Dalla cultura psicoanalitica alla cultura della comunità terapeutica

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Dalla cultura psicoanalitica alla cultura della comunità terapeutica
Dalla cultura psicoanalitica alla cultura della comunità terapeutica
Frammenti di un discorso transgenerazionale
METELLO CORULLI
Terminologia
La storia della Comunità Terapeutica è una vicenda importante e complessa nella quale si
intrecciano le pressioni di momenti storici e di cambiamenti sociali, di movimenti culturali
all’interno della psichiatria e della psicoanalisi, di cambiamenti dei quadri psicopatologici.
Importante perché credo che in un certo senso avvenga un cambio di civiltà ogni volta che nasce
una nuova figura professionale (ad esempio quando gli uomini hanno smesso di costruire da soli le
loro abitazioni e si sono affidati agli architetti), a maggior ragione quando nascono delle nuove
istituzioni sociali, e per esempio tramontano vecchie istituzioni come i manicomi e nascono nuove
istituzioni come le comunità terapeutiche.
Per quanto riguarda i momenti storici, ve ne sono due che appaiono fondamentali ed ai quali
ricollegare i principi del modello terapeutico: il 1796 con la trasformazione culturale successiva alla
Rivoluzione Francese ed il passaggio del potere sociale dalla aristocrazia alla borghesia, ed il 1946,
con i cambiamenti conseguenti alla II guerra mondiale.
Per quanto riguarda i movimenti culturali all’interno della storia della psichiatria, ve ne sono
due che appaiono fondamentali: la nascita del movimento psicoanalitico nell’inizio del ’900, e la
scoperta e diffusione di nuove forme di terapia psicofarmacologica (il fenobarbitale nel 1911 per la
terapia delle epilessia, l’introduzione dei neurolettici dal 1953).
Per quanto riguarda i cambiamenti dei quadri psicopatologici, appare indispensabile
considerare come dall’inizio dello scorso secolo ad oggi, l’interesse degli addetti ai lavori sia
transitato dalla clinica dell’isteria al disturbo borderline, al disturbo narcisistico e negli ultimi venti
anni sempre più frequentemente ai disturbi correlati alla disorganizzazione della legge interna e del
desiderio.
Abbiamo scelto di evidenziare la terminologia che si è andata sviluppando nel corso di due
secoli, ma anziché ordinarla in ordine alfabetico, di evidenziarla in ordine cronologico. Nei termini
che ogni corrente culturale adotta non vi è soltanto un origine, ma sovente anche una polisemia
confusiva e/o creativa ed un destino. Il lettore mi scuserà per l’incompletezza dei termini che ho
scelto di evidenziare, di altri ho addirittura soltanto segnalato l’esistenza, senza neanche riuscire a
svilupparli, ed alcune lacunosità nelle esposizioni. Un lavoro più esauriente, ammesso di riuscire a
redarlo, avrebbe richieste più spazio e più tempo.
1796 Right – Respect – Responsability
La Comunità The Retreat di York, fondata da William Tuke, quacchero commerciante di
spezie, era costituita da un gruppo di persone «normali» che svolgeva le mansioni quotidiane e di
assistenza ai più bisognosi, una trentina di «malati di mente». Le tre R rappresentano i valori sociali
ai quali doveva e si deve ispirare la convivenza tra i due gruppi, pazienti ed operatori della salute
mentale.
William Tuke (1732-1822) è stato un uomo d’affari, filantropo e Quacker. Sebbene fosse
commerciante di tè e caffè, dopo la morte di una paziente a seguito delle condizioni spaventose con
le quali era stata trattata, Hannah Mills ricoverata presso il Lunatic Asylum York nel 1790, la
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comunità dei quaccheri gli aveva richiesto di studiare istituzioni alternative più umane. E la
comunità dei quaccheri raccolse i fondi per aprire nel 1796 il Ritiro di York per i malati di mente.
Almeno quattro membri della famiglia hanno proseguito il lavoro di William Tuke: suo figlio Henry
(1755-1814), cofondatore dell’ospedale; il nipote Samuel (1784-1857) che per primo scrisse nel
1813 una descrizione del funzionamento dell’ospedale, ispirandosi alla «terapia morale» di Henry
Pinel; il bisnipote James Hack Tuke (1819- 1896) ed il fratello Daniel (1827-1895) che ha scritto,
nel 1858, A Manual of Psychological Medicine. Già nei primi anni di vita, The Retreat permetteva
ai pazienti che non erano un pericolo per se stessi o gli altri di muoversi in giardino in relativa
libertà, anche impegnandosi in attività lavorative. In un’epoca in cui i malati di mente venivano
considerati animali feroci da addomesticare attraverso la violenza e la fame, la cultura dei
Quaccheri credeva che «la luce interiore di Dio» restasse sempre presente in tutti gli uomini.
Inizialmente progettato per accogliere circa trenta persone con un servizio personalizzato e di
benevolenza, finalizzato a ripristinare l’autostima ed l’autocontrollo dei residenti, tra il 1880 ed
1884 accoglieva cinquanta pazienti (valutati attualmente sulla base della documentazione
dell’epoca, per una diagnosi di schizofrenia o di disturbo dell’umore). Attualmente è un ospedale
privato convenzionato con il Servizio Sanitario, una Onlus, con centosessanta posti letto, cento per
anziani, ed i rimanenti sessanta per disturbi da psicosi, stress post-traumatico, disturbi
dell’alimentazione, disturbi di personalità (www.theretreatyork.org).
Digby A. (1985). Madness, morality and medicine: a study of York Retreat 1796-1914. Cambridge University
Press.
1922 Supervisione
La psicoanalisi è l’unico metodo di cura che richiede, per il suo apprendimento, l’applicazione
della cura al futuro curante: il futuro analista deve sottoporsi ad una analisi personale per svariati
motivi. Sigmund Freud nel 1912 parla dell’esigenza di una «purificazione psicoanalitica» alla quale
il futuro analista deve sottoporsi. Nel 1937, in Analisi terminabile ed interminabile, scrive «Ogni
analista dovrebbe periodicamente, diciamo ogni cinque anni, rifarsi oggetto di analisi, senza provare
vergogna per questo fatto» (Freud, 1937, 532). L’umiltà della conoscenza – secondo Freud – trova il
suo corrispettivo nella «vergogna» di non potersi sentire mai sufficienti a se stessi. Fino alla fine
della I guerra mondiale l’aver effettuato una analisi personale era considerato sufficiente per essere
qualificato «analista»: era l’analista stesso che aveva condotto l’analisi personale a dichiarare
l’idoneità del candidato. Al VI Congresso dell’Aja fu resa nota l’apertura del Policlinico
psicoanalitico di Berlino il 14 febbraio 1920, fondato da Karl Abraham e Max Eitingon (Ernest
Simmel, Hanns Sachs, Franz Alexander, Sandor Rado, Karen Horney, Siegfried Bernfeld, Otto
Fenichel, Tehodor Reik, Wilhelm Reich, Melanie Klein sono stati tra i molti psicoanalisti che hanno
lavorato presso l’istituto fino all’affermarsi del nazismo verso gli anni 30). Nello stesso congresso
O. Pfister, con l’appoggio di H. Sachs chiese che la direzione della Società Psicoanalitica
Internazionale esaminasse se, ed a quali condizioni, potesse essere rilasciata la qualifica di
psicoanalista.
La nascita del concetto di «supervisione» risale al 1922 al Congresso di Berlino, ed al 1925 a
quello di Bad Homburg: la scuola ungherese, con Sandor Ferenczi, proponeva che la supervisione
fosse condotta dallo stesso analista con cui il candidato aveva condotto l’analisi personale. La
scuola di Berlino, con Eitingon ed Abraham, era favorevole ad un modello di supervisione che fosse
un apprendimento ed un controllo dell’analisi del paziente. Prevalse la seconda posizione. Le tre
funzioni dell’insegnamento, della terapia e della valutazione erano così destinate ad intrecciarsi.
Al VII Congresso Internazionale Psicoanalitico, tenutosi a Berlino nel 1922, Eitingon fece
una relazione molto interessante sull’ambulatorio di Berlino: il rapido sviluppo del Policlinico
rendeva necessaria un altrettanto crescente bisogno di nuovi analisti e l’ambulatorio era diventato
un luogo importante per la formazione. La formazione degli psicoanalisti non poteva più essere
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lasciata alla sola analisi personale; la Società Internazionale doveva elaborare le linee guida dell’iter
di formazione, e la supervisione dei casi assumeva una grande importanza. L’ambulatorio
psicoanalitico di Vienna fu aperto nel maggio del 1922, con la condizione che i non medici non
dovevano effettuare prestazioni terapeutiche. Con il Congresso di Berlino del 1922 viene pertanto
proposto da Max Eitingon un modello con tre aspetti: analisi personale come base, per entrare in
contatto con il metodo così come con l’influenza dell’inconscio sul quotidiano come nella vita
professionale; formazione didattica per imparare la teoria; supervisione per integrare l’esperienza e
la teoria con la personalità del candidato. Ma non appena la formazione diventa organizzata, si
pongono molti problemi: quale dovrebbe essere il contenuto del programma, in base a quali principi
e come trovare i metodi di insegnamento più produttivi? (Szecsody, 2008).
Forse lo stesso Freud con il termine «vergogna» dell’apprendista analista nel sottoporsi alla
supervisione preannunciava molti temi avvertiti ed in parte sviluppati da vari autori negli anni
seguenti: l’eventuale angoscia persecutoria nei confronti del supervisore, percepito come presenza
di una situazione d’esame delle capacità professionali del soggetto; le eventuali fantasie di invidia
rivalsa e competizione che possono far sentire il supervisore più come presenza opprimente che
come prezioso aiuto (Nissim Momigliano, 1982; Manfredi Turillazzi e Nissim Momigliano, 1984).
Non viene in questa sede riportato il problema ed il dibattito, anche in sede giudiziaria, della
analisi condotta da terapeuti di provenienza da studi di medicina o da altri studi. Nel corso degli
anni, la supervisione assolve comunque tre principali funzioni: pedagogico, come trasmissione ed
acquisizione del sapere; terapeutico, per le ansie depressive e persecutorie che il giovane analista
avverte nel corso delle sue prime terapie; amministrativa, in quanto regola e garanzia di accesso a
un gruppo di affiliazione desiderata. Aver abbandonato la proposta di Sandor Ferenczi, che il futuro
analista effettuasse analisi personale e supervisione con lo stesso didatta, ha probabilmente favorito
che all’interno del percorso formativo l’allievo non divenisse «fotocopia» di un unico didatta.
Giampaolo Lai, in un interessante articolo (2004) ha evidenziato come la supervisione abbia
potuto subire dei mutamenti di indirizzo (in novanta anni) a seconda dell’epoca storica e
dell’orientamento culturale. Secondo Lai, nella psicoanalisi classica (tra gli anni ’40 e ’70), l’attività
di supervisione aiuta pedagogicamente l’allievo in training a prestare attenzione alla traslazione del
paziente.
Nella psicoanalisi basata sulla relazione d’oggetto (tra gli anni ’70 e ’90), l’attenzione è
maggiormente rivolta alla contro traslazione del terapeuta, alle manifestazioni emotive e di
pensiero, consce ed inconsce. La supervisione si trasforma pertanto da impresa pedagogica e
conoscitiva in un profondo coinvolgimento emozionale, a valenza terapeutica e psicoanalitica.
Nella psicoanalisi basata sulla relazione interpersonale (tra gli anni ’80 e 2000), la
supervisione assolve la funzione di individuare problematiche presenti per esercitare una sorta di
problem-solving. L’interesse all’agieren del paziente nella traslazione ed all’enactment della contro
traslazione del terapeuta, fa sì che la terapia rappresenti una situazione in comune, ove entrambi
paziente ed analista, partecipano al medesimo sforzo.
Vi infine un quarto indirizzo, caro all’autore e che egli definisce «conversazione
immateriale»: gli aspetti semantici della psicologia e della narratologia sono meno interessati,
mentre assume importanza l’addestramento ad una attenzione alle figure logico-modali.
Freud S. (1912). Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. O.S.F., 6.
Freud S.(1937) Analisi terminabile e interminabile. O.S.F., 11.
Grinberg L. (1989). La supervisione psicoanalitica. Milano, Cortina.
Ferro A. (2000). Teoria e tecnica della supervisione psicoanalitica. Milano, Cortina.
Szecsody I. (2008). Prologo. Psychoanal. Inq., 28, 257-261.
Nissim Momigliano L. (1982). Note in margine a un testo: la supervisione analitica. In Di Chiara G., Itinerari della
psicoanalisi, Torino, Loescher.
Manfredi Turillazzi S., Nissim Momigliano L. (1984). Il supervisore al lavoro. Riv. Psicoanal., 4, 5887-607.
Odgen T.H. (2005). Abount Psycoanalitic Supervision. Int. J. Psychoanal., 86, 1265-1280.
Zaslavsly J., Nunes M.L., Eizirik C.L. (2005). La supervisione psicoanalitica: revisione e una proposta di
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sistematizzazione. Riv. Psicoanal., 51, 333-355.
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www.psychomedia.it.
1930 Milieu Therapy – Sympathetic Environment
H.S. Sullivan fonda sul secondo termine un trattamento socio-psichiatrico in cui lo staff
medico e paramedico prepara un sympathetic environment che include i pazienti ed il personale nel
trattamento. Dal 1947 fino a metà 1951, Sullivan ed il suo team multidisciplinare (tra cui Frieda
Fromm-Reichmann, Erik Erikson, Karen Horney, Edward Sapir, Claire Thompson, e Harold
Lasswell) hanno lavorato al Chestnut Lodge a Rockville, Maryland, e alla Washington School of
Psychiatry, introducendo il valore dello studio dei processi che coinvolgono o si sviluppano tra le
persone: «il campo delle relazioni interpersonali, in ogni e tutte le circostanze in cui queste relazioni
si sviluppano ed esistono, sembra una personalità, non può essere isolato dal complesso delle
relazioni interpersonali in cui la persona vive e ha il suo essere» (Sullivan, 1953). L’insistenza di
Sullivan per interpersonalizzare il suo linguaggio, la sua attenzione al comportamento osservabile,
la sua insoddisfazione per il linguaggio individuale insufficiente per descrivere i fenomeni
interpersonali, il suo riconoscimento della grande importanza delle esperienze del paziente per
capire il comportamento e il significato, hanno introdotto l’immagine dell’«osservatore
partecipante», ed evidenziato l’importanza per ogni individuo di adattarsi alle circostanze ed al
contesto delle relazioni di cui è parte. Le implicazioni della teoria interpersonale di Sullivan, riprese
da Jackson, hanno avuto un enorme impatto sulla direzione della ricerca condotta dal team di
Bateson, sul pensiero di Haley e Weakland, in particolare, e nello sviluppo dell'approccio
interazionale.
Sullivan H.S. (1953). Conceptions of modern psychiatry. Norton & Company, New York. (Ed. it. La moderna
concezione della psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1961).
1933 Therapist (o Tutor), Administrator (Doppia leadership)
A partire dal 1933 Dexter Bullar promuove un progetto per trasformare il Chestnut Lodge
Hospital, fondato nel 1908 vicino a Washington, in ospedale psicoanalitico per le psicosi. Alla vita
di questa comunità hanno partecipato nel corso di settant’anni: Woodbury, Fromm-Reichmann,
Sullivan, Searles, Ping-Nie Pao, Feinsilver….
Come coniugare le condizioni del setting analitico (colloquio riservato, regolarità spaziotemporale, neutralità, astinenza…) con la quotidianità delle giornate? Il lavoro clinico della terapia
individuale con quella dei gruppi? Nascono così due diverse figure di riferimento: il therapist con
funzione terapeutica e l’administrator con funzione di gestione di tutti gli altri aspetti della
convivenza, dalla somministrazione dei farmaci alle attività riabilitative, nonché il coordinamento
della vita dell’Unità. Nelle comunità inglesi esiste una doppia leadership, in base alla quale ogni
Unità è diretta è coordinata da un Tutor ed un Administrator: il primo è uno psichiatra che si occupa
della direzione della cura, il secondo è un infermiere che coordina la gestione della quotidianità e
della vita della settimana. Ma occorre anche considerare che in Inghilterra gli infermieri che
lavorano in ambito psichiatrico hanno un lungo periodo di specializzazione in psichiatria.
