibliografia internazionale in materia e l’analisi degli studi compiuti nei diversi paesi. La premessa
fondamentale da cui parte il lavoro è che solo la corretta definizione del fenomeno povertà ci consente di misurarla con gli strumenti metodologici più adeguati e,
quindi, di mettere a punto strategie volte alla sua eliminazione.
L’evoluzione del concetto di povertà
Uno dei problemi principali che bisogna affrontare nell’ambito dello studio della povertà è sicuramente quello della sua definizione, in quanto la scelta di quali dimensioni analizzare riflette una serie di fondamentali assunzioni
in relazione alla sua natura e alle sue cause, e finisce, a sua volta, per influenzare e definire le metodologie di misurazione da adottare. Il termine povertà
deriva dal latino pauperitas, che a sua volta deriva dal termine paucus (poco)
e si connota, quindi, come la scarsità di risorse atte a soddisfare i bisogni
dell’individuo. La sua definizione concettuale appare spesso compito molto
più arduo che non la sua individuazione: a tal proposito nel 1971 Martin Brofenbenner si espresse affermando che la povertà può essere paragonata ad una
brutta persona, che è “più facile da riconoscere che da descrivere” (p. 38).
Appare, dunque, chiaro che la prima domanda cui si deve rispondere è proprio “che cos’è la povertà?”. Una volta fornita tale definizione si potrà, infatti, procedere all’individuazione di misure adeguate per la sua valutazione
quantitativa e alla messa a punto di strumenti di analisi mirati.
La prime definizioni di povertà erano legate soprattutto alla mancanza di
reddito e di beni materiali: nel 1901 Seebhom Rowntree, il cui lavoro è considerato il primo studio di carattere scientifico sulla povertà, definì povere
quelle famiglie la cui indisponibilità di reddito era tale da non garantire la
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“pura efficienza fisica”. In verità vi erano già stati degli studi sulla povertà,
come quello di Charles Booth del 1887, nel quale l’autore tentò una stima
della povertà nella città di Londra, correggendo al ribasso le idee del tempo
secondo cui un terzo della popolazione londinese viveva in situazioni di povertà (pervenendo, invece, ad un valore del 5%) e facendo anche ad una classificazione della popolazione in otto classi sociali, quattro delle quali si riferivano a persone in stato di povertà (cfr. Parisi, 2004, pp. 7-8). La definizione
di povertà elaborata da Rowntree era di tipo assoluto: egli infatti calcolò una
linea di povertà, espressa come ammontare monetario minimo richiesto per
avere un’alimentazione adeguata al mantenimento dell’efficienza fisica e affrontare le spese basilari per l’abbigliamento e l’abitazione. Rowntree effettuò anche una distinzione tra povertà primaria e secondaria, riferendosi col
primo termine a quelle famiglie che vivevano sotto la soglia di povertà da lui
stimata, e col secondo a quelle famiglie o individui che, pur essendo al di sopra di questa soglia, continuavano comunque a vivere in situazioni di povertà.
La definizione elaborata da Rowntree, legata solo alla mancanza dei mezzi necessari per la sopravvivenza, appare poco attuale oggi, come sottolinea
De Bartolo (2001, p.103): “voler applicare questa definizione alla società di
oggi non permetterebbe di cogliere l’attualità del fenomeno: infatti oggi la
povertà non è soltanto la mancanza di cibo ma è legata anche ad altri fattori.” Rowntree, che seguì i passi di Booth, adottando però una differente metodologia (Ruggeri Laderchi et al., 2003), quella dell’intervista, pervenne ad
una quantificazione dei poveri nell’area di York nella misura del 30% della
popolazione.
Negli studi che si sono susseguiti nel XX secolo ha preso piede la visione
della povertà come fenomeno relativo, la cui manifestazione (e, di conseguenza, la cui analisi) è fortemente connessa alla situazione sociale ed economica del paese di riferimento: tra i primi studi in questa direzione possiamo citare quelli economici di Townsend (1974; 1979) e Towsend e Abel–
Smith (1965), e quelli più sociologici di Stouffer et al. (1949) e Runciman
(1966). In particolare Townsend, nei suoi studi, parla di povertà relativa, legandone il concetto all’organizzazione sociale complessiva in termini di redistribuzione delle risorse e di condizioni di vita (DE BARTOLO, 2001, p. 103).
Le definizioni successive di povertà avranno tutte la medesima considerazione di fondo in merito alla sua relatività. Nel 1984 il Consiglio Europeo dei
Ministri definì i poveri come “[…] le persone le cui risorse (materiali, culturali, sociali) sono così limitate da escluderle dal minimo accettabile stile di
vita dello Stato Membro nel quale essi vivono”.
