Una pratica non violenta di Diana Carminati e Alfredo - ISM

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Una pratica non violenta di Diana Carminati e Alfredo - ISM
© Diana Carminati e Alfredo Tradardi
© DeriveApprodi srl
Tutti i diritti riservati
I edizione: maggio 2009
DeriveApprodi srl
Piazza Regina Margherita 27
00198 Roma
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fax 06 97251992
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ISBN 978-88-89969-
oicottare
Israele:
una pratica
non violenta
b
Diana Carminati e Alfredo Tradardi
S A M I Z D AT 3
Introduzione
In origine questo testo doveva essere scritto a quattro
mani, ma in corso d’opera abbiamo preferito aggiungere mani palestinesi, mani che hanno espresso il rigore
morale e l’intelligenza politica di quanti in Palestina
hanno costruito, pietra su pietra, il movimento per il
boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni contro Israele,
noto come bds1.
Sono le mani dei palestinesi che continuano a resistere. A resistere e a pensare futuri. A resistere coltivando una utopia concreta: la speranza.
Sulla campagna bds e su alcuni temi delicati, come
il rapporto tra le organizzazioni della società civile palestinese e quelle del mondo esterno, in particolare quelle del mondo occidentale, abbiamo preferito fossero direttamente i palestinesi a esprimere il loro pensiero. Allo stesso modo, abbiamo preferito fare ricorso a
competenze palestinesi specifiche in merito all’economia israeliana e al caso del Sudafrica.
In altri capitoli abbiamo utilizzato, questa volta di
nostro pugno, le conoscenze accumulate nei rapporti
diretti con palestinesi come Mohammad Bakri, Omar
Barghouti, Wasim Dahmash, Jamil Hilal, Ghada Karmi, Ibrahim Nasrallah, Karma Nabulsi, Mazin Qumsiyeh e con israeliani come Gideon Levy, Ilan Pappé, Tan5
ya Reinhart e Aharon Shabtai, senza dimenticare i/le
molti/e, anche di altri paesi, che abbiamo ascoltato in
incontri e in seminari e con i quali abbiamo condiviso
prese di posizione, dimostrazioni e campagne, anche
in Palestina.
Le loro opere, saggi, articoli, interventi, poesie, film
documentari, spettacoli, sono stati elementi essenziali
nella formazione del nostro pensare e nel nostro agire.
ism-Italia2 si è costituita, all’inizio del 2006, con l’obiettivo di promuovere l’appello palestinese al bds del 9
luglio 2005.
Questo samizdat3 costituisce una tappa significativa
del nostro lavoro che si è sviluppato attraverso numerose iniziative tra le quali i tre seminari:
• La dimensione della parola condivisa. Quale futuro
per Palestina/Israele?, Biella, 12-13 maggio 2006;
• Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina, Torino, 5-6 maggio 2008;
• La guerra israelo-occidentale contro Gaza, Roma, 24
gennaio 2009;
e i numerosi incontri in diverse città italiane per presentare:
• nel dicembre 2004 il saggio di Tanya Reinhart Distruggere la Palestina (Tropea, 2004) e le poesie di Aharon Shabtai (in Politica, Multimedia 2008);
• nei mesi di marzo e di ottobre 2007 l’appello bds
con la partecipazione di Omar Barghouti;
• nei mesi di gennaio e febbraio 2008 il saggio collettaneo, curato da Jamil Hilal, Palestina quale futuro? La
fine della soluzione dei due Stati, Jaca Book 2007;
• a partire dal mese di maggio 2008 il saggio di Ilan
Pappé La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore
2008, del quale sono state effettuate oltre quaranta presentazioni.
ism-Italia ha anche promosso la pubblicazione del
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saggio di Yitzhak Laor Il nuovo filosemitismo europeo e “il
campo della pace” in Israele (Le Nuove Muse, 2008).
Una delle poche pagine, se non l’unica, della nostra
storia, della quale possiamo essere fieri, è quella della
resistenza contro il fascismo e contro il nazismo.
Da quella pagina derivano le ragioni del nostro impegno e della nostra solidarietà con la lotta di liberazione del popolo palestinese e di altri popoli oppressi.
1. I capitoli 2, 3, 5 e 8 contengono sintesi da Toward a Global Movement: A
framework for today’s anti-apartheid movement, edito nel giugno 2007 dal
Grassroots Palestinian Anti-Apartheid Wall Campaign (www.bdsmovement.net/?q=node/137), insieme a sintesi di documenti, articoli e testi citati in nota.
2. ism-Italia è il gruppo di supporto italiano dell’International Solidarity
Movement (ism, www.palsolidarity.org), un movimento palestinese impegnato a resistere all’occupazione israeliana usando i metodi e i principi
dell’azione-diretta non violenta. Fondato da un piccolo gruppo di attivisti
nel 2001, l’ism ha l’obiettivo di sostenere e rafforzare la resistenza popolare assicurando al popolo palestinese la protezione internazionale e una
voce con la quale resistere in modo nonviolento alla schiacciante forza
militare israeliana di occupazione.
3. Samizdat significa in russo «edito in proprio» e indica un fenomeno
che esplose in Unione sovietica, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi
anni Sessanta, con la diffusione clandestina di scritti illegali perché ostili
al regime. Uno strumento significativo del dissenso.
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1. Famoso suo malgrado
Charles Cunningham Boycott, nato a Norfolk nel
1832, era stato il portabandiera del 39° reggimento di
fanteria inglese e aveva raggiunto, al termine della sua
carriera militare, il grado di colonnello. Lasciato l’esercito aveva cercato un lavoro che gli permettesse di continuare a esercitare un tipico difetto di ogni militare, la
prepotenza. Quale migliore occasione di quella rappresentata dall’amministrazione delle terre irlandesi
di proprietà di Lord Erne? Molto zelante, il nostro
Charles, esigeva dai contadini affitti esosi che li condannavano a una continua miseria. Nell’estate del
1880, Boycott mandò i suoi affittuari a mietere l’orzo,
ma invece di offrire la paga regolare di 62 centesimi al
giorno per gli uomini e 32 centesimi per le donne, offrì
32 centesimi ai primi e 24 centesimi alle seconde. Gli
affittuari si rifiutarono di lavorare e la famiglia Boycott
tentò di mietere il raccolto con l’aiuto dei servi di casa.
Dopo poche ore la signora Boycott si presentò agli affittuari implorandoli di tornare al lavoro. La richiesta
fu accolta, ma contemporaneamente arrivò l’ingiunzione di sfratto.
La reazione dei contadini fu immediata: convocata
d’urgenza una riunione, tutti i presenti, servitori, pasto8
ri, cocchieri compresi, decisero di interrompere qualsiasi rapporto con Boycott e la sua famiglia.
Il nostro, of course (naturalmente!), chiese immediatamente aiuto alle autorità e arrivarono sette reggimenti di soldati e cinquanta braccianti. Il raccolto fu «raccolto», ma a un costo molto elevato.
Ad aumentare le difficoltà di Boycott arrivò anche il
reverendo O’Malley. In un discorso che tenne nel villaggio di Deenane, esortò tutta la popolazione a comportarsi con Boycott come la regina d’Inghilterra si comportava verso i contadini: «Non considera né voi, né le
vostre mogli, né i vostri figli. Ora fate come la regina di
Inghilterra: se un arraffatore di terre viene nella vostra
città e vuole vendervi qualcosa, non fategli del male né
minacciatelo; ditegli semplicemente che sotto la legge
inglese egli ha diritto di vendere la sua merce, ma aggiungete che la legge britannica non vi obbliga a comprare niente da lui e così farete finché vivrete».
Dopo questo discorso il giornalista americano Redpath coniò il verbo «boicottare».
E finalmente i contadini irlandesi si resero conto
che avevano boicottato Charles Cunningham Boycott.
Già in questo primo caso di boicottaggio ci sono alcuni ruoli che ritroveremo ai nostri giorni: sfruttatori e
sfruttati, oppressori per conto terzi e oppressi, un teologo della liberazione ante litteram, un militare ottuso e
servile.
I contadini irlandesi hanno avuto molti imitatori e alcuni boicottaggi hanno avuto una importanza politica,
sia a livello nazionale che internazionale. Martin Luther
King nel 1956-1957 guidò il boicottaggio contro il servizio bus di Montgomery (Alabama) che separava i bianchi dai neri e contro le leggi segregazioniste. Sempre negli Stati Uniti, nel 1960, fu organizzato un boicottaggio
anche contro la Dow Chemical e la sua produzione di na9
palm usato nella guerra del Vietnam. Di livello internazionale sono stati i boicottaggi contro il regime dell’apartheid in Sudafrica; quello contro la Polaroid (1970-1971),
attuato dai suoi stessi operai per protesta contro i prodotti per l’identificazione dei neri; quello dei movimenti anti-apartheid (1975-1986), che boicottarono in Inghilterrra la Barclays Bank, in Italia la Banca Nazionale del Lavoro e le esportazioni di armi in Sudafrica.
Contro la Coca Cola1 fu attuato dal sindacato internazionale dei lavoratori alimentari un boicottaggio internazionale per protestare contro i maltrattamenti dei
lavoratori in Guatemala. Così avvenne nel 1973 con il
latte in polvere della Nestlè2, che, dato alle donne dei villaggi in Africa e in Asia, le disabituava dall’allattamento
al seno e che, usato senza le necessarie precauzioni
igieniche, provocava malattie e la morte di numerosi
bambini.
Fondamentale, da ogni punto di vista, il boicottaggio
dei prodotti e delle tasse in India durante la resistenza al
colonialismo britannico guidata dal Mahatma Gandhi.
Altri attori hanno impiegato il boicottaggio per scopi
politici, come l’embargo unilaterale americano contro
Cuba, l’Iran e la Libia o l’embargo Onu contro l’Iraq iniziato nel 1990, esempi del tutto opposti ai precedenti.
Ma il potere di usare lo strumento del boicottaggio, come hanno dimostrato i contadini irlandesi, è nelle mani
di tutti e può essere utilizzato nella vita quotidiana se
basato su obiettivi chiari e specifici. Il boicottaggio, come insegna il caso del Sudafrica, costituisce una tattica,
un meccanismo e anche un’arma nelle mani di quanti
lottano per motivi di giustizia.
Nel mondo occidentale e all’interno di società basate
sul consumo, il boicottaggio è considerato uno strumento importante di protesta, da esercitare non acquistando i prodotti di un paese, di una impresa o di una
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istituzione che opera in condizioni di sfruttamento o
violando i diritti umani.
In altre parti del mondo il boicottaggio è usato spesso come un meccanismo diretto a ottenere diritti e servizi di base, come il boicottaggio dei pagamenti di affitti, elettricità e acqua.
Gli appelli al boicottaggio sono fatti per attaccare
specifiche imprese, istituzioni o regimi e ottenere un
qualche cambiamento sociale o politico attraverso la richiesta di un supporto esterno alle lotte, che diventa ancora più necessario se i soggetti da boicottare dipendono da un sostegno dall’estero per realizzare e perpetuare i loro crimini.
Le campagne di boicottaggio sono spesso valutate in
funzione del loro impatto economico, ma il successo è
anche determinato da fattori sociali e politici come:
una maggiore presenza del problema sui media
i mutamenti indotti nell’opinione pubblica nella
comprensione delle dinamiche del problema
l’impatto psicologico sui responsabili per il loro
comportamento inaccettabile
Un insieme di fattori interagisce con l’attività di boicottaggio nello sfidare le ingiustizie sociali, politiche ed
economiche per ottenere una qualche trasformazione
ed è importante considerarli tutti quando si pianifica
una campagna di boicottaggio. Le azioni di boicottaggio
«di base» possono anche abituare le persone a un consumo responsabile.
Come ha scritto Giorgio Nebbia3, già docente universitario e noto ambientalista:
Ogni volta che facciamo la spesa dobbiamo ricordarci che attraverso questo semplice e apparentemente banale gesto come il
consumo, rischiamo di renderci complici dei peggiori misfatti: il
boicottaggio come azione per costringere le imprese produttrici a
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abbandonare comportamenti antietici, ingiusti o oppressivi, si
fonda sulla considerazione che il sistema attuale non può fare a
meno del consumo. Con il nostro acquisto, abbiamo la possibilità
di far salire o scendere i loro profitti: perciò il consumo si può utilizzare in forma di voto, che può influenzare le scelte economiche
molto più del voto elettorale. Il boicottaggio, infine, educa a agire,
a non assistere passivamente alle ingiustizie e ai soprusi che avvengono sotto il nostro naso. Educa a assumerci le nostre responsabilità. Abitua la gente a riprendersi il potere nelle proprie mani.
Per questo è quanto di più democratico possa esserci!
Ma oltre a essere una pratica democratica, il boicottaggio è una pratica morale, non-violenta ed efficace.
Una pratica di non-accettazione, di non-collaborazione,
di non-menzogna.
1. Violazioni dei diritti sindacali della COCA COLA al di fuori della Colombia e dell’India verificate dall’’ICFTU Anni 2003 2004 2005
http://www.tmcrew.org/killamulti/cocacola/dossier/icftu20042006.pdf.
2. Dossier informativo su i misfatti della Nestlè www.tatavasco.it/altromondo/boycott/dossier.html.
3. http://www.minerva.unito.it/ALA/BF/Boycott2.htm.
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2. BDS – qualche definizione
Che cosa si nasconde dietro l’acronimo bds (Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni)?
La risposta è semplice e sta tutta all’interno di una
domanda e di un precedente. Data la considerazione
scarsissima di cui gode il diritto internazionale in ogni
parte del globo e l’indifferenza diffusa nei riguardi dei
diritti umani, come ottenere giustizia per i palestinesi?
Il precedente assai significativo è costituito dalle iniziative bds di una coalizione di movimenti sociali, di sindacati, di chiese, di gruppi della società civile e di attivisti che contribuirono in modo determinante a sconfiggere il regime di apartheid in Sudafrica.
Ma un precedente, per quanto significativo e vittorioso, non può essere utilizzato senza porsi alcune domande:
• gli obiettivi nel caso palestinese sono definiti in
modo chiaro?
• il modello del Sudafrica è un riferimento utile per il
bds contro Israele?
• la lotta palestinese è parte di lotte più ampie, tese a
una trasformazione politica e sociale?
• a che punto si potrà dire di aver vinto e mettere termine alla campagna?
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• è necessario sviluppare un maggior coordinamento tra le diverse iniziative bds, in considerazione dei
rapporti ancora deboli tra loro?
• i movimenti sono più efficaci se sono lasciati liberi
nel portare avanti un insieme di sforzi e di obiettivi?
• se fosse necessario un coordinamento più stretto
delle campagne bds, che tipo di struttura bisognerebbe
scegliere?
• come si può riuscire a far convergere gli attivisti su
un insieme condiviso di obiettivi?
• come possono le iniziative bds raggiungere risultati concreti a sostegno della lotta di liberazione palestinese?
In un periodo caratterizzato da una crisi dei partiti
politici e dei sindacati1, sempre più chiusi in una dimensione nazionale, si può contare, realisticamente,
solo sulle organizzazioni collettive e sui movimenti di
base che, da parte loro, si sono già attivati o si stanno attivando per il bds in un processo dal basso; iniziativa dal
basso è anche l’appello bds palestinese, nel momento in
cui la maggioranza degli Stati occidentali e dei leader
nella regione perseguono la normalizzazione appoggiando l’occupazione israeliana.
Tornando alla prima domanda: gli obiettivi della
campagna bds sono definiti in modo chiaro? Per quale
tipo di «pace» si dovrebbe lottare? Alcuni gruppi di solidarietà vedono il bds, a differenza di altri, solo come un
meccanismo per costringere Israele a ritirarsi nei confini del 1967 e non come uno strumento per assicurare i
diritti dei profughi o per sfidare le discriminazioni alle
quali sono soggetti i palestinesi cittadini di Israele. Ma
se non si definiscono obiettivi comuni, iniziative, campagne e azioni finiranno per costituire eventi separati,
incapaci di dare un contributo effettivo ed efficace per
restituire ai palestinesi i loro diritti.
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Che cosa è un boicottaggio?
Il boicottaggio è la mobilitazione di comunità di persone che in campi diversi, università, sport, cultura,
consumi, turismo, cercano di impedire le malefatte o i
crimini di una impresa o di un governo. Per un gruppo
oppresso il boicottaggio è una forma di resistenza, una
tattica per sfidare l’oppressore.
E una sanzione?
Le sanzioni sono una risposta contro quanti infrangono una norma internazionale. La punizione varia,
ma generalmente si articola in un tentativo di condannare o di inibire le attività dei responsabili dell’infrazione. Le sanzioni sono state applicate contro paesi, regimi
e movimenti politici che non rispettano il diritto internazionale o norme convenute.
Ma accanto a sanzioni verso soggetti che certamente
le meritavano, come il regime bianco in Rhodesia, il regime di apartheid in Sudafrica o la giunta militare in
Birmania, sanzioni sono state utilizzate dai potenti a difesa dei loro interessi. La Palestina ne è un esempio emblematico: il popolo palestinese si trova sanzionato probabilmente in modo più efficace di ogni altra nazione nella storia recente - per aver tenuto elezioni democratiche, assolutamente regolari, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (wbgs), elezioni richieste dalla comunità internazionale e che si sono svolte con una legge
elettorale imposta dagli Usa e dall’Europa.
Le sanzioni possono essere effettuate dai governi, da
organizzazioni come l’Unione europea o il nam, o da
agenzie mondiali come l’Onu o il wto. A livello della società civile, le sanzioni possono essere solo richieste e
monitorate.
La richiesta di sanzioni contribuisce, come il boicottaggio e i disinvestimenti, a mettere sotto i riflettori del15
l’opinione pubblica le politiche di occupazione e di
apartheid di Israele e a far sapere agli israeliani che i crimini contro i palestinesi sono considerati inaccettabili,
spingendoli, in una qualche misura, a prendere coscienza di questi crimini e a opporsi.
Non sembra probabile che possano essere applicate
sanzioni contro Israele dalla comunità internazionale;
un pessimismo simile era presente anche nel caso del
Sudafrica. Se si esclude, almeno per ora, un cambiamento di proporzioni sismiche nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, le campagne per le sanzioni devono rivolgersi a singoli paesi o a gruppi di paesi come il nam o
il Mercosur.
E un disinvestimento?
Il termine disinvestimento fu usato per la prima
volta negli anni Cinquanta per descrivere il ritiro di investimenti economici come meccanismo di protesta e
di pressione. Oggi disinvestimento è un termine comunemente usato per descrivere la decisione di un individuo, di un gruppo o di una istituzione di disporre
dei suoi titoli o delle sue azioni fino al completo ritiro
da una certa impresa.
Il disinvestimento è simile alle sanzioni, nel senso
che consiste nel tentativo di premere perché altri agiscano, in questo caso, azionisti o imprese che ritirano i
loro investimenti. Con l’eccezione di qualche raro attivista che gioca in borsa o di quanti possiedono fondi di
investimento, la maggioranza dei sostenitori del bds
non sono nelle condizioni di disinvestire. Il punto cruciale di questo lavoro è quello di influenzare altre persone o istituzioni a disinvestire secondo gli obiettivi
della campagna. Vi sono numerose istituzioni nelle
quali individui o gruppi hanno interessi e influenza,
chiese, sindacati, università, fondi pensione, e sono i
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luoghi potenziali delle campagne bds di disinvestimento.
Gli attivisti che hanno piccoli investimenti possono
costituire il meccanismo iniziale attraverso il quale
banche, istituzioni, imprese e comunità locali prendono coscienza degli obiettivi della campagna di disinvestimento.
Iniziative che si prolungano nel tempo possono indurre gli uomini d’affari a riconsiderare l’opportunità di
investire nelle imprese contro le quali il disinvestimento è già in atto.
Come costruire una campagna vincente
Sei sono i punti chiave di una campagna vincente:
• la percezione di una legittimità morale e di una posizione etica;
• l’abilità di trasmettere informazioni in modi accessibili ai potenziali sostenitori della campagna e all’opinione pubblica;
• scopi, obiettivi e risultati chiaramente definiti;
• un piano di azione chiaro, con attività e proposte
che possono rovesciare la situazione;
• un collegamento chiaro, razionale e logico dei soggetti da boicottare con i loro misfatti;
• la presentazione dei legami tra il sostegno estero ai
soggetti da boicottare (diretto e indiretto) e la loro capacità di continuare nei loro crimini.
La legittimità morale è data dal fatto che la campagna è svolta da volontari e attivisti che non hanno incentivi economici, che sono motivati solo dal raggiungimento di diritti e di giustizia per altri e non per sé, e dall’appoggio di personalità, organizzazioni o figure
pubbliche autorevoli. I problemi devono essere presentati in un linguaggio propositivo intrecciando i messaggi della campagna bds con altre forme di espressione,
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come quelle artistiche e culturali, sia per sfidare sia per
attrarre una audience più ampia. Le azioni bds sono vittoriose solo se catalizzano una mobilitazione di massa e
se permettono alle persone di condividere obiettivi e
aspirazioni comuni. Per questo è essenziale definire un
insieme preciso di obiettivi che devono essere realizzati
dal lavoro bds sia nel lungo che nel breve periodo. Se da
una parte i boicottaggi sono punitivi per loro natura,
l’intenzione dei promotori del boicottaggio è di ristabilire o di promuovere normali relazioni una volta che il risultato sia stato raggiunto. Un piano di azione è necessario per facilitare la partecipazione delle persone, formalizzando un grado di coinvolgimento e di
condivisione tale che ognuno, all’interno delle organizzazioni di solidarietà, diventi parte attiva.
Altrettanto importanti sono:
• l’emersione di un discorso capace di identificare e
mettere in evidenza i crimini del soggetto da boicottare,
in modo che sia considerato un reietto
• la sfida continua, in una «guerra di posizione», dei
sostenitori dei soggetti da boicottare, con gruppi capaci
di organizzare efficaci meccanismi per raggiungere i
media e le comunità
• la presentazione coerente di una piattaforma bds
in tutti i tipi di media e nel territorio per far diventare il
bds un percorso di azione, il più razionale e il più logico, per coloro che desiderano perseguire ideali di pace,
di giustizia e di libertà.
Una campagna per essere vincente deve dimostrare
che i soggetti da boicottare pagheranno un prezzo per i
loro crimini e deve fornire una analisi del comportamento di tutti gli attori coinvolti. Il pubblico deve ritenere responsabili quanti per la loro posizione possono
dare un contributo: dai direttori dei negozi che vendono
prodotti da boicottare, alle chiese che possiedono certe
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azioni, alle imprese che alimentano l’oppressione e ai
politici che hanno il potere di premere per sanzioni.
Il non fare rinforza le azioni dei soggetti da boicottare, particolarmente nel caso di Israele che gode defacto di un largo sostegno economico e diplomatico.
Individui, istituzioni e organismi di governo devono
essere convinti a muoversi rompendo con la complicità e l’inazione.
Molti attivisti si impegnano in un lavoro di lobbismo
e in appelli a organizzazioni e istituzioni affinché aderiscano a una particolare iniziativa, ma il potere di agire e
di realizzare la strategia bds sta tutto nelle persone.