Questo modello dal 1992 è stato ripreso dalla Comunità Il Porto a Moncalieri (Torino) dove
ogni unità ha una doppia leadership: uno psichiatra riveste il ruolo di Direttore clinico con il
compito di lavorare alla direzione della cura del paziente, ed uno psicologo, psicoterapeuta, ha
l’incarico di Responsabile dell’Unità con il compito di coordinare l’équipe terapeutica e la
quotidianità del gruppo dei residenti, e di coordinare l’organizzazione dei gruppi. Comunque
entrambi collaborano, a volte entrano in conflitto, si muovono in un territorio di confine, tra un
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modello permissivo ed un modello normativo con una funzione di progettualità del percorso
terapeutico ed una funzione di regolazione della convivenza e delle emozioni.
1936 Fattore terapeutico: Importanza della relazione affettiva
Il Congresso di Marienbad del 1936 è stata interamente centrato su l’importanza degli aspetti
emotivi nel corso della terapia psicoanalitica ed in particolare: attaccamento, rapporto affettivo con
l’analista, traslazione positiva, suggestione. Precedettero il convegno sia l’articolo di Sterba (1934)
sull’identificazione del paziente nell’«Io osservante» (observing ego) dell’analista, che possiede un
modo disinteressato di osservare la realtà ed è meno condizionato del paziente dal principio di
piacere, sia quello di Strachey (1934) sull’identificazione del paziente nel super-Io dell’analista,
meno rigido e persecutorio. Al convegno Strachey (1937) riprese l’importanza della identificazione
nella figura superegoica benevola dell’analista, della sua introiezione, differente dalle figure
arcaiche del paziente; un lavoro facilitato dal rapporto di traslazione.
L’importanza delle qualità affettive dell’introiezione metteva così in diretto collegamento
aspetti emotivi e cognitivi, e tutti gli analisti sembravano convergere verso l’enorme importanza
della relazione affettiva tra paziente e terapeuta, come fattore terapeutico.
Sterba R. (1934). The fate of the Ego in analytic therapy. Int. J. Psychoanal., 15,117-126. (Trad. it. : Il destino dell’Io
nella terapia analitica. Psicoterapia e Scienze Umane, 1994, XXVIII, 2, 109- 118).
Strachey J. (1934). The nature of the therapeutic action in psychoanalysis. Int. J. Psychoanal. 15, 127- 159 (ristampa:
Int. J. Psychoanal., 1969, 50, 275-292). (Trad. it.: La natura dell’azione terapeutica della psicoanalisi. Riv. Psicoanal.,
1974, 20, 92- 126).
Strachey J. (1937). Contribution to the symposium on the theory of the therapeutic results of psychoanalisis. Int. J.
Psychoanal., 18, 125- 189.
Congresso di Marienbad (1936). «La teoria dei risultati terapeutici in psicoanalisi». International Psychoanalitic
Association.
Freidman L. (1978). Trends in psychoanalityc theory of treatment. Psychoanal. Quart., 4, 524- 567. (Trad. it. Cap. 4
Anatomia della psicoterapia. Torino, Bollati Boringhieri, 1993).
Migone P. (1995). Terapia psicoanalitica. Milano, Franco Angeli.
1942 Field theory
Teoria del campo, Costrutto di campo
Kurt Lewin teorizza l’importanza di individuare prassi psichiatriche capaci di sviluppare il più
possibile le risorse del gruppo, portatore di uno scopo comune, in funzione del quale vanno
valorizzati i singoli contributi individuali, e non viceversa. Il gruppo si mobilita come unità e attiva
risorse di gran lunga superiori a quelle messe in moto dalla cura del singolo. La terapia deve essere
considerata come un problema del gruppo e gli interventi del terapeuta devono essere incentrati sul
gruppo. Un gruppo ha ragione di esistere quando ha un compito; inevitabilmente si sviluppano
delle tensioni contrapposte al compito, alcune facilitanti ed alcune oppositive.
Questo principio teorico è stato preso a fondamento da Wilfred Bion e John Rickman nel
1942, nel «primo esperimento a Northfield», chiamati a dirigere il Training Wing, reparto militare
di addestramento e riabilitazione per la cura dei soldati, vittime di nevrosi di guerra, con lo scopo di
restituirli ai doveri militari. Bion e Rickman avevano stabilito che tutti i pazienti effettuassero un
ora al giorno di addestramento fisico, fossero membri di uno o più gruppi destinati allo studio di un
mestiere, potessero formare nuovi gruppi per sviluppare nuove attività secondo interessi variabili
nel tempo. In quanto direttori del Training Wing, effettuavano assemblee giornaliere con tutti i
pazienti, con il personale incaricato e con gli altri direttori per la discussione dei programmi, dei
problemi e dei provvedimenti da prendere per risolverli. La direzione dell’ospedale, orientata a
privilegiare il benessere del singolo si oppose al compito di impronta terapeutica da loro istituito. In
un certo senso, Bion e Rickman avevano sottovalutato il problema del conflitto tra cultura e mandati
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diversi, ovvero l’importanza e le forze delle resistenze del gruppo dirigente dell’ospedale.
Lewin K. (1951). Teoria e sperimentazione in Psicologia Sociale. Bologna, Il Mulino, 1972.
1944 Terapia di gruppo
Durante la traversata dell’oceano, nel viaggio verso gli Stati Uniti (Freud, Jung, Ferenczi si
erano imbarcati a Brema il 21 agosto 1909 sul vapore George Washington ed approdarono a New
York il 27 agosto, poiché Freud era stato invitato a tenere cinque conferenze alla Clark University di
Worcester, Massachusetts), facendo colazione gli psicoanalisti si raccontavano i sogni della notte e
li commentavano. Tra gli astanti, Brill….
La nascita della terapia di gruppo, oltre che finalizzata ad una maggiore efficacia numerica
della terapia individuale, comporta l’enfatizzazione della cultura dei valori della vita di gruppo e,
successivamente, l’estensione del principio di responsabilità al gruppo, nella gestione del malato.
Dopo Bion e Rickmann, a Northfield viene incaricato S. Foulkes…. Due orientamenti di indirizzo e
di studio: mentre Bion aveva concepito il gruppo in funzione di un compito, Foulkes lo considera
uno strumento terapeutico, per alleviare la sofferenza. Il gruppo viene considerato come un sistema,
originato dall’incontro dei sottosistemi dei singoli membri e dell’analista stesso. Il gruppo produce
una rete di comunicazione inconscia che dà senso condivisibile a tutti gli eventi che accadono, e che
è sempre il risultato della compresenza di quelle persone in quel preciso momento, e delle loro
esistenze personali, private, sociali e professionali.
1946 Comunità Terapeutica
Tom Main (1946, 1983) per primo conia il termine Comunità Terapeutica mentre dirige il
centro di Nortfield assieme a Foulkes. Negli anni successivi dirigerà il Cassell Hospital a Londra. I
due cardini del pensiero di Main sono:
 La prospettiva psicoanalitica delle relazioni oggettuali
 La visione sistemica dei processi organizzativi.
La Comunità Terapeutica a Nortfield è un tentativo di utilizzare l’ospedale non come una
organizzazione gestita dai medici con l’interesse rivolto ad una maggiore efficienza tecnica, bensì
come una comunità con l’obiettivo di una piena partecipazione di tutti i suoi membri nella vita
quotidiana, e successivamente al raggiungimento di un certo benessere, il rientro nella vita sociale
esterna. I due valori che sottendono il suo bellissimo testo sono l’importanza della comunicazione e
quella del contesto per definire le condizioni del paziente e promuoverne un miglioramento.
Difficile comprendere come nella cultura italiana siano stati coniati numerosi neologismi (comunità
residenziale, comunità riabilitative, residenzialità leggera, resilienza, struttura intermedia, comunità
alloggio) mentre nella cultura inglese viene utilizzato il termine supported housing. Molte di queste
istituzioni, data la carenza di personale, di progetti terapeutici per i pazienti e di modelli
organizzativi (a parte quello non esplicitato di ridurre al minimo le spese) rischiano di essere
soltanto «residenze deposito».
Main T. (1946). The hospital as a therapeutic institution. Bulletin of the Menninger Clinic, 10 (3), 66.
Main T. (1983). Il concetto di comunità terapeutica: variazioni e vicissitudini. In La comunità terapeutica e altri scritti
psicoanalitici. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992.
1954 Mirror-Image structure
Anton Stanton, psichiatra e psicoanalista, e Morris Schwartz, sociologo, hanno collaborato per
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sei anni, in qualità di «osservatori partecipi» e con un team di ricercatori, sulla base di un
finanziamento del National Institute of Mental Health (sorto con i finanziamenti della Fondazione
Ford), allo studio dell’interazione del paziente con il suo ambiente istituzionale: hanno così studiato
le attività dei pazienti e dei terapeuti in una unità di quindici donne ospitate presso il Chestnut
Lodge, mettendo in rilievo una significativa correlazione tra il versante clinico e quello
organizzativo, tra i meccanismi intrapsichici analizzati nel singolo e quelli emersi nelle relazioni
interne all’équipe curante. Nel loro primo lavoro (1953) descrivono la situazione in cui una
infermiera sviluppa gradualmente un particolare interesse per un paziente, spesso interpretato dagli
altri infermieri come un risultato di sentimenti erotici ed ostili. Gli autori descrivono come il
conflitto tra le infermiere, in disaccordo, sparisce rapidamente quando queste iniziano a discutere
sulle loro differenze di opinioni.
Il secondo lavoro (1954) analizza l’organizzazione dell’istituzione, le finalità, i rapporti di
comunicazione e di potere del personale. La ricerca evidenzia come e quanto i rapporti dei pazienti
tra di loro ed i rapporti tra i pazienti ed il personale creino degli ambiti di influenza reciproca, come
e quanto l’ambiente abbia un importante influenza sul decorso della malattia e sull’esito del
trattamento. Il sintomo non viene pertanto considerato solo per i suoi aspetti di patologia personale,
ma anche come risultato dell’interazione sociale tra i membri dell’istituzione. Ne consegue
l’importanza di considerare l’istituzione nel suo insieme come un ambiente in cui ogni aspetto deve
essere valutato in considerazione sia dei pazienti che del personale. Le singole scelte di intervento
terapeutico sembrano assumere un aspetto secondario.
Gli autori hanno aiutato pertanto l’équipe a riconoscere e problematizzare una serie di
«credenze» stereotipate sulle quali si fondava la prassi quotidiana del rapporto con i pazienti, e ad
evidenziare gli effetti del tipo di organizzazione sul comportamento dei pazienti e dei terapeuti. Un
fenomeno caratteristico di risonanza socio patologica è definito dagli autori Mirror-Image structure,
quando il paziente ritrova nell’ambiente e tra gli operatori, come in uno specchio, l’immagine della
propria frammentazione. Secondo la ricerca, molti sintomi, soprattutto quelli cronici, sono
espressione di un modello di interazione tra lo staff ed il personale ospedaliero in cui nessuno dei
partecipanti si rende conto della parte svolta, né degli effetti relazionali in un «campo multi
individuale». «I malati che presentano una eccitazione patologica sono regolarmente i soggetti
segreti e affettivamente importanti di un disaccordo in seno all’équipe terapeutica […] l’eccitazione
si risolverà non appena i membri dell’équipe si decideranno a discutere apertamente i loro punti di
disaccordo» (1954, 492). Al contrario, quando il conflitto tra punti divergenti degli operatori resta
nascosto e vengono adottati atteggiamenti divergenti, la sintomatologia dei pazienti può subire un
notevole aggravamento. Anche a seguito di questa ricerca, il direttore di Chestnut Lodge, lo
psicoanalista Woodbury, partendo dal presupposto che l’istituzione forma un insieme che deve
essere preso in considerazione ed utilizzato come tale, unitamente alle proiezioni inconsce dei
pazienti ed alle credenze stereotipate degli operatori, avviò alla fine degli anni ’50 una profonda
ristrutturazione e la sperimentazione di una gestione clinica di tipo comunitario. Nella letteratura sul
funzionamento della comunità terapeutica, l’importanza del lavoro di ricerca di Stanton e Schwartz
è stato più volte ripreso (Caudill, 1958; Hinshelwood, 2000) ma forse l’importanza del tema
richiederebbe ulteriori ricerche e sviluppi.
Stanton A., Schwartz M. (1953). The Mental Hospital: A Study of Institutional Participation in Psychiatric Illness and
Treatment. The Psychoanal. Review, vol 12, n. 1, 40, 73-89.
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Caudill W. (1958). The Psychiatric Hospital as a Small Society. Boston, Mass., Harvard University Press.
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2001.
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1954 Insight
Il termine ha una storia complessa all’interno della cultura psichiatrica dell’800, all’interno
della cultura della psicologia della gestalt di inizio ’900, della cultura psicoanalitica degli anni ’50.
A) La psichiatria tra ’800 e inizio ’900
Il termine Einsicht (visione, comprensione, intuito…) compare per la prima volta nella cultura
psichiatrica nel Lehrbuch der Psychiatrie di Krafft-Ebing nel 1879 per indicare la capacità del
paziente di riconoscere la propria condizione delirante. Nel 1913 Karl Jaspers propone una
distinzione tra consapevolezza di malattia e effettivo insight proponendo che il secondo presuppone
una corretta interpretazione sia del tipo che della gravità dei propri sintomi. Kraepelin negli anni
successivi utilizza questo termine (mancanza di insight) per illustrare l’impossibilità di molti
pazienti schizofrenici a fornire valide spiegazioni dei loro comportamenti.
Aubrey Lewis nel 1934 in un articolo sul British Journal of Medical Psychology definisce con
questo termine «il corretto atteggiamento dei confronti dei cambiamenti patologici in se stesso e,
inoltre, il rendersi conto che la malattia è mentale». Mette pertanto in rilievo la modularità
dell’insight (in contrapposizione all’opinione corrente del «o tutto, o nulla») ed anticipa le
complesse problematiche sulla compliance.
B) La psicologia sperimentale della Gestalt, ai primi del ’900
La scuola di psicologia sperimentale della Gestalt nasce in Germania ai primi del ’900, per
opera di Max Wertheimer e Von Ehrenfels. Questi studiosi si occupano di studiare ed elaborare
modelli di funzionamento della percezione. Wolfgang Köhler (1917) – il primo che promuove
l’utilizzo del termine insight per descrivere una forma di apprendimento improvviso di fronte a
situazioni di tipo problematico – aveva studiato il comportamento degli scimpanzé di fronte al
compito di raggiungere una banana: all’improvviso (come per una intuizione: il fenomeno dell’Aha
Erlebnis) lo scimpanzé monta i due bastoni e raggiunge la banana. Non si tratterebbe dunque di un
apprendimento tramite «prove ed errori» (trials and errors) oppure tramite processi associativi e
comparativi, bensì di una riconfigurazione intuitiva del problema ed un salto verso la soluzione.
Egli aveva condotto le sue ricerche presso la stazione antropoide di Tenerife nelle isole Canarie dal
1913 al 1920.
La psicologia cognitiva riprendendo la distinzione di Platone tra diànoia (conoscenza
discorsiva) e noesis (conoscenza intuitiva) ritiene l’insight come un raggiungimento della
conoscenza attraverso una intuizione improvvisa, piuttosto che un progressivo avvicinamento
attraverso l’analisi dei dettagli.