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Uno dei principali sostenitori dell’abbandono dell’equivalenza completa
tra povertà e basso reddito (pur riconoscendo che comunque il reddito ha un
ruolo nella determinazione dei livelli di povertà degli individui e delle famiglie) fu l’economista indiano Amartya K. Sen (1984), il quale sottolinea come “[…] essere poveri in una società ricca è già di per sé un handicap in
termini di capacità […]. La deprivazione relativa nello spazio dei redditi può
implicare una deprivazione assoluta nello spazio delle capacità. In un paese
che è in generale ricco, può essere necessario un reddito maggiore per comprare merci sufficienti ad acquisire le stesse funzioni sociali, come «apparire
in pubblico senza vergogna». Lo stesso può dirsi per la capacità di «prendere
parte alla vita della comunità»”. L’attenzione ad una visione più ampia del
benessere, che non fosse legata esclusivamente al reddito era già presente nel
pensiero di alcuni padri delle scienze economiche, da Adam Smith a Karl
Marx (ATKINSON, 1975), passando per Thomas Malthus e David Ricardo.
Smith, ad esempio, già nel 1776 parlando di povertà si espresse con queste
parole: “[…] una camicia di tela, non è rigorosamente parlando, necessaria
all’esistenza, ma attualmente, nella maggior parte d’Europa, un giornaliero
rispettabile si vergognerebbe di apparire in pubblico senza una camicia di
tela; la sua mancanza denoterebbe quel disgraziato grado di povertà cui si
presume che nessuno possa arrivare senza una condotta estremamente cattiva […]”. Tralasciando il giudizio di merito che Smith esprime nella parte
conclusiva di questo suo pensiero, possiamo comunque ravvisare una definizione (prototipale) di povertà relativa, che ne lega la manifestazione al contesto di riferimento.
Negli anni successivi, poi, il dibattito economico e l’attenzione degli studiosi si spostarono sui tassi di crescita e sui problemi di contabilità nazionale,
oscurando la prospettiva ampia dello sviluppo che si era già manifestata.
L’idea di fondo che guidava gli studiosi del tempo era che la crescita del PIL
complessivo e del PIL procapite avrebbero avuto effetti positivi su tutta la
popolazione, in termini di aumento dell’occupazione, di maggiori opportunità
economiche e, di conseguenza, di innalzamento degli standard di vita e di riduzione della povertà e delle disuguaglianze: tale meccanismo è conosciuto il
letteratura con il termine di Trickle Down Mechanism e suppone che i benefici della crescita finiscono per sgocciolare anche su coloro che stanno al di
sotto e che non hanno partecipato in prima persona la processo di crescita
stesso. L’osservazione dei dati statistici rilevati mostrò, però, che ciò non si
era realizzato nel concreto: negli anni 50 e 60 ci si rese, infatti, conto che alla
crescita del PIL che si stava realizzando nei paesi in via di sviluppo non cor148
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rispondeva una parallela diminuzione della povertà e un’affermazione dello
sviluppo umano.
Iniziò, allora, a profilarsi con maggiore forza l’idea che il reddito non fosse un indicatore soddisfacente del grado di sviluppo di una popolazione. Fino
ad allora solo sporadiche (e, in verità, inascoltate) voci si levarono in contrasto alla visione che la crescita economica si sarebbe tradotta in maggiore sviluppo e riduzione della povertà. Ad esempio, già a partire dagli anni 50,
l’economista liberale Viner (1953), in solitudine pressoché totale (se si esclude il sostegno di Bauer, 1956, 1976), denunciò quelli che riteneva degli atti
immorali: parlando di insufficienza della crescita, l’economista si soffermò
sugli aiuti indiscriminati, sottolineando come questi non fossero esplicitamente rivolti all’abolizione della povertà (VINER, 1968, pp. 781-801).
L’economista pakistano Mahbub ul Haq, ispiratore e ideatore dei Rapporti sullo sviluppo umano, scrisse nel 1971: “Ci avevano insegnato ad occuparci solo del prodotto interno lordo perché poi quest’ultimo si sarebbe preso cura della povertà. Ribaltiamo questa opinione, occupiamoci della povertà perché ciò, a sua volta, si prenderà cura del prodotto interno lordo. In altri termini, preoccupiamoci del contenuto del prodotto lordo, ancor più del
suo tasso di incremento.” (UNDP, 1990). Iniziava a delinearsi con forza il divorzio tra gli economisti utilitaristi, le cui analisi dei livelli di sviluppo dei
diversi paesi si basavano solo sul reddito pro capite, e i tanti studiosi che palesavano la necessità di un’analisi multifattoriale.