Qualche esempio:
• i portuali che rifiutano di scaricare merci, un’azione
frequente durante la lotta anti-apartheid in Sudafrica;
• i lavoratori del commercio che rifiutano di vendere
prodotti, come le azioni degli addetti alla cassa nei supermercati, nella campagna contro l’apartheid in Sudafrica;
• le persone che rifiutano di essere coinvolte in qualsiasi progetto legato ai soggetti da boicottare, assicurando la massima pubblicità di ogni evento (artisti invitati,
incontri sportivi, accademici invitati a scrivere sui giornali o a partecipare in progetti e in convegni).
Il bds è un processo a due vie:
• azioni dirette delle persone;
• appelli a chi ha il potere di prendere decisioni economiche, culturali o politiche.
Punti di forza e punti di debolezza del bds
Il lavoro di solidarietà consiste nel rispondere agli
appelli degli oppressi, sostenendoli e costruendo relazioni basate su un insieme di giudizi condivisi.
Squilibri nei flussi di solidarietà nord-sud
Le dinamiche tra coloro che fanno appelli per la soli19
darietà e coloro che li raccolgono sono caratterizzate da
squilibri nell’accesso alle risorse, al potere e alle influenze. Il consumatore ha la possibilità di scegliere se boicottare o no un certo prodotto; il politico può essere oggetto
di lobbismo da parte degli elettori per votare in favore di
sanzioni contro l’oppressore; i sindacati del commercio
possono decidere di rifiutare di gestire prodotti dell’oppressore. L’oppresso che ha fatto l’appello al boicottaggio
può osservare il sostegno dall’estero che i soggetti da boicottare ricevono, ma ha dei limiti oggettivi nelle possibilità di sfidare la situazione. I palestinesi non possono
impedire che i prodotti israeliani siano venduti nei supermercati in giro per il mondo, ma possono fare lobbismo con i consumatori per avere assistenza. Tutto questo richiede un coordinamento con gli sforzi delle campagne bds all’estero, mentre la forma e la direzione dei
boicottaggi interni sono determinati, nel caso della Palestina, dalle forme pratiche e efficaci di resistenza all’occupazione. Per esempio, un boicottaggio dei consumi
dei prodotti israeliani, come il rifiuto di pagare acqua e
elettricità, – che si è sviluppato nella prima intifada e che
è oggi di nuovo in ripresa – deve andare di pari passo con
un sufficiente livello di produzione interna di prodotti
per le necessità primarie, dato il controllo completo che
l’occupazione esercita sui servizi di base.
Le differenze, nell’ambito dei flussi di solidarietà
nord-sud, possono essere esacerbate da ineguaglianze
nelle relazioni mondiali. Il ruolo dei movimenti del
nord, coinvolti in questioni di oppressione, occupazione o povertà nel sud, va attentamente esaminato. Le disparità tra organizzazioni non devono comportare che
la maggior parte del potere, del decision-making e della
definizione delle strategie sia concentrato nel nord, altrimenti sarà difficile che vi sia una qualche sfida allo
status quo.
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Le responsabilità dei movimenti di solidarietà
Organizzazioni esterne, che perseguono agende e
visioni in contrasto con gli interessi della maggioranza
dei popoli del mondo in via di sviluppo, forniscono un
microcosmo delle disparità nelle relazioni mondiali.
Con il sostegno finanziario sono riuscite a esercitare
una forte influenza sulle società civili del mondo in via
di sviluppo, gonfiando artificialmente particolari organizzazioni su altre e creando progetti specifici della società civile per soddisfare determinati interessi. La Banca Mondiale, la più potente istituzione finanziaria internazionale, fornisce l’esempio di una organizzazione
che ha una influenza considerevole nel plasmare le società civili verso indirizzi specifici. Il suo sostegno, politico e non solo economico, per uno sviluppo neoliberista, trova facilmente alleati nei progetti della società civile, data la forza finanziaria della banca. In questo
scenario i movimenti locali devono affrontare varie sfide, la pressione della cooptazione e la possibilità di venir oscurati da altri gruppi o da altri progetti in termini
di accesso alle risorse.
Quanti cercano di sostenere la società civile in Palestina, e più in generale le società civili nel mondo in via
di sviluppo, dovrebbero essere consapevoli delle dinamiche di relazione e assicurare che lo squilibrio di potere non si riproduca nel lavoro di solidarietà. Tutto questo è fondamentale in Palestina dove le questioni coloniali e post-coloniali sono ancora da districare e dove i
movimenti di solidarietà devono essere molto attenti a
non imporsi come il partner dominante. Il coinvolgimento di gruppi e movimenti dall’estero in ogni tipo di
lavoro di solidarietà pone questo tipo di problemi perché un movimento può avere possibilità di successo solo se trova punti in comune con le organizzazioni della
società civile di un popolo oppresso, organizzazioni che
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devono rendere conto direttamente al loro popolo. Gli
appelli degli oppressi devono costituire la base del lavoro comune.
bds: una delle strategie possibili
Un’altra importante questione nel lavoro bds è il
rapporto con le attività dei movimenti popolari di base e
con la loro resistenza all’oppressione. Un motivo significativo per il coinvolgimento di molte persone nel
mondo nelle iniziative bds è che esse sono il simbolo di
una risposta non-violenta alla aggressione israeliana e
di una posizione moralmente irreprensibile. Molti attivisti la usano come un punto di forza per affermare la
legittimità della loro campagna, sottolineando i contrasti con la brutalità e la violenza degli israeliani e le analogie con il movimento anti-apartheid del Sudafrica.
Ma caratterizzare la lotta come «non-violenta» nel
suo insieme, non coincide necessariamente con gli
obiettivi e i valori degli oppressi per i quali il bds può costituire solo un aspetto della loro lotta. In Rhodesia, i
movimenti di liberazione Zimbabwe African National
Union (zanu) e Zimbabwe African People’s Union (zapu) hanno ricevuto un sostegno considerevole, anche
da parte di alcune chiese, malgrado il loro impegno nella lotta armata come mezzo per ottenere la libertà. In
Sudafrica la lotta di liberazione assunse vari aspetti,
una lotta armata prolungata, scioperi, sollevazioni popolari e attacchi contro il sistema di apartheid per rendere il paese ingovernabile e arrivare al collasso dello
Stato. La resistenza aperta contro i simboli del regime
bianco come le Black Local Authorities (bla), organismi
istituiti e sostenuti dal regime, fu accettata dalla maggioranza del movimento mondiale anti-apartheid. In
maniera simile, la lotta palestinese è l’espressione di
quanti tra i palestinesi sfidano l’occupazione e usano i
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mezzi disponibili a un popolo oppresso per il raggiungimento della libertà. La lotta palestinese non può essere semplicemente definita come violenta o non-violenta; essa mette insieme una varietà di strategie nel suo
percorso di resistenza.
Le convenzioni internazionali riconoscono il diritto
alla resistenza contro l’occupazione. I palestinesi hanno il diritto di lottare contro i meccanismi che stanno
preparando un’altra Nakba. Molti, fuori dalla Palestina,
vorrebbero imporre regole e criteri, ma è compito dei
palestinesi definire le tattiche e le strategie più efficaci
per portare avanti la loro lotta e giungere a una pace giusta. Questo diritto è stato riconosciuto ad altre lotte di liberazione, mentre lo si è negato a quella palestinese per
motivi che andrebbero analizzati e discussi.
Un movimento bds mondiale è una tattica efficace
per sostenere i diritti dei palestinesi. Il bds è una piattaforma coerente, basata sui princípi della non-violenza,
con la potenzialità di costituire un punto di incontro più
ampio per gruppi, movimenti e individui a livello mondiale a sostegno della Palestina. L’obiettivo, oltre la pressione economica, è quello di far crescere la consapevolezza nell’opinione pubblica mondiale dei diritti dei palestinesi.
Unità e diversità
È importante ricordare che il bds costituisce solo
uno dei fattori che possono indurre un cambiamento
politico e sociale. Come nel caso del Sudafrica, il bds ha
un ruolo importante, ma non si dovrebbe sottovalutare
il contributo della lotta interna, o di forze e eventi mondiali che giocano anche essi un ruolo nel determinare le
vicende storiche.
Il problema dell’unità negli obiettivi, della motivazione e del coordinamento all’interno dei gruppi di soli23
darietà mette in evidenza sia i punti di forza che i punti
di debolezza della strategia bds. Come nel caso del Sudafrica il movimento che sta crescendo per la Palestina,
mette insieme forze diverse, settori trasversali della società, ognuno dei quali condivide la convinzione che
una qualche forma di cambiamento politico e sociale è
necessario. La diversità è una forza enorme2, perchè se
il bds è sostenuto da un insieme diversificato di persone, gruppi sociali e organizzazioni, può diventare parte
dei discorsi quotidiani e arrivare alla opinione pubblica
più ampia.
Ogni organizzazione ha le sue motivazioni, percezioni e visioni che tendono a focalizzarsi su uno o più
dei punti seguenti:
• come una lotta anti-apartheid o anti-razzista;
• come parte di un movimento più ampio che ha al
centro una visione di trasformazione globale;
• come un metodo per porre fine alla colonizzazione
israeliana in Cisgiordania e Gaza;
• come un mezzo per assicurare il diritto al ritorno
dei profughi palestinesi;
• come un mezzo per assicurare l’esistenza di Israele all’interno della linea di armistizio pre-1967.
Tutti sono d’accordo sulla necessità di una qualche
azione di pressione collettiva su Israele, ma non vi è
consenso sul punto in cui il bds dovrebbe fermarsi e dichiarare vittoria. Per esempio, Ong e organizzazioni religiose in Europa e Nord America hanno preso varie iniziative che tendono a focalizzarsi solo sulla necessità
urgente di porre fine alla occupazione e colonizzazione
dei territori occupati nel 1967. Queste iniziative non includono, generalmente, la fine delle discriminazioni
contro i palestinesi cittadini o residenti in Israele o il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Queste posizioni influenzate da una lobby per la «pace» che vede l’oc24
cupazione del ’67 come un problema da superare, ma
non considera il diritto al ritorno come una piattaforma
accettabile per il bds, sono chiaramente in contrasto
con la posizione palestinese secondo la quale l’opposizione al sionismo come ideologia costituisce la spinta
maggiore per la lotta.
Il ruolo degli israeliani, dato il loro status di oppressori, non può essere rivestito della stessa legittimità negli
appelli di solidarietà, come in quelli degli oppressi. L’appello per il bds viene anche dai palestinesi cittadini di
Israele, che sono sottomessi a discriminazioni sistematiche e dai palestinesi della diaspora ai quali viene negato il
diritto di vivere nel loro paese. L’attenzione deve essere
posta sul sionismo nel suo complesso e non può essere
limitata solo alla occupazione dei territori del 1967.
Le iniziative bds lanciate dalla società civile ebreoisraeliana, per misure selettive come il boicottaggio degli insediamenti, sono simili a quelle dei liberal bianchi
in Sudafrica che tendevano a disapprovare l’apartheid, o
aspetti di essa, ma non sostenevano le strategie complessive bds perseguite come un mezzo per contestare
il sistema.
La comunità dei gruppi di solidarietà con il bds dovrebbe incorporare e promuovere questo lavoro o dovrebbe mantenere una distanza dalle organizzazioni
che hanno obiettivi diversi da quelli dell’appello palestinese? Se i gruppi bds che hanno una posizione «più debole» rispetto agli obiettivi dell’appello palestinese assumono un ruolo guida, vi è un pericolo grave di distorsione degli appelli e degli obiettivi degli oppressi. Gli
attivisti impegnati a lavorare per i diritti di tutti i palestinesi devono quindi valutare l’opportunità di fare alleanze con le organizzazioni che sono incapaci in questo
momento di presentare una piattaforma più forte.
Per il lavoro di solidarietà odierno è importante la
25
consapevolezza che le attività di boicottaggio non sono
un fenomeno nuovo, ma hanno operato in Palestina, in
una forma o nell’altra, per molti decenni per cessare solo durante gli anni Novanta3. È cruciale considerare l’insieme delle esperienze passate di boicottaggio e le implicazioni per il lavoro di solidarietà di oggi.
I gruppi esteri devono essere consapevoli che non
sono loro i soli a definire gli obiettivi politici e sociali
delle campagne di solidarietà. La consapevolezza di
queste dinamiche comporta un dialogo e una comunicazione incessante da parte della società civile palestinese con il resto del mondo. I movimenti bds, quale che
sia la loro forza, non possono e non dovrebbero cercare
di sostituire la resistenza e la lotta di quei popoli che cercano di sostenere. Solo a partire dalla condivisione degli
obiettivi degli oppressi si può dare un contributo positivo e dinamico alla lotta per ottenere libertà e giustizia.
1. Il Partito socialista norvegese è l’unico partito politico di governo che
promuove il boicottaggio insieme ad alcuni sindacati, specialmente in
Canada, in UK, in Norvegia e Sudafrica.
2. BADIL, bds: Boycott, Divestment, Sanctions, «Al Majdal», 26 (Summer
2005), p. 5
3. Sentimenti anti-normalizzazione erano presenti in comitati e gruppi
in wbgs in questo periodo, anche se il discorso di «pace» e di progetti
«congiunti» era dominante a livello mondiale. Ong che sostenevano il
boicottaggio contro gli insediamenti erano attive anche durante gli anni
di Oslo.
26
3. Un precedente: il caso del Sudafrica
La fine dell’apartheid in Sudafrica si fa risalire a cinque
fattori principali:
• la resistenza interna – i movimenti che avevano reso il paese ingovernabile – aveva posto il Sudafrica su
una traiettoria rivoluzionaria;
• un cambiamento pragmatico nell’anc che aveva lasciato cadere gli aspetti più radicali del programma sociale ed economico;
• l’impatto di eventi globali, come l’implosione dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’Est, che aveva ridotto
i timori dei nazionalisti per la minaccia del comunismo
e aveva favorito un clima politico generale più favorevole ai negoziati con l’anc;
• l’isolamento internazionale del Sudafrica, incluse
le forme prolungate di pressione delle campagne bds,
che aveva portato a divisioni interne sociali ed economiche a detrimento del regime e dei suoi sostenitori;
• l’influenza del capitale globale, di forze definite
neoliberiste, per le quali l’apartheid e il governo dei
bianchi soffocava il mercato.
Se si vuole utilizzare il caso del Sudafrica come un
modello per la campagna bds palestinese è necessario
domandarsi se il movimento anti-apartheid e le nume27
rose iniziative bds hanno giocato un ruolo significativo
nella fine del regime bianco e, se sì, quali strategie, quali tattiche e quali tra i meccanismi utilizzati furono più
efficaci e rimangono rilevanti ancora oggi.
Una valutazione del lavoro bds nel passato può mettere in evidenza le similitudini e le differenze tra l’apartheid israeliana e quella del Sudafrica.
Israele merita una condanna morale mondiale simile a quella del Sudafrica? Un confronto di leggi, politiche e ideologie può favorire il lavoro di solidarietà per
costruire una consapevolezza e un sostegno maggiore
per la Palestina?
La resistenza all’apartheid
Dopo l’ascesa al potere del Partito nazionalista nel
1948, furono messe in atto politiche che assicuravano,
anche attraverso il sistema legislativo, l’istituzionalizzazione dell’apartheid e la sistematica sottomissione della
maggioranza nera alla minoranza bianca.
Proteste, dimostrazioni e misure simboliche di resistenza contro l’apartheid si intensificarono negli anni
Cinquanta. Ma la crescita dei movimenti di liberazione
spinse il regime ad aumentare le misure repressive, come il massacro di dimostranti a Sharpeville nel 1960, la
detenzione di massa e le torture. Quando divenne chiaro che il regime non poteva essere rovesciato senza altre
forme di pressione, PAC, anc e piccoli gruppi di sinistra adottarono la strategia di una lotta armata prolungata, che assunse forme diverse, dalla promozione da
parte dell’anc di tattiche come il sabotaggio, all’idea di
una guerra di popolo o di un fronte di liberazione nazionale analogo a quello dell’Algeria, abbracciata dai
gruppi di sinistra. Ma i movimenti di liberazione, con
migliaia di persone in prigione o in esilio negli anni
Sessanta e in una fase in cui sindacalisti e attivisti erano
28
uccisi, non riuscirono a mettere in campo le avanguardie per una guerriglia vincente e per ripetere i risultati
delle lotte per la libertà in Zimbawve e Mozambico.
Malgrado la repressione, i lavoratori si mobilitarono
in una serie di scioperi popolari a Durban nel ’73-‘74,
un’esplosione di resistenza che costituì la prima seria
sfida interna al regime e che cambiò lo scenario sudafricano negli anni seguenti. Tre anni dopo Durban, la
sollevazione di Soweto segnò l’inizio di un fase di lotte
popolari dal basso.
Permeata dalla filosofia della coscienza nera (bc) e del
self-empowerment, Soweto ebbe un impatto fondamentale
nel definire la natura della resistenza al regime.
Nel 1978 la rivolta venne domata. Circa mille giovani erano stati uccisi, decine di migliaia erano stati arrestati o erano fuggiti nei paesi vicini.
Ma Soweto aveva messo in moto un processo che
portò alla diffusione della lotta nelle comunità di tutto il
paese. Nel 1983 il movimento civile si era trasformato
in un vero movimento di massa, in una sfida popolare
organizzata localmente contro i simboli e le istituzioni
del regime. Il 3 settembre 1984, il giorno in cui fu inaugurato il Parlamento Tricamerale di Botha, le città
esplosero in una nuova ondata di sfida e di rabbia. La
tendenza dopo il 1994 di descrivere la storia della lotta
come unificata, o coordinata dall’udf (United Democratic Front), è servita a minimizzare le differenze ideologiche e politiche che esistevano tra i gruppi anti-apartheid. La storia e i cambiamenti sociali non avvengono
secondo linee nette o secondo stadi successivi e le tensioni e gli scontri che esistevano tra l’udf e l’azapo durante la metà degli anni Ottanta, sono un esempio utile
del dibattito – e a volte delle differenze profonde – ampiamente negato dalla storiografia attuale. Ma furono
anche numerosi i momenti nei quali varie organizza29
zioni lavorarono insieme, a partire dal significato condiviso della coscienza nera all’interno di tutti i gruppi di
liberazione. I colori dell’anc, fianco a fianco con gli striscioni «One Azania1, One Nation», non furono un avvenimento raro.
Quando il 12 giugno 1986 fu dichiarato lo stato di
emergenza nazionale, la lotta in Sudafrica aveva raggiunto livelli senza precedenti. La dichiarazione inaugurò un periodo di pesante repressione che ridusse
considerevolmente il livello e le forme della resistenza
interna. Il regime puntellò le Black Local Authorities
con la forza e imprigionò 26.000 persone solo nel
1986. Nel 1987 la repressione aveva distrutto le strutture locali e l’attenzione si concentrò su ciò che rimaneva
della leadership nazionale. Nel 1988, Soweto, a Johannesburg, fu il solo comune dove i comitati continuarono a operare apertamente.
Mentre l’insurrezione continuava senza una struttura o una organizzazione formale, gli anni finali dell’apartheid sono stati caratterizzati da uno stallo tra il regime e
i suoi oppositori. I sostenitori dell’apartheid per reprimere la resistenza facevano affidamento sulla forza bruta e sul tentativo di gettare i semi di una terza forza per
destabilizzare i gruppi di lotta e assassinare gli attivisti.
Nel 1988 la rivoluzione «irreversibile» appariva un risultato lontano. È qui che gli storici hanno individuato la
svolta pragmatica dei gruppi allineati con l’anc, che iniziarono una serie di manovre che portarono a un accordo negoziale e accelerarono la morte del regime.
Il bilancio della lotta
Fu un compromesso necessario per promuovere la
lotta per la libertà e evitare la possibilità di una guerra civile su grande scala o un tradimento di alcuni obiettivi
chiave della lotta che aveva aspirazioni sia economiche
30
sia politiche? Mentre l’aumento delle lotte di massa è indicato come l’elemento che ha costretto il regime a un
tavolo negoziale, una scuola di pensiero influente ha sostenuto che l’anc è venuta successivamente a patti con
gli interessi dei bianchi e ha svenduto molte delle richieste della lotta in cambio della regola di maggioranza (il governo alla maggioranza nera).
Alcuni leader dell’Alleanza cominciarono a incontrarsi, alla fine degli anni Ottanta e all’inizio in segreto,
con il regime. Si stabilì così il clima necessario per porre fine nel 1989 alla interdizione dei partiti politici, per
ottenere il rilascio dei prigionieri politici, e per i colloqui di Kempton Park che portarono a un accordo negoziale e alle elezioni del 1994.
La lotta di massa aveva costretto il regime ai negoziati e si sentì tradita dai leader che vennero a patti con i
nazionalisti. La fine negoziata dell’apartheid è stata vista come un limite alle politiche successive sulla base
della Convention for a Democratic South Africa (codesa) che era uno scambio tra la regola di maggioranza e la
stabilità capitalista. I nazionalisti accettarono il suffragio universale in uno Stato unitario e l’anc accettò che
non ci fossero né espropriazioni né una ridistribuzione
radicale e che i rapporti di produzione fossero ampiamente conservati. Questo punto di vista è stato ripreso
oggi dalla sinistra indipendente del Sudafrica che si
sente tradita o abbandonata dall’anc e considera il periodo successivo all’apartheid piuttosto come un periodo di transizione che di trasformazione.
Questi compromessi includevano aspetti della Freedom Charter2 relativi alla ridistribuzione o l’introduzione della «Sunset Clause», che prevedeva che il potere
sarebbe stato condiviso con i nazionalisti per un periodo di cinque anni dopo le prime elezioni.
Molti ritengono che lo sviluppo e il superamento
31
delle ingiustizie strutturali dell’apartheid siano state
raggiunte, mentre i critici hanno accusato l’anc di aver
perseguito politiche neoliberiste che hanno fatto poco
per migliorare la posizione della maggioranza nera,
con l’eccezione della sua èlite borghese.
Alcuni affermano che i nazionalisti furono influenzati da eventi mondiali piuttosto che dalla forza della resistenza interna, quando optarono per un accordo negoziale. La fine del governo «socialista» nell’Unione sovietica e nel blocco orientale ridusse i timori dei
nazionalisti sul peso di influenze ostili nei movimenti
di opposizione e le resistenze per un accordo. Il blocco
orientale era stato un forte sostenitore dei gruppi di liberazione e gruppi come l’ala militare dell’anc Umkhonto we sizwe (mk) avevano ricevuto varie forme di assistenza militare e di addestramento attraverso il sacp.
La fine del regime
Sbriciolatisi gli Stati «socialisti», il regime di apartheid fu più propenso a negoziare con i movimenti di
opposizione che avevano perso il sostegno di alleati
chiave. Divenne sempre meno logico per i governi occidentali continuare a sostenere un regime paria, a fronte
della disponibilità di un governo a maggioranza nera di
adottare la formula egemone di una governance neoliberista, basata sul libero mercato e sul multipartitismo.
La resistenza interna e gli eventi mondiali come la
caduta del comunismo furono visti come fattori importanti, ma anche le varie forme di pressione esterna sono
state considerate molto significative nel determinare le
condizioni che hanno portato alla fine del regime. Le
iniziative bds, i movimenti e le azioni da tutto il mondo,
riuscirono a tagliare collegamenti e relazioni importanti con il Sudafrica. In altre parole, l’attivismo mondiale
anti-apartheid ha influenzato con successo le politiche
32
dei vari governi e delle istituzioni internazionali e le
hanno spinte a prendere una posizione più dura contro
il regime3.