C) La cultura psicoanalitica
Jerome Richfield nel suo articolo del 1954 cerca di chiarire il concetto di insight nella cultura
psicoanalitica differenziando il vario uso del termine ed evidenziandone l’importanza nel corso del
processo terapeutico. Egli cerca un chiarimento applicando il concetto di conoscenza sviluppato da
Bertrand Russell ed identificando due tipi di insight, uno intellettuale ed uno emozionale. Il primo
riguarda le capacità personali di comprendere gli aspetti della propria personalità, i conflitti, gli
eventi stressanti che avrebbero procurato uno stato di sofferenza. L’insight emozionale riguarda
invece una comprensione effettiva delle emozioni e degli aspetti inconsci o inconsapevoli. Il
termine, trasferito anche alla relazione tra il terapeuta ed il paziente, certamente vuole indicare un
«guardare dentro» all’animo di ricordi, sogni, pensieri, fantasie…. Ma soprattutto vuole indicare
che più che un ragionamento, un analizzare un problema nei dettagli, può essere utile la
riconfigurazione dello spazio del problema, una ristrutturazione concettuale degli elementi
disponibili, per l’intuizione di risultati più spontanei. Evidentemente Richflield e i successivi
psicoanalisti che si occupano del tema dell’insight si riferiscono maggiormente all’area dei disturbi
di personalità (utilizzando il termine nevrosi), che non all’area dei disturbi da psicosi.
8
Giorgio Sacerdoti e Savo Spaçal (1985), pur rilevando l’imprecisione del termine inerenti da
una parte la natura dell’argomento e dall’altra le diversità di impostazione e di accento degli autori,
sottolineano l’importanza di due significati convergenti: «il potere e l’atto di vedere dentro a una
situazione», «l’atto di afferrare (apprehending) l’intima (inner) natura delle cose». L’importanza
dell’insight è dunque quella di apertura ad un cambiamento del paziente.
Kohler W. (1917). Intelligenzprufungen an Anthropoiden. (Trad. it. L’intelligenza delle scimmie antropoidi. GiuntiBarbera, Firenze, 1968).
Platone, La Repubblica.
Richfield J. (1954). An analysis of the Concept of Insight. Int. J. Psycho-Anal, 36, 432.
Sacerdoti G.., Spaçal S. (1985). Insight. Riv. Psicoanal., 31, 59-74.
Galli P.F. (1999). Preconscio e creatività. Torino, Einaudi.
Schafer R. (1979). Linguaggio e insight. Roma, Astrolabio Ubaldini.
1955 Terapia Sociale
È difficile indicare una data in cui comincia a svilupparsi questo modello culturale ed un
autore che ha coniato questo temine: dopo la II guerra mondiale, nella storia della psichiatria
sembra sempre più tramontare un modello medico ed aprirsi nuovi filoni culturali. Gli interventi di
Maxwell Jones, le esperienze del Mill Hill (Londra) e del Northfield Hospital con W. Bion a
Birmingham costituiscono l’inizio delle esperienze nell’ambito del connubio paziente-gruppoistituzione. Negli Stati Uniti le prime esperienze delle comunità per adolescenti ad orientamento
pedagogico (H. Lane e T. Burrow) e quelle ad orientamento psicoanalitico (Aichhorn, 1925; B.
Bettelheim; Redl e Winnemann, 1951) iniziano ad utilizzare il gruppo come strumento che
influenza potentemente lo stato di salute e/o di malattia. L’interesse sociale e scientifico per le
dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni acquista sempre maggiore importanza nel periodo
seguente la II guerra mondiale. Alcuni autori come Goffman hanno cercato di descrivere i tanti
aspetti negativi delle istituzioni manicomiali (1961).
Marshall Edelson, che è stato psichiatra all’Austen Riggs Center, nel Massachusset, e nel suo
studio (1970), affronta tra i primi i numerosi temi degli aspetti positivi della terapia sociale: tenta di
delineare i rispettivi aspetti, metodi e tecniche della socioterapia e della psicoterapia; una teoria dei
gruppi elaborata sulla base della teoria generale dei sistemi di Talcott Parson; una analisi di una
buona organizzazione dell’ospedale psichiatrico; una definizione degli aspetti della comunità
terapeutica come sistema sociale.
Aichhorn A. (1925). Wayward Youth. New York, Viking Press.
Goffman E. (1961). Asylums: Essays on a Social Situation of Mental Patients and Other Inmates. New York,
Doubleday. (Trad. it. Asylums. Le istituzioni totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Torino,
Einaudi, 1968).
Clark D.H. (1973). Social Therapy in Psychiatry, Penguin Book, Harmondworth. (Trad. it. Psichiatria e terapia sociale,
Feltrinelli, Milano, 1976).
Jones M. (1982). Il processo di cambiamento. Nascita e trasformazione di una comunità terapeutica. Milano, Franco
Angeli, 1987.
Redl F., Wineman D. (1951). Children Who Hate. New York, The Free Press. (Trad. it. Bambini che odiano. Torino,
Boringhieri, 1974).
1957 Io professionale / gruppi Balint
Sebbene la nozione di Io compare già nei primi scritti di Freud (vedi il Progetto per una
psicologia scientifica), è solo dopo il 1920, nello sviluppo della sua seconda teoria dell’apparato
psichico che assume un significato più interessante, definito e problematico. Dal punto di vista
topico, l’Io si distingue dall’Es e dal Super-Io, e nello spesso tempo è in una relazione di
dipendenza sia dalle rivendicazioni dell’Es che dagli imperativi del Super-Io, come dalle esigenze
9
della realtà. Il suo livello di autonomia è molto relativo, è un elemento di legame nei processi
psichici, ma nelle operazioni difensive rischia andamenti coatti, ripetitivi e de-reali. (Laplanche,
Pontalis, 1967). Vi è dunque, nelle opere di Freud, una interconnessione problematica dell’Io, che
compare come persona, ma anche come istanza. L’Io (nella seconda topica) ha pertanto le funzioni
più varie: controllo della motilità e della percezione, esame della realtà, anticipazione, ordinamento
temporale dei processi mentali, pensiero, razionale, ma anche misconoscimento, razionalizzazione,
difesa coatta contro le rivendicazioni pulsionali. È un prodotto diretto del mondo esterno, un
prodotto di una lunga evoluzione dei processi di adattamento ed apprendimento, e nello stesso
tempo trae energia per il funzionamento dall’apparato psichico interno.
Michael Balint (Budapest 1896 – Londra 1970) figlio di un padre medico, collabora con il
padre fin da giovane, osservando e studiando la natura della relazione medico-paziente. Emigrato a
Berlino nel 1920 per l’ondata di antisemitismo che colpiva l’Ungheria, iniziò il proprio training
analitico con Hanns Sachs e, rientrato a Budapest nel 1924, completò la sua analisi didattica con
Sandor Ferenczi. Nel 1930 con Ferenczi fondò il Centro psicoanalitico per pazienti ambulatoriali
che diresse dal 1933 al ’39. Già in questi anni, raccolse intorno a sé giovani medici, nel tentativo di
integrare nella medicina le prospettive psicoanalitiche. Emigrato a Manchester nel 1939 ed a Londra
nel 1945, nel 1948 entrò a far parte della Tavistock Clinic. Con la sua futura moglie Enid Flora
Eicholz organizzò i primi seminari di formazione e ricerca per assistenti sociali, e successivamente
per medici di medicina generale. Effettuando anche una specie di studio sperimentale, i cui risultati
sono pubblicati nel suo libro del 1957, mise a punto una metodologia dei seminari di formazione e
ricerca: quella dei Gruppi Balint. Segretario scientifico della British Psychoanalytic Society dal
1951 al 1953, Presidente della stessa Società dal 1953 al 1968, dal 1957 guest professor alla
University of Cincinnati College of Medicine in Ohio, insignito di una laurea honoris causa a
Roma. La Balint Society fu fondata nel 1969.
L’origine dei gruppi Balint si deve dunque ad un figlio che osserva e studia il lavoro del padre
medico con i pazienti, al lavoro di Ferenczi che già nel 1921 parlava della necessità per i medici
generici di conoscere la psicoanalisi, ai seminari per assistenti sociali condotti con Enid Flora
Eicholz alla fine degli anni ’40, all’analisi dei gruppi che egli apprese nel 1947 attraverso Wilfred
Bion. Michael Balint e sua moglie Enid Flora Eicholz per oltre cinque anni lavorarono con gruppo
composti da 8-10 medici, basandosi su due ipotesi:
 Il medico stesso è il farmaco principale che viene somministrato al paziente.
 Nel rapporto medico-paziente possono prodursi sofferenze ed irritazioni, evitabili se il
medico sviluppa una capacità di ascolto, ed è cosciente che anche il loro rapporto è parte
della diagnosi e della terapia.
Una cadenza di un’ora e mezza settimanale per almeno due anni di un gruppo condotto da uno
psicoanalista; la presentazione da parte di uno dei medici di una situazione clinica con il suo
paziente; studio della controtraslazione manifesta, cioè del modo in cui il medico utilizza la sua
personalità, la sua cultura, le sue convinzioni scientifiche, i suoi moduli di reazione automatica. Il
conduttore del gruppo esperisce tre rapporti distinti ma allo stesso tempo compresenti e relati tra
loro: il rapporto con il paziente, il rapporto con il leader del gruppo (il conduttore stesso), il
rapporto con il gruppo. Un’indicazione di particolare importanza che l’autore rivolge al conduttore
del gruppo è di limitarsi a limitare le osservazioni del gruppo, come di chi si espone (o si esibisce)
agli ambiti e confini dell’Io professionale. Per ambiti e problematiche che esulano da questi confini,
il soggetto del gruppo potrebbe (o dovrebbe) interpellare un terapeuta individuale. (Per ulteriori
indicazioni si consultino i siti dell’International Balint Federation, www.balintinternational.com e
della Balint Society, www.balint.co.uk).
Freud S. (1921). Metapsicologia. O.S.F., 8.
Freud S. (1923). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.
10
Laplanche J., Pontalis J.B. (1967). Vocabulaire de la psychanalyse. Paris, PUF. (Trad. it. Enciclopedia della
psicoanalisi. Bari, Laterza, 1968).
Balint, M. (1957). The Doctor, his Patient and the illness. London, Pitman Medical Publ. (Trad. it. Medico, paziente e
malattia, Milano, Feltrinelli, 1961).
Balint M., Balint E. (1961). Psychotherapeutic techniques in medicine. London, Tavistock Publ. (Trad.it. Tecniche
psicoterapiche in medicina, Torino, Einaudi, 1971).
Luban Plozza B., Antonelli F. (1974). Introduzione ai Gruppi Balint. Roma, Il Pensiero Scientifico.
Luban Plozza B., Pozzo M. (1986). I gruppi Balint. Padova, Piccin.
1958 Holding
Un termine nato dalla osservazione della relazione tra la madre ed il bambino,
successivamente trasferito anche alla relazione tra il terapeuta ed il paziente. È la capacità di
contenimento della figura della madre (o del terapeuta) sufficientemente buona, la quale sa
istintivamente quando intervenire dando amore al bambino (o al paziente) e quando invece mettersi
da parte in quanto questi ha necessità di una sua autonomia. All’interno della holding, all’interno di
una base sicura, l’altro può sperimentare la sua soggettività, ovvero la sensazione di essere egli, con
il suo mondo di desideri e scelte, a creare la propria esistenza. Coniato da Winnicott (1958) con il
significato di «tenere saldamente, di dare una base su cui poggiare» esprime un sentimento di
stabilità e continuità e un clima di sicurezza strutturante, ed è stato poi ripreso da Melanie Klein
(1959) per descrivere una delle funzioni più importanti della figura materna. Elemento necessario
per lo psicotico che vive il terrore di sentirsi improvvisamente in balia di persone o forze che gli
sono del tutto estranee e di precipitare così nell’abisso del non senso; necessario per il borderline
che vive inquieto all’inseguimento di un oggetto che gli sfugge, in modo reale o immaginario.
L’holding è un aspetto del funzionamento comunitario che non si vede e che è forse difficile da
registrare e quantificare, ma che diviene strumento di cura in relazione al funzionamento di tutto il
gruppo curante e della sua leadership, e si completa con la funzione di regolazione delle emozioni e
dei comportamenti (Ferruta, 2007).
Winnicott D.W. (1958). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Firenze, Martinelli, 1975.
Klein M. (1959). Il mondo adulto e le sue radici nell’infanzia. In Il mondo adulto e altri saggi. Firenze, Martinelli,
1984.
Ferruta A. (2007). “Fattori evolutivi e fattori di protezione nel trattamento comunitario dei pazienti gravi”. In Atti del
convegno di Arzignano, 21 settembre 2007: La residenzialità psichiatrica nel Veneto: dalla mappa al territorio.
Ricerca PROGRESS Veneto 2006, 53-65.
1960 Democratizzazione – Permissività – Comunitarismo – Confronto con la
realtà
David Rapoport, un antropologo, contatta nel 1955 Maxwell Jones mentre questi dirige
l’Henderson Hospital, e dedica quattro anni ad una ricerca sul campo; il primo anno è dedicato alla
conoscenza dell’ambiente. L’aspetto più caratteristico della ricerca di Rapoport è rappresentato dal
fatto che non si tratta di una ricerca empirica sugli esiti del trattamento (cioè sull’outcome), ma sulle
caratteristiche dell’ambiente stesso in cui i pazienti vivevano e cercavano di evolversi. I fattori
guida da lui espressi nascono dalle risposte ad un questionario composto da 14 item. Nel suo studio
sul funzionamento dell’Henderson Hospital, Rapoport (1960) definisce la Comunità Terapeutica
come «luogo organizzato comunitariamente, nel quale ci si aspetta che tutti contribuiscano al
raggiungimento dell’obbiettivo condiviso: la creazione di un’organizzazione sociale con qualità
curative» ed enuncia quattro caratteristiche fondamentali che la distinguono da altre strutture di
ricovero:
La democratizzazione (democratization) che riguarda la distribuzione del potere effettivo
nella comunità, distribuzione allargata per la prima volta e in misura non trascurabile anche ai
11
pazienti. Si tratta dunque di una divisione del potere decisionale tra operatori e pazienti, finalizzata
a fare emergere il controllo su di sé, l’altruismo, facendo sentite il paziente soggetto attivo nel
trattamento proprio e degli altri.
La seconda caratteristica è la permissività (permissiveness), che non vuole avere l’accezione
negativa di «va bene qualsiasi cosa» ma significa invece tollerare-accettare che vengano espressi
anche aspetti disturbanti o malati della personalità in un contesto che offra loro uno spazio senza
lasciare che diventino distruttivi. Quasi tutti i consueti ambienti sociali non sono permissivi, nel
senso che esercitano un controllo sociale che inibisce o scoraggia certi tipi di manifestazioni
emotive e comportamentali.
La terza è il comunitarismo (communalism), termine che vuole significare un sentimento di
appartenenza e di condivisione di scopo per cui il lavoro comune, la convivenza e la partecipazione
ai momenti quotidiani sono considerati elementi fondanti della vita comunitaria. Un’idea di «abitare
assieme» che vuole esprimere anche la condivisione delle responsabilità, rischi ed esperienze
relazionali ed affettive.
Il quarto degli elementi che contrassegnano la cultura della comunità terapeutica è il
confronto con la realtà (reality confrontation), e con le conseguenze della convivenza in una
microsocietà. Implica pertanto promuovere un apprendimento interpersonale, una maggiore
consapevolezza di sé ed uno sviluppo della identità personale. Il confronto con la realtà appare
pertanto come un tema importante, sia per un riesame degli aspetti della vita passata, sia per una
valutazione di aspetti del periodo attuale di convivenza in comunità, sia per aspetti della vita futura,
quando i residenti ritorneranno alla vita sociale esterna, alla collettività di provenienza…. La
comunità mantiene pertanto contatti con l’ambiente esterno e non si isola, ma soprattutto all’interno
della cultura comunitaria vi è un’attenzione vigile per la realtà delle cose, scoraggiando
atteggiamenti distruttivi.