Nel 1973 Johnson parlò di povertà come di situazione di inaccettabili privazioni a livello sociale, rimandando, dunque, ad una concezione relativa in
cui la situazione dei poveri e il loro tenore di vita non è misurato in maniera
assoluta, ma con riferimento alla situazione ed agli standard della società di
appartenenza. Si tratta, dunque, di capire quali sia l’ammontare di reddito necessario per essere socialmente integrati: tale livello può essere indipendente
dall’ammontare necessario per soddisfare certi bisogni, ma piuttosto è più
dipendente dal livello d’ineguaglianza della società (Livraghi, 1999, p. 4). In
merito a ciò Sen (1992) sottolinea come “[…] il grado di adeguatezza dei
mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle effettive
capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare
[…]” (p. 156), e come “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di
povertà deve essere basato sull'inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle
caratteristiche individuali) […]” (p. 157). Quindi il metro di misura della
povertà non è il reddito di un individuo, ma lo sviluppo delle sue capacità in
relazione al contesto in cui vive.
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Nel Rapporto 1997 della Commissione di Indagine sulla Povertà e
sull’Emarginazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri si legge: “Emerge una realtà del disagio individuale e di gruppi a molte, e diverse, dimensioni: le disuguaglianze dei redditi e dei consumi; l’articolazione delle
situazioni di emarginazione nel territorio, nelle grandi città e nelle campagne; l’aggravarsi della mancata soddisfazione di taluni bisogni fondamentali
come la casa, la salute, l’occupazione, l’istruzione, le disparità intergenerazionali; le nuove povertà in rapporto alla cultura e all’accesso alle nuove
tecnologie. Questi aspetti, vecchi e nuovi, richiedono un adeguamento dei
quadri analitici e concettuali, ed un arricchimento della gamma di indicatori
disponibili per fare il punto sull’evoluzione della povertà e dell’emarginazione” (1998). Questa definizione ci rimanda al concetto di povertà multidimensionale (che sarà analizzato in seguito), in cui la povertà non più legata solo ad una condizione di privazione economica, ma ad una serie di privazioni di carattere sociale, culturale, ambientale, ecc.
Il Rapporto Eurispes 2005 sulla situazione dell’Italia così si esprime in relazione alla povertà nel nostro paese, attribuendole la connotazione di fenomeno “fluttuante”, e mettendone in evidenza tutti i caratteri di multidimensionalità di cui si accennava: “La povertà italiana ha sempre avuto un carattere complesso e multidimensionale. Infatti, alcune situazioni di tipo endemico fanno riferimento a catene causali come la numerosità del nucleo familiare, una scarsa qualificazione culturale oppure la perdita del lavoro da parte
del capofamiglia, il risiedere in aree del Paese sprovviste di determinati servizi di assistenza e di tutela dell’infanzia, la presenza di anziani con problemi
di autosufficienza, l’erosione del potere d’acquisto dei redditi.” Quindi il
Rapporto dell’Eurispes rileva come esistano nuove forme di povertà che si
slegano dal concetto tradizionale di privazione di reddito, assumendo connotazioni e caratteri del tutto peculiari che coinvolgono gruppi diversi di popolazione: “La marginalizzazione di strati sempre più ampi della popolazione,
la riproduzione di modalità nuove di esclusione economica, la manifestazione di forme di “povertà fluttuante” non si traducono soltanto in situazioni di
carenza materiale ed economica.” (pp. 11-12)
Nascita e sviluppo del concetto di esclusione sociale
Il concetto di esclusione sociale è stato introdotto nella letteratura scientifica a partire dagli anni ’70, in considerazione dell’impossibilità di misurare i
nuovi volti della povertà occidentale con le grandezze tradizionalmente ap150
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plicate. L’esclusione sociale si configura oggi come un fenomeno fortemente
radicato nella società attuale, “[…] tale da investire e talvolta compromettere
numerosi aspetti comportamentali nel rapporto tra il cittadino e la società
stessa in cui vive […]” (Capacci e Castagnaro, 2003, p. 1). Il primo uso del
termine “esclusione sociale” per descrivere i processi di marginalizzazione e
deprivazione che emergono nei paesi sviluppati, viene fatto risalire al 1974 e
attribuito a Lenoir, segretario di stato francese per l’Azione Sociale (Ruggeri
Laderchi et al, 2003, p. 20). Tale concetto venne ben presto trasferito dal dibattito strettamente politico a quello accademico e scientifico, dando il via ad
una serie di riflessioni sulla natura dell’esclusione sociale, ma anche sulle sue
possibilità di misurazione.
A livello europeo esiste oggi una notevole attenzione su questi temi: nel
1995 l’Unione Europea definì l’esclusione sociale come un processo attraverso cui gli individui o i gruppi sono completamente o parzialmente esclusi dalla piena partecipazione nella società in cui vivono (European Foundation,
1995), mentre nel 2002, Dragana Avramov, in una pubblicazione del Consiglio Europeo, definì l’esclusione sociale come la risultante dell’accumulazione di numerosi handicap sociali, che porta, quindi, ad una condizione di
deprivazione. Egli aggiunge, inoltre, come gli individui sperimentino
l’esclusione sociale sia da un punto di vista oggettivo (deprivazione), sia da
un punto di vista soggettivo (insoddisfazione), e come questa si manifesti in
molti dei più importanti “domini” dell’attività umana, dall’istruzione al lavoro, dalla partecipazione alla comunicazione, dal consumo di beni e servizi al
tempo libero (Avramov, 2002, p. 87).