La campagna di boicottaggio
Il movimento mondiale bds comparve alla fine degli
anni Cinquanta come risposta a un appello di attivisti e
gruppi politici sudafricani ed ebbe il patrocinio degli Stati africani di nuova indipendenza. In Inghilterra fu lanciato un boicottaggio culturale e una campagna di boicottaggio dei prodotti cresciuti, di anno in anno, a livello
mondiale per vent’anni. Iniziata negli anni Settanta, una
campagna di boicottaggio dello sport dell’apartheid portò all’esclusione del Sudafrica dal Comitato Olimpico Internazionale e a una risoluzione dell’Onu contro l’apartheid nello sport. Alla fine degli anni Sessanta e Settanta
ci fu una intensificazione del boicottaggio accademico,
che isolò quasi completamente le università sudafricane
a partire dagli anni Ottanta.
L’Assemblea generale dell’Onu chiese nel 1962, per
la prima volta, sanzioni contro il Sudafrica in una risoluzione che ebbe il sostegno dei paesi del nam, del blocco
orientale e degli Stati africani. Nel 1963 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu adottò una risoluzione più debole, per
un embargo volontario della vendita di armi al Sudafrica. A metà degli anni Sessanta, sia gli Usa sia la Gran
Bretagna adottarono l’embargo delle armi contro il Sudafrica, embargo che non fu particolarmente efficace fino a che i paesi esportatori di armi (con l’eccezione di
Israele) non adottarono politiche simili, quando le sanzioni militari furono approvate dal Consiglio di Sicurezza nel 1977. Intanto le campagne di disinvestimento
spinsero le banche a cancellare i prestiti al Sudafrica, i
governi a rifiutare di vendere il petrolio, e municipalità,
università, e imprese a disinvestire dal Sudafrica. A par33
tire dalla metà degli anni Ottanta il regime e le corporations sudafricane furono sempre più isolati. La pressione internazionale fornì un sostegno importante ai movimenti popolari che guidavano la lotta sul terreno. Privati
degli aiuti stranieri o dei prestiti internazionali e dovendo affrontare le sollevazioni in tutto il paese, molti sudafricani bianchi – specialmente i padroni delle banche e
delle principali miniere – cominciarono ad abbandonare il regime di apartheid che avevano sempre sostenuto,
facilitando la transizione alla democrazia. L’attivismo
bds ebbe anche significative conseguenze nel piegare il
morale del regime e dei suoi sostenitori, aiutando la resistenza interna e spingendo i disinvestimenti che minarono seriamente la capacità del regime di sostenere l’apartheid sul lungo termine.
In Sudafrica furono numerosi i bianchi impegnati
contro l’apartheid, anche in parlamento, come Helen
Suzman, e c’era anche un nucleo di borghesia e imprenditoria nera. Un ruolo importante fu svolto dalla
chiese cristiane, salvo la chiesa riformata olandese degli
afrikaners, e da alcuni giornali di lingua inglese. Molti
bianchi, anche ebrei, facevano parte dell’anc.
I boicottaggi internazionali, la crescente resistenza
interna e la militanza dei lavoratori e delle loro comunità alimentarono la sfida al regime. Ma ci furono anche
tensioni crescenti tra la politica economica del Sudafrica e i trend della finanza mondiale propensa verso «liberi» mercati. La dipendenza del Sudafrica dalle industrie per l’export e la mobilità costante degli investimenti esteri avevano bisogno di politiche adeguate. Le
geografie sociali controllate, dirette e organizzate dallo
Stato divennero sempre più volatili e vulnerabili nel clima finanziario dei primi anni Ottanta.
Settori importanti del grande business cominciarono a sviluppare elementi di una strategia di accumula34
zione neoliberista, leggi precedenti furono abolite e i
confini dell’apartheid cominciarono a disfarsi. Brutale
contro la resistenza, il regime garantì varie «concessioni» politiche e economiche andando contro l’ideologia
dell’apartheid, ma nella logica di assicurare il mantenimento, il funzionamento e l’operatività dei mercati e
della produzione interna.
Ma le riforme, collegate alla strategia di repressione
e al tentativo di dividere la comunità oppressa, rappresentarono un elemento di debolezza per il regime, nel
momento in cui tentava di ristabilire il suo potere e la
sua autorità. Oggi gli analisti sottolineano la continuazione delle politiche fiscali neoliberiste da parte dell’anc, sostenendo l’idea che le forze del capitale mondiale hanno giocato un ruolo nella fine della politica di
apartheid per mantenere e rinforzare le strutture socioeconomiche del neoliberismo nel nuovo Sudafrica.
Il ruolo del bds contro l’apartheid
I cinque fattori indicati come determinanti per la caduta del regime di apartheid, tra loro interconnessi,
non si realizzarono in un vuoto, ma all’interno di dinamiche più ampie in un momento in cui l’apartheid attirò una attenzione internazionale crescente. I vari fattori in gioco, dai boicottaggi ai disinvestimenti e alla resistenza interna, assicurarono la spinta necessaria per far
cadere il regime e gli sforzi di agenzie potenti come le
amministrazioni Reagan e Botha fallirono nei loro tentativi di sostenere l’apartheid attraverso un insieme di
riforme cosmetiche unite con la repressione.
Le iniziative, le azioni e i successi del bds stimolarono
un clima politico e finanziario che aiutò a porre fine all’apartheid. Forze e strutture del capitale mondiale hanno
avuto un ruolo in questo processo, ma a loro volta furono, almeno in parte, influenzate dai boicottaggi e dalla
35
resistenza interna che mise in pericolo la profittabilità a
lungo termine dell’apartheid. Il regime sottoposto a una
miriade di pressioni fu costretto a negoziati con i quali si
raggiunse almeno la regola di maggioranza.
In assenza di una attività mondiale anti-apartheid la
fine del regime sarebbe stata rinviata e i conservatori
avrebbero ricevuto un sostegno maggiore dall’estero
nei loro tentativi di riformare l’apartheid.
La storia del Sudafrica considera il bds una strategia
preziosa per i popoli che nel mondo cercano di sconfiggere occupazioni e dittature, di sfidare e superare sistemi radicati di razzismo e di apartheid, di denunciare e
sconfiggere l’ingiustizia e l’oppressione.
1. Azania è il nome usato dai nativi al posto di Sudafrica.
2. La Freedom Charter fu adottata a Kliptown, un sobborgo di Soweto, la
township nera sudafricana sicuramente più conosciuta al mondo, dal
Congress of the People, un organo rappresentativo, composto da circa
tremila delegati provenienti da tutto il paese. Lanciata nel 1953 del Presidente dell’epoca dell’African National Congress (anc), il professor ZK
Matthews, al fine di «instillare coscienza politica nel popolo e incoraggiare l’attività politica», la Freedom Charter è il primo documento ufficiale
in aperta opposizione al regime di apartheid che andava consolidandosi
dopo la vittoria del National Party, il partito nazionalista afrikaner, nel
1948.
3. Omar Barghouti, uno dei promotori della campagna bds palestinese,
ha così risposto a Justin Podur che gli esprimeva dubbi sul ruolo dei movimenti anti-apartheid: It was the straw that broke the camel’s back (sono
stati la freccia che ha colpito il cammello nel didietro), in J. Podur, The
South Africa Moment in Palestine, interview with Omar Barghouti, April 05,
2009, www.zmag.org/znet/viewArticle/21078.
36
4. Boicottare Israele. Perchè?
Per rispondere a questa domanda sarebbe sufficiente
suggerire la lettura de La pulizia etnica della Palestina di
Ilan Pappé (Fazi, 2008) e dei suoi numerosi interventi
(http://ilanpappe.com), oppure raccogliere il suo invito a studiare la storia della Palestina, ad approfondire
l’infrastruttura ideologica del sionismo e a sostenere il
boicottaggio di Israele per ottenere giustizia per i palestinesi.
Dobbiamo studiare la storia della Palestina, dobbiamo vedere i
collegamenti tra i bombardamenti e l’espulsione dei palestinesi
nel 1948 e i bombardamenti e la pulizia etnica nel 2009. Il nesso tra tutto questo è la medesima strategia, la medesima metodologia, solo le armi sono diventate più letali e più moderne. Nel
’48 la maggior parte dei massacri perpetrati si sono verificati
perché l’esercito israeliano non ha lasciato nessuna possibilità
ai palestinesi di abbandonare i loro villaggi e le loro città. La striscia di Gaza è come un enorme villaggio palestinese del 1948
dove la gente non sa dove andare, non sa dove ripararsi, dove la
gente combatte disperatamente in una lotta impari, impossibile
per la sopravvivenza.
Ma dobbiamo anche prendere in considerazione l’ideologia. Se
37
non analizziamo i collegamenti tra l’ideologia sionista e i tipi di
crimini cui abbiamo assistito a Gaza, non solo non riusciremo a
spiegare perché gli israeliani stanno facendo quello che fanno,
ma saremo incapaci di prevenire il prossimo caso di genocidio e
di massacri. L’ideologia è un fenomeno dinamico nella storia,
inizia sulla base di una idea precisa su elementi fondamentali su
cui si àncora; poi si modifica per adeguarsi alle circostanze mutate. Questo è il motivo per cui l’idea iniziale del sionismo, quella
relativa all’identità nazionale, all’autodeterminazione ebraica, alla sicurezza, hanno subìto un’evoluzione quando il progetto sionista si è trasformato in un progetto colonialista sul terreno. Il
sionismo non è nato così, è diventato una ideologia razzista che
disumanizza i palestinesi come singoli individui e come collettività proprio sulla base di un profondo convincimento, che è il fulcro del movimento sionista, e cioè che fino a quando ci sono palestinesi in quella che era la Palestina, non c’è né sicurezza, né
prosperità per il popolo ebraico che ha fondato lo Stato d’Israele e
che risiede nello Stato d’Israele.
Cosa ci ha insegnato la storia quando una società si rifiuta di
cambiare il suo atteggiamento razzista, la sua ideologia fascista,
razzista e genocidaria? Il Sudafrica ci ha insegnato che c’è un’altra possibilità, quella del boicottaggio, delle sanzioni e del disinvestimento. Il vantaggio è non solo quello di evitare altri spargimenti di sangue ma di mostrare che non c’è bisogno di convincere ogni bianco o sudafricano a smettere di essere razzista.
L’apartheid è caduta prima che tutti i bianchi sudafricani non fossero più razzisti. È finita quando l’elite politica, culturale ed economica ha cominciato a perdere i vantaggi materiali, i vantaggi
in termini di prestigio all’estero che aveva ottenuto dal sistema
razzista dell’apartheid. E questa deve essere la via giusta da seguire per porre termine alla politica violenta e genocidaria di
Israele, per poter rendere giustizia alle vittime del passato.
Nessun essere umano degno può veramente accettare quello che
lo Stato di Israele rappresenta nel 20091.
38
La nascita dello Stato d’Israele: miti e realtà
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale dell’Onu2 approvò la Risoluzione 181 di partizione della Palestina, che prevedeva una unione economica tra uno Stato ebraico e uno Stato arabo. La partizione divideva la
Palestina storica in sei parti: tre assegnate allo Stato
ebraico e tre allo Stato arabo. La città di Gerusalemme e
l’area circostante, compresa Betlemme, era fuori dalla
partizione e considerata zona internazionale da porsi
sotto amministrazione Onu3.
La Risoluzione di partizione garantiva diritti civili,
politici, religiosi, economici e di proprietà per tutti i cittadini. Stabiliva inoltre «che nessuna discriminazione
doveva essere fatta fra gli abitanti per motivi di razza, religione, lingua o sesso» e che «non avrebbe dovuto essere autorizzata alcuna espropriazione di terre possedute
da arabi nello Stato ebraico tranne che per ragioni di
pubblica utilità» e che «in caso di esproprio doveva essere pagato un pieno indennizzo anticipato nella misura stabilita dalla Corte Suprema»4.
La Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu fu
accettata dai gruppi del movimento sionista come un
primo passo per realizzare il disegno di conquista della
Palestina storica e di espulsione dei nativi. Fu respinta
dai paesi arabi perché in contrasto con il principio di autodeterminazione dei popoli previsto dalla Carta delle
Nazioni Unite, perché non teneva conto degli interessi
della popolazione palestinese e perché non aveva scisso
la questione dei profughi ebrei in Europa sopravvissuti
ai campi di sterminio, che erano ancora oltre 250.000
nei campi di raccolta in Occidente, dai problemi relativi
alla fine del mandato britannico in Palestina dopo la seconda guerra mondiale.
Il 14 maggio 1948, alla scadenza del mandato britannico, e dopo che la pulizia etnica della Palestina aveva già
39
prodotto i suoi primi tragici effetti, fu proclamato unilateralmente lo Stato di Israele. La Dichiarazione d’Indipendenza di Israele, diffusa il giorno stesso, garantiva
l’eguaglianza politica e religiosa a tutti i cittadini5.
La guerra che si scatenò nei mesi successivi, fra l’esercito e le forze irregolari ebraiche da una parte e gli
eserciti dei paesi arabi, Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq, portò nel 1949, per la superiorità militare
israeliana, sia numerica sia negli armamenti6 alla sconfitta degli arabi e a un armistizio. Israele occupava il
78% della Palestina e non il 56%, come indicato dal piano di partizione Onu.
La pulizia etnica7, iniziata alla fine del 1947, avrebbe
interessato oltre 750.000 palestinesi, con la distruzione di oltre 400 villaggi e il massacro8 di circa un migliaio di palestinesi.
L’11 dicembre 1948 l’Assemblea Generale dell’Onu
emanò la Risoluzione 194 in cui si dichiarava che «i
profughi che desideravano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovevano avere il diritto di farlo al più presto possibile e un indennizzo doveva essere
corrisposto per le proprietà perdute o danneggiate, in
base alla legge internazionale». Questa risoluzione,
contrariamente alla 181, non fu presa mai in considerazione dai governi israeliani.
La confisca della terra dei profughi del 1948
A partire dal 1949, e sotto il governo militare che durò sino al 1966, furono subito varate leggi militari di
emergenza, leggi e regolamenti di emergenza civili e,
nel 1950, fu definitivamente approvata una legge sull’acquisizione di terreni, di confisca dei terreni dei proprietari assenti, la Law of Absentee property, che faceva
riferimento a una antica regolamentazione ottomana.
La legge sussiste ancora ed è stata usata per l’esproprio
40
di terreni anche nei Territori palestinesi occupati (opt).
Nel 1950 veniva promulgata la «Legge del ritorno»
in Israele per qualsiasi ebreo nel mondo, mentre si
proibiva il ritorno, nelle proprie case e nelle proprie terre che vennero confiscate, ai profughi palestinesi.
La giurisdizione amministrativa fu affidata a Corti
Religiose separate per ebrei, musulmani, cristiani e
drusi, per l’autogestione comunitaria di alcune pratiche, come per esempio il matrimonio. In realtà i poteri
attribuiti al Rabbinato erano più importanti di quelli attribuiti alle altre Corti.
Un ruolo istituzionale e pubblico venne affidato alle
agenzie sioniste, wzo (World Zionist Organization), ja
(Jewish Agency) e jnf (Jewish National Fund), agenzie
internazionali ebraiche che avevano prerogative pubbliche, godevano di uno statuto speciale e avevano competenze esclusive. Di fatto ebbero e hanno, ancora oggi, un
ruolo di «gestione etnica» delle politiche dello Stato. Attualmente il 93% della terra in Israele è nazionalizzata9.
La discriminazione razziale dei «non ebrei»
I cittadini di Israele «non ebrei» (in particolare gli
arabi) vivono ancora oggi in una situazione che è stata
descritta come al di là di un «muro di vetro»10.
In sintesi, sono soggetti a divieti e restrizioni:
• divieto di proprietà della terra e di case e restrizioni
per le ristrutturazioni per chi le ha mantenute;
• sottorappresentazione nelle pubbliche amministrazioni;
• sottorappresentazione nel sindacato Histadrut (il
più grande sindacato «laburista», che gestisce anche i
fondi per l’assistenza);
• forti tagli (a partire dalla metà degli anni Novanta)
nei contributi assistenziali (dal 3° figlio) per i figli dei
genitori che non hanno prestato servizio militare nell’e41
sercito, cioè il 90% dei cittadini arabi, con conseguente
modificazione del tasso di natalità11;
• accesso ridotto, se non residuale, alle politiche di
welfare, gestite invece da wzo e ja;
• politiche di «segregazione territoriale» per cui ai
non ebrei vengono negati incentivi economici per le
«development areas»;
• forti ostacoli all’accesso all’università dei palestinesi cittadini di Israele perché le prove di maturità e i test
di accesso sono orientati alla cultura ebraica;
• il diritto al voto è «poco più che simbolico», poiché
i partiti della minoranza araba sono di fatto esclusi dalle
coalizioni di governo e da ogni importante decisione
politica;
• esenzione dei cittadini arabi dal servizio militare:
con questo esonero essi hanno meno accesso rispetto
agli altri cittadini ai benefici sociali ed economici, come
la casa, sussidi per le nuove famiglie, aiuti per l’occupazione12;
• minore spesa per le scuole arabe, minori sussidi
per i ragazzi arabi nel campo educativo, con conseguente raddoppio del tasso di abbandono scolastico rispetto
ai ragazzi ebrei;
• rifiuto di residenza e cittadinanza a palestinesi residenti in Cisgiordania e Striscia di Gaza che sposano
cittadini palestinesi israeliani, per effetto della Citizenship and Entry into Israel Law del 31 luglio 2003, provvisoria, ma rinnovata negli anni successivi, con emendamenti restrittivi riguardanti l’età.
Israele Stato ebraico e democratico?
Lo Stato ebraico è lo Stato del popolo ebraico… è uno Stato in cui
ogni ebreo ha il diritto al ritorno… è uno Stato dove la lingua è l’ebraico e la maggior parte dei giorni di vacanza è una rinascita na42
zionale… uno Stato ebraico è uno Stato in cui si è sviluppata una
cultura ebraica, un’educazione ebraica e un meraviglioso popolo
ebraico… uno Stato ebraico deriva i suoi valori dal suo retaggio religioso, la Bibbia è la base dei suoi libri e i profeti di Israele sono il
fondamento della sua moralità. Uno Stato ebraico è anche uno
Stato in cui la Legge ebraica adempie un ruolo significativo …
uno Stato ebraico è uno Stato in cui i valori di Israele, la Torah, il
retaggio ebraico e i valori della halacha (la legge religiosa) sono
alla base dei suoi valori13.
Lo Stato di Israele non si è dato sino a oggi una Costituzione, ma ha 11 Basic Laws, nessuna delle quali garantisce esplicitamente la libertà di parola, la libertà di
religione e l’eguaglianza per tutti i cittadini. Nemmeno
la Basic Law on Human Dignity and Liberty (1992) include l’eguaglianza dei cittadini tra i diritti che elenca14.
In Israele tutti i cittadini hanno diritto di voto, ma per la
superiorità demografica della popolazione ebraica, per
il dovere esplicito dei partiti arabi di assicurare lealtà allo Stato in quanto ebraico (Law of Political Parties del
1992), per le pressioni e talora minacce alle quali i politici delle minoranze sono sottoposti15, hanno una possibilità scarsissima di incidere in difesa degli interessi
della minoranza palestinese.
Nello Stato israeliano ebrei e arabi hanno una cittadinanza israeliana, ma hanno due differenti identità
nazionali scritte nei loro passaporti. Non esiste una
«nazione israeliana», ma solo una «nazione ebraica»16.
Non è riconosciuta una «nazione palestinese». Nel discorso corrente non esistono i Territori occupati, non
esistono nemmeno i palestinesi (solo arabi) e, non esistendo, non hanno diritti nazionali17.
Per gli affari civili, che regolano i matrimoni, le nascite, le morti, funzionano le Corti religiose delle differenti comunità (cioè ebrei, musulmani, drusi, cristiani,
43
greci ortodossi ecc.). Ma l’unico calendario delle festività nazionali riconosciuto è il calendario ebraico, così uffici, banche, istituzioni e trasporti pubblici funzionano
soltanto seguendo quelle scadenze; ristoranti, fabbriche e istituzioni pubbliche sono obbligati a seguire per
l’igiene le pratiche ebraiche. Inoltre per l’erogazione dei
fondi pubblici vengono privilegiate le scuole religiose e
le istituzioni per gli ebrei.
Qual è il modello della democrazia israeliana? In
Israele, in ambito scientifico ci sono stati ampi dibattiti:
gli studiosi «tradizionali» di scienze politiche parlano
di democrazia etnica, altri di regime etno-repubblicano
e alcuni, negli ultimi anni, affermano che Israele è una
etnocrazia, uno Stato dominato da un gruppo etnico, in
questo caso etnico-religioso18. Un deputato arabo della
Knesset, il Parlamento israeliano, ha detto che «Israele
è democratico nei confronti degli ebrei e ebreo nei confronti degli arabi»19.
Negli anni Novanta, ma già a partire dal 198420, si sono levate le prime voci di intellettuali palestinesi cittadini di Israele per chiedere «uno Stato per tutti i suoi cittadini», come fece il deputato arabo della Knesset Asmi
Bishara, ora costretto all’esilio anche per aver criticato la
guerra del 2006 contro gli Hezbollah nel territorio del
sud del Libano. Da alcuni anni, molti intellettuali e universitari ebrei israeliani, palestinesi ed ebrei occidentali
hanno ripreso la discussione sulla soluzione «uno Stato
unico, laico e democratico» nella Palestina storica.
Il progetto sionista di occupazione/annessione
Con la guerra del 1967 e la successiva occupazione militare israeliana nei Territori palestinesi occupati si rafforza la tendenza della politica sionista dei governi di Israele
al progetto «sempre più terra, sempre meno arabi».
La graduale confisca dei terreni e delle case si attua
44
attraverso manovre legali o con «attente manipolazioni» del contesto legale come:
• confisca delle proprietà degli assenti: «Law of absentee property» (1950), acquisite dall’esercito e trasferite a «the Custodian of Absentee property» e in seguito
assegnate per lunghi periodi alla «Divisione colonie»
del wzo (World Zionist Organisation) che poi le affitta ai
coloni;
• confisca di terreni per «uso militare» e di «sicurezza» e poi concessioni ai coloni;
• confisca di terreni intorno agli insediamenti «per
ragioni di sicurezza»;
• confisca di terre comunali classificate «terre dello
Stato» (torrenti, laghi, zone rocciose, colline non abitate) definite di interesse nazionale.
In generale, secondo i dati di una ricerca del 2008 di
Jonathan Cook21, il 42% di terra negli opt è confiscata
per i coloni e un 25% confiscata per lo Stato (esercito,
amministrazione pubblica, parchi nazionali ecc.)22. Nel
marzo 2009 è stato annunciato il progetto di costruzione di nuovi immobili negli insediamenti ebraici di Gerusalemme est per un totale di 73.000 nuovi appartamenti che potrebbero ospitare circa 300.000 nuovi coloni23. Ora i coloni in Cisgiordania si aggirano intorno ai
500.000.
A partire dagli anni Novanta con l’aumento degli insediamenti e dal 2000 con la costruzione del Muro di
oltre 700 km, oggi quasi del tutto completato a ovest,
realizzato non lungo la Linea Verde del ’49, ma anche
profondamente all’interno della Cisgiordania per integrare in Israele gli insediamenti più importanti, sono
state sottratte ai palestinesi altre terre, tra le più fertili,
pozzi, zone con falde acquifere importanti. Circa
60.000 palestinesi vivono in 42 villaggi e città chiusi in
enclave a ovest tra il Muro e la Linea verde, con scarsa
45
mobilità verso l’est, solo con passaggi in tunnel o attraverso posti di controllo. Alcuni terreni dei palestinesi
sono diventati aree di raccolta di rifiuti tossici di Israele,
con gravi danni per la popolazione24. Viene in questo
modo ridotta sempre di più la sostenibilità economica
della popolazione.