Rapoport osservò che questi quattro fattori erano fortemente sostenuti dallo staff. Per i
pazienti erano vissuti con alcune difficoltà: il confronto con la realtà era difficile per le persone con
un Io poco strutturato, e i pazienti che avvertivano una forte necessità di una relazione duale con un
operatore vivevano più isolati, dando meno importanza alla democratizzazione ed al
comunitarismo.In merito al tema della democratizzazione vedi oltre 1982 Assemblea, ma
soprattutto 2002 c) Giornate di discussione. In merito al tema della permissività occorrerebbe
aprire un’ampia riflessione non soltanto sull’aspetto della convivenza sociale con persone che
compiono agiti auto ed etero aggressivi, ma anche e soprattutto su un tema storico (quel che resta
del Padre) e clinico (come lavorare con persone che mostrano una evidente problematica del superIo, oppure – per dirlo in altri termini – una disorganizzazione della Legge interna). In merito al tema
del comunitarismo appaiono evidenti i ruoli e compiti degli operatori che non possono essere
«assistenziali», e le difficoltà ed i problemi differenti che possono incontrare i residenti con disturbo
di personalità narcisistico e quelli con disturbi da psicosi.
Rapoport R.N. (1960). Community as Doctor. New perspectives on a therapeutic community, Londra, Tavistock. (Trad.
it. Cap. 3, in Lang M. (a cura di), Strutture intermedie in psichiatria. Milano, Cortina, 1982, 129-154).
1961 Fattore terapeutico: Importanza della relazione interpretativa
Il Congresso di Edinburgo del 1961 è stato interamente centrato su l’importanza degli aspetti
cognitivi nel corso della terapia psicoanalitica, ed in particolare: comprensione intellettuale o
cognitiva, esplorazione, insight, interpretazione.Nonostante che circa sei mesi prima venissero
pubblicati un interessante articolo di Loewald (1960) e l’interessante libro di Leo Stone (1961),
entrambi con posizioni teoriche simili a quelle di Gitelson (1962), il convegno di Edinburgo sembrò
orientarsi verso una negazione dell’importanza della relazione affettiva. Nonostante la relazione di
Gitelson tendesse a considerare la relazione terapeuta–paziente come una esperienza ristrutturante,
soprattutto con la funzione «diatrofica» (cioè di nutrimento e di sostegno) nelle prime fasi della
12
terapia, e come fonte di identificazione nelle fasi successive, e la relazione di Nacht (1962)
sottolineasse l’importanza della «presenza» e della «umanità» dell’analista, la direzione del
convegno andò in un senso completamente diverso, anche dalle linee terapeutiche espresse
venticinque anni prima al convegno di Marienbad. Segal parlò della importanza della verità e
dell’insight come fattori terapeutici. Kuiper concesse che le affermazioni di Gitelson potevano
essere eventualmente interessanti per i pazienti borderline, dove vi è un arresto pre-edipico nello
sviluppo. Garma si espresse anch’egli per l’importanza della «verità» dell’interpretazione. Heimann
si oppose anch’ella a Gitelson, esprimendo disaccordo su atteggiamenti diversi dell’analista tra le
fasi successive della terapia. L’unico fattore terapeutico era considerata la comprensione attraverso
l’interpretazione.
Freidman (1978) propone una spiegazione di ordine storico e sociologico: la componente più
influente della psicoanalisi si era trasferita dall’Europa agli Stati Uniti (ove fino al 1989 la
psicoanalisi era praticabile solo dai medici) ed individuare nell’interpretazione il fattore terapeutico
per eccellenza (negando gli altri fattori terapeutici già valorizzati da Freud, quali la relazione
affettiva ed emotiva tra terapeuta e paziente) appariva più consono e difensivo del modello medico.
Loewald H.W. (1960). On the therapeutic action of psychoanalysis. Int. J. Psychoanal., 41, 16-33. [Trad. It. L’azione
terapeutica della psicoanalisi. Psicoterapia e Scienze umane, 1993, XXVII, 4: 99- 116 (I parte) e 1994, XXVIII, 1: 95115 (II parte). Anche in Loewald H.W. (1980), Riflessioni psicoanalitiche, cap. 14, 221-256. Milano, Dunod Masson].
Stone L. (1961). The Psychoanalitic Situation: an examination of its Development and Essential Nature. New York, Int.
Univ. Press. (Trad. it. La situazione psicoanalitica. Uno studio del suo sviluppo e della sua caratteristica essenziale.
Padova, Piccin, 1986).
Gitelson M. (1962). Symposium. The curative factors in psychoanalysis. Int. J. Psychoanal., 43, 194-206.
Nacht S. (1962). Symposium. The curative factors in psychoanalysis. Int. J. Psychoanal., 43, 206-211.
Congresso di Edinburgo (1961). I fattori curativi in psicoanalisi. International Psychoanalitic Association.
Freidman L. (1978). Trends in psychoanalytic theory of treatment. Psychoanal. Quart., 4, 524-567. (Trad. it. Cap. 4
Anatomia della psicoterapia. Torino, Bollati Boringhieri, 1993).
Migone P. (1995). Terapia psicoanalitica. Milano, Franco Angeli.
1961 Assunti di base
Dopo l’esperienza a Northfield del 1942 (vedi sopra: Field theory) e quella alla Tavistock
Clinic di Londra, Bion elabora un modello metapsicologico di funzionamento del gruppo. Il gruppo
ha una attività psichica collettiva e funziona come una unità, articolando due livelli di
funzionamento.
 Il livello del compito consapevole che il gruppo si pone, e che in modo particolare nel
gruppo di lavoro, ancorato alla realtà ed alla analisi razionale delle situazioni, funziona in
base ai processi psichici secondari (memoria, percezione, giudizio, orientamento).
 Il livello primario o regressivo, ad alto contenuto emotivo, dei tre assunti di base.
- dipendenza (quando il gruppo avverte la necessità di protezione e conforto dal leader,
che viene idealizzato);
- attacco-fuga (quando il gruppo avverte la necessità – reale o immaginaria? – di lottare
contro qualcosa, o in difesa di qualcosa, individuando un nemico esterno);
- accoppiamento (quando i membri del gruppo avvertono la necessità di un atteggiamento
di attesa di una idea nuova o di un oggetto idealizzato).
In ogni gruppo co-esistono i due livelli, con dialettiche e conflitti tra l’uno e l’altro, ed
alternanza tra gli assunti di base, che può essere evolutiva o regressiva. Se il gruppo riesce a dotarsi
di strumenti stabili per consentire la possibilità di integrarsi tra i due livelli, allora tenderà a darsi
una organizzazione e delle norme, trasformandosi in una istituzione.
13
Bion W.R. (1961). Experiences in Groups and Other Papers. London, Tavistock. (Trad. it. Esperienze nei gruppi,
Roma, Armando, 1971).
1962 Direzione multipla
Nel dicembre del 1962 Maxwell Jones accetta l’incarico di dirigere l’Ospedale Dingleton,
tradizionale struttura per pazienti psichiatrici con quattrocento posti letto a 35 miglia a sud di
Edinburgo. I suoi predecessori non tendevano minimamente allo sviluppo di un processo
decisionale basato sul consenso e le decisioni fortemente gerarchizzate erano la norma. Per sette
anni lavora a trasformare una istituzione tradizionale in una comunità terapeutica; ne descrive il
percorso in un testo del 1982, ove evidenzia alcuni fattori: l’importanza della comunicazione aperta
e la possibilità di feed back; assumente rischi; «apprendere vivendo» come processo continuo, mai
statico, proprio come la nostra percezione della realtà cambia continuamente; approccio olistico («Il
mio interesse per i sistemi aperti iniziò con una vaga consapevolezza della possibilità di mobilitare
delle forze nell’ambiente sociale per affrontare un cambiamento con un gruppo di persone
svantaggiate»); il collegamento tra i sistemi aperti, lo sviluppo di una istituzione e la creatività degli
individui e di un ambiente. In molte parti dei suoi scritti (1952, 1968, 1982), Maxwell Jones
propone il concetto di Direzione multipla (o di leadership multipla), in alternativa alla leadership
monocratica tipica dei primariati ospedalieri del suo tempo: l’autorità e la responsabilità gestionale
sono spalmate sull’intero sistema nel senso che vengono distribuite dai capi ai collaboratori, e
quindi allo staff, e vengono partecipate anche dai pazienti. «Avevo un potere “ufficiale”, ma
preferivo che non ci si appellasse mai a questo potere che io consideravo una autorità latente, utile
come ultima risorsa nei casi di emergenza…». Narra anche sia i rischi di conflitto con le gerarchie
superiori, diffidenti e burocratizzate («confronti con le alte sfere»), come attacchi dal basso:
«…durante un mio viaggio negli Stati Uniti, la squadra del Berwickshire mi licenziò dall’impiego
di psichiatra e capo-squadra; mi sostituì con un infermiere competente, sulla cui presenza si poteva
fare affidamento!». Se si promuove lo sviluppo di una direzione «multipla», il leader ufficiale
sperimenta come il suo potere personale si corrompe ed egli possa diventare principalmente un
facilitatore del pensiero e dell’attività di un gruppo di leader naturali.
Jones M. (1952). Social Psychiatry: a Study of Therapeutic Communities. London, Tavistock. (Trad. it. Ideologia e
pratica della psichiatria sociale, Milano, Etass Kompass, 1970).
Jones M. (1968). Beyond the Terapeutic Community: Social Learning and Social Psychiatry, Yale Univ. Press. (Trad. it.
Al di là della comunità terapeutica, Milano, Il Saggiatore, 1974).
Jones M. (1982). The Process of Change. Boston, London, Melbourne and Henley, Routledge & Kegan. (Trad. it. Il
processo di cambiamento. Nascita e trasformazione di una comunità terapeutica. Milano, Franco Angeli 1987).
1963 The Large Group. Il gruppo allargato
Per comprendere gli studi degli anni settanta sui gruppi allargati, occorre contestualizzarli a
partire dagli scritti di Freud sulla guerra, le lettere tra Freud ed Einstein, e poco dopo la prima
guerra mondiale, all’ opera del ’21 Psicologia delle masse ed analisi dell’ Io: in questi lavori Freud
illustra come possa accadere che nella massa, polarizzata intorno allo spirito della guerra oppure
intorno alla figura del leader, possa accadere che l’individuo perda grande parte della propria
individualità, sostituendo l’istanza super-egoica ed i propri valori normativi interiorizzati con
l’istituzionale personalizzato dal capo, e rinunciando così a differenziarsi dagli altri e dalla massa.
Foulkes, Bion, Rickman e Main, nella loro esperienza tra gli anni 1943-45 con i pazienti ricoverati
presso l’ospedale militare di Northfiel, presso Birmingham, hanno una conferma nella quotidianità
di come il gruppo possa promuovere i fenomeni regressivi descritti da Freud, la perdita
dell’individualità, processi di depersonalizzazione dove le parti scisse del Sé sembrano muoversi
nell’ambito di un sistema protomentale. Circa venti anni dopo, nel 1961, Wilfred Bion enuncia il
concetto teorico degli «assunti di base» per illustrare come un gruppo possa regredire, mosso da
14
dinamiche emotive e concettuali in cui predominano meccanismi di difesa quali la scissione, l’
identificazione e la proiezione. Negli stessi anni Sigmund Foulkes, sviluppando il binomio
«individuo-gruppo» sottolinea la non riducibilità dei processi mentali al solo processo di sviluppo
dell’ individuo, ed estende la dialettica dell’ interpersonale nella forma di un reticolo transpersonale
e globale di comunicazione. Dagli approcci di descrizione maggiormente improntati ai modelli
teorici, come quelli di Foulkes e Main, la strada si divide tra gli autori che avvertono il gruppo
allagato come minaccia all’identità del singolo (Pierre Turquet) e gli autori che ne colgono un
veicolo verso la socioterapia (John Stuart Whiteley, Malcom Pines). Gli scritti e gli studi sul gruppo
allargato diventeranno comunque fondamentali per comprendere il significato dell’ assemblea di
comunità (community meeting) e svilupparne gli studi. Questi stessi scritti verranno utilizzati da
Robert Hinshelwood nel 1987 per pubblicare un interessantissimo lavoro che vuole descrivere la
cinetica di una vita condivisa all’interno di una comunità terapeutica.
Kreeger L. (1975). The Large Group. Dynamics and Therapy. London, Constable. (Trad. it. Il gruppo allargato.
Dinamica e terapia. Roma, Armando, 1978).
Hinshelwood R. (1987) What happens in groups. London, Free Association Books. (Trad. It. Cosa accade nei gruppi,
Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989).
1968 Psychosocial nursing
Il termine nasce e rientra tra gli approcci che sono stati ampiamente sviluppati al Cassel
Hospital (Barnes, 1968; Griffiths & Leach, 1998; Griffiths & Pringle, 1997; Skogstad, 2001). Una
corretta traduzione del termine nella lingua italiana sarebbe accudimento psico–sociale. Tuttavia
preferirei usare il termine di accudimento pedagogico, psicologico e sociologico per indicare gli
elementi indispensabili alla creazione di una convivenza tra terapeuti e pazienti che non sia un
rifugio alienato dalla realtà ordinaria, ma un posto dove la realtà interna ed esterna e la loro
interazione possano essere ampiamente esplorate. In tutte le forme di psicoterapia psicoanalitica vi è
il rischio di colludere con i pazienti nei loro bisogni di creare un rifugio regressivo, un luogo di
ritiro degli aspetti problematici sia del mondo interno che di quello esterno. Ma questo rischio può
essere ancora più elevato in un contesto comunitario, dove l’alienazione della realtà esterna ed un
rifugio regressivo dagli aspetti problematici della propria esistenza possono costituire un grande
desiderio per i residenti. Il ritiro sociale e la fuga dalla socializzazione sono temi molto presenti in
soggetti portatori di un grave disturbo di personalità, che chiedono di essere ospitati in una
comunità. Ogni unità ha una équipe composta da psicologi ed educatori che si occupano della
quotidianità, ma principalmente della frattura nella continuità e nella costanza dell’approccio alla
vita quotidiana. Per gli operatori della comunità non si tratta soltanto di offrire ai residenti un modo
di pensare alla loro vita interiore, attraverso i momenti gruppali, ma anche di promuovere uno
sviluppo dei compiti della vita reale in cui i residenti potranno incontrare ed elaborare i problemi ed
i conflitti legati alle loro patologie di base. Per questi motivi considero fondamentale in questa area
di intervento non soltanto gli aspetti psicologici e sociologici, ma anche quelli pedagogici. La
responsabilità assume una grande rilevanza in questo sviluppo e la capacità di assumersi delle
responsabilità richiede di essere in grado di tollerare i sensi di colpa, ma anche uno sviluppo
dell’esame di realtà. Il modo in cui ogni residente trascorre le proprie giornate all’interno ed
all’esterno della comunità ha una grande rilevanza sull’atmosfera generale della comunità e per il
benessere o il malessere degli altri residenti. La realtà dell’ambiente comunitario è caratterizzata da
una continua, complessa ed articolata interdipendenza reciproca tra i residenti e gli operatori. È
pertanto necessario che i componenti dell’équipe agiscano con una intesa reciproca poiché, se è
vero che gli agiti dei residenti possono essere fonte di grandi malesseri, le contraddizioni tra gli
indirizzi degli operatori possono allo stesso modo alimentare gravi conflitti tra i residenti. Ogni
équipe di psicologi ed educatori deve pertanto sviluppare strategie ed orientamenti che tutti siano in
grado di sostenere, che tengano conto delle dinamiche all’interno della unità e dei processi di
15
influenza reciproca tra il gruppo dei residenti e quello degli operatori.
Barnes E. (1968). Psychosocial Nursing: Studies from the Cassell Hospital. London, Tavistock.
Griffiths P., Leach G. (1998). Psychosocial Nursing: a model learnt from experience. In Barnes E., Griffiths P., Ord J., &
Wells D., Face to Face with Distress: The Professional Use of Self in Psychosocial Care. London, Butterworth
Heinemann.
Griffiths P., Pringle P. (1997). Psychosocial Practice within a Residential Setting. Cassell Hospital Monograph Series,
No. 1, London, Karnac Books, (Ed. it. in: www.terapiadicomunita.org).
Skogstad W. (2001). Internal and external reality: enquiring into their interplay in an inpatient setting. In Lesley Day
and Pamela Pringle, Reflective Enquiry into Therapeutic Institutions. Cassel Hospital Monograph Series, No. 2,
London, Karnac Books Ltd. (Trad. it. Realtà interna e realtà esterna: indagare sulla loro interrelazione in un contesto
residenziale. Anno 7, n. 33, Giugno 2006, www.terapiadicomunita.org).