Gli aspetti dell’esclusione connessi alla vita sociale, economica e culturale di ogni individuo sono estremamente numerosi, e questo determina problemi di identificazione, essendo il fenomeno dell’esclusione il peggio definito e più difficile da interpretare dei concetti di deprivazione (Ruggeri Laderchi et al. 2003, p.22), e difficoltà nell’effettuare una misurazione adeguata
con una metodologia ad hoc (Capacci e Castagnaro, 2003, p. 1). Gli approcci
di misura devono necessariamente essere multidimensionali, perché multidimensionale è il fenomeno. Nei primi anni 90 Bouget e Nogues (1993) hanno
individuato ben 22 termini utilizzati per descrivere il fenomeno
dell’esclusione all’interno di diverse ricerche e studi, a riprova del fatto che
non esiste un accordo concettuale o di definizione su questo aspetto. Molti
autori (Atkinson, 1998; Room, 1999; Micklewright, 2002) concordano sulle
caratteristiche principali dell’esclusione sociale, ossia la relatività, la dinamicità e la multidimensionalità, mentre per quanto riguarda le specifiche dimen151
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sioni da prendere in considerazione nella definizione di un indicatore di esclusione sociale c’è ancora un certo disaccordo tra gli studiosi.
Una necessaria considerazione in relazione a questo approccio allo studio
della povertà è che esso risulta più adatto a studiare il fenomeno nei paesi sviluppati, che non in quelli in via di sviluppo. Per questi ultimi possono essere
validamente impiegati gli indicatori di sviluppo umano e di privazione umana
(come quello presentati annualmente dalle Nazioni Unite). Il concetto di esclusione sociale, del resto, si presta bene a descrivere la situazione di paesi
che hanno comunque raggiunto un certo grado di sviluppo socio–economico,
mentre appare inadeguato e poco significativo per l’applicazione in contesti
che sperimentano ancora povertà estreme.
Si pensi, ad esempio, al fatto che una delle dimensioni dell’esclusione sociale è la disoccupazione, che non ha alcun senso misurare in contesti di economie arretrate, dove permangono strutture e forme di lavoro premoderne. La
misurazione in termini di privazione di mezzi materiali, istruzione e longevità
(come accade per l’IPU delle Nazioni Unite) sembra essere, nei contesti non
sviluppati, maggiormente significativa. Ciononostante ci sono stati dei tentativi di applicazione delle misure di esclusione sociale ai paesi non sviluppati:
Nayak nel 1994 in India; Rodgers et al. nel 1995 per la Tanzania, il Camerun
e la Tailandia; Bedoui e Gouia nel 1996 in Tunisia; Figueroa, Altamirano e
Sulmont nel 1996 in Peru; Appasamy et al. nel 1996 in India; Cartaya et al.
nel 1997 in Venezuela; Mearns e Sinha nel 1999 in India. Alcuni di questi
lavori empirici, senza volerne mettere in dubbio la validità, sembrano però
sganciati dal contesto di riferimento (Ruggeri Laderchi et al., 2003, p. 22): le
scelte in relazione alle dimensioni analizzate non appaiono sufficientemente
giustificate, né vi sono riferimenti espliciti alla situazione normale della società di riferimento (il commento degli autori si riferisce ai lavori di Rodgers
et al., 1995; Bedoui e Gouia, 1996; Appasamy, 1996; Cartaya, 1997). Uno
studio realizzato da Ruhi Saith nel 2001 ripercorre brevemente le ricerche
sull’esclusione sociale effettuate nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo, realizzando anche una distinzione tra le varie forme di esclusione sociale (dal Welfare State, dalla sicurezza sociale, in relazione alla disoccupazione, ecc.).
Molto numerosi sono stati gli studi compiuti nei paesi industrializzati, la
maggior parte dei quali si sono concentrati sul ruolo svolto dalla disoccupazione come punto di partenza per la definizione e la misurazione
dell’esclusione sociale (Saith, 2001, p. 4). Tra questi: Whelan e Whelan
(1995); Paugam (1995) sulla Francia e Paugam (1996) su vari paesi
dell’Europa; Burchardt et al. (1999) sulla Gran Bretagna; Jonsson (1999) che
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si è concentrato sull’analisi dell’esclusione sociale per genere; Mastropietro
(2002) che, nell’ambito del progetto “Action Research on Social Exclusion
and Poverty” del Cerfe, ha realizzato delle linee guida sulla povertà e
l’esclusione sociale a Roma, Parigi e Londra.
Povertà ed esclusione sociale: due facce della stessa medaglia?