Il territorio viene frammentato con il progetto preciso di impedire la possibilità di uno Stato palestinese effettivo25, frammentazione della società che nell’ultimo
decennio e a partire dalla seconda intifada del settembre 2000 è diventata sempre più ampia per l’inasprimento dell’occupazione israeliana, per la crisi dell’economia palestinese causata dai posti di blocco, aumentati sino agli odierni 640, per la graduale sostituzione
della forza lavoro palestinese in Israele con immigrati
da altri paesi, per la confisca dei terreni, la distruzione
delle coltivazioni, la restrizione dei movimenti di persone e beni; mentre tutti i prodotti alimentari e industriali devono essere importati da Israele.
Il progetto sionista di sociocidio e politicidio viene
anche attuato attraverso la detenzione di circa 11.000
palestinesi, tra i quali circa cento donne e ragazzi/e sotto i 18 anni. Circa mille sono i detenuti in detenzione
amministrativa, che può essere prolungata, di sei mesi
in sei mesi, per anni, senza processo, senza capi d’accusa, senza possibilità di far ricorso. La tortura è una pratica abituale e gli assassini extragiudiziali frequenti.
Verso la sparizione della Palestina
e il progetto «genocidario» a Gaza
Nel rapporto del gennaio 2008 di John Dugard, relatore speciale della commissione dei diritti umani dell’Onu sulla situazione negli opt, sino al giugno 2008, si
leggeva:
46
Nonostante le ripetute assicurazioni date dalle autorità israeliane di ridurre il regime dei blocchi, il numero degli ostacoli materiali in Cisgiordania è aumentato da 528 a 563 tra gennaio e settembre 2007. Questi ostacoli materiali sono aumentati con posti
di blocco volanti, circa 560 al mese, come rilevato al 6 ottobre
2007. Il regime dei blocchi, che controlla e restringe l’accesso ai
posti di lavoro, ai mercati, ai servizi medici e all’educazione e impedisce la normale attività economica, è la causa maggiore del
deterioramento della situazione umanitaria.
Il rapporto notava che quasi tutti gli ostacoli creati
dal regime di restrizioni sono collocati lungo la vasta rete di strade riservate ai residenti israeliani. Questo è il
risultato del fatto che oltre il 40% della Cisgiordania è
occupato da insediamenti israeliani illegali, infrastrutture militari, riserve naturali e aree chiuse a ovest dalla
barriera. Persino la strada lungo il Muro è sistemata in
modo da venire incontro ai bisogni dei residenti locali
(israeliani). Secondo le cifre, circa 10.000 palestinesi
che vivono nelle enclaves (aree chiuse) a ovest del Muro,
nella parte «israeliana», sono tagliati fuori dai servizi vitali della salute e dell’educazione e dalle reti familiari e
sociali. Un gran numero di palestinesi, soprattutto contadini che vivono a est della barriera, hanno bisogno di
«permessi di visita» per raggiungere le loro terre, le risorse d’acqua e altro nell’area chiusa. Una ricerca condotta su 67 comunità danneggiate dalla barriera nel
nord della Cisgiordania ha scoperto che solo il 20% di
coloro che lavoravano la terra lungo la Seam Line [linea
di confine mobile] nel passato, oggi hanno dei permessi.
Il regime di restrizione dei movimenti e il Muro stanno
provocando la frantumazione dei mercati, un aumento
nelle spese di trasporto e sta minacciando la sopravvivenza per le difficoltà nel settore alimentare26.
Le condizioni della popolazione della striscia di Ga47
za sono ulteriormente peggiorate dopo il ritiro dei coloni nell’agosto del 2005, ma soprattutto dopo le elezioni politiche del gennaio 2006 e la vittoria del partito
di «Change and Reform» (Hamas). Da quel periodo
(tra il 2006 e il 2008, sino alla «spedizione punitiva»
del dicembre-gennaio 2009 con le sue terribili conseguenze sulla popolazione e sul territorio, oltre 1400
morti e oltre 5000 feriti) vi è stata la chiusura quasi totale dei valichi della Striscia che ha impedito ogni possibilità di scambi commerciali, sino a limitazioni sempre più strette all’importazione di generi di prima necessità per la popolazione della Striscia (1.500.000
abitanti), dove il tasso di povertà (al di sotto di due dollari al giorno) è dell’80%.
Le stesse difficoltà per il rilancio dell’economia nella
Striscia di Gaza venivano denunciate da James Wolfensohn, commissario Onu per le ripresa dell’economia
palestinese dopo il ritiro israeliano da Gaza dell’agosto
2005, in una intervista rilasciata su «Haaretz»27.
Nel giugno 2007, Richard Falk, relatore speciale della commissione dei diritti umani dell’Onu per gli opt
dal giugno 200828, esprimeva nell’articolo Slouching toward the Palestinian Holocaust» (Il cammino strisciante
verso l’Olocausto palestinese) un giudizio durissimo,
ammonendo che la situazione a Gaza era «catastrofica», con un tendenziale processo «genocidario»:
Per oltre quaranta anni dal 1967, Gaza è stata occupata da Israele
(…) con più della metà degli abitanti che vivono in miserabili campi di rifugiati, sempre più dipendenti dagli aiuti umanitari per
soddisfare i loro bisogni di base. Un gran battage propagandistico
promosso da Sharon fece pensare che Israele terminasse l’occupazione militare e smantellasse gli insediamenti nel 2005.
Il processo fu in larga parte una mistificazione poiché Israele
mantiene il pieno controllo militare dei confini, dello spazio ae48
reo, del mare, effettua violente incursioni, lancia missili su Gaza
per assassini mirati che violano le convenzioni internazionali,
uccidendo più di trecento civili di Gaza dal momento del supposto ritiro. Per questo voglio ammonire con dure parole perché
non ci siano «mai più» catastrofi.
E aggiungeva:
C’è una norma di «responsabilità a proteggere», adottata dal
Consiglio di Sicurezza delle Onu come base dell’«intervento
umanitario», che deve essere applicata, ma si dovrebbe agire ora
per iniziare a proteggere la popolazione di Gaza da ulteriori dolori e sofferenze. Ma sarebbe irrealistico aspettarsi che l’Onu faccia
qualcosa di fronte alla crisi, dato il sostegno Usa a Israele e tenendo conto del contributo dei governi europei ai recenti tentativi illegali di schiacciare Hamas come forza politica palestinese.
La fine della soluzione «due popoli due stati»
Il progetto di negoziazione per una soluzione «due
stati», uno ebraico, l’altro palestinese, la Road Map, organizzato dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel
2002-2003, suddiviso in tre fasi, prevedeva la fine dei
negoziati nel 2005 con la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sostenibile. Ai negoziati per la
Road Map partecipavano Stati Uniti, Russia, Unione
Europea e diplomatici dell’Onu, il cosiddetto Quartetto.
Non ci fu alcun risultato perché, come scrive il diplomatico Alvaro de Soto, rappresentante nel Quartetto del
Segretario generale dell’Onu, nel suo rapporto finale
del 5 maggio 200729, il Quartetto funziona come un
«gruppo di amici» degli Usa e di Israele e questi «non
sentono la necessità di consultarsi strettamente con il
Quartetto a eccezione di quando conviene loro»30.
Inoltre Israele richiedeva ai negoziatori palestinesi,
come condizione preventiva per iniziare i negoziati,
49
una dichiarazione di riconoscimento del diritto di
Israele a esistere come Stato ebraico e l’eliminazione di
tutte le violenze nei Territori palestinesi occupati. Sulla
prima delle pre-condizioni vi sono due punti cruciali da
discutere, scriveva De Soto:
a) Com’è possibile per i negoziatori palestinesi (anp,
Fatah e Hamas) riconoscere ufficialmente e legalmente
il «diritto a esistere» di Israele prima dei negoziati? Innanzitutto «dove», entro quali confini31? Israele ha confini riconosciuti con l’Egitto (dal 1979) e con la Giordania
(dal 1994). Ma quali sono i confini con i Territori palestinesi occupati, con la Siria e con il Libano?
Nel 1975 c’era stato un primo riconoscimento da
parte dell’Onu dell’olp, riconoscimento approvato dalla
Comunità europea nel 1981, poi nel 1988 dagli Usa e da
Israele de facto nel 1993, poco prima degli accordi di
Oslo. Il gruppo politico palestinese di Fatah aveva intanto già accettato la soluzione «due popoli – due stati» nel
1974, riconoscendo quindi implicitamente i confini
dell’armistizio del 1949 e poi del 1967 e quindi lo Stato
di Israele. Per quanto riguarda gli insediamenti nei territori è impensabile che Israele restituisca i grandi insediamenti (Ma’ale Adumim, Ariel, Gush Etzion, Mod’in
Ilit, Psagot, Kedumim ecc.), la cui costruzione iniziata
nel 1967 ha avuto una accelerazione dopo gli accordi di
Oslo, soprattutto dopo la «ratifica» di Bush del 200432 e
delle diplomazie occidentali che certamente sarà estesa
anche ai nuovi insediamenti a Gerusalemme est (con
migliaia di appartamenti già costruiti o pianificati nei
terreni confiscati al di qua del Muro)33.
Quindi, poiché Israele ha confini sempre mobili, diritto a esistere ma entro quali confini reali e legali? Come fanno i negoziatori palestinesi (anp, Hamas o altri)
a riconoscere confini prima dei negoziati finali, come
pre-condizione? In secondo luogo, riconoscere Israele
50
come Stato ebraico, come democrazia etnica o come etnocrazia?
La Legge del 1950 sul ritorno degli ebrei del mondo
e quella sul divieto del ritorno dei profughi palestinesi
del ’48, definiscono e continuano la discriminazione etnica in Israele, aggravata recentemente dagli attacchi
dei coloni dell’estrema destra ai quartieri palestinesi di
Akko, Jaffa e Gerusalemme est e dalla politica del governo di estrema destra uscito dalle elezioni del febbraio 2009.
Com’è possibile per i palestinesi riconoscere uno
Stato che discrimina gli abitanti sul piano etnico e religioso? Sarebbe contro i fondamenti giuridici dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite che basano le loro
convenzioni sul rispetto dei diritti umani. Se l’Europa
chiede a Hamas di riconoscere Israele come Stato ebraico, allora dovrebbe dichiarare che sostiene tutti i governi a supremazia etnica.
Dopo le elezioni israeliane del 12 febbraio 2009, è arrivata la richiesta del nuovo governo, presieduto da Benjamin Netanyahu detto Bibi, ai palestinesi e agli arabi di
riconoscere Israele non come «Stato ebraico», ma come
«Stato del popolo ebraico», all’interno e all’esterno del
paese. Una richiesta che ha come prima conseguenza l’abrogazione della cittadinanza dei non-ebrei, come proposto da Avigdor Lieberman, ora ministro degli esteri (Ury
Avnery, The Emperor’s Old Clothes, 02.05.2009, www.avnery-news.co.il/english/index.html).
Sulla seconda pre-condizione, De Soto proseguiva:
come si fa a chiedere la fine di ogni violenza a un interlocutore (a mala pena considerato tale e che comunque
resta solo uno degli interlocutori) mentre continuano,
diffuse ovunque sul territorio, le violenze dell’esercito
israeliano?
51
Il ruolo militare di Israele
nel contesto mediorientale
A livello economico-militare Israele ha un ruolo importante in questa fase di neoliberismo nel contesto
geostrategico del Medio Oriente34, perché il progetto dei
governi israeliani e occidentali è da lungo tempo, quello
del controllo economico, militare e strategico di zone
del mondo in particolare verso Oriente. Numerosi sono
oggi i trattati commerciali e militari che Israele ha con
l’Europa, con gli Usa e con l’India. Da alcuni anni si parla sempre con più insistenza della sua prossima entrata
nella nato.
Nel caso dello Stato d’Israele, come Stato ebraico, esso ha ottenuto, unico al mondo, l’immunità-impunità
per la violazione di tutte le risoluzioni Onu, in un primo
tempo con la giustificazione della memoria della Shoah
degli ebrei europei. Negli ultimi decenni poi, ha mantenuto queste «garanzie» con la funzione di difendere gli
interessi economici, militari e strategici che condivide
con il mondo occidentale. In particolare, ed è necessario sottolinearlo, con la minaccia delle sue armi nucleari (oltre duecento testate atomiche) e tre sottomarini
con cui tiene sotto controllo il Mediterraneo, l’Europa e
il Medio Oriente.
Inoltre, con l’obiettivo del controllo dell’area mediorientale, secondo «regole» occidentali, costruisce insieme ai suoi alleati nei territori ambìti per le risorse, zone
dove sistemare «l’umanità in eccesso», forme-campo35
dove rinchiudere anche le popolazioni che resistono,
considerate nemici, non-persone, ridotte alla mera sopravvivenza, allo sfinimento, alla denutrizione, alla perdita di dignità, un percorso verso la disumanizzazione e
la morte36.
Come l’ultimo attacco israeliano contro la striscia di
Gaza dimostra, la «pacificazione» dopo il massacro è
52
l’unica possibilità di «dialogo» che il potere mondiale,
da secoli quello occidentale, coloniale, basato su una
«supremazia razzista», offre ai popoli che considera inferiori e perciò subordinati.
1. Ilan Pappé, Genocidio a Gaza e Pulizia Etnica in Cisgiordania, Seminario La guerra israelo-occidentale contro Gaza, Roma 24 gennaio 2009.
2. Si deve tener conto che l’Assemblea generale dell’Onu, a differenza del
Consiglio di Sicurezza, «non è un organo legislativo o giudiziario e la sua
risoluzione sulla spartizione della Palestina non era niente più di una
raccomandazione. Non aveva la forza di una decisione [coattiva], non poteva impegnare la maggioranza del popolo palestinese che vi si era opposto (…) Inoltre, l’azione dell’Onu era in contrasto con i principi fondamentali per i quali l’organizzazione mondiale era stata istituita e cioè di
sostenere il diritto di ogni popolo all’autodeterminazione», Sami Hadawi, Raccolto Amaro, Palestina 1914-68, ediz. East, Roma 1969 p. 104-105.
3. Risoluzione delle Nazioni Unite 181 del 29 novembre 1947. Votarono a
favore 33 paesi, contrari 13, astenuti 10. La partizione prevedeva la creazione di uno Stato ebraico sul 56% del territorio palestinese, di uno Stato
arabo sul 42% e di una zona internazionale di Gerusalemme e dintorni
sul restante 2%.
4. Sami Hadawi, op. cit, p. 99 e Risoluzione delle Nazioni Unite 181 del
29 novembre 1947.
5. «Lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti
i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come
predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti
sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza
o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai
principi della Carta delle Nazioni Unite. Lo Stato d’Israele sarà pronto a
collaborare con le agenzie e le rappresentanze delle Nazioni Unite per
l’applicazione della risoluzione dell’Assemblea Generale del 29 novembre 1947 e compirà passi per realizzare l’unità economica di tutte le parti
di Eretz Israel».
6. Avi Shlaim, Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, Il Ponte, Firenze
2003.
7. Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma 2008.
8. Ibid.
9. Jonathan Cook, Blood and Religion. The Unmasking of the Jewish and Democratic State, Pluto Press, London 2007.
10. Ivi, p. 13 e sgg.
11. Cfr. www.bankisrael.gov.il/deptdata/mehkar/11/iser_1pdf, Roni
53
Frish, The Effect of Child Allowances on fertility e cfr. Human Rights Watch,
Israel: Cuts in Child Allowance discriminate against Palestinians Arab Children, press release, 7 June 2002.
12. Cfr. 2004 US State Department, Country Reports on Human Rights
Practises.
13. Parole pronunciate da Aharon Barak, riportate in J. Cook, Blood and
Religion, cit., p. 17.
14. Ivi, p. 18
15. Ivi, p. 22
16. In generale cfr. la sintesi di queste riflessioni in M. Allegra, Che Stato
è Israele, «Conflitti globali», n. 6, 2008; cfr. anche V. Oren Yiftachel, Etnocracy: The Politics of Judaizing Israel/Palestine», «Constellations», 3,
1999.
17. Giorgio S. Frankel, Dopo Annapolis, «Il Mulino», n. 1, 2008, pp. 157158.
18. J. Cook, Blood and Religion, cit. p. 13.
19. Ivi, p. 15.
20. Con riferimento ad alcuni intellettuali ebrei occidentali che auspicavano già negli anni Trenta e Quaranta la costituzione di uno Stato bi-nazionale o anche di uno Stato unico per ebrei e arabi nella Palestina storica, come Judah Magnes, Martin Buber e altri, cfr. H. Arendt, Ebraismo e
modernità, Feltrinelli, Milano 1986.
21. Jonathan Cook, Disappearing Palestine, Zed Book, London 2008.
22. Ivi, cap. 2.
23. Sara Miller, Peace Now: Israel Planning 73,300 new homes in West Bank,
«Haaretz», 2.3.2009
24. Jad Isaac–Owen Powell, La trasformazione dell’ambiente palestinese, in
Jamil Hilal, a cura di, Palestina. Quale Futuro? La fine della soluzione dei
due Stati, Jaca Book, Milano 2007, pp. 173-196.
25. Jamil Hilal, a cura di, Palestina quale futuro?, cit.
26. A. Eldar, Prof. Dror’s duty, «Haaretz», 21.01.2008
27. S. Smooha, All the dreams we had are now gone, «Haaretz»,
21.07.2007.
28. Professore emerito di Diritto internazionale all’Università di Princeton e docente di studi internazionali e globali all’Università di California,
Santa Barbara fino al 2001 Dal 2001 ha lavorato per la commissione d’inchiesta Onu sui Diritti Umani nei Territori occupati di Palestina Ora fa
parte del UN Human Rights Council. V. art. pubblicato il 29 giugno 2007
nel sito del «Transnational Foundation for Peace e Future Studies».
29. «The Guardian», 13.06.2007
30. Diana Carminati, I diplomatici delle Nazioni Unite e le regole dell’“impero”: le verità scomode di Alvaro de Soto, James D. Wolfensohn, John Dugard,
Richard Falk e Matt Svensson, relazione al seminario «Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina», Torino, 5-6 maggio 2008.
31. Cfr. articolo di M. Allegra Che Stato è Israele, cit.
54
32. Vedi lettera di Bush, 14 aprile 2004, dopo l’annuncio di Sharon del
progetto di ritiro da Gaza, dove Bush dà la sua conferma al permanere degli insediamenti anche dopo negoziati finali (www.mfa.gov.il/MFA/Peace+Process/Reference+Documents/Exchange+of+letters+Sharon+Bus
h-14-Apr-2004.htm).
33. Vedi articoli di Barak Ravid, US turns heat on Israel settlements, in
«Haaretz», 8.3.2009; Editorial, EU report: Israel ‘pursuing illegal annexation’ of East Jerusalem, «Haaretz», 8.3.09; Ynet News, EU says Israel annexing East Jerusalem, «Haaretz», 7.3.09; Palestinian Information Center,
Israel hands out demolition orders for 36 Palestinian more families in Jerusalem, «Haaretz», 7.3.09
34. Vedi tra altri art. di Gilbert Achcar, The Sinking Ship of Usa Imperial Designs, «The Alternative Information Center», 7.08.2006 e di Giorgio S.
Frankel, Il M. O. e la Bomba: duello atomico o equilibrio tra Israele e Iran?,
«Biblioteca della libertà», n. 189, ottobre-dicembre 2007 e Id. Tra una guerra e l’altra, «Biblioteca della libertà», numero dedicato a «Guardando a
Oriente», ottobre-dicembre 2005, n. 181. cfr. Fabrizio Rioli, L’industria israeliana della difesa, «Biblioteca della libertà», ottobre-dicembre 2005, n. 181.
35. Federico Rahola, La forma campo, «Conflitti globali», 2006, n. 4.
36. Luca Guzzetti, Il linguaggio dei campi: lager, gulag, CPT, «Conflitti globali», n. 4, 2006, p. 46.
55
5. L’economia israeliana
Una piccola economia basata sull’innovazione e fortemente dipendente dal commercio con l’estero.
World Trade Organization (wto), 20061.
La pressione internazionale sul Sudafrica, che fu al centro di varie strategie bds, fu facilitata dalla vulnerabilità
del paese in numerose aree economiche. Il paese era
particolarmente dipendente dall’esportazione di pochi
prodotti chiave, dagli investimenti esteri e dall’importazione del petrolio. Negli anni Sessanta il 35% del reddito nazionale derivava dalle esportazioni, rispetto al 4%
degli Usa e al 21% della Gran Bretagna2.
Il movimento bds contro il Sudafrica fu condotto dal
basso e sfidò il sostegno economico internazionale al
regime. Ci vollero diversi decenni, ma gli sforzi lo isolarono sempre di più e aiutarono a minare la sostenibilità
dell’apartheid dalla metà degli anni Ottanta.
Può la stessa pressione essere raggiunta nel caso di
Israele con lo scopo di imporre il rispetto della legge internazionale e dei diritti dei palestinesi?
A prima vista l’economia israeliana è più forte che
mai, avendo superato la crisi subito dopo l’inizio della
56
seconda intifada e continuando a espandersi a un tasso
senza confronti con quello di molti altri paesi. Gli economisti sostengono che il mercato israeliano è una delle economie import/export più forti e più rapidamente
in crescita e l’aumento degli investimenti e il numero di
società che fanno affari in Israele ne è la conferma. La
sua capacità di recupero rispetto alla prima intifada palestinese fu caratterizzata in parte dalla sostituzione del
lavoro palestinese a basso prezzo con nuovi gruppi di
migranti, in particolare dalla ex Unione Sovietica. Questa capacità di resistere a pressioni è confermata dalla
sua difesa per diversi decenni rispetto al boicottaggio
promosso dalla Lega Araba.
Tuttavia, in questa rapida analisi economica che cerca di esplorare la natura dell’economia israeliana, una
serie di caratteristiche e di potenziali vulnerabilità possono essere individuate, ognuna delle quali è di vitale
importanza per quanti si chiedono come il movimento
mondiale bds possa oggi essere efficace.
Sguardo di insieme
Israele ha una economia moderna diversificata con
una forte cultura imprenditoriale che favorisce significativi livelli di investimenti esteri e ha mercati di export
forti specialmente in tecnologia, diamanti, armi e nei
settori di ricerca e sviluppo (r&d). Malgrado le privatizzazioni e le liberalizzazioni, l’economia rimane un processo duale, con molte attività integrate negli obiettivi
di «sicurezza» israeliani, che alimentano un sistema
che perpetua l’apartheid contro i palestinesi. La partecipazione del tutto mistificatoria di Israele a un «processo di pace» ha costituito il catalizzatore per nuove partnership economiche e per ottimi affari, a partire dagli
accordi di Oslo.
L’economia israeliana, dopo la stagnazione durante
57
la prima intifada, ha avuto una nuova espansione attraverso la normalizzazione dei legami con il resto del
mondo e con l’istituzionalizzazione dell’occupazione
dopo gli accordi di Oslo. Questo processo ha stimolato
un flusso senza precedenti di investimenti esteri. Nuovi accordi commerciali e progetti congiunti di r&d sono
decollati; l’economia israeliana ha prosperato e raggiunto nuove vette.