1970 Terapeutico e antiterapeutico nella Comunità Terapeutica
Se Tom Main per primo si interroga sui vantaggi e svantaggi delle comunità terapeutiche, i
loro loro nodi problematici e sui potenziali effetti terapeutici, ma anche antiterapeutici, dobbiamo
aspettare gli anni settanta perché la preoccupazione e riflessione diventi più approfondita. Già in
uno scritto del 1966 Main, pur affascinato dalla nascita di nuove organizzazioni, indica il rischio
che il sapere non sia più frutto di riflessione dell’Io, ma diventi potere gerarchico del Super-Io. Al
contempo elogia il modello culturale di Balint che considera un forte antidoto alla «ideologia»
(termine che non nomina espressamente) dei terapeuti, che possono promuovere una «promozione
gerarchica del sapere».
Otto Kernberg in un capitolo molto denso, Il modello della comunità terapeutica, nel 1982 ha
posto sotto vari aspetti il problema di come proteggere i notevoli vantaggi del lavoro terapeutico in
comunità e di cercare di evitare i numerosi danni o effetti iatrogeni dell’istituzione. A mio modo di
vedere vi è invece un problema a monte e sovente evitato, che è rappresentato dai valori che il
gruppo di lavoro condivide o meno, ed esplicita o meno. Anche Kenberg accenna a qualcosa del
genere quando nel suo articolo parla dell’«ideologia». Mi è tuttavia un po’difficile comprendere
come mai egli utilizzi questo termine che sovente nella lingua italiana assume una connotazione
semantica negativa. Egli sostiene, citando Althusser, che una ideologia è un sistema di
rappresentazioni, con la sua logica ed il suo rigore (immagini, miti, idee e concetti) che possiede
una esistenza o una funzione storica entro una determinata società. Un sistema dunque, determinato
a livello conscio ed inconscio, derivato dalle concezioni dominanti che un gruppo sociale nutre sulla
propria esistenza e che ha interiorizzato. Ma nel momento stesso in cui ci si pone il problema
dell’ideologia di una comunità terapeutica (personalmente preferirei il termine «valori» oppure
«mission»), si aprono una serie di interrogativi relativi al contenuto dell’ideologia, alla natura del
coinvolgimento dell’individuo rispetto ad essa ed a come il leader si pone rispetto ad essa. Ora, se i
due problemi principali delle comunità terapeutiche fossero rappresentati dai rischi degli effetti
iatrogeni dell’istituzione e dalla scarsa chiarezza concettuale del modello metodologico, a mio
avviso questi aspetti sarebbero facilmente ovviabili da una leadership attenta ed esperta.
Evidentemente il problema è molto complesso e richiederebbe una attenta riflessione.
Nella cultura italiana le comunità terapeutiche, soprattutto quelle per pazienti con problemi
psichiatrici, nascono soltanto verso la metà degli anni ottanta. Alcuni autori (Tagliabue et al., 1988)
si pongono seriamente il problema della scarsa progettualità e terapeuticità:
-
mancanza di una precisa puntualizzazione delle funzioni della struttura
scarsa chiarezza metodologica dei gruppi di lavoro
basso livello di progettualità per la gran parte degli ospiti
prevalenza di modalità organizzative rigidamente codificate
Main T. (1966). Knowledge, Learning, and Freedom of Thought. Terzo Congresso Annuale del Collegio di Psichiatria
16
d’Australia e Nuova Zelanda. The Australian and New Zealand Journal of Psychiatry (1967) No.1. Anche in:
Psychoanalytic Psychotherapy (1990) Vol. 5, No 1. (Trad. it.: Conoscenza, apprendimento e libertà di pensiero. Anno
2, n. 10, luglio 2002, www.terapiadicomunita.org).
Main T. (1970). Some Basic Concept in Therapeutic Community work. In Hinshelwood R.D., Manning N. (1979),
Therapeutic Communities: Reflection and Progress. London, Routledge & Kegan Paul.
Kernberg O. (1982). Advantages and Liabilities of Therapeutic Community Models. In Pines M., Rafaelson L. (1982)
The Individual and the Group. New York, Plenum Press. (Trad.it. Il modello della comunità terapeutica. In Disturbi
gravi di personalità, Torino, Boringhieri, 1987).
Tagliabue L., Coppola E., Pellegrino R., Mauri L., Jonus A., Balconi M. (1988). Indagine preliminare sulle strutture
residenziali del Servizio Psichiatrico dell’USL n. 9 di Reggio Emilia. Rivista sperimentale di Freniatria, vol. CXII, 4.
1970 Matching
Ping-Nie Pao, direttore di Chestnut Lodge negli anni ’70, è sovente ricordato per aver
prodotto un importante studio interpretativo della schizofrenia, suddividendo la casistica in quattro
sottotipi: utilizzando come criteri la storia della famiglia, la crescita e lo sviluppo dell’infanzia e
nella latenza, l’integrazione sociale pre-morbosa e l’età dell’esordio della malattia, egli sviluppa una
prospettiva genetico-evolutiva dello sviluppo emotivo. I primi tre tipi sono in ordine di gravità
crescente, l’ultimo raggruppa i pazienti cronici di tutti e tre i sottotipi. Ma, nello stesso tempo in cui
sottolinea la valorizzazione della diagnosi differenziale, egli correla ad essa l’importanza del
dibattito relativo a come selezionare il terapeuta più adatto per ogni paziente. Ed il diritto del
paziente di motivare e scegliere. Il termine inglese potrebbe essere tradotto in italiano come
«incontrasi» tra due persone, paziente e terapeuta.
Pao P.-N. (1984). Disturbi schizofrenici. Milano, Cortina.
1970 Azione parlante, Oggetto parlante. Racamier 1
La concezione psicoanalitica, piuttosto ‘classica’, che nei pazienti psicotici sussista
un’inflazione del processo primario, unita però alla sua esperienza nella comunità La Velotte a
Besançon, con le sue caratteristiche di mutualità e transizionalità, ha condotto Racamier a
sviluppare un elemento originale di tecnica terapeutica, anzi due. Con i pazienti gravi il dialogo
verbale consapevole è spesso un’iniezione di pensiero secondario somministrata ad un paziente
sostanzialmente affaccendato in tutt’altre faccende, non tanto dissimile da un’iniezione di
psicofarmaci somministrata solo perché aderente ad un astratto protocollo di cura. In entrambi i
casi, che parola e farmaco corrispondano alle esigenze effettive del paziente è affidato al caso. Se la
parola consapevole è fuori gioco, c’è qualche altra forma d’intervento psicologico che si può
immaginare, e che si possa sottrarre alla pura casualità? Racamier (1997) fa due esempi.
Emiliana è una schizofrenica «dalla pelle porosa», che si immischia e si diffonde freneticamente
nelle faccende degli altri, salvo poi venire contagiata dalla loro angoscia che «assorbe come una
spugna». Allo psichiatra viene in mente di proporle l’acquisto di un poncho, proposta che la
paziente fa sua immediatamente: lo indosserà anche durante la stagione calda, a sua discrezione,
ogni volta che si sentirà angosciata, come segnale a tutti, operatori compresi, della sua esigenza di
un transitorio isolamento.
Berenice esplode di fronte ad ogni contrattempo sbattendo le porte, insultando tutti e fuggendo a
casa, dai genitori, i quali la vorrebbero tenere con loro e contemporaneamente non la sopportano
esattamente come i curanti, dai quali dovrà quindi tornare. All’ennesima replica del circolo vizioso,
lo psichiatra prende un foglio e lo piega a fisarmonica, trasformandolo in una specie di blocchetto
di biglietti d’ingresso: alla paziente il compito di programmare le trenta ore settimanali a sua
1
Questa sezione è stata redatta dal dr Giuseppe Sabucco.
17
disposizione, quando usarne, come e a che scopo; se ha dei dubbi, chieda consiglio a qualcuno
dell’équipe. Sarà la paziente ad impadronirsi, con senno e diligenza, di questo rovesciamento di
rapporto con i curanti.
Nel caso di Emiliana è stato attivato un oggetto parlante, nel caso di Berenice un’azione
parlante. Racamier sottolinea la natura transizionale degli oggetti implicati, così somiglianti al
«famoso orsacchiotto che ognuno di noi conosce dalla sua infanzia, e che un bel giorno Winnicott
ha saputo guardare con occhio intelligentemente nuovo, sottolineando come questo oggetto
intermediario sia al tempo stesso e del bimbo e della madre, appartiene a lui bebè e non a lui:
appartiene indistintamente a entrambi» (citato, 99). Nel caso degli oggetti e delle azioni parlanti
Sabucco (2005) vede una peculiarità nella loro natura transizionale. Lo psicoanalista-psichiatra
attiva tali strumenti in base alla conoscenza del paziente e ad una identificazione il più possibile
corretta a lui, ed in base all’esperienza della reciproca relazione. Sulla base di queste conoscenze
egli sceglie e propone (come la madre sufficientemente buona di Winnicott) un oggetto o un’azione
che sembrano poter essere d’aiuto al paziente nell’affrontare un nodo problematico, fonte di un
disagio che non è possibile conoscere e risolvere col pensiero e la parola. Oggetti e azioni parlanti
sono perciò scelti in relazione ad una sofferenza interiore del paziente, venendo tratti dal mondo
della realtà. Se la cosa ha successo, il paziente potrà toccare con mano che un elemento della realtà
ha contribuito a risolvere uno stato di sofferenza, e che la realtà non è perciò costituita solo da una
miscela di oggetti di bisogno immediato e di occasioni di frustrazione traumatica, ma che può
contenere anche risorse capaci di soccorrere e risolvere.
Racamier P.C. (1970). Le psychanalyste sans divan. Paris, Payot, aggiornato nel 1993. (Trad. it. Lo psicoanalista senza
divano. Milano, Cortina, 1982).
Racamier P.C. (1997). Una comunità di cura psicoterapeutica. Riflessioni a partire da una esperienza di vent’anni. In
Ferruta A. , Foresti G., Pedriali E., Vigorelli M. (a cura di). La comunità terapeutica. Tra mito e realtà. Milano, Cortina,
1998.
Sabucco G. (2005). Psicoanalisi e Schizofrenia. Ciclo di conferenze presso il Centro Milanese di Psicoanalisi.
1971 Area transizionale dell’esperienza
Può essere considerato come uno dei fattori aspecifici nel trattamento terapeutico. «Questo è
certamente un modo insolito di mettere le cose. Voglio dire che c’è una battaglia continua
nell’individuo, che dura tutta la vita, nel differenziare i fatti dalla fantasia, la realtà esterna dalla
realtà interna, il mondo dal sogno. I fenomeni transizionali appartengono all’area intermedia che io
chiamo un luogo di pace, perché vivendo in quest’area l’individuo si riposa dal compito di
distinguere i fatti di realtà dalla fantasia» (Winnicott, 1987, 188).
Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 1974.
Winnicott D.W. (1987). Lettere. Milano, Cortina.
1975 Fattori terapeutici della terapia di gruppo
Il concetto secondo cui dei fattori terapeutici operano nei trattamenti psicoterapeutici è basato
sull’assunto che è possibile stabilire una classificazione degli elementi positivi della terapia. «I
fattori terapeutici sono definiti come un elemento della terapia di gruppo che contribuisce al
miglioramento delle condizioni di un paziente e può dipendere dalle azioni del terapeuta, degli altri
membri del gruppo e del paziente stesso» (cfr. Crouch, Bloch e Wanlass, 1994, 270). È necessario
distinguere il concetto di fattore terapeutico (come definito prima) da due fenomeni strettamente
correlati: la condizione per il cambiamento e la tecnica. Una «condizione per il cambiamento» è
necessaria affinché i fattori terapeutici possano operare, ma non ha effetti curativi intrinseci. Un
gruppo, per esempio, ha bisogno di condividere una forte motivazione perché si attivino i fattori
18
terapeutici, ma i suoi membri non miglioreranno come conseguenza diretta della sola motivazione.
Analogamente, una «tecnica» è un mero strumento a disposizione del terapeuta per promuovere
l’attivazione dei fattori terapeutici (cfr. Bloch e Crouch, 1985). Gli studi di Yalom hanno
individuato 12 fattori nel lavoro di terapia di gruppo:
1. Coesione di gruppo
2. Altruismo
3. Universalità
4. Comprensione di sé
5. Apprendimento interpersonale (prodotto)
6. Apprendimento interpersonale (acquisito)
7. Ripetizione della scena familiare
8. Identificazione
9. Catarsi
10. Guida
11. Infondere speranza
12. Fattori esistenziali
Yalom I.D. (1975). The theory and practice of group psychoterapy, New York, Basic Books, nuova ed. 1995. (Trad. it.
Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Torino, Boringhieri, 1977, nuova ed. 1997).
Bloch S., Reibstein J., Crouch E., Holroyd P. e Themen J. (1979). A method for the study of therapeutic factors in group
psychotherapy. British J. of Psychiatry, vol. 134, 1979, 257-63.
Bloch S., Crouch E.C. (1985). Therapeutic factors in group psychotherapy, Oxford, Oxford University Press.
Crouch E.C., Bloch S., Wanlass J. (1994). Therapeutic factors: interpersonal and intrapersonal mechanisms. Handbook
of Group Psychotherapy (a cura di) A. Fuhriman, G. Burlingame. New York, Wiley, 269-313.
1976 Sicurezza e Terapia ambientale
Bruno Bettelheim (1976) conia il termine di «terapia ambientale». La vicenda personale di
Bruno Bettelheim è abbastanza nota: tristemente egli si è trovato a trascorrere circa un anno della
propria esistenza, nel 1938-39, a Dachau e Buchenwald, in quelli che all’epoca erano campi di
concentramento e prima che svoltassero in campi di sterminio. Il pensiero che anima Bruno
Bettelheim è che come si può costruire una organizzazione sociale per demolire gli uomini sul
piano personale ed infine fisico (i campi di concentramento e di sterminio), al contrario si può
cercare di costruire una organizzazione sociale per supportarne lo sviluppo ed il progresso: le
comunità terapeutiche.
«Il fatto di vivere in un ambiente istituzionale che protegge nei confronti delle incertezze della
vita e in cui contrariamente alle esperienze passate del malato, le persone importanti ai suoi occhi
dimostrano un profondo interesse per il suo benessere fisico ed emotivo e si sforzano di soddisfare i
suoi bisogni psicologici, questo fatto, nel corso di un lento processo, dovrebbe guarire la sua mente
malata» (Bettelheim, 1976, 12).
Sigmund Freud, in alcune pagine de Il disagio della civiltà si era fermato a riflettere sul
concetto di sicurezza. Freud propone il concetto di sicurezza nei termini di uno scambio: all’origine
della civiltà, gli uomini cedono una parte considerevole della libertà personale in cambio di una
certa misura di sicurezza, garantita dalla collettività, anche se questo scambio non è innocuo, ha
vantaggi e svantaggi, il vantaggio di una certa dose di sicurezza in cambio di una certa limitazione
della libertà personale. Dunque è uno scambio che genera anche afflizioni e sofferenze
psicologiche.
Zygmunt Bauman (2001, 128) ha evidenziato il termine che Freud usa per parlare della
sicurezza: nell’essenzialità della lingua tedesca la parola Sicherheit unisce tre esperienze che nella
lingua inglese sono distinte:
19
- sicurezza personale dalle aggressioni (security)
- garanzie delle scelte prive di rischi o comunque con un margine di rischio che si può
prevedere in anticipo (safety)
- certezza dell’ordine costituito, delle regole del gioco (certainty)
Ogni volta che un nuovo ospite o paziente entra in comunità mi sembra che noi assistiamo ad
esempio ad uno scambio di tale natura, sicurezza in cambio di limitazione della libertà personale
che la vita in comune comporta. Bettelheim parla di terapia ambientale alla luce del concetto di
«sicurezza» (Bauman, ibidem) sia per gli aspetti ambientali (esterni) che per gli aspetti «interni» al
mondo psichico. E’ da notare l’importanza che questo termine sta assumendo negli ultimi anni
all’interno di altri modelli teorici come quelli del cognitivismo e delle teorie dell’attaccamento, per
l’importanza che questi modelli attribuiscono all’attaccamento sicuro: una relazione ed una
atmosfera che nutra e sostenga le fragilità personali, creando una sicurezza nel mondo interno.