Il nodo teorico relativo alla distinzione tra povertà ed esclusione sociale
rimane ancora da sciogliere. Il dibattito sull’ambivalenza o meno dei due
concetti è ancora estremamente articolato all’interno dei contesti scientifici
ed accademici. Secondo alcuni “non è chiaro se l’esclusione sociale ‘comprenda’ la povertà o viceversa, oppure se si tratta, invece, di due nozioni collegate ma disgiunte” (Cerfe, 1999, p. 11), mentre secondo altri il concetto di
esclusione sociale va sostituito a quello di povertà (Negri, 1995, pp. 5-22),
cercando di prendere in considerazione non solo i tratti economici del fenomeno della povertà, ma anche dando conto dei diversi meccanismi che sottostanno al processo di impoverimento (Saraceno, 1993, pp. 23-26). Alcuni
studiosi considerano il concetto di esclusione sociale come un’ulteriore specificazione del concetto di povertà, altri invece ritengono che sia un suo “allargamento” a più dimensioni, diverse da quella strettamente economica.
La questione, dunque, ridotta ai minimi termini, consiste nel determinare
se l’esclusione sociale e la povertà siano da considerarsi un unico fenomeno
oppure due fenomeni distinti, e, in quest’ultimo caso, quali siano le reciproche relazioni tra essi (sovrapposizione, inclusione, ecc.) (Cerfe, 1999, p. 49).
Molti studiosi focalizzano l’attenzione sull’opportunità di utilizzare i due
concetti in contesti differenti: il concetto di povertà, come già accennato, andrebbe utilizzato soprattutto nei contesti sottosviluppati, mentre per i contesti
sviluppati andrebbe più propriamente utilizzato quello di esclusione sociale
(Negri, 1995; Capacci e Castagnaro, 2003). Per quanto riguarda la nascita dei
due concetti Walker (1995, pp. 102-128) sostiene che la povertà sia di origine
anglosassone, mentre il concetto di esclusione sociale abbia un’origine francese. Secondo l’impostazione teorica di Walker, sulla base del concetto di
povertà, la società è vista come un insieme di individui in competizione economica tra di loro, che porta alcuni ad avere redditi più elevati rispetto alle
proprie necessità, mentre altri rischiano di non avere l’essenziale. Basando
l’analisi sul concetto di esclusione sociale, invece, la società è vista come un
insieme di individui che condividono un ordine morale che comporta diritti e
doveri, e l’esclusione sociale si sostanzia nell’allontanamento da tale ordine
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morale. Le cause di questo allontanamento possono essere molteplici, ivi
compresa la carenza di reddito.
In realtà la relazione tra povertà ed esclusione sociale, nonostante i numerosi tentativi teorici e concettuali, non è ancora chiaramente definita e le due
nozioni sono spesso combinate insieme nel definire il quadro complessivo di
deprivazione di una determinata area. I tentativi di proporre una distinzione
(anche se chiaramente non può trattarsi di una distinzione netta) sono stati
numerosi, e quasi tutti riflettono, in particolare, le differenze in termini di definizioni adottate e di modalità conoscitive dei due processi: ad esempio, si
potrebbe considerare la povertà come uno stato di deprivazione di risorse che
colpisce gli individui e l’esclusione sociale come un processo prodotto
dall’accumulazione e dall’interazione tra loro di fattori di rischio sociale, che
spingono l’individuo verso una condizione di povertà. Quindi, mentre la povertà si caratterizza come uno stato di deprivazione, l’esclusione sociale si
caratterizza come un processo di impoverimento. Volendo necessariamente
individuare degli elementi analitici e concettuali che permettano di distinguere il concetto di povertà da quello di esclusione sociale (Jehoel–Gijsbers,
2004), possiamo sintetizzarne alcuni nella tabella 1.
Una distinzione netta appare in relazione alle modalità di rilevazione, in
quanto la povertà è misurata solo in termini di deprivazione monetaria, mentre l’esclusione sociale va al di là della dimensione economica, caratterizzandosi come un processo di svantaggio sociale, comprendente più dimensioni e
per tale ragione deve essere misurata con riferimento a più variabili esplicative. Inoltre è chiaro come il concetto di esclusione sociale riguardi non solo
gli individui o le famiglie, ma anche e soprattutto il contesto dove essi vivono e
tentano di inserirsi (Böhnke, 2001; Sassen, 1999; Castel, 1995; Mingione, 1991).
A queste considerazioni sulla suddivisione netta tra povertà ed esclusione
si oppongono le teorie di molti studiosi, secondo cui la distinzione ha ormai
poco senso, giacché la definizione di povertà tende ad allargarsi: gli sviluppi
recenti nelle ricerche sul fenomeno spostano l’attenzione da un approccio statico basato sul reddito ad un approccio dinamico che includa anche altri aspetti relativi allo standard di vita (Walker e Ashworth, 1994; Leibfried et al.,
1995). In particolare, secondo alcuni il concetto di deprivazione relativa si va
progressivamente avvicinando alla definizione di esclusione sociale (Townsend, 1979; Gordon e Pantanzis, 1997; Halleröd, 1995; Whelan e Whelan,
1995; Andreß, 1999, Böhnke e Delhey, 1999a e 1999b).
