Climatizzazione. Il trinomio uomo-edificio

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Climatizzazione. Il trinomio uomo-edificio
Editoriale
settembre 2012
LA TERMOTECNICA
Editoriale
di Alessandro Cocchi
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Climatizzazione.
Il trinomio uomo-edificio-impianto per
individuare le tecnologie più efficienti
“Il morbo infuria, il pan ci manca …”: fortunatamente non siamo
messi così male come i poveri veneziani di allora, ciò non toglie però
che qualcosa vada fatto in tempi brevi per evitare il peggio. Uno dei
baratri che minaccia il mondo è costituito dal fabbisogno di energia:
nuove nazioni, numerose in popolazione e ampie in dimensione territoriale, che si affacciano prepotentemente al banchetto energetico,
intendono recuperare in fretta il loro ritardo nello sviluppo industriale,
ed ecco che non guardano in faccia né allo sperpero né alle ragioni
della conservazione dell’ambiente; sta quindi alle nazioni più industrialmente sviluppate individuare in fretta le modalità per consumare
meno e preservare l’ambiente ancora di più, addirittura in misura
talmente massiccia da consentire al nostro risparmio di compensare
lo spreco altrui.
In questo clima si colloca il nostro modesto contributo di termotecnici e
di impiantisti: potremo fare poco, ma sicuramente potremo contribuire
pesantemente a risparmiare energia, ed ecco allora che riaffiora un
richiamo che si fonda su un vecchio, ma mai inusueto, principio che
sta alle basi della termodinamica: la conservazione dell’entropia!
Giriamola come si vuole, parliamo di exergia o di neghentropia se
più ci piace, ma in fondo l’aumento innegabile della temperatura della
terra trova il suo contributo anche nel riscaldamento delle nostre città,
dovuto a quell’energia che gettiamo d’inverno in ambiente attraverso
le pareti delle nostre case o a quel calore che togliamo da esse in
estate per riversarlo poi all’esterno, per di più incrementato da energia
ormai definitivamente degradata: il motore elettrico dissipa poco, ma
in compenso la produzione di energia elettrica ha già fatto dissipare
una notevole quantità di energia primaria, ancora una volta finita a
riscaldare il pianeta.
Non aspettiamo inermi né l’esaurimento dei giacimenti di petrolio
facile (quello di più difficile estrazione costerà più caro ma sarà, a un
certo punto, il solo disponibile, e dovrà essere utilizzato esclusivamente
dall’industria chimica per trarne dei derivati ai quali, altrimenti, saremo inevitabilmente costretti a rinunciare), né tantomeno di affogare
in un mare di energia non più utilizzabile se non per far evaporare
l’acqua dei mari (che poi, inevitabilmente, tornerà sulla terra sotto
forma di tornado e cicloni tali da far rimpiangere l’arca di Noè).
In effetti, un certo buon senso, favorito dalla presa di coscienza collettiva generata dalla guerra del Kippur (ma in quanti oggi, anche se
non sono poi passati tanti anni, ricordano di cosa sto parlando?), fece
scoprire ai mass media i “ponti termici”, banalissima deviazione dallo
“strato piano omogeneo” ben noto da tempo agli studenti di fisica,
e con essi portò alla determinazione delle zone climatiche e delle
tabelle dei gradi-giorno, dando avvio ad un processo di revisione
della progettazione termotecnica degli edifici, che man mano è andato
crescendo fino all’attuale stadio normativo.
Avendo vissuto sia la fase immediatamente (si fa per dire) precedente
alla legge 373, sia tutta la sua successiva evoluzione, non ho fatto altro
che vedere attuata, anche in Italia, quella tecnologia realizzativa degli
edifici che già avevo scoperto fin dal mio primo viaggio nei paesi del
nord-Europa, dove già negli anni sessanta era prassi comune inserire nelle pareti perimetrali 15 centimetri di lana di vetro o di roccia.
Purtroppo, oggi, in Italia, abbiamo un grosso peso al piede, costituito
dall’edilizia pre anni settanta (anche se quanto realizzato fino agli anni
‘90 non è energeticamente un gran ché, ma almeno un pò di isolamento
ce l’ha, o ci dovrebbe essere) e assistiamo a rifacimenti di facciate,
anche non faccia-vista, dove si spende denaro per il ponteggio e si
risparmia poi sul rivestimento a cappotto, ignorando gli incentivi statali
cui si potrebbe accedere.