A fianco del ruolo di una economia fortemente exportoriented c’è la dipendenza di Israele dai donatori e dai finanziamenti Usa; il paese ha ricevuto dagli Stati Uniti circa 3 miliardi di dollari in aiuti all’anno dalla metà degli anni Ottanta. Altri benefit includono il coordinamento e la
cooperazione militare con gli Usa e con la Nato.
Una economia in trasformazione
Nel 1949 i succhi di frutta e gli agrumi costituivano
il 67% dell’export3. In sessanta anni l’economia israeliana si è completamente trasformata in una economia diversificata e high-tech.
Durante gli anni Sessanta Israele ha condotto una
«serrata guerra economica», protetta da barriere doganali e sostenuta da forti volumi di assistenza economica
e militare sempre in crescita. In questo contesto, di conflitto regionale da un lato e di sostegno da parte degli
Stati Uniti dall’altro, il capitale dominante israeliano è
stato in grado di godere di due decenni di notevole accumulazione4.
All’inizio degli anni Novanta Israele adottò politiche
di liberalizzazione, organizzando un percorso di privatizzazioni che è continuato sino a oggi. L’attività economica fu incoraggiata dalla presenza di un forte Stato
espansionista, che ha rafforzato relazioni asimmetriche
con la Cisgiordania e la striscia di Gaza e aumentato la
colonizzazione nella Cisgiordania. A livello regionale
58
accordi commerciali con la Giordania e l’Egitto hanno
aperto all’economia israeliana nuovi mercati. Con alcune fabbriche di questi paesi Israele ha firmato contratti
per avere lavoratori a costi minori rispetto ai salari israeliani. C’è stata anche una crescita di integrazione tra gli
investimenti locali e il capitale transnazionale.
Nel 2000 le esportazioni avevano avuto una crescita
del 23,3%, in particolare come risultato del boom dell’high-tech israeliano e dei programmi di r&d. Il mutamento nelle esportazioni israeliane nell’ultimo decennio è avvenuto nelle nuove industrie high-tech specializzate nelle telecomunicazioni e nelle tecnologie web.
Con lo scoppio della seconda intifada gli investitori esteri si ritirarono, le attività economiche andarono in crisi
e le spese dello Stato aumentarono per i forti costi della
repressione contro i palestinesi. «L’ascesa dell’economia high-tech fu però soltanto la prima fase della trasformazione economica di Israele. La seconda arrivò
dopo il crollo dell’economia dot.com nel 2000, quando
le principali aziende israeliane dovettero trovare una
nuova nicchia nel mercato globale» ha scritto Naomi
Klein nel 2007. «Il paese precipitò in caduta libera nel
2001»5e il 2002 fu l’anno peggiore.
Ma in pochi anni la crescita si è ristabilita con l’aumento degli investimenti stranieri sino a 6 miliardi di
dollari nel 2005 e gli investimenti del governo israeliano nella spesa militare, finanziati con tagli nei servizi
sociali e con lo spostamento della produzione delle industrie high-tech dal settore dell’informatica a quello
della «sicurezza e sorveglianza», i cui prodotti esportati
hanno contribuito a un forte aumento del prodotto interno lordo (il 15% proviene da questo settore)6.
Scrive ancora Naomi Klein:
In questo periodo l’esercito israeliano svolse il ruolo di incubato59
re di imprese. I giovani soldati israeliani sperimentarono sistemi
di network e apparecchiature di sorveglianza mentre svolgevano
il servizio militare obbligatorio, per poi utilizzare le esperienze
fatte in piani di business quando tornavano alla vita civile. Furono avviate molte nuove imprese specializzate in molti settori,
dall’estrazione di dati (data mining) alle telecamere di sorveglianza, al profiling (definizione del profilo) dei terroristi.
Dopo l’11 settembre lo Stato israeliano è stato in grado di «rimpiazzare la crisi della bolla del dot.com» con il
boom delle tecnologie della sicurezza interna, che poi
provvedeva a vendere agli altri paesi impegnati nella
«guerra al terrore». Israele divenne, nelle parole della
rivista «Forbes», «il Paese a cui rivolgersi per le tecnologie antiterrorismo»7. «Di conseguenza le esportazioni
di prodotti e servizi antiterrorismo aumentarono del
15% nel 2006 per un totale di 1.2 miliardi di dollari»8.
Ora «il suo settore tecnologico, in gran parte legato alla
sicurezza ammonta al 60% di tutte le esportazioni»9.
Tecnologia e Industria
In un documento del sito del Ministero degli Affari
esteri10 si legge:
Israele investe fortemente nella ricerca e sviluppo (r&d). La percentuale della produzione high-tech è nel complesso del PIL una
delle più alte del mondo. Il 90 % degli investimenti di capitale
estero sono indirizzati alle nuove aziende di questo settore, con il
più alto numero al mondo di «start up» rispetto alla sua popolazione. Queste contribuiscono per circa il 35% alla crescita nel
campo dell’ICT (Information Communication Technology) e del
sofware in Israele. L’investimento di capitale estero, che finanzia
circa il 50% dell’industria high-tech in Israele, è il più alto al
mondo rispetto al PIL. Le condizioni economiche e politiche di
questi ultimi anni hanno costretto molte aziende ad aumentare
60
l’efficienza, riducendo la forza lavoro e diminuendo i salari. Il risultato è stato un aumento della competitività. Il 2004 è stato il
punto di svolta per l’economia israeliana, che ha mostrato di riemergere dalla recessione con un aumento del PIL del 4,2%, dovuto al riassestarsi dei mercati globali, alla realizzazione di importanti nuovi passi nella politica economica e allo stabilizzarsi
della situazione della sicurezza. Le stime degli analisti (Bank of
Israel) mostrano che il PIL è cresciuto nel 2008 di circa il 4,2%,
guidato da un aumento del consumo, da bassi tassi d’interesse,
dalla riduzione della disoccupazione, dall’aumento del turismo e
da un aumento nella domanda di esportazioni di beni e servizi.
Le esportazioni, il più forte generatore di crescita, sono migliorate negli ultimi anni con un incremento del 5,9 % nel 2008.
Israele è uno dei partecipanti al sesto programma
quadro per r&d dell’Unione Europea, l’unico Stato associato non europeo con una piena partecipazione al programma. Il Programma Quadro di Cooperazione di Global Enterprise r&d incoraggia la cooperazione in r&d industriale fra Israele e le aziende multinazionali. Per
qualificarsi per questi programmi, un’azienda deve essere competitiva a livello internazionale. La Legge per appoggiare la r&d industriale sostiene progetti di aziende
israeliane offrendo cospicui finanziamenti. I programmi di tax benefits automatici offrono agli investitori una
completa esenzione dalle tasse qualora investano in aree
con alta priorità per un periodo di dieci anni. Proprio come il Sudafrica dell’apartheid offriva una gamma di incentivi agli investitori, così Israele ha disegnato un mercato molto attraente per il capitale mondiale, uno dei
maggiori motori dell’economia mondiale.
Anche il settore difesa è responsabile di una parte dell’attività di r&d che viene utilizzata per lo sviluppo delle
applicazioni «civili». Un considerevole numero di aziende israeliane, un esempio importante è quello di Check
61
Point, sviluppa servizi (in questo caso software) sulla base di conoscenze e esperienze direttamente acquisite
dalle applicazioni militari. Altri sviluppi scientifici nel
settore medico arrivano direttamente dalle innovazioni
militari, come la capsula in miniatura, prodotta da Given
Imaging che inghiottita trasmette l’immagine dell’intestino del paziente. L’idea è stata di uno scienziato che aveva partecipato al progetto del missile Popeye Turbo, dell’industria Rafael, in grado di centrare un obiettivo all’interno di una finestra sino a 100 km di distanza.
La maggior parte delle aziende israeliane di successo sono direttamente legate al settore militare, come le
più conosciute Tadiran, ECI, Elbit e Elron, e devono il
loro successo iniziale alle forniture per l’idf, mentre
Check Point, Converse, DSPC e Libit furono fondate da
veterani idf della comunicazione, dei servizi e delle
unità informatiche. Israele ha il più alto numero di ingegneri e scienziati rispetto alla sua popolazione, 135
ogni 10.000 abitanti.
La percentuale di esportazioni nei settori informatico, comunicazioni e tecnologia rispetto alle esportazioni di servizi è in Israele molta alta. Nel 1997 era del
20,1% ed era seconda soltanto al Giappone e più alta
della media dei paesi dell’OCDE, che era del 12,5%.
Settore militare
Israele è anche uno dei maggiori esportatori di armamenti nel mondo. Israele ha sostenuto in modo attivo
paesi che violano sistematicamente i diritti umani, fornendo armi a regimi e movimenti in Africa, Asia e America Latina. Ha anche venduto armamenti ai paesi NATO per l’invasione dell’Afganistan e dell’Iraq. Ha tenuto
nel passato, nel periodo delle sanzioni al Sudafrica, relazioni di collaborazione, ricevendo uranio sudafricano
contro assistenza nel settore del nucleare11. Ha aiutato
62
questo paese nella produzione dell’elicottero leggero
Scorpion e nell’aggiornamento dell’aereo da combattimento Cheetah, derivato dal Mirage francese e nella produzione di fucili mitragliatori, vascelli corvetta e missili.
In America Latina i maggiori clienti di armi e/o addestramento militare sono stati l’Argentina, durante gli
anni Settanta-Ottanta il regime di Pinochet in Cile, Bolivia, El Salvador, Haiti, Nicaragua sotto la dittatura Somoza, Panama sotto Noriega, Guatemala, e i clan della
droga in Colombia e Sri Lanka, paesi noti per le violazioni dei diritti umani. Furono forniti anche mezzi di
sostegno al Portogallo durante il periodo coloniale in
Angola, Mozambico e Guinea Bissau.
Israele ha sostenuto molte corse agli armamenti e
molti conflitti nel mondo. Nel 2004, le cifre ufficiali
mostravano vendite di armamenti nei paesi sviluppati
ammontanti a 1.2 miliardi di dollari (soltanto inferiori a
Usa, Russia e Gran Bretagna)12.
Da alcuni anni vi sono numerosi trattati di cooperazione militare anche con la Cina, la Turchia e l’India anche se guardati ora con molta diffidenza e qualche sospetto dagli Stati Uniti. Vi sono più di 200 aziende pubbliche e private nel settore militare, ma la produzione è
dominata da quattro aziende: Israel Aircraft Industries
(pubblica), Israel Military Industries (candidata alla privatizzazione), Rafael (Armaments development Authority, prima privata ma ora posseduta dal governo) e Elbit
System Ltd (privata). Insieme producono il 69% del bilancio annuale del settore militare di Israele (3,6 miliardi di dollari).
Numerosi sono gli accordi di cooperazione militare
con i paesi della nato, con esercitazioni aeree nel Mediterraneo e nel Mar Rosso. Ma anche con molte altre forze aeree, come per esempio con quelle canadesi (esercitazioni Maple Flag)13.
63
Oggi Israele è il quarto paese al mondo per le vendite di armi, con un volume di esportazioni pari a 3,4 miliardi di dollari14.
Settore chimico e biotecnologie
Il mercato chimico di 6,5 miliardi di dollari è stimolato da un forte sviluppo nelle industrie guida del settore, che comprende le industrie chimiche, farmaceutiche, cosmetiche e dell’alimentazione. L’importazione
totale in Israele di prodotti chimici organici e inorganici è cresciuto dal 2003 del 26%, raggiungendo, nel
2005, 1,3 miliardi di dollari. L’Europa è la principale fornitrice delle industrie chimiche israeliane.
Le esportazioni di prodotti chimici specifici, in particolare fertilizzanti, sono forti verso l’India e la Cina dove
la Israel Chemicals Ltd. (icl) è in crescita record. In Europa la icl è una delle fornitrici principali di fertilizzanti, in particolare acido fosforico e fosfati. La produzione è
concentrata soprattutto nella zona del Mar Morto.
Israele mantiene fabbriche chimiche illegali in Cisgiordania dove le aziende possono sottrarsi alle più pesanti leggi israeliane contro l’inquinamento e i rifiuti.
Israele è importante nel settore delle biotecnologie, le
vendite in questo settore sono state nel 2004 pari a 1,82,3 miliardi di dollari15.
Diamanti
Israele detiene uno dei maggiori mercati di diamanti nel mondo, insieme a Usa e Belgio. Il commercio dei
diamanti (la maggior parte dei quali arriva grezzo dal
Sudafrica, dal Botswana e dal Congo) offre un contributo del 28% alle esportazioni israeliane. Questo mercato
ha implicazioni etiche e Israele è stato soggetto a molte
critiche per aver contribuito a perpetuare conflitti locali
tra milizie armate nel continente. Israele non è interve64
nuta per bloccare operazioni di riciclaggio di diamanti
esportati illegalmente o tenuti sotto embargo e senza
certificato d’origine controllata. Un caso tra tutti quello
del traffico di diamanti contro armi del gruppo armato
unita in Angola, gruppo che deteneva negli anni Novanta il 60-70% della produzione. In altri casi Israele è
stata direttamente implicata in accordi con compagnie
come International Diamond Industries (idi), dgi
(Dan Gertler International) e idi -Congo, accordi spesso ufficialmente negati16. O indirettamente, come nel
caso di un programma di acquisto di diamanti in cambio di addestramento militare e armi in Sierra Leone e
in Liberia nel 1999 e in Congo nel 200117, in cui furono
implicati importanti personaggi delle industria diamantifera internazionale come Dan Gertler, nipote del
fondatore della borsa diamanti di Tel Aviv. Oggi in
Israele esiste una rete di compagnie che includono la
Dan Gertler nella Repubblica Democratica del Congo,
Lev Leviev18 in Angola e Shmnel Shnitzer in Sierra Leone. Spesso per il trasporto di diamanti vengono usati aerei dell’areonautica militare israeliana19.
Israele esporta la metà dei diamanti in Usa per un
valore di 4.2 miliardi di dollari e in generale, nel 2005,
l’industria diamantifera israeliana era in crescita in tutti i suoi settori, mantenendo la posizione di maggior
centro mondiale di trasformazione e di commercio per
il diamante grezzo o rifinito. Si stima che ha, a livello
mondiale, 2000 lavoratori ufficialmente impiegati nelle diverse aziende, con bassi livelli di salario. L’India era
nel 2005 il secondo esportatore con 2,2 miliardi di dollari, e il Belgio il terzo con 1,8 miliardi.
Turismo
Il turismo è una fonte importante dell’economia
israeliana. Negli anni della seconda intifada ha avuto un
65
periodo di crisi, ma in questi ultimi anni, e anche dopo
la guerra in Libano, i livelli del turismo sono tornati ad
aumentare. I benefici indiretti per l’economia israeliana si stimano intorno a 4 miliardi di dollari. Questo settore ha anche una forte valenza politica perché permette di dare ai turisti un immagine manipolata dell’occupazione dei territori palestinesi.
Agricoltura
L’apporto dell’agricoltura nell’economia israeliana è
in declino continuo dagli anni Sessanta. Rappresenta
meno del 2% del prodotto interno lordo, appena il 3,5%
delle esportazioni e impiega il 3% della forza lavoro.
Israele è autosufficiente in alcune produzioni agricole e
compete con successo nell’esportazione di prodotti
agricoli come cotone, avocado, pompelmi, pomodori,
mango, datteri, fiori recisi e agrumi. La produzione
agricola è valutata al di sopra dei due miliardi di dollari,
dei quali il 70% è esportato.
Nei documenti del ministero degli Esteri per il 2008
si legge:
In alcune aree come quella di Arava, e nella Valle del Giordano,
costituisce l’unico mezzo di sostentamento della popolazione. I
dati del Ministero degli israeliano, ovviamente, non precisano
che la Valle del Giordano dovrebbe essere considerata territorio
palestinese occupato nel 1967 e di quale popolazione si tratti, se
di coloni ebrei là insediati o di palestinesi o di pastori beduini.
Nel 1996 circa 73.500 persone erano coinvolte nell’agricoltura,
costituendo il 3.0 circa della forza lavoro del paese. In termini
monetari, Israele produce quasi il 70% di tutto il fabbisogno alimentare. Importa grano, olio di semi, carne, pesce e zucchero,
caffé e cacao. Tuttavia queste importazioni sono bilanciate dalle
esportazioni di prodotti agricoli. Oggi, circa un quarto del reddito dei produttori agricoli israeliani deriva dall’esportazioni di pro66
dotti freschi, come fiori, avocado, verdure fuori stagione e alcuni
tipi di frutti esotici, coltivati per l’esportazione20.
L’uso della ricerca in agricoltura e i programmi e le
attività di sviluppo sono al centro della diplomazia
israeliana, attraverso il centro mashav per la cooperazione internazionale. Costituito nel 1958 il Centro è
parte della più vasta missione di Israele per rafforzare i
suoi legami con il mondo in via di sviluppo e oggi ha
progetti in circa 140 paesi Il centro tiene corsi in vari
paesi, come pure seminari di apprendimento a distanza dalle università israeliane. Corsi di formazione su
agricoltura, fattorie per la produzione del latte, ecologia
del deserto, educazione della prima infanzia, medicina
di emergenza e dei disastri, integrazione dei profughi
(una grande contraddizione per un paese che è responsabile della più grande e più lunga tragedia in questo
settore), gestione dell’acqua.
L’ironia di tutto questo è che l’ideologia sionista, mascherata con
parole come «aiuto» e «umanitarismo», sotto slogan come sviluppo sostenibile, capacity building, sostegno alle nazioni emergenti nasconde il tentativo di Israele di mettere distanza fra sé e
le distruzioni e le devastazioni di cui è quotidianamente responsabile nei confronti dei palestinesi21.
mashav afferma infatti che il programma agricolo
«è fondato sulla nostra fiducia che il miracolo agricolo
israeliano può essere replicato in altri paesi che si trovano a fronteggiare oggi le sfide della sicurezza per il cibo». Questo programma include «le soluzioni sperimentate da Israele per problemi come acqua e scarsità
di cibo e di capitali», un programma che «può salvare i
paesi del mondo in via di sviluppo e trasformare la loro
agricoltura da quella tradizionale di sussistenza a una
67
produzione con un sofisticato orientamento al mercato». I critici di questo programma affermano:
Il suo ruolo come istituzione che diffonde miti che riguardano la
crescita e lo sviluppo israeliano è estremamente importante come
esercizio di propaganda per Israele la cui produzione agricola è
stata fondata sull’espulsione del popolo palestinese dai suoi territori22.
68
1. V. World Trade Organization (wto), Trade Policy Review, wto, February
2006, www.wto.org/English/tratop_e/tpr_e/tp258_crc_e.htm, vedi anche Toward a Global Movement, cit.
2. Towards a Global Movement, cit., p. 137.
3. Ivi, p. 138.
4. Ivi, p. 139.
5. Secondo i dati forniti da Naomi Klein, Shock Economy, L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli 2007, p. 497.
6. Toward a Global Movement, cit. p. 139.
7. Naomi Klein, cit., p. 498.
8. Ivi, p. 499.
9. Ibid.
10. http:// www. mfa.gov. il/mfa/ history.
11. Dati più precisi e informazioni dettagliate in Toward a Global Movement, cit., p. 144.
12. Ivi, p. 146.
13. Ivi. p. 147 e cfr. in generale Fabrizio Rioli, L’industria israeliana della difesa, cit., p. 32.
14. Naomi Klein, cit, p. 499.
15. Toward a Global Movement, cit., pp. 148-149; vedi anche Koyame, United
Nation Resolutions and the Struggle to Curb the Illicit Trade in Conflict Diamonds in Sub-Saharian Africa, «African Journal of Legal Studies», n. 2,
2005 e http://spirit.tau.ac.il/government/downloads/IsraelAfrica.pdf, p.
12.
16. J. Hari, How we fuel Africa’s bloodiest war, «The Independent»,
31.10.2008.
17. Lev Leviev è anche proprietario di imprese di costruzione di insediamenti illegali nei Territori palestinesi occupati, come Modi’in Illit, Zufim, Ma’ale Adumim e Har Homa – che sono luoghi cruciali per l’annessione e il controllo delle aree strategiche dei Territori della Cisgiordania.
Requisiscono di fatto l’acqua e le aree agricole più importanti dei palestinesi. Ma’ale Adumim e Har Homa in particolare sono parte degli insediamenti di Gerusalemme che separano Gerusalemme Est, palestinese,
dal resto della Cisgiordania. cfr. Abe Hayeem, Boycott this Israeli settlement builder, «The Guardian», 28.04.2009.
Cfr. http://stopthewall.org/worldwideactivism; sito di Architects and
Planners for Justice in Palestine; e sito dell’organizzazione per i diritti
umani Adalah-NY.
18. Toward a Global Movement, cit., p. 148.
19. Cfr. www.mfa.gov.il/mfa/MFA/Facts+About+Israel/Economy/+Focus+on+Israel+Israel e www.agri.gov.il/-33K.
20. Toward a Global Movement, cit., p. 152.
21. Ibid.
22. Ibid.
69
6. L’appello BDS palestinese
del 9 luglio 2005
Il contesto storico
Negli anni Sessanta si sono sviluppati, in vari paesi
del mondo, legami di solidarietà con la causa palestinese e in particolare con i gruppi dell’organizzazione per
la liberazione della Palestina (olp), che si era andata costituendo tra i profughi palestinesi. Il sostegno ai palestinesi fu anche favorito dal movimento di decolonizzazione e dalla accresciuta consapevolezza nella società
occidentale per i problemi del «terzo mondo» e per la
necessità di un lotta rivoluzionaria anti-coloniale. Nel
1966 nella Conferenza di Solidarietà Tricontinentale a
Cuba fu approvata una risoluzione che denunciava
Israele e le sue «modalità» imperialiste.
Dopo l’occupazione del 1967 dei Territori palestinesi
della Cisgiordania e della Striscia di Gaza il governo
israeliano negli anni Settanta-Ottanta consolidò le politiche degli insediamenti che andarono aumentando in
modo preoccupante e contribuirono al formarsi di comitati popolari palestinesi di resistenza e, alla fine del 1987,
all’inizio della prima intifada. Mentre in occidente si rafforzarono gli sforzi dei movimenti di solidarietà, a metà
degli anni Novanta, dopo gli accordi di Oslo tra Israele e
l’olp, la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese
70
(anp), ma anche dopo lo svanire delle speranze per un
dialogo autentico e per la realizzazione di una vera autonomia palestinese, andò sempre più imponendosi una
situazione di «normalizzazione e istituzionalizzazione»
dell’occupazione e di subordinazione dell’anp alle «regole» dei governi israeliani, degli Stati Uniti e dell’Europa.
Nel 2000 scoppiava la seconda intifada, organizzata
dalle forze palestinesi che avevano rifiutato la «normalizzazione» imposta dagli accordi di Oslo e il progetto di
un Stato palestinese formato da pochi bantustan.
Nella stessa fase si andavano formando nel mondo,
con la lotta antiglobalizzazione del movimento zapatista
in Chiapas, la lotta dei lavoratori brasiliani Sem Terra, i
gruppi anti-privatizzazione in Sudafrica, molte reti di attivisti che rifiutavano l’economia neoliberista. Discussioni e confronti nei vari Forum sociali mondiali e nella rete
delle Ong che parteciparono a Durban in Sudafrica, nell’agosto-settembre 2001, alla Conferenza Mondiale delle
Nazioni Unite contro il Razzismo e la Discriminazione
Razziale (Durban I), affrontarono i problemi relativi alla
situazione palestinese. La Conferenza di Durban approvò una risoluzione che denunciava le politiche razziste di
Israele nei confronti del popolo palestinese.