Anche in considerazione di tali riflessioni, i concetti di povertà ed esclusione sociale mostrano ancora delle differenze sostanziali, sia sul piano concettuale, sia su quello empirico: è indubbio che, mentre per la misurazione
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della povertà si ricorre ancora alla misurazione del reddito o dei consumi, per
la misurazione dell’esclusione sociale occorre fare uno sforzo ulteriore per
l’individuazione delle diverse dimensioni di analisi. L’esclusione sociale, infatti, può essere definita in riferimento a diversi aspetti, sia economici (ad esempio, la capacità di disporre di beni e servizi ritenuti essenziali), che sociali
(la partecipazione sociale, il coinvolgimento politico e democratico, l’integrazione sociale, ecc.). Quindi la povertà monetaria è certamente un aspetto centrale dell’esclusione sociale, ma non l’unico e decisivo.
Tab. 1 – Elementi distintivi tra povertà ed esclusione sociale
POVERTÀ
Approccio
analitico
Statico:
la povertà fa riferimento ad
una data situazione reddituale,
quindi descrive una situazione
statica
ESCLUSIONE SOCIALE
Dinamico:
l’esclusione sociale descrive i
processi di impoverimento e di
non inclusione, quindi si tratta
di un’analisi dinamica
Dimensioni
considerate
Unidimensionale:
la povertà è studiata con riferimento ad una sola variabile
(reddito o consumi)
Multidimensionale:
l’esclusione sociale è studiata
con riferimento a numerose
variabili sociali
Unità di analisi
Famiglia o individuo:
la povertà descrive la situazione in riferimento al singolo
individuo o al nucleo familiare, quindi può essere interpretata come una carenza di risorse dell’individuo o della
famiglia
Società:
l’esclusione sociale fornisce
informazioni su un’intera società, quindi può essere interpretata come una carenza di
risorse dell’intera comunità (ad
esempio la carenza di dotazioni
infrastrutturali)
Elementi di
analisi
Distribuzione delle risorse:
lo studio della povertà ha come elemento centrale di analisi la distribuzione delle risorse
e dei beni
Aspetti relazionali:
l’esclusione sociale si riferisce
ad aspetti relazionali, quali, ad
esempio, la partecipazione sociale, la coesione sociale,
l’integrazione, la condivisione
di norme e valori, ecc.
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
Differenti approcci concettuali, differenti risultati analitici
La difficoltà di mettere a punto politiche di intervento per la riduzione
della povertà va in parte ricondotta al problema di individuare un metodo univoco di definizione e di misura del fenomeno. Ogni metodo proposto sarà,
infatti, caratterizzato da elementi arbitrari e soggettivi, che finiranno per influenzare i risultati ottenuti nelle diverse misurazioni. Ogni metodo, inoltre,
può tradursi nella possibilità di acquisire maggiori informazioni da un lato,
ma anche di perderne dall’altro. Ruggeri Laderchi et al. (2003) fanno notare
che, mentre un approccio monetario suggerisce di focalizzare gli interventi
sull’aumento dei redditi (attraverso strumenti quali la crescita economica, la
redistribuzione, ecc.), l’approccio delle capabilities tende ad enfatizzare
maggiormente la fornitura di beni pubblici.
Inoltre bisogna anche considerare che, come già rilevato, taluni approcci
possono essere validi se applicati in particolari contesti (ad esempio nei paesi
sottosviluppati o in via di sviluppo), ma rivelarsi inefficaci in altri (nei paesi
sviluppati), e viceversa. Per quanto riguarda la distinzione sin qui realizzata,
se si decide di misurare il fenomeno come povertà, sarà necessario prendere
in esame una variabile economica esplicativa (solitamente la spesa per consumi), mentre se si decide di misurarla come esclusione sociale sarà necessario osservare più variabili.
In un recente lavoro (Stranges, 2006a) abbiamo messo in evidenza come
la graduatoria delle regioni italiane per povertà monetaria (dati riferiti al
2002) non corrisponda alla graduatoria per esclusione sociale, definita in
questo caso con riferimento ad alcune variabili fornite dalla statistica pubblica (ISTAT, 2003): disagio abitativo (difficoltà connesse alle condizioni fisiche
dell’abitazione o all’area in cui si vive), difficoltà di accesso ai servizi di base
(sanitari e per l’infanzia) e difficoltà di acquisto di beni e servizi essenziali
(cibo necessario, cure mediche necessarie, pagare bollette). Se osservando il
ranking delle regioni per povertà monetaria la posizione peggiore era occupata dalla Calabria (poi scesa in quarta posizione dopo Sicilia, Campania e Basilicata nel 2005), la prima regione per difficoltà di utilizzo dei servizi sanitari era, invece, la Sardegna (ottava nella graduatoria per povertà monetaria),
mentre la prima regione per difficoltà di utilizzo dei servizi per l’infanzia era
Piemonte (tredicesima in quell’anno per povertà economica). Questi dati ci
consentono di riflettere sul fatto che la povertà economica non esaurisce tutte
le forme di disagio e deprivazione che gli individui e le famiglie possono sperimentare (Stranges, 2006a, p. 67) e, soprattutto, come tali forme di disagio
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
possano mostrarsi anche in contesti ricchi, dove non si manifesta povertà
monetaria. Tutte queste forme di deprivazione non strettamente monetaria
devono essere inserite sotto l’etichetta più ampia di esclusione sociale.