Abbandonando le fantasticherie e le considerazioni malinconiche,
riconosciamo che la ricetta magica non è nelle mani di nessuno, ma
che con il contributo di tutti si può pervenire a risultati lusinghieri: nel
campo della climatizzazione, in edilizia, i contributi devono venire da
tutte le componenti del sistema edificio-impianto.
Anzitutto, riconosciamo che isolare oltre un certo limite potrebbe non
portare a risultati positivi, non solo perché l’investimento economico
non tornerebbe a casa in fretta (e questo discorso, anche se scientificamente odioso, è pur sempre quello che conta quando si incontrano
il progettista e la proprietà), ma anche perché le stagioni si alternano
e in estate bisogna che l’irraggiamento solare non ce la faccia ad
impadronirsi delle strutture interne, ma non sempre si può: spesso,
è solo una questione di oculata aerazione dei locali, quando il sole
sparisce. Specie nell’edilizia esistente, inserire il materiale isolante
all’interno di una struttura è possibile solo se esiste una intercapedine,
che peraltro, spesso, svolge da sola una funzione simile a quella di un
lancio al suo interno di vermiculite o materiale similare. Allora bisogna
isolare dall’interno, ma ciò significa perdere sia superficie utile sia
inerzia termica, e questi sono risultati spesso poco graditi.
Come si vede, e come si intravede nell’accenno precedente alla dinamica dell’irraggiamento solare, isolare non basta o non è sempre possibile: bisogna quindi ricorrere al secondo elemento in gioco, vale a dire
all’impiantistica, anche se alla climatizzazione dovremmo richiedere il
meno possibile, appunto perché, in ogni caso, produttrice di entropia.
Prof. ing. Alessandro Cocchi, Emerito nell’Università di Bologna e Benedettino dell’Accademia delle Scienze di Bologna
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Bisogna, comunque, procedere in tutte tre le direzioni: isolare, utilizzare impiantistica adeguata al caso e, se possibile, affidarsi a una
progettazione architettonica rispettosa dei criteri dell’edilizia passiva.
Lasciato da parte il problema del corretto dimensionamento dell’edificio e dell’isolamento termico, ci limitiamo qui a parlare dei più
recenti indirizzi dell’impiantistica, dai quali discendono anche alcune
indicazioni sulla necessità di fare sempre più ricorso alla regolazione
automatica.
Al corretto abbinamento dell’inerzia del sistema impiantistico a quella
del sistema edificio si è già accennato, per cui non è il caso di insistere
se non per evidenziare, se ancora ce ne fosse necessità, come sia importante conoscere a priori le esigenze dell’utenza, facili da indovinare
quando si tratta di edilizia residenziale, già meno evidenti quando si
tratti di edilizia secondaria, praticamente impossibili da centrare nel
terziario, dove anche l’impiego a ospedale non impedisce poi che si
utilizzi un reparto inizialmente per la rianimazione, in un momento
successivo per la pediatria, infine per la gerontologia: l’unica cosa
che si può dire è che, in ogni caso, sarà necessario rispettare i dettami
che derivano dalle ragioni del benessere del corpo umano, cosa tanto
più fattibile quanto più risultano bilanciati i valori della temperatura
radiante delle diverse superfici, nonché la necessità di provvedere ad
un adeguato ricambio dell’aria quando l’umidità relativa dell’aria
ambiente supera il 60%.
Un problema moderno, specie nella ristrutturazione edilizia, nasce
quando si procede alla sostituzione degli infissi con altri ad elevata
tenuta all’aria, con la formazione di muffe, là dove prima gli esecrati
“spifferi” ne eliminavano la causa; ed ecco un primo indirizzo, del resto
già in uso nel nord Europa da lungo tempo: infissi dotati di finestrelle
che l’utente (meglio sarebbe un sistema automatico ad evitare che
l’utente se ne dimentichi) apre al mattino prima di andare al lavoro,
senza bisogno di mettere l’infisso intero in posizione più o meno aperta,
evitando così sia di eccedere nelle dispersioni termiche, sia di aprire
facili varchi ad eventuali malintenzionati.
Le ragioni del benessere termoigrometrico sono molteplici e richiedono
comunque la collaborazione dell’utenza: si deve, infatti, all’abitudine,
ormai acquisita a molti livelli sociali e ancor più nel terziario, di voler
vestire leggero d’inverno ma di dover poi mantenere lo stesso standard
anche d’estate, la necessità di temperature medie operanti che sono al
limite della tolleranza ammessa in inverno, invece in estate guai a superare i 26°C indipendentemente dalle condizioni climatiche esterne.