Bettelheim B. (1943). Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme. In Sopravvivere. Milano, Feltrinelli,
1981.
Bettelheim B. (1976). Psichiatria non oppressiva, Il modello della Orthogenic School per bambini psicotici. Milano,
Feltrinelli, pag. 12.
Bauman Z. (2001). Missing Community. Cambridge, Polity Press. (Trad. it. Voglia di Comunità. Bari, Laterza, 2003).
1979 Staff Support System Consultazioni di sostegno agli operatori
L’indagine che Isaac Menzies (1960) conduce sul servizio infermieristico in un reparto di un
ospedale inglese, gli ha permesso, nel tempo di quasi venti anni, di elaborare un modello
estremamente interessante di formazione per gli operatori della comunità terapeutica. Nella sua
ricerca del 1960, egli osserva che per fronteggiare l’ansia sollevata dalla stretta analogia tra ruolo
infermieristico e vicende fantasmatiche di lutto e distruzione, il reparto ospedaliero ha strutturato
dal punto di vista funzionale, organizzativo e culturale un sistema sociale deputato alla difesa
dall’ansia, fondato su un modello organizzativo rigido e parcellizzato: il compito di tali difese è
quello di proteggere e, dunque, impedire, ogni tipo di coinvolgimento emotivo nel rapporto
infermiere/paziente. A livello organizzativo questo si esprime attraverso un’eccessiva
frammentazione delle mansioni affidate a persone diverse; in un forte prevalere della componente
prescrittiva del lavoro a scapito di quella discrezionale; nel trasferimento frequente del personale da
una unità all’altra.
Queste difese «sociali» operano in modo inconscio, transpersonale ed anonimo, e si integrano
nei nodi della macchina organizzativa mimetizzandosi con le strutture razionali connesse con lo
svolgimento dei compiti istituzionali. Ad esempio la job rotation, sistema largamente usato per
creare flessibilità e competenze più ampie e versatili, può diventare un modo per impedire
l’affermarsi tra i dipendenti di relazioni più personali e improntate alla solidarietà, relazioni che
possono segretamente preoccupare il top management e far loro temere di non avere un pieno
controllo sui loro collaboratori. Se questo lavoro complesso di riflessione, elaborazione e rinuncia
non ha luogo, sia nella mente delle persone, sia nella cultura dell’organizzazione, allora sono pronti
i meccanismi proiettivi di elaborazione persecutoria del lutto e gli assunti di base di attacco/fuga,
che generano la cultura della paranoia, del sospetto, del nemico all’esterno e del capro espiatorio
all’interno, distruggendo progressivamente la fiducia di base e la creatività.
Volendo riassumere le difese sociali (le modalità difensive più diffuse per far fronte alle
ansietà connesse con le responsabilità della cura) possiamo indicare un intreccio di quattro
modalità:
a) la riduzione del peso della responsabilità decisionali per mezzo di verifiche e
controverifiche;
20
b) la collusione nella ridistribuzione di responsabilità ed irresponsabilità (con la creazione
dei ruoli fissi di incompetenti e capri espiatori);
c) l’indeterminatezza nella distribuzione formale delle responsabilità (con estrema difficoltà
a definire chi è responsabile, di che cosa e verso chi);
d) la diluizione del carico di responsabilità attraverso la delega ai superiori.
La rinuncia a queste modalità primitive di difendersi dalle ansie persecutorie e depressive –
che è frutto di culture organizzative abbastanza sane ma anche di leader non troppo malati – può
attivare la differenziazione tra responsabilità e colpa e contribuire a mantenere l’asse emotivo della
colpa (una costellazione non del tutto evitabile nei sistemi di cura) più entro l’area depressiva che in
quella persecutoria e orientarlo nel registro della preoccupazione per l’oggetto non meno che in
quello della tutela narcisistica del Sé. Nel suo articolo del 1979 egli introduce il termine ed il
modello Staff support system per indicare una modalità del lavoro di sostegno agli operatori che si
può svolgere all’interno di una comunità terapeutica. Il gruppo degli operatori di ogni unità si
incontra regolarmente sotto la conduzione di uno psicoanalista esperto per condividere e discutere
gli avvenimenti e le difficoltà emotive, personali e professionali degli operatori. Questo permette
una notevole diminuzione di tutte le difese sociali precedentemente esposte ed una notevole
diminuzione della turnazione degli operatori da una unità all’altra e/o del burn out. 2 Ritengo che
con questo termine di consultazioni di sostegno agli operatori nella storia della comunità
terapeutica dovrebbe iniziare il definitivo tramonto del termine «supervisione», che è nato
all’Istituto di Berlino nel 1930, e che delinea in modo specifico il percorso formativo degli
psicoanalisti.
Menzies, I.E.P. (1960). The Functioning of Social Systems as a Defence against Anxiety. Centre for applied social
research. London, Tavistock Institute of Human Relations, 1970. In Containing Anxiety in Institutions: Selected Essays.
London, Free Association Books, 1988. Anche in Trist E., Murray H. (eds), The Social Engagement of Social Science: A
Tavistock Approach. Vol.1: The Socio-Psychological Perspective, London, Free Association Books. [Trad. it. I sistemi
sociali come difesa dall’ansia: studio sul servizio infermieristico di un ospedale. Psicoterapia e scienze umane, 7,1/2,
1973. Anche in: M. Lang e K. Schweitzer (a cura di), Psicoanalisi e Socioanalisi. Napoli, Liguori, 1984; cap. V, I
Sistemi sociali come difesa dall’ansia: studi sul servizio infermieristico di un ospedale].
Menzies, I.E.P. (1979). Staff support systems: task and anti-task in adolescent institutions. In Lang M., Schweitzer K. (a
cura di) (1984), Psicoanalisi e socioanalisi. Napoli, Liguori; cap VI, Compito e anti-compito nelle istituzioni per
adolescenti.
(Personalmente oltre al lavoro di Isaac Menzies trovo interessantissimo il lavoro di Robert Hinshelwood: Suffering
insanity (2004). Hove and New York, Brunner- Routledge).
1982 Assemblea / Community meeting
La Riunione di Comunità resta nella cultura delle comunità inglesi uno dei pilastri
fondamentali, anche se costituisce l’identificazione più minacciosa per i membri della comunità
terapeutica. Condotta settimanalmente dal Direttore della comunità e dagli altri membri della
leadership, tanti autori hanno dibattuto tra una sua funzione propriamente psicoterapeutica ed
interpretativa, come una terapia di grande gruppo, ed un modello non interpretativo, orientato verso
un compito. Vi è poi una serie di autori (tra cui lo scrivente) orientati verso un approccio
intermedio: la assemblea di comunità oscillerebbe a seconda dei periodi e delle difficoltà che stanno
vivendo i residenti verso scelte operative nella vita della casa, o verso momenti riflessivi sulle
difficoltà reali o fantasmatiche. Qualora il periodo storico sia particolarmente difficile può diventare
opportuno programmare una intera settimana di assemblea, con due riunioni giornaliere (Corulli
1997).
Robert Hinshelwood in un interessante articolo (Hinshelwood, 1982) evidenzia il pericolo che
2
Personalmente, oltre a questo lavoro di Menzies, trovo interessantissimo il lavoro di Robert Hinshelwood: Suffering
insanity (2004). Hove and New York, Brunner- Routledge.
21
possa diventare una sorta di streap tease individuale in pubblico nel caso di pazienti con
problematiche di seria ansia di protagonismo, una psicoterapia duale pubblica qualora vi sia un
incontro tra questo tipo di residenti ed un leader carismatico. Hinshelwood sottolinea l’importanza
che il conduttore e tutti gli operatori conservino ben presenti nella loro mente i fantasmi dei
pazienti: la paura di impazzire, l’angoscia di morte, le serie problematiche di reinserimento sociale,
i traumi del passato….
Hinshelwood D.R. (1982). Complaints about the Community Meeting. Int. Journal of Therapeutic Communities, Vol.3
No. 2, 88-94. (Trad. it. Lagnanze riguardanti la riunione di comunità, in www.terapiadicomunita.org, anno 2, n. 9.
febbraio 2002.
Corulli M., La riunione di comunità. in Corulli M. (a cura di), (1997). Terapeutico e antiterapeutico. Cosa accade nelle
comunità terapeutiche? Torino, Bollati Boringhieri, pag. 124-142
1987 Fattori terapeutici della comunità terapeutica
Quando nel ’59 Maxwell Jones decide di lasciare l’Henderson Hospital per trasferirsi negli
Stati Uniti, la comunità terapeutica ha una grossa reazione abbandonica e tutto lo staff si sente in
qualche modo tradito: dopo la sua partenza subentra un periodo di crisi, tanto che nel ’65, anno in
cui arriva un nuovo direttore, John Stuart Whiteley, il Consiglio della Contea sta interrogandosi
sull’opportunità di chiudere l’istituzione. I fattori terapeutici sono stati esaminati nel lavoro della
psicoterapia di gruppo da vari autori, ma in modo particolare da Irvin D. Yalom (1975), proprio a
partire da questo modello teorico anche nelle comunità terapeutiche.
J. Stuart Whiteley e Marion Collis (1987) somministrarono un questionario nel quale
cercavano di rilevare quale era stato per residenti ed operatori l’evento più significativo nel corso di
un periodo trascorso in comunità. La loro ricerca è stata successivamente replicata in altre comunità
terapeutiche da P. van der Linden (1987) e da Stefan J.A.M. van den Langenberg e Jack J.M.
Dekker (1989) e nel 2002 presso la comunità Il Porto (Piscopo, 2002). La ricerca di Whiteley e M.
Collis all’Henderson Hospital di Londra sembra nascere dalla constatazione che molti degli eventi
più significativi per i pazienti si svolgono o si sono svolti fuori dagli incontri considerati
ufficialmente dagli operatori come ‘momenti terapeutici’: dai racconti dei pazienti emerge
l’importanza da loro attribuita ai ‘momenti informali’. Quanto appare terapeutico ai pazienti può
anche non coincidere con quanto appare terapeutico agli operatori, aspettative di guarigione e
rappresentazioni della malattia e della cura possono variare profondamente a seconda dei
protagonisti. Appare pertanto interessante provare a studiare le differenti percezioni e
rappresentazioni. Nel questionario, i pazienti intervistati sono invitati a descrivere i momenti più
significativi per loro, nell’ultima settimana e nel corso di tutto il periodo residenziale (I soggetti
coinvolti lo hanno compilato in due occasioni separate, a distanza di due settimane, il che conferisce
alla ricerca un valore più significativo). Compito dei ricercatori sarà quello di provare a catalogare i
momenti narrati in base ai criteri descritti da Yalom: catarsi, accettazione, altruismo, comprensione
di sé, infondere speranza, guida, apprendimento interpersonale, apprendimento vicario,
manifestazione di sé e universalità.
Sebbene si tratti di una «ricerca pilota», le conclusioni alle quali sono arrivati i ricercatori
nelle varie comunità, pur a distanza di sede, tempo, modalità terapeutiche e problematiche dei
pazienti, sono piuttosto convergenti. Il fattore terapeutico dell’infondere speranza si conferma di
gran lunga il più importante per i residenti; si colloca al secondo posto nelle descrizioni degli
operatori, con frequenze significativamente minori. È un fattore costantemente riconosciuto come
importante sia dai pazienti del primo periodo (tre mesi) che da quelli del periodo più lungo (un anno
e mezzo, due anni), nell’arco di tutto il periodo di permanenza in comunità. Sembra che all’inizio
della loro permanenza in comunità i pazienti abbiano una speranza sulla riuscita del trattamento
terapeutico e cerchino nello staff degli operatori delle figure guida per intraprendere positivamente
il percorso comunitario. L’altruismo corrisponde al secondo fattore terapeutico per i residenti;
22
mentre sembra essere considerato come meno importante dagli operatori. Il fattore terapeutico
dell’accettazione si colloca al terzo posto in ordine di importanza in entrambe le categorie; la
comprensione di sé assume per i pazienti un valore pari a quello dell’accettazione. La guida assurge
invece a fattore terapeutico più rilevante per il gruppo degli operatori, ma viene scarsamente
considerata dai pazienti. I fattori terapeutici dell’infondere speranza, dell’accettazione, della catarsi
e della guida sembrano essere i più importanti per i pazienti durante il primo periodo. Le due forme
di apprendimento (interpersonale e vicario) sono invece valorizzate dai pazienti più «anziani».
Anche il fattore della comprensione di sé compare più avanti nel tempo: come presumibilmente si
pensava all’inizio di questa ricerca, i pazienti che beneficiano degli effetti positivi del trattamento
comunitario acquisiscono una migliore consapevolezza di sé con il passare del tempo, cominciano
ad imparare dalle interazioni con altre persone. Tutti i pazienti sembrano dare una grande
importanza ai momenti del «tempo libero non strutturato», ai suggerimenti dei loro compagni di
camera, «compagni di percorso» con vicende analoghe alle proprie, pazienti più «anziani»…, ma in
modo particolare sembrerebbe che i pazienti appena entrati diano più importanza alle osservazioni
degli altri pazienti che si verificano nei momenti non ufficializzati (assemblee, gruppi, riunioni).
A distanza di venticinque anni potremmo dire, in una interpretazione riassuntiva, che i
pazienti sembrano vivere il periodo che trascorrono in comunità come una progressione: un primo
periodo di alcuni mesi di holding, e successivamente di insight; solo verso la fine dell’anno una
mentalization. Gli operatori, sovente o a volte, sembrano credere, forse un po’ ingenuamente, che i
pazienti siano già molto prima, capaci di apprendimento e riflessione.
Whiteley J.S., Collis M. (1987). The therapeutic factors in group psychoterapy applied to the therapeutic community.
Int. Journal of Therapeutic Communities, vol. 8, n.1, 21-32. [Ed. it. in Corulli M. (a cura di), Terapeutico e
antiterapeutico. Cosa accade nelle comunità terapeutiche? Torino, Bollati Boringhieri, 1997, 29-40].
Linden P. van der (1987). Dat gaat je niks aan’. Internal publication. Castricum, Holland, Duin en Bosch Hospital.
Langenberg S.J.A.M. van den, Dekker J.J.M. (1989). What is ‘Therapeutic’ in the Therapeutic Community? Int.
Journal of Therapeutic Communities, vol. 10, n.2, 81-90.
Piscopo R. (2002). La percezione della comunità terapeutica da parte di operatori e residenti. In
www.terapiadicomunita.org anno 2, n.12.
1989 Culture of inquiry
Dobbiamo ancora a Tom Main l’introduzione di un valore fondamentale come quello della
«Cultura dell’indagine», ripreso poi da Kingsley Norton e da Bob Hinshelwood. Culture of inquiry
indica un atteggiamento mentale vigile e sensibile, che va mantenuto tale nonostante tutte le
tentazioni di sopprimerlo e di farlo dormire, un’attenzione costante al significato della vita mentale
e dei processi relazionali che hanno luogo tra le persone. Attenzione che va preservata anche dal
dogmatismo e dalle pigrizie intellettuali perché è sempre possibile sia perdersi nei modelli, negli
schemi, nelle routine, che ci rendono ciechi alla vita psichica, sia sposare con entusiasmo questa o
quella chiave interpretativa che inchiodano ogni processo a una sua spiegazione obbligata e non
permettono più a chi ci vive dentro di lasciarsi sorprendere e di continuare a interrogarsi. In una
parola, di aprire la porta al pensiero e di lasciare aperta questa porta (Main 1989; Norton 1992;
Griffith e Hinshelwood, 1995).
La Comunità terapeutica «è intesa come sistema molto strutturato nella quotidianità, che
coinvolge e responsabilizza attivamente tutte le figure professionali e i pazienti con momenti
ritualizzati a più livelli di auto osservazione di tutte le sue strutture e dinamiche interne,
supervisione, riflessione continua, “culture of inquiry” (cultura della ricerca) che fornisce strumenti
di indagine sui problemi personali, interpersonali, intersistemici e lo studio degli impulsi, delle
difese e relazioni così come sono espressi e strutturati socialmente» (Main, 1983, 143).