Anche nel presentare tali dati occorre considerare che qualunque assunzione sulle dimensioni da considerare presuppone la necessità di tralasciarne
delle altre che, comunque, potrebbero essere ugualmente importanti nel definire la situazione di una data area in termini di esclusione sociale. Oltre a ciò
occorre prendere in considerazione che dover analizzare più indicatori congiuntamente appare compito più arduo che non osservare un solo valore (come quando si guarda solo all’incidenza della povertà monetaria). Per superare
tale problema si sta facendo strada il ricorso ad indicatori di tipo sintetico che
consentano di mettere insieme più dimensioni, ottenendo, però, un unico valore. Vi sono state alcune applicazioni di questo tipo, tra cui: Castellani
(1999), Cagiano de Azevedo et al. (2001), Capacci e Castagnaro, (2003),
Stranges (2006b e 2007a).
In questi ultimi lavori (Stranges 2006b e 2007a), in particolare, l’esclusione sociale viene misurata con riferimento a tre dimensioni (selezionate sulla base di alcune analisi statistiche preliminari e sulla revisione della bibliografia sull’argomento) ritenute fondamentali nel definire il grado complessivo di esclusione/inclusione sociale delle regioni italiane: la dimensione economica, quella sociale e quella umana. La dimensione economica è stata misurata come disoccupazione, essendo l’esclusione dal mercato del lavoro la
prima fonte di mancanza di reddito e, quindi, di povertà economica; la dimensione sociale è stata misurata utilizzando due variabili di esclusione fornite dall’Istat, il disagio abitativo e le difficoltà di acquisto di beni necessari
(che sono quelle che mostrano l’incidenza maggiore nelle regioni italiane); il
disagio umano è stato, infine, misurato come mancanza di conoscenze (percentuale di persone che hanno come titolo massimo la licenza media inferiore). I risultati ottenuti nell’applicazione dell’indice sintetico di esclusione sociale alle regioni italiane confermano che la povertà monetaria non è l’unico
elemento da considerare nel definire il grado di esclusione nelle diverse aree
del paese e che vi sono regioni ricche dove si manifestano con forza forme di
marginalizzazione e di vulnerabilità sociale non necessariamente connesse
alla sfera economica (Stranges, 2006b e 2007a).
Infine, non si può non rilevare l’importanza che le misure oggettive di
povertà siano affiancate da quelle soggettive. Poiché la povertà soggettiva
misura la percezione che gli individui della propria condizione economica,
l’integrazione di questa prospettiva con quella oggettiva può aiutare a mettere
in luce le sfaccettature del disagio, oltre a favorire la definizione di strategie
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
di riduzione della povertà che tengano conto anche del punto di vista dei soggetti direttamente coinvolti (Stranges, 2006c E 2007B). ALCUNE
RICERCHE RECENTI (CALLAN ET AL., 1996; LAYTE ET AL., 2001;
MUFFELS et al., 2003) si sono concentrate sul tentativo di integrare le due
misure attraverso la costruzione di indici additivi di deprivazione. Un recente
rapporto Cerfe a cura di Quaranta et al. (2005), ripercorrendo diversi studi e
ricerche sulla povertà, individua cinque aree tematiche che emergono nel dibattito accademico e politico–istituzionale sul tema della povertà, la seconda
delle quali è la soggettivizzazione dei poveri, intesa come riconoscimento a
questi ultimi del ruolo di attori propositivi nelle politiche di lotta alla povertà
e all’esclusione sociale. Ciò si concretizza nella necessità di maggiore peso
alla percezione soggettiva che i poveri stessi hanno della propria condizione.
Se è vero, dunque, che la misurazione della povertà e la successiva messa a
punto di strategie di eliminazione devono basarsi su un approccio esogeno
(misurazione oggettiva), in grado di garantire un sufficiente livello di astrazione analitica dal problema, è pur vero che l’integrazione della prospettiva
endogena di analisi (misurazione soggettiva) può aprire nuovi orizzonti nello
studio del fenomeno, facilitando la caratterizzazione della situazione di specifici sottogruppi di popolazione (Stranges, 2007b).