Nel 2003 il movimento antiguerra mondiale contro
l’aggressione americana ed europea all’Iraq denunciò i
legami di quella guerra con l’aggressione israeliana in
Cisgiordania della primavera 2002, l’operazione «Defensive Shield» contro Jenin, Nablus e Ramallah e l’assedio e la distruzione della Muqata, sede dell’Autorità
nazionale palestinese. Nell’analisi di attivisti occidentali e di intellettuali ebrei dissidenti si confermò la convinzione che non vi sarebbe stata pace in Medio Oriente
senza una soluzione «giusta» in Palestina con il riconoscimento di tutti i diritti del popolo palestinese.
Il 9 luglio 2004 la Corte Internazionale di Giustizia
71
dell’Onu approvava un parere consultivo sulla illegalità
della costruzione del Muro, già iniziata da circa due anni, che separa Israele dalla Cisgiordania adducendo
motivi di difesa dagli attacchi dei gruppi armati. Si costituiva il gruppo di lavoro palestinese Stop-the-Wall
per organizzare l’informazione e la solidarietà internazionale contro il «muro dell’apartheid».
Nel settembre 2004 a Beirut nella Conferenza dei
movimenti anti-guerra e antiglobalizzazione i partecipanti fecero un appello per la messa in discussione e la
denuncia della politica dello Stato d’Israele. Veniva decisa anche una campagna bds e la costituzione di un
gruppo di lavoro per sviluppare un movimento antiapartheid contro Israele.
Nel 2004 l’associazione pacbi (The Palestinian
Campaign for the Academic and Cultural Boycott of
Israel) lavorava congiuntamente con il bricup (British
Committee for Universities of Palestine) e con aut (Association of University Teachers), per lanciare il boicottaggio accademico di alcune università israeliane
(www.pacbi.org).
Nel gennaio 2005, al V Forum Sociale di Porto Alegre, una Ong palestinese «Occupied Palestine and
Syrian Golan Heights Advocacy Initiative» (OPGAI)
presentava un appello per il boicottaggio di Israele.
Anche lo storico israeliano Ilan Pappé sosterrà, il 4
giugno 2005, la necessità di una forte campagna bds
nel suo intervento al Forum Sociale a Friburgo, «Non
esiste un movimento per la pace in Israele»1.
Sono 250.000 i palestinesi direttamente minacciati di pulizia etnica dalla prossima tappa di costruzione del Muro, nel quadro
della prossima fase di annessione della Cisgiordania a Israele. Se
il progetto di pace continua a essere sostenuto dagli europei, dagli americani, dai russi e dall’Onu, vorrà dire che Israele avrà il
72
via libera per proseguire la sua politica di pulizia etnica. Inoltre,
in questo momento non stiamo parlando semplicemente di pulizia etnica, bensì del reale pericolo di una politica di genocidio. …
Penso che noi tutti, i militanti dentro e fuori Israele, dovremmo
comprendere che esiste un grave pericolo, urgente, quello di una
pulizia etnica dei palestinesi e che esiste un solo modo per fermare Israele. E che questo non può essere né il dialogo né i negoziati diplomatici, con i quali stiamo provando da trentasette anni.
…Un movimento contro l’occupazione all’interno di Israele, non
ha alcuna possibilità di successo. Nessuna.
Esiste un solo modo di bloccare lo scenario che vi ho appena descritto: tramite le pressioni, le sanzioni, l’embargo, equiparando
lo Stato di Israele al Sudafrica durante il regime di apartheid….
Non esiste altro mezzo. …Ma il conflitto tra Israele e Palestina
non è un conflitto dovuto all’occupazione; si tratta della pulizia
etnica perpetrata da Israele nel 1948 e che non si è mai arrestata
un solo giorno da allora.
Così le strategie di pace non sono strategie che mirano alla fine
dell’occupazione. Ecco come ci hanno riempito lo spirito di chimere, dal 1967. Quello che ha detto il movimento «Peace, Now! »
è quello che hanno detto gli Americani, è ciò che sta dicendo il governo svizzero: l’importante è che gli Israeliani si ritirino dalla
Cisgiordania e dalla striscia di Gaza. Ebbene no! Questo, non è la
pace: un ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania costituisce semplicemente la fine dei crimini d’Israele contro
l’umanità. Questo non ha nulla a che fare con una vera pace.
L’appello bds del 9 luglio 2005
Il 9 luglio 2005, a un anno dal parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sul Muro, i rappresentanti di 172 organizzazioni della società civile palestinese, a nome delle tre parti del popolo di Palestina: i
profughi palestinesi in altri paesi, i palestinesi sotto occupazione e i palestinesi cittadini di Israele, lanciavano
il seguente appello:
73
Noi, rappresentanti della società civile palestinese, chiediamo alle organizzazioni internazionali della società civile e agli uomini
di buona volontà di tutto il mondo di imporre ampi boicottaggi e
realizzare iniziative di disinvestimento contro Israele simili a
quelle applicate al Sudafrica nel periodo dell’apartheid.
Noi facciamo appello a voi perchè facciate pressione sui vostri rispettivi stati per imporre embargo e sanzioni contro Israele.
Noi invitiamo anche gli israeliani di buona volontà a sostenere questa richiesta, nell’interesse della giustizia e di una pace effettiva.
Queste misure punitive non-violente dovrebbero essere mantenute fino al momento in cui Israele fa fronte ai suoi obblighi di riconoscere il diritto inalienabile del popolo Palestinese all’autodeterminazione e di rispettare completamente le indicazioni del diritto internazionale:
ponendo termine alla occupazione e alla colonizzazione di tutte
le terre arabe e smantellando il Muro
riconoscendo i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza
rispettando, proteggendo e promuovendo i diritti dei profughi
palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro proprietà come
stabilito nella risoluzione 194 dell’Onu.
Il significato politico dell’appello sta nel fatto che esso non si limita a chiedere la fine dell’occupazione, ma,
nei punti 2 e 3, «sfida» l’ideologia sionista dello Stato
israeliano come Stato ebraico.
L’appello adotta, inoltre, un approccio basato sui diritti e non sulle «soluzioni», uno Stato o due Stati.
La campagna per il boicottaggio economico ha alcuni obiettivi precisi:
far crescere la consapevolezza dei consumatori sul
significato dell’acquisto dei prodotti israeliani;
far crescere la consapevolezza nei produttori israeliani delle conseguenze delle politiche dei governi
israeliani;
74
fare pressione sulle aziende occidentali che usano
tecnologia e componenti israeliani per trovare alternative e unirsi al boicottaggio;
creare e promuovere in generale alternative di acquisto per un consumo consapevole.
Era molto importante far conoscere ai consumatori
che alcuni prodotti dell’agro-alimentare, specie fra
quelli più noti in Europa, fossero e siano coltivati da
aziende agricole israeliane negli insediamenti sempre
più numerosi della Cisgiordania e nella terra confiscata
della valle del Giordano2.
Le prime iniziative
All’Appello aderirono, negli anni successivi, alcune
organizzazioni in particolare in Gran Bretagna, Canada
e Belgio, associazioni americane di studenti universitari, alcune municipalità in Norvegia, il Partito socialista
norvegese, il Partito di centro norvegese, il Partito dei
Verdi in Usa, il movimento cattolico Pax Christi, la Ireland-Palestine Solidarity Campaign (per il boicottaggio
internazionale dei diamanti della compagnia israeliana
Leviev), ism-France, Forum Palestina (Italia), ism-Italia,
Veterans for Peace (vedi anche www.badil.org).
Venne iniziato in particolare il boicottaggio contro la
Caterpillar, i cui bulldozer sono usati per la demolizione
delle case, in particolare sul tracciato del Muro e sul
«confine» di Rafah con l’Egitto, dove fu uccisa, schiacciata da un bulldozer nel marzo 2003, la giovane attivista
americana Rachel Corrie che partecipava alla campagna
contro le demolizione delle case dell’Ism, e contro Intel.
All’appello risposero associazioni israeliane come
AIC (Alternative Information Center), come ICADH
(The Israeli Committee Against House Demolitions)
che proposero un boicottaggio selettivo (contro i prodotti delle colonie), il disinvestimento e le sanzioni. Al75
tre campagne per il boicottaggio dei prodotti israeliani
delle colonie, per sanzioni e per disinvestimenti selettivi furono proposti da Gush Shalom e New Profile.
Il Consiglio mondiale delle Chiese incoraggiò l’uso di
pressioni economiche per una soluzione della questione
israelo-palestinese; molte chiese protestanti inglesi, canadesi e nordamericane decisero di operare disinvestimenti nei confronti di imprese israeliane per fare pressioni contro l’occupazione dei Territori palestinesi (vedi
anche www.badil.org).
Aderirono anche diversi gruppi ebraici nel mondo come Not in my name, Jewish Voice for Peace, Jewish Alliance
against Occupation, European Jews for a Just Peace e Jewish
against Occupation di New York, che decisero di partecipare al bds anche se in modo selettivo. Anche la Rete Internazionale Ebraica Antisionista, IJAN (www.ijsn.net), di
recente costituzione (2008) ha aderito al bds.
Le adesioni al bds nel mondo
Segue un elenco delle adesioni al bds fra le più significative a partire dal 2007, l’elenco completo all’indirizzo www.bdsmovement.net:
• 21.04.2007. Appello di 130 medici inglesi contro
l’Associazione Medici israeliani (ima).
• 28.08.2007. Documento del Labour for Palestine
(Canada) di critica al gruppo di vertice dei sindacati Usa
che si oppongono al bds.
• 15.02.2008. lsesu- London School of Economics
Students Union.
• 07.03.2008. cosatu (Congress of South African
Trade Union)
• 22.06.2008. Conferenza nazionale unison (Sindacato del servizio pubblico nel Regno Unito, il secondo sindacato in Gran Bretagna)
76
• 23.11.2008. Sindacato Catalano dei lavoratori (Intersindacal Alternativa de Catalunya (IAC)
• 02.11.2008. Comune di Bilbao contro Veolia
Transport e Veolia Environment
• 22.01.2009. Campagna Usa per il bds
• 24.01.2009. Montreal, Insegnanti e impiegati dei
Colleges del Quebec
• 11.02.2009. University of Manchester Student
Union, il più grande sindacato studenti in Europa
• 11.02.2009. Hampshire College, il primo college
Usa a disinvestire da sei aziende israeliane.
Argomenti e controargomenti
secondo Omar Barghouti3
Alcuni “insigni” sostenitori della causa palestinese
hanno criticato l’appello bds palestinese.
Primo insieme di argomenti contro il bds
Israele è un paese essenzialmente democratico con
una vivace società civile, quindi lo si può convincere a
porre termine alla oppressione senza sanzioni.
A differenza del Sudafrica sotto l’apartheid, la maggioranza in Israele si oppone alle sanzioni.
Le organizzazioni della società civile israeliana sono
in gran parte progressiste e all’avanguardia del movimento per la pace e perciò dobbiamo sostenerle e non
boicottarle.
Primo insieme di controargomenti
Come può uno Stato che sostiene la supremazia etnico-religiosa e che è anche una potenza coloniale venir
qualificato come democrazia? Tony Judt, professore a
New York, chiama Israele un «anacronismo disfunzionale» e lo pone nella categoria degli «Stati etnici, bellicosi, intolleranti e guidati dalla fede».
77
Fra tutti gli argomenti contro il boicottaggio, questo
riflette o una sorprendente ingenuità o una deliberata
disonestà intellettuale. Dobbiamo giudicare se applicare le sanzioni a una potenza coloniale basandosi sull’opinione della maggioranza della comunità degli oppressori? La comunità degli oppressi non conta nulla?
Questo è semplicemente un mito sostenuto da alcuni accademici e intellettuali israeliani che si considerano di «sinistra». La grande maggioranza degli israeliani
presta servizio militare nelle forze di riserva, è perciò a
conoscenza diretta dei crimini quotidiani dell’occupazione e della colonizzazione, oppure vi partecipa attivamente. Inoltre, con l’eccezione di una piccola, seppur
importante, minoranza, la società israeliana in larga
misura si oppone alla piena uguaglianza dei palestinesi, sostiene l’oppressione dello Stato o vi acconsente con
il silenzio.
Secondo insieme di argomenti contro il bds
Altri osservatori hanno obbiettato che boicottare
Israele sia controproducente e possa portare a:
• perdere la capacità di influenzare il possibile cammino di Israele verso la pace;
• radicalizzare la destra israeliana e indebolire la sinistra;
• accrescere indirettamente le sofferenze dei palestinesi, che si troverebbero in condizioni perfino peggiori
di oppressione da parte di un Israele più scatenato e più
isolato.
Secondo insieme di controargomenti
Di quale influenza si parla? L’Europa ne ha ben poca. Perfino negli Usa l’israelizzazione della politica estera, particolarmente verso il Medio Oriente, ha raggiunto nuove profondità paralizzando qualsiasi possibilità
78
di pressione americana volta a limitare, non diciamo a
cambiare, le politiche oppressive di Israele.
Quale sinistra? In confronto alla sinistra sionista di
Israele, i partiti di estrema destra europei sembrano degli angioletti. D’altra parte la sinistra non sionista, moralmente coerente, è un gruppo minuscolo i cui aderenti come risultato del boicottaggio, possono finire col
perdere benefici, privilegi e finanziamenti. Per diminuire la possibilità che ciò avvenga dovremmo sfumare
le nostre tattiche di boicottaggio? Dobbiamo invece dare rilievo all’impatto positivo che il boicottaggio può
avere, anche in Israele, sulla lotta complessiva per i diritti umani, l’eguaglianza e la vera democrazia.
Più sofferenze ancora? Dopo il Muro, le centinaia di
blocchi stradali, gli assassini di routine, la demolizione
delle case, l’abbattimento di migliaia di ulivi e il rifiuto
dei diritti fondamentali, che cosa può fare di più Israele
e non esserne penalizzata?
L’Argomento dell’Olocausto e dell’Antisemitismo
Come dice il filosofo francese Etienne Balibar: «Non
si dovrebbe permettere a Israele di strumentalizzare il
genocidio degli ebrei europei per porsi al di sopra delle
leggi delle nazioni». Inoltre, fingendo di non vedere l’oppressione israeliana, come spesso fanno gli Usa e l’Europa, l’Occidente ha perpetuato la miseria, la sofferenza
umana e l’ingiustizia che sono seguite all’Olocausto.
In quanto all’accusa di antisemitismo è palesemente
fuori luogo ed è chiaro che viene usata come strumento
di intimidazione intellettuale. È importante ripetere
che l’appellio bds palestinese non prende di mira gli
israeliani in quanto ebrei. È rigorosamente diretto contro Israele come potenza coloniale che viola i diritti dei
palestinesi e il diritto internazionale. Il crescente sostegno tra gli ebrei americani ed europei per un’efficace
79
pressione su Israele è un controargomento che non viene reso noto abbastanza.
Il bds non preclude la cooperazione israelo-palestinese, ammesso che si riconosca la realtà dell’oppressione, si accetti la necessità fondamentale dell’uguaglianza
e sia diretta contro l’ingiustizia. L’appello non fa che stabilire dei criteri accurati per rendere tale cooperazione
moralmente integra e politicamente efficace. Non basta
fare appelli per la pace, perché questa parola è diventata
la più oltraggiata del dizionario, in particolare quando
due riconosciuti criminali di guerra, Bush e Sharon, sono stati considerati «uomini di pace». Pace senza giustizia equivale a istituzionalizzare l’ingiustizia.
I progetti di pace che omettono deliberatamente
qualsiasi riferimento all’oppressione che Israele esercita sui palestinesi non sono altro che iniziative dannose
e corrotte. Coloro che immaginano di poter spazzare
via il conflitto come per magia, suggerendo qualche forum per il riavvicinamento, la distensione o «il dialogo»
– che sperano possa condurre ad autentici processi di riconciliazione e, alla fine, alla pace – sono degli illusi patologici o pericolosi bugiardi. Cercare di cambiare le
percezioni degli oppressi, invece che aiutare a porre fine all’oppressione stessa, è indice di cecità morale e di
miopia politica. Prolungare l’oppressione non è soltanto immorale è anche controproducente dal punto di vista pratico, in quanto perpetua il conflitto.
Argomenti e controargomenti secondo Naomi Klein
In un articolo apparso su «The Guardian», il 10 gennaio 2009, Naomi Klein ha scritto:
Sono in molti a essere tuttora contrari. Le ragioni sono molteplici, emotive e comprensibili. E non sono abbastanza valide. Le
sanzioni economiche sono lo strumento più efficace dell’arsena80
le non violento. Rinunciarvi equivale a farsi complici attivi. Qui
sotto si riportano le tre obiezioni principali mosse alla strategia
bds, seguite ciascuna dalle argomentazioni contrarie.
1. Misure punitive renderebbero gli israeliani più ostili anziché
persuaderli. Il mondo ha provato con quello che si chiamava
«impegno costruttivo». Ha completamente fallito. Dal 2006
Israele non ha fatto che moltiplicare le sue azioni criminali:
espandere gli insediamenti, lanciare una scandalosa guerra contro il Libano e imporre la punizione collettiva a Gaza con un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto
affrontare misure punitive, al contrario.
È in questo contesto che i leader israeliani hanno dato inizio all’ultima guerra d’aggressione, confidando di non dover affrontare grossi costi. Vale la pena notare che, durante la guerra, su sette
giorni di transazioni, il principale indice della Borsa di Tel Aviv è
salito di fatto del 10,7 per cento.
2. Israele non è il Sudafrica. Naturalmente. Il modello sudafricano è importante perché dimostra che le tattiche bds possono essere efficaci dove misure più lievi (proteste, petizioni, lobbismo
dietro le quinte) hanno fallito…. Ronnie Kasrils, importante uomo politico sudafricano, ha detto che l’architettura della segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza nel 2007 «è infinitamente peggiore dell’apartheid».
3. Perché Israele, quando gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri
paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e in Afghanistan? Il
boicottaggio non è un dogma, è una tattica. Il motivo per cui la
strategia bds debba essere applicata a Israele è semplice: in un
paese così piccolo e così dipendente dagli scambi commerciali,
potrebbe veramente riuscire.
1. Ilan Pappé, conferenza al FS di Friburgo, 4 giugno 2005, Non esiste un
movimento per la pace in Israele.
2. Naomi Klein, Shock Economy, Rizzoli, Milano 2007.
3. Omar Barghouti, Civil resistance, Israeli Apartheid: Time for the South
African Treatment, relazione presentata in incontri in Italia nei mesi di
marzo e ottobre 2007.
81
7. Il boicottaggio
accademico e culturale
I promotori del boicottaggio accademico nel 2002
Il 6 aprile 2002, pochi giorni dopo la distruzione del
campo profughi di Jenin in Cisgiordania a opera dell’esercito israeliano durante l’operazione Defensive
Shield, sul giornale inglese The Guardian apparve una
lettera firmata da 123 accademici che chiedevano una sospensione della collaborazione europea nella ricerca
universitaria con le istituzioni israeliane finché Israele
non avesse mutato la sua politica di occupazione dei territori palestinesi e il sistema di apartheid all’interno dello Stato e non aprisse finalmente seri negoziati di pace.
Una lettera simile fu pubblicata in Francia. Un appello
uscì in Italia, un altro in Australia. In Inghilterra l’Associazione degli insegnanti universitari (aut) aderì all’appello, come pure il sindacato natfhe (National Teachers
Federation of High Education). Fra i maggiori promotori e firmatari, che si ispiravano allo storico boicottaggio
del Sudafrica, i professori Hilary Rose, sociologa presso
l’Università di Bradford e Steven Rose, neurobiologo,
docente presso la Open University, che avevano passato
mesi come visiting professors nell’Università di Birzeit
(Ramallah) e avevano fatto esperienza delle restrizioni ai
movimenti, delle intimidazioni e delle prevaricazioni
82
quotidiane dell’esercito israeliano contro gli studenti e
gli insegnanti palestinesi. In un intervento del 2004 alla
Conferenza Internazionale per la Palestina a Londra,
Hilary Rose affermava:
Le università palestinesi operano in condizioni inaccettabili.
Nell’università di Al Quds, a Gerusalemme, si è proposto di far
passare una parte del Muro proprio sul terreno di un campo da
gioco. A intervalli irregolari l’esercito interviene per bloccare l’insegnamento, entra ed esce dai campus, minaccia e arresta gli studenti e lo staff. Studiare o insegnare nelle università (in Cisgiordania e Gaza) significa attraversare check-points senza nessuna
certezza di raggiungere la propria classe…. E mentre l’esercito si
comporta in questo modo, le istituzioni accademiche e di ricerca
israeliane sono attivamente o passivamente complici di questo
sistema. Pochi universitari israeliani per ora hanno protestato.
La maggioranza di essi beneficia dei frutti di questa repressione1.
Inoltre, proseguiva, mentre gli accademici occidentali considerano i colleghi israeliani parte dell’Europa e
dell’area di ricerca dell’Unione europea e continuano a
parlare dell’importanza della libertà accademica, è molto
difficile riuscire a collaborare in ricerche con colleghi palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, se a questi colleghi
si impedisce di venire in Europa per confrontarsi su ricerche comuni o per riuscire a ottenere fondi. Molte voci
si levarono dopo questa lettera per protestare contro il
boicottaggio accademico considerato un attacco, grave e
pericoloso, alla libertà accademica. Nei mesi seguenti la
lettera fu firmata da 270 accademici europei, inclusi 10
israeliani, e questo fatto suscitò una vivace e rabbiosa
reazione nella comunità scientifica israeliana, come
venne riportato anche sul giornale «Haaretz»2.
Una risposta molto ferma alle critiche fu scritta nel
maggio 2002 da Tanya Reinhart3, docente di Linguisti83
ca dell’Università di Tel Aviv, risposta indirizzata al collega prof. Baruch Kimmerling, che benché contrario al
boicottaggio in nome del principio della libertà accademica, era stato fortemente impressionato dalla violenza
delle critiche.
Dopo aver indicato le tre forme possibili di boicottaggio, il rifiuto di inviti in Israele e di collaborazione
con le istituzioni israeliane, il boicottaggio e il taglio dei
fondi di ricerca europei per le università israeliane e l’isolamento completo degli studiosi israeliani, quest’ultima giudicata in modo negativo, Reinhart si chiede perché molti accademici, anche israeliani, che avevano sostenuto il boicottaggio sudafricano come mezzo di
pressione contro un governo che praticava l’apartheid,
lo contrastano ora perché è contro lo Stato d’Israele, il
cui modello di apartheid è molto simile, se non addirittura peggiore di quello sudafricano.
Ciò che Israele sta compiendo eccede i crimini del regime bianco
del Sudafrica. Ha iniziato ad assumere le caratteristiche di pulizia etnica, che il Sudafrica non ha mai cercato di fare. Dopo 35 anni di occupazione, è assolutamente chiaro che il sistema politico
israeliano ha prodotto per i palestinesi soltanto due scelte: apartheid o pulizia etnica (transfer).