La cultura dell’indagine (culture of inquiry), che anima ogni aspetto e ogni momento della
vita ospedaliera e che «fornisce strumenti di indagine e riflessione sui problemi personali,
interpersonali e intersistemici e lo studio degli impulsi, difese e relazioni così come sono espressi e
23
strutturati socialmente» (Main, 1989). Questo continuo processo di riflessione sulle dinamiche
dell’intera struttura, che coinvolge a vari livelli non solo i pazienti e l’équipe curante, ma anche il
personale amministrativo e impiegatizio (segretari, cuochi, inservienti, i portieri, i giardinieri
eccetera) è un lavoro impegnativo e faticoso, ma che preserva tutti dal sentirsi apatici, annoiati o
espulsi in un ambiente che concorre a tenere costantemente viva una cultura terapeutica.
Peter Griffiths e Robert Hinshelwood (1997), in un loro interessante lavoro, sottolineano
ancora una volta la necessità di conservare uno spazio di riflessione, nonostante i ripetuti tentativi di
evitamento messi in atto sia dai pazienti che dagli operatori. I due autori descrivono anche come,
nell’ambito della pratica quotidiana al Cassel Hospital, siano stati concepiti degli interventi
terapeutici specifici finalizzati ad esplorare i fattori che determinano sia i miglioramenti che i
momenti di crisi, che di volta in volta si presentano nella quotidianità, mantenendo così attiva e
vitale la cultura dell’indagine. Sono numerose le riunioni degli operatori del Cassel Hospital, che
hanno il fine di mantenere viva l’indagine e la comprensione, due aspetti cruciali per la pratica
terapeutica con i pazienti ed evitar di usare in modo difensivo i confini professionali ed i modelli
teorici. Gli operatori possono ricorrere a meccanismi primitivi di difesa, scindendo i sentimenti
ostili e proiettandoli su un’altra persona, molto spesso proprio su un collega della stessa squadra.
Tom Main, nel suo scritto per un seminario, The Ailment (1957) affermava che se questi
sentimenti non sono presi in considerazione ed esplorati, l’équipe può giungere a sentirsi frustrata,
piena di rabbia e frammentata. Avendo pienamente riconosciuta l’esistenza di queste dinamiche,
nell’organizzazione delle attività del Cassel Hospital sono state inserite riunioni a scadenza regolare
nel corso delle quali i diversi membri dell’équipe multidisciplinare possono discutere sul proprio
operato e sui sentimenti generati in loro dai pazienti.
Main T.F. (1989). The Ailment and other psychoanalytic essays. London, Free Association Books (Trad. it. La comunità
terapeutica e altri saggi psicoanalitici. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992).
Norton K. (1992). A culture of enquiry: its preservation or loss. Therapeutic Communities Vol.1 (1), 3-26 (Trad. It. La
cultura dell’indagine: la sua conservazione o la sua perdita. In www.terapiadicomunita.org anno 1. N. 3, genn. 2001).
Griffitths P., Hinshelwood, R. (1995). A culture of inquiry: Life within a hall of mirrors. Cassel Monograph No 2.
London, Karnac, Griffiths P., Pringle P. (eds). (Trad.it. Una cultura dell’indagine: la vita in una sala degli specchi),
website Psychomedia, www.psychomedia.it)
Corulli M. (a cura di) (1997). Terapeutico e antiterapeutico. Cosa accade nelle comunità terapeutiche? Torino, Bollati
Boringhieri, 29-40.
1989 Supervisione nelle istituzioni
(Tutti i lavori sembrano convergere verso la preoccupazione per un gruppo di lavoro che si è
«ammalato»: scisso in due, o confuso, o paralizzato, e che sia compito di un terzo – il supervisore –
rianimare il gruppo. Lacunosa la metodologia e la terminologia?)
Bolognini S., Mantovani M. (1999). Le attività di supervisione. In Berti Ceroni G.., Correale A. (a cura di). Psicoanalisi
e Psichiatria. Milano, Cortina.
Conforto C. (1999). Un’esperienza di supervisione di gruppo. In Conforto C., Giusto G.., Pisseri P., Berruti G.. (a cura
di), Comunità. Torino, Bollati Boringhieri.
Correale A. (1993). La supervisione nei servizi pubblici. In Asioli F., Ballerini A., Berti Ceroni G.. (a cura di),
Psichiatria nella Comunità. Torino, Bollati Boringhieri.
Ferruta A. (1998). La formazione. In Ferruta A., Foresti G., Pedriali E., Vigorelli M. (a cura di), La Comunità
Terapeutica. Tra mito e realtà. Milano, Cortina.
Ferruta A. (2001). La supervisione/consulenza è davvero necessaria al funzionamento delle Comunità Terapeutiche.
Atti della Giornata di studio: «Le comunità sono terapeutiche?». www.psychomedia.it
Galli T. (1994). La supervisione nel lavoro istituzionale. In Vigorelli M. (a cura di), Istituzione tra inerzia e
cambiamento. Torino, Bollati Boringhieri.
Hinshelwood R.D. (1995). Lo spazio riflessivo. Il gruppo come contenitore di psicosi. In Correale A., Neri C., Contorni
S. (a cura di), Fattori terapeutici nei gruppi e nelle istituzioni. Roma, Borla.
Tagliacozzo R. (1989). Funzione della supervisione nelle istituzioni. Gruppo e Funzione Analitica, 10, 45-48.
Tagliacozzo R. (1989). La supervisione. In Semi A.A. (a cura di), Trattato di psicoanalisi. Vol 2. Milano, Cortina.
24
1991 Mentalization
Il termine (Bateman & Fonagy, 2004; vedi anche Fonagy, 1991, e Fonagy & Target, 1997))
vuole indicare che vi è una relazione importante tra i nostri stati mentali ed il nostro
comportamento: la psychological mindedness (la funzione riflessiva) si riferisce alla capacità
individuale di valutare le relazioni fra pensieri, sentimenti e azioni al fine di apprendere i significati
e le cause delle proprie esperienze e dei propri comportamenti. Non vuole affermare una sorta di
primato della ragione, ma vuole solo sottolineare l’importanza della capacità di focalizzarsi sui
propri stati mentali o su quelli degli altri, in particolare nelle spiegazioni e rappresentazioni del
comportamento umano.
Fonagy P. (1991). Pensare sul pensiero: osservazioni cliniche e teoriche sul trattamento di un paziente borderline. In
Fonagy P., Target M., Attaccamento e funzione riflessiva. Milano, Cortina 2001.
Fonagy P., Target M. (1997). Attaccamento e funzione riflessiva: il loro ruolo nell’organizzazione del Sé. In Fonagy P.,
Target M., Attaccamento e funzione riflessiva. Milano, Cortina 2001.
Bateman A., Fonagy P. (2004). Psychotherapy for Borderline Personality Disorder. Mentalization-Based Treatment.
Oxford University Press. (Trad. It. Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Milano, Cortina 2006).
1998 Ingegneria sociale
Robert Hinshelwood in un interessante intervento (Hinshelwood, 1998) ha voluto sostenere
l’importanza della consapevolezza che creando nuove istituzioni di salute mentale si diventa,
necessariamente ‘ingegneri sociali’. In questo senso non è sufficiente porsi il problema delle
dimensioni delle istituzioni o semplici problemi di tecnica terapeutica. È fondamentale interrogarsi
su come la comunità è organizzata, quali sono i fattori di aiuto che essa offre e quale manutenzione
è opportuno che sia effettuata di continuo perché la comunità non degradi in forme antiterapeutiche. Il problema diventa dunque quello di capire se siamo in grado di progettare e
pianificare istituzioni che siano terapeuticamente buone, e quali principi possano essere alla base di
questi metodi. L’ingegneria sociale ha una storia difficile. Il decorso del ventesimo secolo è stato
tale che ci si rende esitanti nel progettare una società. Le società pianificate in larga scala in Russia
e in Germania durante la prima metà del secolo sono state spaventose. Ma ebbero anche un
successo impressionante. Ben prima della loro caduta, hanno causato danni immensi ad un
incalcolabile numero di persone, sia nei loro stessi paesi che in altri. Un paternalismo diffuso su
scala nazionale fu sostenuto dalla tecnologia del ventesimo secolo, creando risultati non del tutto
dissimili dalla istituzionalizzazione.
Gli esperimenti di Solomon Asch (1952), che hanno dimostrano come la nostra percezione
visiva possa essere influenzata dalla pressione sociale, e quello assai più inquietante di Stanley
Milgram (1964), che ha dimostrato come la pressione sociale può essere così forte da fare
considerare «normali» forme di punizione come scosse elettriche che, se reali, provocherebbero la
morte, ci costringono a riflettere. Le persone si influenzano a vicenda (sia per gli aspetti positivi che
per quelli negativi) mediante la qualità emotiva delle relazioni che esse stabiliscono. Naturalmente,
lasciate a se stesse, le strutture sociali e le organizzazioni delle nostre istituzioni per la salute
mentale crescono senza una pianificazione, per diventare gravemente disadattate e dannose.
Nessuno consapevolmente pianifica una istituzionalizzazione, ma risultati simili si verificano per le
società pianificate. L’ingegneria sociale in questo senso è davvero eticamente ambigua. Tuttavia fa
nascere sistemi nei quali le relazioni etiche possono svilupparsi. Sappiamo inventare metodi di
ingegneria sociale che possono pianificare istituzioni terapeuticamente buone? Quali principi
sarebbero alla base di tali metodi?
Ma assumere il problema dello sviluppo di una comunità terapeutica implica necessariamente
porsi alcuni interrogativi: la domanda e le domande che potremmo porci oggi potrebbero essere così
25
formulate: Come costruire una istituzione sociale terapeutica? Come modulare una istituzione
sociale terapeutica a seconda della tipologia di residenti (disturbi da psicosi, disturbi di personalità,
adolescenti, autori di reato…)?


Esempi di risposte semplicistiche: i vecchi manicomi erano grandi ed isolati, mentre le
comunità terapeutiche sono piccole e sovente inserite nel tessuto cittadino….
Esempi di aspetti pericolosi: forme di paternalismo a lungo termine, forme di sfruttamento
psicologico, distorsioni delle persone coinvolte.
Il paternalismo di gruppo non aiuta ad esplorare i metodi di «fronteggiare» le situazioni,
informa soltanto circa la conoscenza superiore che il gruppo ha sul soggetto, e circa le soluzioni che
egli deve adottare. In questo modo il gruppo fa pressione sul soggetto affinché si uniformi e, così
facendo accetti il punto di vista che il gruppo ha di lui.
Dal punto di vista psicoanalitico, la responsabilità ha un forte peso sul super-Io, il che può
provocare molti sentimenti di colpa. La colpa inconscia o il timore di essere colpevole è un aspetto
centrale per un grande impegno a vivere in modo maturo e civile. La colpa ingiusta ha una durezza
intensamente persecutoria e torturante. Dobbiamo ricordare che la caratteristica centrale
dell’istituzionalizzazione è la perdita di una parte attiva della responsabilità. Si è perduta perché
l’attività genera responsabilità e di conseguenza il senso di colpa. La ricollocazione inconscia della
responsabilità fra chi dà aiuto e chi ne ha necessità è l’elemento cruciale della distorsione della
personalità di operatori e pazienti. Pertanto la responsabilità ha un posto centrale nella dinamica
dell’istituzione terapeutica.

Aspetti costruttivi:
- Una comunità è una situazione di vita in comune, pertanto le regole ordinarie di condotta
etica fra persone nella vita consueta, devono essere valide anche in questa
organizzazione.
- Lo sfruttamento nelle sue forme rozze – sessuale o economica – non si deve verificare
tra i membri della comunità.
L’etica è pertanto una forma di integrazione sociale fondamentale.
- Altro elemento chiave di una istituzione per la salute mentale è la psicodinamica che
circonda la responsabilità. Nella comunità terapeutica, come si è sviluppata in Gran
Bretagna, parte della responsabilità si è riversata sull’intero sistema di pazienti ed
operatori.
La comunità terapeutica è candidata ad essere una forma etica di ingegneria sociale.
Asch Solomon (1952). Social Psychology. New Jersey, Prentice-Hall.
Milgram S. (1964). Group pressure and action against a person. Journal of Abnormal and Social Psychology, 69, 137143.
Goffman I. (1961). Asylums. New York, Doubleday.
Hinshelwood R.D. (1998). Aspetti etici del lavoro di comunità terapeutica. In www.terapiadicomunita.org, anno 1, n.2,
2001.
1998 Housekeeper: Governante della casa
Riconoscere l’importanza dei concetti di atmosfera e di holding, l’importanza che i pazienti
attribuiscono ai «momenti informali» (soprattutto da parte dei pazienti del primo periodo) ha
comportato per la comunità Il Porto concretizzare la cura di questi aspetti da parte di una nuova
figura professionale. Non trovando nella lingua italiana un altro termine con il quale denominare
questo incarico professionale, abbiamo chiesto in un primo periodo di otto anni ed in un periodo
successivo di altri sei anni, prima ad una assistente sociale e successivamente ad una psicologa con
26
orientamenti clinico, di accettare l’incarico di governante della casa. In tempi passati era persino
accaduto che entrassero in comunità nuovi residenti e trovassero la loro nuova camera da letto
ancora in grande disordine….
Bileci F. (2011). Atmosfera e governance della casa: una comunità italiana sul modello inglese. Relazione presentata al
convegno annuale dell’Association Therapeutic Community a Birmingham. In www.terapiadicomunita.org, anno 11, n.
49.
1999 Consiglio direttivo / Gruppo responsabili
Circa una decina di anni fa in Costa d’Avorio ho fatto un lungo viaggio ed ho visitato
numerosi villaggi. In Costa d’Avorio vi sono dodici popolazioni degli Akan, e presso una di esse, in
un villaggio degli Ashanti, ho partecipato per due giorni ad un Consiglio degli Anziani. Presso tutte
le popolazioni Akan, nei villaggio vi è un capo villaggio, un Consiglio degli Anziani che
rappresentano gli interessi e le opinioni delle famiglie più importanti del villaggio ed un Consiglio
dei Notabili, costituito dalle personalità più stimate all’interno del villaggio stesso. Così al ritorno
da questo viaggio, ho ripensato a come organizzare la leadership della comunità con un Gruppo
Responsabili che si riuniscono settimanalmente e valutano l’andamento della comunità nel breve
periodo, ed un Consiglio Direttivo, che si riunisce ogni tre mesi e discute i progetti a lungo termine.
Il capo villaggio degli Ashanti mi aveva anche raccontato che ogni anno effettuava una
riunione di tutti gli abitanti del villaggio, dove si faceva festa e si discutevano i temi più importanti
per la vita del villaggio stesso. Così ne parlai con il mio «Consiglio degli Anziani» (Gruppo
Responsabili) e con Robert Hinshelwood, e negli anni abbiamo provato ad organizzare qualche cosa
del genere.
Consiglio direttivo: per Statuto, l’Associazione ha un Consiglio direttivo, composto da
colleghi stimati che hanno lasciato l’incarico, consulenti amministrativi e legali.
Gruppo responsabili: ogni giovedì mattina si riunisce il gruppo con la presenza del presidente,
del segretario amministrativo, della responsabile dell’accettazione, della governante dei due
direttori clinici e tre responsabili delle tre unità.
Occasionalmente, circa una volta all’anno, la comunità organizza una giornata di lavoro
assembleare, con la partecipazione del maggior numero possibile di residenti ed operatori.
Una volta l’anno, in occasione della approvazione del Bilancio (che per la legge italiana deve
essere approvato entro il 31 aprile) si svolge una assemblea di tutti gli operatori ove viene letta e
discussa la relazione morale ed il bilancio. A mio avviso il livello di informazione è molto elevato,
il potere decisionale ha comunque una distribuzione gerarchica (o piramidale). Questa
organizzazione della comunità terapeutica risponde al concetto di «leadership multipla» formulato
da Maxwell Jones ?