Riflessioni conclusive
Dalla revisione della letteratura e degli studi realizzati a livello internazionale appare chiaro come il fenomeno della povertà sia estremamente complesso, di difficile concettualizzazione ed interpretazione, e quindi, di conseguenza, di difficile misurazione. Il modo in cui viene definita la povertà
(scelte concettuali), e il modo in cui si decida di studiarla (scelte relative
all’approccio) e misurarla (scelte metodologiche) influenzano i risultati che si
ottengono. Le definizioni adottate in fase preliminare influiscono sulle misure
che vengono poi utilizzate, determinando differenze nei risultati raggiunti.
Nella misura della povertà e dell’esclusione sociale esiste un’enorme vastità
di approcci, di definizioni, di studi effettuati. Il punto di partenza per mettere
ordine in tale mole di informazioni è fornire una definizione più chiara di cosa sia l’esclusione sociale, per poter poi decidere quali dimensioni considerare nella sua misurazione.
Emerge la necessità di ripensare la povertà contemporanea, prendendone
in considerazione il carattere multidimensionale e le diverse forme di manifestazione che questa può avere. Il concetto di esclusione sociale sembra pre158
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
starsi meglio alla definizione della povertà contemporanea: l’esclusione appare come un fenomeno complesso nella cui manifestazione si combinano insieme marginalità economica, discriminazione culturale ed esclusione dalla
vita civile e democratica. Essa tende ovviamente a manifestarsi all’interno
dei gruppi sociali svantaggiati. È necessario, a tal proposito, prendere in considerazione alcuni fattori che possono favorire l’esclusione sociale: ad esempio, le disabilità fisiche e psichiche, il sesso (le donne sono maggiormente
svantaggiate), l’età (come abbiamo visto dai dati sulla povertà, le persone anziane sono maggiormente esposte all’indigenza), la composizione del nucleo
familiare (la presenza di bambini e anziani in particolare) oppure l’appartenenza ad un’etnia o ad una cultura diversa da quella dominante (ad esempio
gli immigrati, le minoranze etniche, linguistiche, religiose). A ben guardare,
si tratta di situazioni di appartenenza a gruppi o comunità che non fanno parte
della dinamica economica, o rivestono un ruolo marginale.
L’esclusione sociale non è dunque una condizione statica di singoli e
gruppi particolari in una società (come può invece dirsi per la povertà), bensì
un percorso dinamico di progressiva deprivazione: nella spirale che si genera
s’intrecciano e si accumulano numerosi fattori, che s’influenzano e si rafforzano vicendevolmente. Tali processi finiscono per incidere su tutta la comunità interessata, configurando problemi di vulnerabilità sociale, disuguaglianze e discriminazioni, ingiustizia sociale all’interno della popolazione.
Se questo è il concetto di povertà a cui facciamo riferimento, da questa riflessione ne discende un’altra: occorre ripensare le strategie per la riduzione
della povertà non solo in termini redistributivi, ma anche in termini strutturali
ed infrastrutturali, al fine di tenere conto anche degli indicatori di disagio sociale che si manifestano con forza anche in contesti ricchi. Quando si parla di
esclusione sociale bisogna anche tenere conto di questo carattere dinamico e
multidimensionale (cfr. Bourdieu, 1991; Paugam, 1997; Saraceno, 1993;
Wilson, 1987 e 1993) nella definizione dei programmi di inclusione sociale e
degli interventi di lotta alla marginalità, considerando che si tratta di un problema di inadeguatezza più che di scarsezza: il metro di misura del fenomeno, pertanto, non può essere il reddito di un individuo o la disponibilità di risorse ed infrastrutture, ma la sua capacità di far funzionare ciò di cui dispone
secondo le proprie necessità. Questa riflessione ci rimanda alla teoria del capability approach del Premio Nobel Amartya Sen: “[…] il grado di adeguatezza dei mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle
effettive capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare […]”, e “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di povertà deve essere basato sull'inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle caratteristiche individuali) […]” (Sen, 1992, pp. 156 – 157).
Se l’esclusione sociale è un fenomeno così complesso, necessariamente
complessi dovranno essere gli sforzi per misurarla e per combatterla.
L’obiettivo dei governi non deve essere più solo quello di innalzare il reddito
delle famiglie più povere (condizione, in ogni caso, fondamentale per sconfiggere la povertà), ma anche quello di creare un ambiente socialmente vivibile da tutti, in cui le persone possano integrarsi e svilupparsi in quanto esseri
umani. Il primo passo deve essere quello di pervenire a definizioni più chiare:
l’esclusione sociale non è solo povertà, ma include tutti quei fenomeni che, a
livello individuale o collettivo, comportano una mancata realizzazione
dell’individuo in quanto membro della società in cui vive. La povertà monetaria è certamente un aspetto centrale dell’esclusione sociale, ma non l’unico
e decisivo.
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