Perciò sostiene Reinhart:
l’unico mezzo di pressione per fermare Israele è una protesta sul
piano mondiale, anche ricorrendo a mezzi spiacevoli come il boicottaggio. E credo, come israeliana, che questo mezzo esterno di
pressione non salvi solo i palestinesi ma anche la società israeliana.
Per quanto riguarda poi il principio di libertà accademica, che in pochi giorni un gran numero di accademici si era precipitato a invocare come diritto inaliena84
bile, organizzando in pochi giorni una contropetizione,
questo principio, afferma Reinhart, è strettamente correlato con la salvaguardia dei principi morali. La comunità accademica israeliana non ha mai alzato una voce
di protesta contro le frequenti e immotivate chiusure
delle università palestinesi, contro la violazione dei diritti umani, contro il sistema di oppressione della popolazione palestinese. E questo significa collaborare con il
sistema di oppressione.
Reinhart conclude la sua lettera affermando che bisogna ascoltare gli accademici palestinesi: «Ciò che io
ascolto dai miei colleghi palestinesi è soltanto un pieno
e inequivocabile sostegno al boicottaggio».
L’appello palestinese al boicottaggio
accademico e culturale del 2004
L’appello al boicottaggio accademico e culturale delle istituzioni israeliane fu lanciato a Ramallah nell’aprile del 2004 da più di 50 organizzazioni della società civile palestinese riunite nella Palestinian Campaign for
the Academic and Cultural Boycott of Israel (pacbi).
L’appello faceva seguito alla campagna per il boicottaggio culturale e accademico di Israele lanciata nell’agosto 2002 da Hilary e Steven Rose.
L’appello chiedeva il boicottaggio delle istituzioni accademiche e culturali israeliane finché Israele non si
fosse ritirato da tutte le terre occupate nel 1967, compresa Gerusalemme Est, con la rimozione degli insediamenti, non avesse accettato le risoluzioni Onu dal
1948, sempre violate, soprattutto quelle riguardanti il
diritto al ritorno dei profughi e non avesse posto fine al
sistema di apartheid nei confronti dei cittadini arabi-palestinesi all’interno di Israele.
Gli obiettivi del boicottaggio accademico e culturale
sono:
85
• creare consapevolezza del ruolo del settore educativo israeliano nel produrre ricerca, argomenti e nuovi
intellettuali per la continuazione dell’occupazione dei
territori palestinesi, e, all’interno di Israele, nella distruzione della cultura palestinese e nella discriminazione
nei confronti degli studenti arabo-palestinesi, considerati cittadini di serie B;
• creare consapevolezza del contributo delle università alle ricerche del settore militare e di alta tecnologia
per produrre armi e dispositivi da usare e sperimentare
contro il popolo palestinese;
• porre termine ai programmi congiunti tra università israeliane e università estere su lavori scientifici;
• porre termine a scambi, partecipazioni a conferenze, programmi e attività da e verso istituzioni accademiche israeliane.
Negli anni successivi l’appello del pacbi è stato sostenuto da gruppi in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia. Prima fra tutti l’associazione degli insegnanti universitari inglesi (aut) che nell’aprile 2005 ha approvato una
mozione di sostegno al boicottaggio accademico. In questi documenti venivano denunciate le attività di alcune
università costruite nei Territori occupati di Cisgiordania come quella di Bar Ilan; si riconosceva la complicità,
la responsabilità e il contributo delle istituzioni accademiche e culturali israeliane nell’occupazione dei territori palestinesi e in generale il silenzio della comunità internazionale sulla violazione dei diritti umani e civili nei
confronti della popolazione palestinese e in particolare
le enormi difficoltà d’accesso alle scuole e alle università
per gli studenti e gli insegnanti dei Territori occupati di
Cisgiordania a causa dei check-point e del Muro che
spesso tagliano fuori completamente da questi luoghi
molti palestinesi e le intimidazioni che arrivano sino ad
arresti arbitrari.
86
Nel maggio 2006 una mozione di sostegno al boicottaggio fu diffusa dal natfhe che rappresentava gli
accademici e le istituzioni inglesi non presenti nell’aut.
Poco dopo NAFTHE e aut si fusero in ucu (University
and College Union) e il documento sul boicottaggio fu
ridiscusso per alcune opposizioni interne e le forti critiche di un gruppo antiboicottaggio.
Gli equivoci della «libertà accademica»
Contro il boicottaggio culturale delle università
israeliane e delle iniziative culturali che coinvolgono
Israele, promosso dai sindacati del pubblico impiego e
del settore educativo inglesi (ucu, University College
Union e bricup, British Committee for Universities of
Palestine) e canadesi (cupe, Canadian Union for Public
Employee), per le violazioni di Israele dei diritti umani,
del diritto internazionale, per il Muro, vi furono durissime critiche, minacce e contestazioni, che proseguono,
in alcuni paesi europei. Critiche e contestazioni che
hanno parlato di attacco alla libertà accademica e alla libera circolazione delle idee. Contestazioni che sono state denunciate da alcuni docenti inglesi, come il prof.
Haim Bresheeth, presente al seminario di Madrid del
luglio 2007 e poi nella conferenza di Londra del novembre 2007 sul tema «One Democratic State» e bds4,
che ha parlato di censure, minacce e richieste di dimissioni, spesso messe in atto molto efficacemente, da parte di personaggi influenti legati alle comunità ebraiche
anglosassoni nei riguardi di docenti inglesi che avevano
sottoscritto il bds.
In risposta alle critiche del mondo accademico, una
delle analisi più lucide, dopo quella di Tanya Reinhart, è
quella di Judith Butler5, filosofa americana. Butler si
chiede:
87
se la libertà accademica e la circolazione della cultura stiano al di
sopra, come valore assoluto, dei diritti umani e di tutte le libertà
umane fondamentali, che si tratti della libertà da un governo coloniale, della libertà di spostarsi, di studiare, di perfezionare un
ciclo di studi o di lavorare nelle università senza continui blocchi
o perdita di semestri o anni, come avviene attualmente nei territori occupati di Palestina. Territori ridotti sempre più a poche enclaves, con minime libertà di spostamento per la popolazione,
soggetta a quotidiane incursioni, rastrellamenti, uccisioni, ferimenti e arresti da parte dell’esercito israeliano d’occupazione.
Di che tipo di libertà accademica e di libertà della
cultura parlano i critici? Scrive Butler:
Come può funzionare (il concetto) di libertà accademica nei casi
dove un colonialismo d’insediamenti pervade le istituzioni e l’apparato legale che governano un confine in movimento?
Se la libertà accademica rimane liberale in modo restrittivo, non
sarà in grado di vedere che al soggetto che voglia esercitare il diritto di tale libertà deve essere dato innanzitutto il diritto di viaggiare, di essere in grado di passare i confini senza blocchi o molestie. Questo significa che per esercitare tale diritto, noi dobbiamo presupporre un’opposizione al Muro, alle accresciute
molestie dei militari ai confini, all’occupazione stessa.
Il 12 luglio 2006, a seguito degli eventi nella Striscia, l’ Associazione degli Insegnanti delle Università di
Gaza ha diffuso un documento per un maggiore sostegno del boicottaggio accademico e culturale delle istituzioni culturali israeliane. A Gaza dove maggiore era stata la vittoria del partito di Hamas nelle elezioni politiche
di gennaio, a giugno vi erano state incursioni, bombardamenti, uso di «bombe assordanti» e uccisione di decine di civili, oltre al blocco degli stipendi di tutto il personale dell’amministrazione dipendente dall’anp, com88
presi i dipendenti del settore educativo. In risposta, il 25
giugno i gruppi armati palestinesi avevano organizzato
la cattura di un soldato israeliano. Il 12 luglio nel corso
dell’attacco israeliano nel sud del Libano, l’idf operava
una ritorsione nella Striscia con l’uccisione di numerose persone e l’uso di nuove armi come le bombe DIME
(Dense Inert Metal Explosives)6 che hanno sui corpi
delle persone colpite effetti devastanti.
1. H. Rose, Resisting Israeli Apartheid: Strategies and principles, Paper from
the Conference held at SOAS, 5.12.2004.
2. The Intifada reaches the Ivory Tower, «Haaretz», 25.04.2002.
3. T. Reinhart, Why Academic Boycott, a reply to an Israeli comrade, Tel Aviv,
«Indymedia Israel», www.indymedia.org.il, 17.05.2002.
4. Per altre informazioni www.onestategroup.net.
5. J. Butler, Israel/Palestine and the Paradoxes of Academic Freedom, «Radical Philosophy», January-February 2006.
6. M. Zucchetti, DIME, quelle armi illegali che devastano il corpo, «Il Manifesto», 16.01.2009 e www.peacelink.it.
89
8. Verso un movimento globale
Le campagne bds e l’economia israeliana
L’economia israeliana è fortemente integrata nei
mercati mondiali ed è in crescita nei mercati regionali;
ha una diversificazione nel capitale investito e un forte
settore privato. Tutto questo la fa apparire un economia
molto più stabile di quella del Sudafrica degli anni Settanta-Ottanta. Sembrerebbe quindi molto difficile organizzare campagne di boicottaggio anche perché la natura dei mercati odierni rende più difficile rintracciare l’origine dei prodotti. Molte delle esportazioni israeliane,
nella forma di servizi, componenti, armi e tutta la produzione nel settore tecnologico, sono inserite in prodotti e
beni difficilmente identificabili dai consumatori e perciò poco suscettibili di boicottaggio. Alcuni analisti hanno affermato che nell’era della globalizzazione è molto
difficile, se non impossibile, l’applicazione di un boicottaggio economico. Ma nella fase attuale, con la crisi profonda dell’ economia nei paesi occidentali, forse è più rischioso fondarsi su analisi «tradizionali». Bisogna organizzare delle forti campagne per convincere le imprese a
rendere meglio identificabili i prodotti tecnologici e per
mettere in discussione e denunciare la partecipazione
internazionale ai progetti di r&d con Israele.
90
Per le stesse ragioni è difficile anche la campagna per
i disinvestimenti, ma molte chiese e Ong hanno iniziato
a disinvestire, focalizzando le loro iniziative sulle aziende che hanno legami con imprese che sfruttano direttamente i terreni palestinesi confiscati in Cisgiordania, come ad esempio l’azienda alimentare Agrexco (produzione di frutta e agrumi) che opera nella valle del Giordano
e spedisce i prodotti freschi direttamente in Europa.
Israele dipende molto dall’esportazione, ma nello
stesso tempo dipende anche dall’importazione di materie prime, di risorse energetiche e di diamanti non tagliati. Le importazioni di materie prime sono negli ultimi anni in crescita e nel 2005 ammontavano al 74% del
totale delle importazioni. Rallentare il flusso di queste
importazioni potrebbe produrre effetti in alcuni dei settori industriali israeliani più forti. Inoltre oggi Israele
ha rapporti economici e dipende da importazioni con
un gruppo di paesi più numeroso, rispetto al Sudafrica,
e quindi potrebbe essere soggetto a sanzioni da paesi di
varie parti del mondo che non condividono la politica
israeliana. Si veda l’esempio di un’impresa high-tech
belga specializzata in consulenze per lo sviluppo, che
ha rifiutato nel settembre 2006, dopo la guerra in Libano, di esportare tecnologia israeliana «perché appartenente a un paese che compie crimini di guerra e apartheid»1 o alcune iniziative più recenti, dopo l’aggressione israeliana a Gaza del gennaio 2009, di alcuni paesi
latino americani, come il Venezuela e la Bolivia.
Come decostruire il discorso pubblico
Le campagne bds possono essere rafforzate anche
da campagne simboliche di boicottaggio del discorso
pubblico filosionista diffuso dai media e dalle istituzioni occidentali, campagne che diano un contributo alla
crescita dell’informazione sulla reale situazione nei ter91
ritori occupati palestinesi e della consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale sulla lotta dei palestinesi.
Si possono creare molte sinergie fra iniziative diverse nel mondo, che tengano però conto di un discorso comune all’interno del contesto bds.
La sinergia costruita in un movimento di solidarietà globale può
portare benefici tangibili; occorre condividere le idee, le risorse e
la proiezione di un immagine di movimento internazionale piuttosto che quello di un’iniziativa locale, diversificata. È quindi importante usare acronimi come Global Palestine Solidarity (GPS)
o movimento per il bds.
È importante capovolgere il discorso, smontare i discorsi dei media odierni, gli slogan infiniti che dominano i titoli di testa di giornali, tv, e radio su «conflitto», «processo di pace», «soluzione due popoli due stati» ecc. Occorre anche boicottare, in questo caso
contestare, i rappresentanti israeliani che arrivano in
Europa, «propagandisti» di uno Stato che occupa illegalmente da almeno 41 anni un altro territorio ed è responsabile di crimini di guerra. Enormi progressi sono stati fatti per contrastare il discorso sionista in questi ultimi anni in alcuni partiti ambientalisti
americani, tra gli studenti universitari inglesi e americani, nelle chiese e in comunità locali, come quella di
Somerville (Usa), nell’attivismo di base contro le lobbies ebraico-americane come l’aipac (American Israel
Public Affair Committee). Cruciali sono stati negli ultimi anni i discorsi di ebrei dissidenti anti-sionisti, lo
storico Ilan Pappé, gli esponenti del gruppo «per uno
Stato unico, laico e democratico nella Palestina storica»2, il gruppo International Jewish Anti-Zionist Network, che hanno aderito alla campagna bds.
È importante anche ricostruire i legami con gli atti92
visti che avevano fatto parte della precedente campagna
contro l’apartheid in Sudafrica, o con gli artisti che avevano partecipato a iniziative per informare l’opinione
pubblica sul problema dell’apartheid. Ad esempio il
pacbi o la Coalition against Israeli Apartheid (Canada)
sono continuamente impegnati a costruire lobby con
gruppi di artisti nel mondo. Si può estendere il discorso
dal diritto internazionale alle precedenti leggi sul disinvestimento promosse dalle Nazioni Unite contro l’apartheid e la discriminazione in Sudafrica. È quindi necessario considerare le iniziative bds non solo come contrasto economico delle politiche del governo israeliano,
ma anche come mezzo efficace per costruire una nuova
consapevolezza dei collegamenti tra lo sfruttamento,
l’oppressione e la violazione dei diritti in Europa e in altri paesi nel mondo e il sistema di apartheid, occupazione e violazione dei diritti in Palestina.
Per la costruzione di un movimento dal basso
È fondamentale costruire un forte movimento dal
basso. Nel movimento contro l’apartheid in Sudafrica
municipi e vari enti locali nel mondo anglosassone furono molto efficaci sia nel dichiararsi zone «libere dall’apartheid» sia nel promuovere disinvestimenti da imprese collegate con il regime. Nello stesso tempo un lavoro di costruzione di reti solidali fu sostenuto da
strutture di coordinamento da parte delle Nazioni Unite, come lo Special Committee against Apartheid e il
Centre against Apartheid.
Oggi esiste fra le organizzazione Onu il Committee on the Exercise of the Inalienable Rights of the Palestinian People, che ha bisogno di essere sostenuto con iniziative di solidarietà che esercitino una pressione reale per imporre a Israele il rispetto della legge internazionale.
93
Un movimento dal basso di forze progressiste può
fare pressione sull’Assemblea Generale dell‘Onu per
porre fine ad anni di complicità e inazione rispetto ai diritti dei palestinesi.
Siamo appena agli inizi di questa campagna globale
bds e negli anni prossimi ci sarà bisogno di sostegno e
protezione sia dagli attacchi del discorso sionista sia per
conquistare alla causa palestinese persone che si sentono ancora troppo deboli per sostenere pienamente la
campagna bds.
Il tema della Palestina non può essere immediatamente collegato con altre rivoluzioni o con altri movimenti di riforma e sfidare le dinamiche dell’attuale egemonia degli Stati Uniti e dei suoi alleati. I movimenti
stanno rafforzandosi in America Latina e già ridisegnano alternative in Bolivia, Venezuela, Ecuador e la lotta
ininterrotta in Palestina può essere di sostegno reciproco nei prossimi anni. La lotta palestinese può essere collegata nel lungo periodo in un discorso regionale di liberazione delle masse oppresse, come molte prospettive lasciano intravedere, ma è improbabile che gli
obiettivi del movimento di liberazione palestinese, in
sostanza una lotta nazionale per l’identità e l’eguaglianza, possano essere realizzati in un futuro vicino. L’appello bds individua i punti cruciali e gli obiettivi per costruire unità fra gruppi socialmente e politicamente diversi. Le organizzazioni che non possono presentare
ora una piattaforma forte, possono, nella interazione
con i movimenti di solidarietà, comprendere meglio gli
argomenti e le ragioni per rendere le campagne bds
centrali in qualsiasi lavoro sulla Palestina. Un’altra implicazione politica importante del movimento bds è che
esso può offrire le condizioni necessarie affinché un
movimento anti-sionista possa radicarsi anche all’interno della società israeliana. Molti critici anti-boicottag94
gio dicono che isolare Israele può avere effetti catastrofici per gli attivisti all’interno della società israeliana,
ma l’esempio del Sudafrica ha smentito queste affermazioni. Quando l’apartheid non «pagherà» più, il suo sostegno ideologico inizierà a mostrare segni di sgretolamento.
È necessario quindi che si organizzi un movimento il
più possibile allargato di gruppi e individui che abbiano
una comprensione condivisa della lotta anti-coloniale dei palestinesi e la capacità di ricreare il senso di unità che ha dato forma alla lotta anti-apartheid degli anni Ottanta. Una lotta a livello mondiale anti-coloniale e anti-razzista, per sostenere la popolazione
mantenuta, più a lungo di ogni altra, in condizione di profughi,
ha bisogno di un movimento di solidarietà dinamico, capace di
esercitare a livello locale, nazionale e internazionale una pressione continua e di offrire un sostegno concreto ai palestinesi che
lottano per la libertà.
1. E. Kenan, Firm boycotts Israel over “war crimes”, «Ynetnews», September
27, 2006.
2. V. i seminari e convegni su questo tema a Madrid, 2-6 luglio 2007, Londra, 17-18 novembre, nel sito «One democratic State», www.odsg.org.
95
9. La situazione in Italia e in Europa
Contestare i complici
La campagna bds non può limitarsi a iniziative contro Israele, ma deve anche contestare i complici dei crimini israeliani, sia nel mondo occidentale che nel mondo arabo.
In Italia a livello governativo, a livello degli enti locali, a livello accademico e culturale, a livello economico, c’è un fiorire di iniziative a sostegno dello Stato di
Israele delle quali è difficile dare un elenco esaustivo.
Gli accordi di cooperazione di ogni tipo non si contano,
mentre la propaganda israeliana, che ha raggiunto livelli di efficacia senza precedenti, trova un immediato
e acritico riscontro nei media italiani. L’onnipresente
«trio letterario», Oz, Grossman e Yehoshua, ne è la clamorosa conferma. La Divisione per gli affari culturali e
scientifici (DCSA) del Ministero degli Esteri israeliano
lavora a pieno ritmo, in particolare dopo che l’esercito
israeliano si è prodotto in qualcuna delle sue operazioni di «autodifesa» contro la popolazione civile palestinese, perché «la cultura è uno strumento magnifico
per aiutare la carretta a correre liscio»1. Non è un caso
che dopo l’attacco contro Gaza si sia rivisto in giro in
Italia il «trio letterario».
96
Baruch Kimmerling ha parlato di un complesso culturale-militare-industriale israeliano2.
L’impatto della guerra e del protratto conflitto politico-militare
sugli israeliani è centrale per l’autoriflessione della società e la
formazione delle sue dottrine politiche, sociali, militari, per la
politica estera e quella interna. Istituzioni non specificamente disegnate per gestire guerra e conflitti hanno avuto un ruolo cruciale nella formazione della cultura militarista israeliana e, nello
stesso tempo, sono state profondamente influenzate da essa. Il
sistema scolastico è stata mobilitato fin dall’inizio per gli scopi
del nation building. Le scuole cercavano di creare il «nuovo
ebreo», un produttivo pioniere che avrebbe «conquistato il lavoro» (sottraendolo agli arabi), colonizzato la terra (strappata agli
arabi) e difeso la comunità (contro gli arabi). Anche quando questi scopi furono superati dagli avvenimenti, il sistema scolastico
continuò a essere uno dei maggiori agenti per la socializzazione
della visione militarista e del senso di perenne minaccia che domina la società ebraica in generale e, in modo ancora più marcato, alcuni gruppi sociali specifici. La maggior parte degli accademici e dei centri di ricerca che si occupano della sicurezza nazionale appartengono al complesso culturale-militare e, in generale,
si pongono al servizio dei suoi scopi in modo prono e acritico.
Il quadro politico italiano è desolante e riproduce a
livello più grossolano quello europeo. Dal Presidente
della Repubblica, che si è sbizzarrito nel 2008 nel tentare di dimostrare che antisionismo e antisemitismo si
equivalgono e che ha ricevuto visitando Israele nel novembre 2008 una laurea honoris causa che si è ben
guardato dal rimandare al mittente dopo il successivo
attacco israeliano contro la striscia di Gaza, all’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, passando per
Magdi Allam e Khaled Fouad Allam, Pierluigi Battista,
Gianni Riotta, Piero Ostellino, Ernesto Galli della Log97
gia et similia, alla «sinistra per Israele» dei Fassino-Colombo-Caldarola, ai numerosissimi chierici (opinionisti o intellettuali) versati per loro natura a ogni tradimento, c’è una gara costante e sistematica ad andare al
di là delle stesse veline del governo israeliano. L’Italia è
anche il paese dove una colona di Gilo3 ha potuto ottenere uno scranno nella camera dei deputati.
Gli esempi non si contano, a partire dagli accordi di
molte regioni italiane con il Centro Peres per la Pace al
quale vengono assicurati milioni di euro per il progetto
«Saving Children» che si preoccupa di curare bambini
palestinesi malati o feriti. È noto il contributo sistemico
del premio Nobel per la pace, Shimon Peres, nel predisporre i sistemi d’arma israeliani e nel testarli sui palestinesi, in modo da attirare l’attenzione dei mercanti di
morte di tutto il mondo. Ora è particolarmente impegnato a promuovere lo sviluppo di armi basate sulle nanotecnologie4. Un accordo in tal senso con un organismo israeliano è stato promosso nel 2006 anche dal
presidente della provincia di Milano Filippo Penati, allora democratico di sinistra doc.
La verità, come accade spesso, la si può trovare in un
articolo apparso su Haaretz. Meron Benvenisti scrive5:
Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è alcuno sforzo evidente che tenda a un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico dei Territori occupati; accade l’opposto: si tenta di
educare la popolazione palestinese ad accettare la propria inferiorità e la si prepara a sopravvivere con le costrizioni imposte da
Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei.