Corulli M. (2007). Ingredienti per un modello di comunità terapeutica che incontri la sofferenza di un borderline. In
www.terapiadicomunita.org , anno 8, n.38, febbraio 2008.
1999 Lutto preliminare
Operazione complessa di cesura con la vita precedente che il paziente e la famiglia vivono al
momento di entrare in comunità, che comporta un nuovo movimento affettivo per potersi fidare ed
affidare ad una istituzione ed alle figure professionali che si occuperanno del paziente. Vi è come
una cesura rispetto al proprio periodo di vita precedente, un minimo di disponibilità a rimettersi in
discussione, un lutto del proprio narcisismo personale, un senso di colpa da parte dei familiari,
oppure un sentimento di liberazione e speranza per il futuro, più probamente tutti questi aspetti.
Correale A. (1999). Funzioni terapeutiche e comunità residenziali. In Conforto C., Giusto G.., Passere P., Berruti G.. (a
27
cura di), Comunità, natura, cultura…, terapia. Torino, Bollati Boringhieri, 143-159.
2002 Consultazione di sostegno all’Io professionale – Discussione casi clinici –
Giornate di discussioni a tema – Task force
Nelle Cliniche psichiatriche il ricovero di un paziente è frequentemente caratterizzato da una
«messa a riposo» del paziente stesso per numerose ore della giornata e dal mantenimento di una
grande distanza tra professionisti e pazienti, mentre in una comunità terapeutica la frequentazione
quotidiana tra operatori e residenti è elevatissima. L’analisi e lo studio di una «cattiva»
organizzazione difensiva dei terapeuti (vedi Menzies, 1960) ci ha naturalmente portati a studiare
come promuovere un appoggio al personale che cerchi di proteggerlo da sentimenti di impotenza, di
ansia, di colpa e depressione, e lo aiuti a trovare un adeguato svolgimento dei compiti, aspetti
indispensabili per un buon funzionamento di una comunità.
A) Consultazione di sostegno all’Io professionale
Per circa dieci anni Miriam De Bernard, una collega deceduta nel 2000, ha condotto
mensilmente presso la nostra comunità gruppi di psicodramma etero centrato. Con Miriam abbiamo
provato a coniugare il concetto di Io professionale, formulato da Michel Balint (vedi 1957: Io
professionale), con quello di Staff Support System (v. 1979: Staff Support System):



per indicare l’importanza da parte del conduttore e da parte del gruppo di attenersi nei
confini di questo ambito della personalità degli operatori, e non formulare ingerenze in altri
ambiti della personalità o della vita personale degli operatori;
per indicare l’importanza che la discussione degli operatori delle Unità non entri nel merito
della discussione dei modelli organizzativi della istituzione (compito del gruppo dirigente, v.
1999: Consiglio direttivo / Gruppo responsabili)…
… bensì resti nei confini dei problemi e delle difficoltà emotive e professionali degli
operatori nelle loro relazioni con i pazienti.
Quando la consultazione di sostegno agli operatori è mal condotta, la vita della comunità è
messa in grande pericolo ed in un tempo passato abbiamo anche sperimentato una esperienza
drammatica di un collega conduttore, credo affetto da narcisismo maligno, che invece di ascoltare la
sofferenza o le difficoltà degli operatori, si sostituiva agli psichiatri direttori clinici delle Unità
nell’indirizzare il progetto terapeutico dei pazienti, insisteva sul fatto che la comunità andava
cambiata, seminando una fantasia o un fantasma di cambiamento, ma senza neanche esplicitare
quale. In quella occasione abbiamo purtroppo sperimentato quanto l’ansia di potere e di
protagonismo di un conduttore anziché aiutare il personale nel raggiungimento di una crescita
professionale, generi confusione negli operatori, disconferma del modello della istituzione,
frammentazione nelle équipe, dinamiche scissionali, discordia nell’accoglienza dei nuovi pazienti.
Le discussioni di sostegno all’Io professionale sono state condotte da diversi psicoanalisti,
con continuità per periodi di alcuni anni (da tre a cinque) anche con orientamenti diversi
(gruppoterapeuti, psicodramma etero centrato, gruppi Balint…): Mario Perini, Loredana Gallo,
Donatella Musso, Giorgio Astengo….
Sostegno all’Io professionale significa pertanto:



Dare una risposta formativa al rischio di burn-out degli operatori
Analizzare la relazione operatore-paziente, che ha a che fare con una dimensione duale e di
gruppo.
Rispondere alla richiesta di formazione alla relazione operatore-paziente.
28
Ormai da circa dieci anni presso la comunità Il Porto il conduttore effettua incontri mensili
ciascuno di un ora e mezza con quattro gruppi: gli operatori dell’Unità per disturbo da psicosi, gli
operatori dell’Unità per disturbi di personalità, gli operatori dell’Unità di fase avanzata e
dell’alloggio terapeutico, gli operatori del Servizio accettazione. È chiaro che una formazione di
tale genere non può che essere una formazione di gruppo, cioè attraverso il gruppo di lavoro. Nella
formazione supportiva al gruppo, il problema del singolo operatore diventa secondario rispetto alla
modalità di risposta del gruppo ai problemi che il paziente pone. L’analisi verte sullo stile di lavoro
dell’équipe, sulla coerenza operativa, sull’efficacia dell’intervento e sul significato che assumono le
prestazioni del servizio per l’utente e per gli operatori. Nel caso che il conduttore utilizzi la tecnica
dello psicodramma etero centrato (Gallo, 2004), è interessante come la riproduzione della scena
virtuale permetta a tutto il gruppo di assistere e discutere il problema vissuto nell’incontro
operatore-paziente.
B) Discussione di casi clinici
Invitando periodicamente colleghi di ambiti formativi diversi a discutere due casi clinici nella
mattinata del lunedì, gli operatori delle Unità possono sentirsi aiutati per i pazienti che più
preoccupano. L’oggetto della discussione è evidentemente diverso da quello della consultazione di
sostegno all’Io professionale degli operatori, verte sul «percorso comunitario» e sul «progetto
terapeutico» del paziente, entrambi aspetti che sono tra i compiti del Direttore clinico e del
Responsabile dell’Unità. La continua discontinuità dei colleghi esterni invitati alla discussione di
casi clinici invita naturalmente gli operatori dell’Unità a riflettere sui differenti aspetti di
formazione professionale dei conduttori e sui diversi e molteplici aspetti delle problematiche dei
pazienti e dei possibili approcci. Ad esempio, negli ultimi anni è frequente che vengano invitati
colleghi con una esperienza nell’ambito della psichiatria forense.
C) Giornate di discussione a tema
Occasionalmente, circa ogni due anni, la comunità organizza una giornata di lavoro
assembleare, condotta da due o più conduttori esterni e con la partecipazione del maggior numero
possibile di residenti ed operatori. Alcuni mesi prima viene individuato un tema e vengono invitati
almeno due conduttori esterni alla comunità stessa. Negli anni abbiamo dibattuto in modo
assembleare temi quali la convivenza, la sessualità, la sicurezza, le dimensioni della Legge interna,
la ritualizzazione, l’organizzazione stessa della quotidianità..., invitando psicoanalisti, magistrati,
antropologi a condurre queste giornate di lavoro collettivo. In genere il tema viene concordato e
discusso con alcuni mesi di anticipo all’interno della assemblea di comunità. Una volta individuato
il tema, un piccolo gruppo di operatori si mette al lavoro con un piccolo gruppo di rappresentanti
dei residenti, predisponendo un agile questionario da somministrare. Profilandosi come una sorta di
«domanda che la comunità pone a se stessa» e rinunciando quindi a qualsiasi pretesa di oggettività
in senso stretto si opta per un questionario assai sintetico e composto fondamentalmente di frasi da
completare, privilegiando così l’immediatezza delle risposte ed il rapporto empatico con
l’operatore. Ad esempio, una giornata verteva sul tema de «La sicurezza» condotta con Robert
Hinshelwood e Cecilia Pennaccini, un’altra sul tema de «La affettività e la sessualità» condotta con
Anna Ferruta, Marco Bouchard, un amico magistrato, e con Cecilia Pennaccini, un’amica
antropologa ed africanista (vedi Corulli, 2007). Negli ultimi due o tre anni stiamo lavorando molto
sul tema della Legge: responsabilità giuridiche dell’istituzione, degli operatori e dei residenti;
educazione alla legalità dei residenti. Ma un tema emergente nel corso del lavoro terapeutico è
frequentemente quello della «disorganizzazione del desiderio» per i pazienti che hanno superato la
fase più acuta e drammatica e sono entrati in una fase apparentemente meno problematica, e tuttavia
molto passiva.
29
D) Task force
Con Mario Perini, che dirige in Italia Il Nodo Group e si ispira al modello Tavistock, abbiamo
effettuato quasi dieci anni di esperienze molto diverse ed articolate tra loro, che hanno previsto
anche l’utilizzo di task–force quando accade che l’équipe di una unità avverte un sentimento di
difficoltà così elevato da sentirsi quasi paralizzata, o molto ferita da un evento dolorosissimo come
il suicidio di una paziente. Quando emerge un problema particolare a volte non appare opportuno
che tutti gli operatori di una Unità o tutti gli operatori della comunità si fermino per riflettere,
arrestando le pratiche lavorative consuete: può essere invece un piccolo gruppo di operatori prescelti che si sobbarca l’onere del compito. Ad esempio, così abbiamo deciso di procedere negli anni
2002 – 2003 quando abbiamo riorganizzato le due Unita per disturbi psichiatrici ed Unità per la
comorbilità (avevano entrambe una commistione di circa metà pazienti dell’Asse I e metà pazienti
dell’Asse II. La prima senza pregresso uso di sostanze, la seconda con pregresso uso di sostanze) in
Unità per disturbi da psicosi e Unità per disturbi di personalità (entrambe con o senza pregresso uso
di sostanze). Analogamente negli ultimi due anni è una task force ad occuparsi di una ricerca di
follow up.
Corulli M. (2007). Ingredienti per un modello di comunità terapeutica che incontri la sofferenza di un borderline. In
www.terapiadicomunita.org , anno 8, n. 38, febbraio 2008.
Gallo L. (2004). Lo psicodramma eterocentrato come sostegno all’Io professionale. In www.terapiadicomunita.org anno
4, n. 21. giugno 2004.
2011 Assemblea – Gruppo – Riunione
Negli ultimi anni abbiamo lavorato a rivedere l’organizzazione dei gruppi della settimana. Nei
primi anni di vita della Comunità Il Porto avevamo un modello basato fondamentalmente su tre tipi
o categorie di gruppi: gruppo accoglienza, gruppo giovani e gruppo anziani. Ultimamente
l’organizzazione dei gruppi della settimana è diventata più complessa ed articolata ed è suddivisa in
assemblee, gruppi e riunioni. I principali sono:










Assemblea di comunità
Assemblea di Unità
Gruppo psicopedagogico sulla convivenza
Riunione programmatica e gestione residenzialità
Gruppo accoglienza
Gruppo obbiettivi
Gruppo anziani
Gruppo di auto–aiuto
Gruppo crisi
Gruppo psicologico sui farmaci
che convivono con:


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


Gruppo gestione quotidiano
Atelier di pittura
Gruppo espressivo
Gruppo espressivo non verbale
Atelier attività occupazionali
Gruppo poesia
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Di ogni gruppo sono stabiliti conduttori e co-conduttori, orari, modelli e finalità ufficiali, ma
nel corso dei lavori abbiamo anche compreso con più chiarezza le finalità non ufficiali, i rischi, e ci
sembra di aver raggiunto una certa chiarezza sugli strumenti e modalità. In un certo senso è come se
avessimo costruito una gerarchia ove al primo posto consideriamo gli interventi relativi ai progetti
ed alle crisi, al secondo quelli relativi alla convivenza ed al terzo quelli relativi alla quotidianità.
Ritengo comunque importante distinguere con i tre termini Assemblea / Gruppi / Riunioni tre
differenti aree della vita comunitaria: quella dell’informazione, quella della psicodinamica e quella
dell’organizzazione. Una quarta area può essere quella delle attività espressive, artistiche od
occupazionali; una quinta quella dei momenti informali.
Corulli M., Olivero M. (2011). I gruppi in comunità terapeutica. In www.terapiadicomunita.org Anno 11, n.47, luglio
2011.
2011 Fattori aspecifici del trattamento terapeutico comunitario – Fattori
specifici
Nel dicembre del 2011 l’Associazione Mito e Realtà ha organizzato a Roma un convegno che
verteva esplicitamente su questo tema, per la prima volta nella storia del movimento delle comunità
terapeutiche.
«Se uno dei principi teorici che caratterizza il lavoro delle comunità terapeutiche è la cultura
dell’ indagine (…) la definizione di quello che è ritenuto come maggiormente specifico e quello che
per propria natura risulta essere aspecifico sembra costituire una nuova frontiera nel lavoro della
ricerca. Fattori specifici come ad esempio gli interventi terapeutici in setting precisi e deputati
(psicoterapie, gruppi etc.) e fattori a-specifici (la residenzialità, le piccole dimensioni, gli spazi
interstiziali all’ interno della comunità, le relazioni non spersonalizzate) sembrano, infatti, possedere
un eguale potenziale terapeutico. Difatti quello che rende viva e terapeutica un’ istituzione curante,
non è ascrivibile tout court alle procedere attive in essa, e quindi appare alquanto semplicistica una
valutazione dei progressi o dei regressi clinici dei pazienti basata unicamente su criteri nosografici o
su criteri valutativi forti. L’ipotesi è che il campo di osservazione di una struttura come quella di
una comunità, richiede lo spostamento di una attenzione su oggetti di osservazione peculiari del
contesto, tra i quali alcuni aspecifici, come anche invece altri sicuramente più riconoscibile (…).
L’importanza di comprendere quali sono i fattori terapeutici, è connessa con l’ evitare che tali
dispositivi di cura possano diventare nulla di più che sistemi chiusi legati a rituali e a procedure
rigide con scarsa comprensione per la vera natura dei potenziali elementi trasformativi in gioco che
non sono soltanto connessi alle metodologie esplicitamente praticate, ma che sono nascosti entro le
maglie della struttura procedurale. Approfondire l’ interazione e come si articolano tali fattori, aiuta
a comprendere come le comunità possano essere luoghi di cura, apparati affettivi e nutritivi,
“campi” affettivamente orientati e organizzati in cui circolano fattori dinamici, maturativi ed
evolutivi»
Osservazioni conclusive
Gli psicoanalisti, ed in modo particolare quelli dell’ultima generazione, sono sempre stati
affascinati dal fatto che l’esperienza di essere alla presenza della mente di un’altra persona è una
esperienza difficile, sovente crea una tempesta emotiva ed enigmatica per entrambi..., da cento anni
si interrogano sui fattori terapeutici del loro lavoro..., e molti tendono a ritenere che tutto ruoti
intorno a tre concetti: holding, insight e mentalization.
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SINTESI E PAROLE CHIAVE
Se il battesimo della «Comunità Terapeutica» risale al 1946 nel sud di Londra, vi sono stati molti
antecedenti, sempre nell’ambito della cultura inglese ed americana che sembrano caratterizzare un cambio di
paradigma sociale e dunque un cambio di civiltà. La cultura della psicoanalisi e quella della comunità
terapeutica sembrano dunque essere strettamente imparentate sia per autori, ambiti di esperienza e
terminologia.
In questo scritto (lacunoso) l’autore ha scelto di evidenziare alcuni termini, quelli più importanti, in
quanto nei termini che ogni movimento culturale adotta non vi è soltanto un origine, ma sovente anche una
polisemia confusiva e/o creativa ed un destino.
PAROLE CHIAVE:
 che concernono l’ istituzione della Comunità Terapeutica: Ingegneria sociale, Culture of Inquiry,
Gruppo Allargato
 che concernono la vita dei pazienti: Fattori Terapeutici e/o Antiterapeutici, Holding, Insight,
Mentalisation
 che concernono la vita degli operatori: Consultazioni di sostegno all’ Io professionale
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