È sintomatico che oggi anche gli autobus pubblici e le utilitarie siano
dotate di condizionatore, invece un tempo erano solo alcune vetture di
grossa cilindrata a permettersi questo lusso: come si può allora pensare
che andando in ufficio alle 9 di mattina si stia con l’aria condizionata
per poi sopportare, in ufficio, per tutto il giorno temperature più elevate
senza togliersi giacca e cravatta? Si sono raffinate le conoscenze sul
benessere termoigrometrico dell’uomo rispetto ai dettami di Fanger o
invece si è rammollito l’uomo?
Sta di fatto che uno dei settori sui quali si deve intervenire da subito è
proprio lo straripante impiego del condizionamento dell’aria a fronte
di un più semplice sistema di deumidificazione localizzata che limiti l’emissione in ambiente esterno di aria calda (unità esterna degli split) ed
eviti conseguentemente il raffreddamento eccessivo dell’aria immessa
all’interno: non solo si eviterà di incorrere in black out elettrici, ma si
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eviterà alla produzione di energia elettrica di generare entropia anche
quando le fabbriche sono ferme!
Un altro settore dove oggi si può operare è quello dell’impiantistica a
bassa temperatura con ampie superfici terminali, quali appunto possono essere, in primis, i pannelli radianti, poi i radiatori ampiamente
sovradimensionati: anzi, questi ultimi possono far fronte a giornate
particolarmente rigide (le pazzie della meteorologia ne fanno accadere
oggi più di quante se ne verificavano in passato), cosa che i pannelli
radianti possono fare solo a scapito del benessere; gli elevati valori
di isolamento termico di oggi consentono queste tipologie impiantistiche (cosa che l’elevato fabbisogno termico degli anni 50 - 70 non
consentiva), quindi, nelle ristrutturazioni, di abbinare alla sostituzione
degli infissi (intervento oggi quasi indispensabile), e possibilmente
all’isolamento termico ad evitare i ponti termici, corpi scaldanti estesi,
contrariamente a quanto il moderno design impone: al recente salone
fieristico di fine marzo a Milano, si sono visti troppo spesso corpi
sempre più piccoli, che consumano corrente elettrica per attivare la
circolazione forzata dell’aria, ma che in compenso sembrano quadri
di autori moderni (sulla cui validità estetica, specie a lungo termine, ci
sarebbe peraltro molto da ridire).
E cosa dire delle due più recenti reinvenzioni, vale a dire la pompa di
calore e la caldaia a condensazione?
È vero che la moderna tecnologia consente di gestire anche a livello
domestico, e comunque con facili interventi manutentivi, piccole unità
frigorifere che un tempo erano impensabili perché accessibili solo a
pochi operai specializzati, ma è altrettanto vero che a farle funzionare
è pur sempre la corrente elettrica e che in inverno il loro COP scende a
poco più dell’unità, trasformandole in volgari stufe elettriche.
Quanto alla condensazione in caldaia, sicuramente oggi ci sono condizioni favorevoli al suo impiego, sia per disponibilità di materiali che
resistono alla corrosione acida sia per il diminuito fabbisogno di alti
valori della temperatura, ma stiamo attenti perché nella ristrutturazione
degli impianti senza abbinamento con provvedimenti per la drastica
riduzione del fabbisogno termico, bisogna continuare ad alimentare
un impianto che è nato e rimane pur sempre per alte temperature, con
rischio quindi di dover poi di fatto rinunciare alla condensazione per
due terzi della stagione invernale.
I parametri da controllare possono, quindi, essere molteplici, affidati
spesso agli utenti del sistema, che ormai trascorrono tutti la loro giornata fuori casa e quindi non solo non possono alzare od abbassare
le tapparelle in relazione al movimento del sole, aprire e richiudere i
vasistas delle finestre per evitare le muffe, ma neppure controllare la
temperatura di caldaia al variare di quella esterna, e oggi è ormai
prassi meteorologica comune registrare sbalzi di oltre 10 °C tra le
minime o le massime da un giorno all’altro e anche di 20 °C all’interno
della stessa giornata: il cronotermostato non basta più, man mano che
la tecnologia impiantistica si affina per ridurre sempre più gli sprechi si
rendono sempre più necessari sistemi di regolazione autoregolati, non
più sistemi a tutto o niente, ma sempre più sistemi intelligenti, capaci di
memoria e autoprogrammazione.
In estrema sintesi, più che di novità tecnologiche, si sente oggi la
necessità di sistemi che sappiano interpretare al meglio le esigenze del
risparmio energetico coniugandole in maniera articolata e dinamica
con il trinomio uomo-edificio-impianto.