Ci limitiamo a ricordare a solo titolo di esemplificazione alcuni «eventi» o «case-studies»:
• la mostra «Israele. Arte e vita 1906 – 2006» organizzata a Milano dall’ottobre 2006 al gennaio 2007 do98
ve si poteva ammirare una rivisitazione dell’ultima cena
di Leonardo con gli apostoli sostituiti da soldati israeliani (non è forse l’esercito israeliano il più morale del
mondo?6). Il già ricordato Filippo Penati aveva dato il
suo contributo finanziando la pubblicazione per le
scuole della Provincia di Milano di due pamphlet Israele Palestina. La lunga via per la pace e Democrazia e diritti
umani in Israele – un modello per un mondo che cambia,
due condensati esemplari dei falsi e delle menzogne
israeliane più trite e più ossessivamente ripetute;
• l’invito dello Stato di Israele come ospite d’onore
della edizione 2008 della Fiera del Libro di Torino, in
occasione del ’60 della costituzione dello Stato di Israele, dimentichi, ovviamente, gli organizzatori della pulizia etnica della Palestina che ha preceduto, accompagnato e seguito quell’evento. Naturalmente per la prima
volta un Presidente della Repubblica si è scomodato per
inaugurare la fiera;
• la «sparizione» di parte delle copie del sussidio informativo per le scuole superiori Israele/Palestina-Palestina/Israele, una pubblicazione curata da Cicsene - Settore Pianeta Possibile su incarico della Città di Torino Settore Cooperazione internazionale e Pace nel quadro
delle attività del «Tavolo Gaza-Haifa» in collaborazione
con un gruppo di associazioni torinesi7, dopo le contestazioni della comunità ebraica di Torino. La pubblicazione conteneva una presentazione di Michele Dell’Utri, Assessore alle Politiche giovanili con delega a Relazioni e Cooperazione internazionale.
Sempre rimanendo a Torino La Stampa ha pubblicato nel gennaio 2009, mentre a Gaza si stava compiendo
un altro passo del genocidio di quella popolazione, una
lettera di Abraham Yehoshua8, che si considera «profeta
del muro dell’apartheid», a Gideon Levy, giornalista che
sul quotidiano israeliano Haaretz aveva condannato du99
ramente l’attacco, ma ha evitato con cura di pubblicare la
risposta9 di Gideon Levy all’assillato e assillante scrittore.
Uno dei compiti della campagna bds in Italia è il
monitoraggio sistematico di ogni iniziativa di questo tipo accompagnato da una dura contestazione dei responsabili italiani.
Il movimento di solidarietà con la Palestina in Italia
In Italia esiste una galassia di associazioni e organizzazioni di solidarietà con la Palestina, di ogni dimensione, alcune delle quali si dedicano solo al problema Palestina, mentre altre hanno un orizzonte di interessi più
ampio. Esistono anche, numerosissime, le Ong, di destra, di centro e di sinistra. Su queste bisognerebbe aprire
un capitolo a parte perché, salvo rare eccezioni, sono gli
attori dell’aspetto «umanitario» dell’industria del processo di pace, l’altra faccia della medaglia colonialista10. In
Italia i due coordinamenti nazionali principali sono Action for Peace (www.actionforpeace.org) e Forumpalestina (www.forumpalestina.org).
Per comprendere le differenze tra i due raggruppamenti è ancora una volta utile una parte dell’intervento,
purtroppo profetico, a Friburgo nel 2005 di Ilan Pappé:
Viviamo in tempi difficili per i vari movimenti di solidarietà. Se
guardate alla storia dei movimenti di solidarietà con la Palestina
dopo trentasette anni, potrete constatare che, poiché pensavano
che ci fossero due parti, poiché pensavano che esistesse una possibilità che il dialogo mettesse fine all’occupazione, questi movimenti – che non biasimo affatto, anche io ne ho fatto parte – si sono sforzati di promuovere le trattative, la coesistenza, la comprensione reciproca. Nel futuro avremo forse bisogno di questo
genere di energia e di sostegno, da parte del movimento di solidarietà. Tutti lo sanno: che voi parliate con i Palestinesi o con gli
Israeliani, tutti sanno che stiamo precipitando verso lo scontro di
100
una guerra spaventosa e nessuno ne vuole parlare. Ciò significa
che l’energia, sul campo, per fermare la portata dell’occupazione
è inesistente. C’è un bisogno urgente di strategie che corrispondano meglio alla realtà, che permettano di fare ciò che, sia i movimenti pacifisti in Israele, sia i movimenti palestinesi di resistenza nei territori occupati, non sono evidentemente riusciti a
fare. Fino a oggi, sfortunatamente, il processo di pace ha messo il
segno «uguale» fra la fine dell’occupazione e la fine del conflitto.
Non si potrà mettere fine al conflitto tra israeliani e palestinesi
senza porre un termine all’occupazione. Ma le strategie di pace,
comprese quelle del movimento di solidarietà europeo, dovrebbero porre il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi al centro
dell’agenda di pace. E non la fine dell’occupazione.
Action for Peace
Action for Peace, che riunisce Cgil, Fiom-Cgil,
Donne in Nero, Arci, Assopace, Pax Christi e altre organizzazioni minori, ha come riferimento europeo
l’eccp, una volta «Comitato di coordinamento europeo
delle Ong sulla questione della Palestina», ora «European Coordination of Committees and Associations
for Palestine». L’eccp è presieduta dall’ex senatore belga Pierre Galand.
Action for Peace è condizionata dai partiti politici ai
quali le organizzazioni aderenti più significative fanno
diretto o indiretto riferimento (pd e prc in primis), partiti che si caratterizzano per posizioni filoisraeliane. Ha
quindi una forte propensione alla «equidistanza» o alla
sua versione umanitaria «l’equivicinanza». Ha legami
diretti con il Tavolo della Pace e con il Coordinamento
Nazionale Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani. Il Tavolo della Pace, molto sensibile verso i governi amici, si
è specializzato nella organizzazione di manifestazioni
in contrapposizione a quelle organizzate da Forumpalestina, naturalmente nello stesso giorno. Rimarranno
101
indimenticabili sia quella del 18 novembre 2006 a Milano sia quella del 17 febbraio 2009 ad Assisi11.
Ci sono anche organizzazioni, ad esempio attac,
che quando ci sono due manifestazioni, con piattaforme ovviamente distanti, aderiscono a tutte e due. Se le
interrogate a proposito vi rispondono che sentono il dovere di gettare ponti. Sono tutte conseguenze della
equidistanza equivicina!
Per comprendere meglio le posizioni di Action for
Peace e dell’eccp è significativa la sintesi che segue dello scambio di email, nel 2006, tra tra Tobias Schnebli
del cup-Geneva (eccp) e Jamal Jumà, coordinatore di
Stop the Wall, scambio che costituisce anche una esemplificazione dei problemi descritti nel capitolo 2:
Da: Tobias A: Jamal Jumaa Sent: Monday, May 15, 2006 2:56 PM
Oggetto: Informazione distorta sulla Conferenza di Ginevra sul
website di stopthewall
Caro Jamal Jumaa,
Ti scrivo nella tua qualità di coordinatore della campagna Stopthewall. Sono lieto di vedere che il sito web stopthewall.org informa sulla conferenza di Ginevra.
Ma debbo anche informarti che ho un problema sul modo in cui
la conferenza è presentata:
La Conferenza Europea di Ginevra metterà a fuoco il boicottaggio
della apartheid israeliana.
Il comitato svizzero «Collectifs Urgence Palestine» e il Coordinamento Europeo per la Palestina (ECCP) terranno una conferenza internazionale a Ginevra, nei giorni 26-28 di maggio. Con le presentazioni e i workshops previsti sul boicottaggio, e una ampia partecipazione
di relatori e di attivisti, la conferenza ha la possibilità di iniettare nuovo vigore nelle varie iniziative di boicottaggio della apartheid israeliana (...) (http://stopthewall.org/worldwideactivism/1153.shtml).
Nel caso di Israele, «boycott» è una espressione problematica se
102
non è riferita a un target preciso e se la campagna di boicottaggio
non è condivisa da una ampia coalizione di forze sociali. Questo
è ancora di più il caso delle espressioni «boycott Israel» o «boycott Apartheid Israel».
I movimenti di solidarietà in Europa hanno avuto da anni esperienze di divisioni profonde su questo argomento.
Caratterizzare la Conferenza di Ginevra con l’espressione «Boycotts of Apartheid Israel» rende un cattivo servizio sia a noi organizzatori sia alle persone che avrebbero la falsa aspettativa che la
conferenza sarà sulle iniziative di «boycott Israel».
Tobias Schnebli CUP-Geneva
La risposta di Jamal Jumà
Cari Amici,
Dopo tre anni di lavoro con gruppi di solidarietà e movimenti
sociali europei, vorremmo richiamare la vostra attenzione su alcuni punti che hanno più volte impedito al movimento per il
bds (Boicottaggio, Disivestimenti, Sanzioni) in Europa di andare avanti. Ci sono state molte discussioni interne sul carattere di
«apartheid» nel caso di Israele e sull’ammissibilità di tutte e tre
le forme per isolare quel governo, boicottaggio, disinvestimenti
e sanzioni. Queste discussioni hanno distolto le energie degli
attivisti dal vero scopo: fare pressione in modo concreto ed efficace su Israele al fine di ottenere la liberazione della Palestina.
Abbiamo fatto l’esperienza di quello che chiamerei una «crisi di
comprensione» tra le varie parti della solidarietà europea, non
solo ma soprattutto nel caso della Palestina. Tale crisi si è acuita
a partire dalla decisione della Corte Internazionale di Giustizia
(sentenza contro il muro) del 2004 e il connesso appello per una
campagna di bds da parte palestinese, appello lanciato inizialmente dalla Campagna contro il Muro e in seguito ripreso in
modo unitario dalle organizzazioni palestinesi a un anno dalla
sentenza della Corte Internazionale.
L’unica relazione che esiste tra la causa palestinese e l’Europa si
103
fonda sul ruolo che l’Europa ha avuto nella creazione della nostra
oppressione.
Evitare di rispondere con chiarezza alle questioni spinose non
aiuta. Piuttosto serve a coprire le radici della nostra oppressione.
Il nostro popolo è fatto di 6 milioni di rifugiati dispersi in tutto il
mondo.
Tutto questo non vi ricorda ciò che succedeva in SudAfrica?
Non si tratta di razzismo, discriminazione e apartheid?
Non merita di essere boicottato e isolato?
Di fronte a quello che ci troviamo ad affrontare e che osserviano
nella pratica quotidiana, non possiamo capire come alcuni possano ancora parlare di portare «la giustizia in Israele e in Palestina».
Che oppressione o ingiustizia sta subendo Israele? Come si può
mettere sullo stesso piano la vittima e il carnefice?
I palestinesi hanno bisogno di giustizia e Israele ha bisogno di riconoscere la necessità di giustizia. Noi stiamo vivendo l’Occupazione e ne portiamo le cicatrici sulla pelle.
È per questo che siamo noi palestinesi i soli che devono discutere
e decidere come presentare noi stessi e i nostri diritti e la nostra
oppressione e come parlarne e quali argomentazioni usare.
Ancora una volta il problema non risiede tanto in noi palestinesi
- in come ci presentiamo e rappresentiamo - quanto nel mondo e
in come il mondo ci vuole vedere e trattare.
Noi siamo le vittime degli errori altrui.
Ci fa piacere lavorare con chiunque sia interessato. Ma non è
l’Europa che ci deve dire che termini usare e che appelli fare. In
effetti, il doppio standard dei governi si riflette, purtroppo, anche
nella posizione di alcuni movimenti sociali.
Mentre il diritto dei palestinesi di dire la verità è sotto attacco, dopo tre anni di lavoro intenso e a tutto campo con i movimenti globali abbiamo imparato che è considerato un tabù accusare le organizzazioni che rifiutano di dire la verità e difendono il razzismo che risiede nel «carattere ebraico» di Israele e nel sionismo.
La diplomazia è necessaria ma non può essere scambiata con la
verità.
104
Diplomazia e rispetto sono necessarie anche per le persone che
voi state sostenendo.
Un saluto
Jamal Jumà
(cordinatore della Campagna dei movimenti di base palestinesi
contro il muro dell’apartheid).
Action for Peace il 30 marzo 2009, in occasione della Giornata Globale di Azione indetta dal FSM, ha lanciato una campagna per l’invio di cartoline al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché si prodighi per la sospensione dell’accordo di cooperazione
militare Italia-Israele (operativo dal 2005) che lede l’articolo 11 della Costituzione italiana che ripudia la guerra, finchè Israele non rispetterà il diritto internazionale
e i diritti umani. Sospendere ma non abrogare! Che farà
il Presidente della Repubblica?
Forum Palestina
Il Forum Palestina nasce nell’ottobre del 2001 a seguito della decisione di un gruppo di giornalisti indipendenti e mediattivisti di aprire una discussione pubblica a partire dalla consapevolezza che le autorità israeliane avrebbero approfittato ampiamente degli attentati
dell’11 settembre per liquidare definitivamente la «questione palestinese». Scrive Sergio Cararo:
I fatti, purtroppo, si sono incaricati di dare ragione a coloro che
qualcuno definì «cinque matti» (tra i quali lo scomparso Stefano
Chiarini) e non fece mancare ostacoli sul percorso di una delle
esperienze più riuscite di iniziativa a rete e di mediattivismo in
Italia. Il primo test dell’efficacia di un’idea come quella del «Forum Palestina», fu la riuscita della grande manifestazione nazionale del 9 marzo 2002, alla quale parteciparono decine di migliaia di persone completamente autoorganizzate e autoconvoca105
te su una piattaforma che declinava in pochi slogan le principali
risoluzioni dell’Onu sulla Palestina: ritiro delle truppe e delle colonie israeliane dai Territori Palestinesi; uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale; il diritto al ritorno dei
profughi palestinesi. Una piattaforma di buonsenso e adeguata
alla posta in gioco aperta dalla seconda intifada, ma giudicata
«estremista» da gran parte della sinistra italiana e ripetutamente
osteggiata negli anni, senza però ottenere l’effetto di rallentare la
tabella di marcia del Forum Palestina fino alla straordinaria manifestazione del 17 gennaio 2009.
In questi anni il Forum Palestina si è impegnato nel cercare di
promuovere anche nel nostro paese – come sta avvenendo in altri
paesi europei – una efficace campagna di boicottaggio dell’economia di guerra israeliana intesa come forma di sostegno internazionale al diritto all’esistenza e alla resistenza del popolo palestinese contro il colonialismo israeliano. Questa campagna ha avuto
alcuni successi (nel 2002 con iniziative su Auchan in varie città e
sull’Hazera Genetics in Sicilia, l’anno successivo facendo saltare
l’accordo fra l’azienda municipalizzata romana per l’elettricità e
l’acqua, ACEA, e Israele per il furto dell’acqua palestinese e poi nel
2008 con il boicottaggio della Fiera del Libro di Torino), ma ha anche incontrato alcune difficoltà sul piano politico, culturale e organizzativo. Quando nel 2005 il pacbi e la società civile palestinese hanno rilanciato a livello internazionale il boicottaggio come
strumento di lotta contro il colonialismo sionista, la proposta ha
trovato grande attenzione nel Forum Palestina.
I partiti politici italiani e la questione palestinese
Sui partiti politici c’è poco o troppo da dire. Salvo
qualche eccezione sono tutti affettuosamente schierati
con Peres, Olmert, Netanyahu e Barak (mancherà loro,
malgrado il suo fascino sottile12, la Tzipi Livni) e con i loro generali. «Saremo leali con Bush» (Piero Fassino).
«L’unico elemento positivo della politica di Berlusconi è
stato il sostegno a Israele» (Francesco Rutelli). Nelle
106
elezioni dell’aprile 2008 la sinistra «arcobaleno» ha duramente e meritatamente pagato ambiguità di ogni tipo, in particolare in politica estera. Non c’è molto da attendersi dai partiti politici italiani a sostegno della campagna di boicottaggio.
L’attivista-tipo
Non sempre i viaggi di solidarietà aiutano la maturazione politica dei partecipanti. L’attivista-tipo arriva in
Palestina armato fino ai denti di cellulari, notebook, videocamere, macchine fotografiche et similia. Dotato di
buona volontà e di spirito umanitario in eccesso, manca
troppo spesso degli strumenti necessari alla comprensione politica dei fatti. Si tiene accuratamente alla larga
da parole come imperialismo, sionismo, etc. Ha letto
poco, anzi pochissimo, non sa molto della storia della
Palestina, nessuno si è preoccupato di spiegargli i nodi
cruciali del problema. Al primo apparire di un tank
israeliano o all’arrivo dei primi gas lacrimogeni, si considera già un eroe. Viene accolto con la nota generosità
dai palestinesi che gli manifestano tutta la loro gioia di
averlo tra i piedi e lo investono del compito di informare di quel che ha visto il mondo occidentale, una volta
tornato in patria. Torna e, ignaro di ogni precedente,
inonda di testimonianze accompagnate da foto e video
(siamo o non siamo una società dell’immagine?) i soliti
noti che si sottopongono volentieri alla ennesima ripetizione di fatti a loro notissimi. Un rito utilissimo per evitare di affrontare il problema, sempre imbarazzante,
del che fare. Nessuno si domanda come mai, malgrado
lo zelo e l’impegno dei numerosissimi attivisti-tipo, per
non parlare dei guru-attivisti di ambo i sessi, malgrado i
miliardi di fotografie, di video (modestissimi e ripetitivi, quando non finiscono nel tentare di estetizzare la
tragedia palestinese per renderla comprensibile a
107
quanti la ignorano, compiendo un atto di inconsapevole colonialismo), di testimonianze scritte o orali, di assemblee, di aperitivi o di cene palestinesi, tutto rimane
come prima e l’Europa, come il resto del mondo, continua a permettere a Israele di fare quello che ha fatto nel
passato, che continua a fare nel presente e che continuerà a fare in futuro, la pulizia etnica della Palestina.
L’unica speranza è che la fine dell’impero americano, preceduta da una efficace campagna bds, possa
cambiare gli attuali equilibri con la conseguenza dell’isolamento di Israele e della fine del sionismo, come
qualche sintomo lascia già intravedere.
Sanzionare o boicottare? Questo è il problema
Il 9 luglio 2005 l’eccp promuoveva, lo stesso giorno
dell’appello palestinese per il bds, una «tempestiva» petizione appellandosi ai governi europei:
Campagna europea per le sanzioni contro l’occupazione israeliana. Come cittadini di uno Stato della Unione Europea, preghiamo immediatamente il nostro Ministro degli affari Esteri, il Consiglio della Unione Europea e le Nazioni Unite di assumere tutte
le misure politiche ed economiche, ivi comprese quelle delle sanzioni, per impedire a Israele di continuare la costruzione del Muro e per costringerla a rispettare il parere della Corte Internazionale di Giustizia.
Fare pressione su Israele è più tassativo che mai se vogliamo arrivare a una pace basata sul Diritto Internazionale. Per questo chiediamo:
che l’accordo di associazione Unione europea-Israele venga sospeso;
che gli Accordi e gli scambi di materiali militari e di armi con
Israele siano totalmente congelati;
che nessun finanziamento, sostegno alla ricerca o sforzo di coordinamento siano destinati alla costruzione di tunnels e porte 108
che contribuirebbero al mantenimento della situazione creata
dalla costruzione del Muro – né dalla Banca Mondiale né da alcuno Stato membro della unione Europea.
Esigiamo, tanto da Israele che dal nostro Governo, che rispettino
i loro obblighi come stabiliti dal Parere della Corte Internazionale di Giustizia, ivi compresi gli obblighi derivanti dalla quarta
Convenzione Internazionale di Ginevra e tutte le Risoluzioni
delle Nazioni Unite sulla questione.
Petizione lanciata dal Comitato Europeo di Coordinamento delle
Ong sulla questione della Palestina.
La petizione aveva raccolto a fine 2005, a livello europeo, 710 firme (104 in Italia) e a fine aprile 2006 968
firme (123 in Italia), malgrado qualcuna delle 23 organizzazioni aderenti all’eccp vantasse nelle riunioni di
avere milioni di iscritti.
A partire da questo documento i vari incontri che si
susseguono nel 2006-2007 dell’eccp e di altri gruppi pacifisti al Forum Sociale Europeo e nella Conferenza internazionale di Ginevra «Per una pace giusta in Palestina e
Israele» portano al lancio di varie campagne di solidarietà, alla richiesta di sanzioni, ma non all’adesione al bds.
In generale, dall’analisi di numerosi documenti
emerge l’impressione che le molte «campagne» sovrapposte finiscono per rendere nulle le possibilità anche di
un risultato minimo, come è confermato dalle vicende
di inizio 2009, mentre hanno contribuito ad accantonare l’appello palestinese per il bds.
Alla fine del 2005 i coordinatori di Action for Peace
compivano un’analisi13 della «dimensione generale della questione palestinese» come «parte integrante della
guerra globale permanente nel progetto Usa di ricolonizzazione del Medio Oriente». Ponevano sullo stesso
piano, senza alcun approfondimento critico e senza le
necessarie distinzioni, alcuni dei leader di questo «pro109
getto» coloniale contro cui lottare, Bush e Sharon, con
Hamas e consideravano in questo contesto ormai impossibile la costituzione di uno Stato palestinese «omogeneo e indipendente»:
La dimensione generale della questione palestinese è parte integrante della guerra globale permanente e non secondaria nel progetto Usa di ricolonizzazione del Medio Oriente di cui ha assunto
tutte le caratteristiche peculiari assommandole a quelle originarie: violazione del diritto e dei diritti, uso strumentale ed effettivo
del terrorismo e del fondamentalismo ideologico/religioso
(Bush/Sharon/Hamas), negazione della politica per la guerra,
unilateralismo contro il negoziato, divergenza di posizioni con
l’Europa. … In Palestina le forze fondamentaliste «aderiscono oggettivamente» alla prospettiva dello Stato unico e agiscono di conseguenza sia sul terreno politico che su quello sociale/religioso, e
in qualche modo prendono parte alla guerra globale.
Nonostante l’analisi presente nella prima parte del
documento, si poneva come prioritario l’obiettivo della
nascita di «uno Stato palestinese all’interno del quale
possa crescere la democrazia e la partecipazione». E
perché la democrazia si sviluppi «dobbiamo sostenere
il processo elettorale e il rafforzamento delle organizzazioni della società civile». Il mese seguente, il 26 gennaio 2006, si sarebbero svolte, nei Territori palestinesi
occupati e nella striscia di Gaza, le elezioni politiche.
Infine, si dichiarava il rifiuto del boicottaggio, e si
proponeva uno sforzo per «inventare» forme di partecipazione dal basso e di impegno anche individuale «che
non si faccia intrappolare da un improbabile boicottaggio, che (al di là della discussione sulla sua giustezza politica, sulla quale abbiamo idee diverse) non è mai riuscito a essere efficace e di massa».
Nell’ultimo capoverso si riteneva necessario «indivi110
duare priorità condivise e iniziative comuni». Non sarebbe male se i palestinesi decidessero «con noi» le
priorità!
In generale, le campagne di alcuni gruppi all’interno
del variegato movimento pacifista italiano, molto frammentato dopo la vittoria del governo Prodi (il governo
amico!) e dopo la guerra di Israele in Libano dell’estate
2006 contro le forze Hezbollah, seguono la linea del coordinamento europeo. Non aderiscono al bds se non a
livello formale, ma si indirizzano piuttosto a sostenere,
tra il 2005 e il 2008, iniziative politicamente meno impegnative, almeno in Europa, quali quelle contro l’occupazione, oppure ideologicamente importanti per il
mondo pacifista, in particolare del femminismo pacifista, come quelle che cercano di costruire relazioni tra
popoli «in conflitto», i viaggi in Italia di israeliani e palestinesi insieme per incontri, i viaggi dei Parent’s Circle14, dei Combatants for Peace15, di WIB (Women in
Black) in Italia e Donne in nero in Palestina.
All’interno del gruppo delle Donne in nero e delle
WIB riunite in un Convegno a Gerusalemme nell’agosto del 2005, l’appello del bds suscitò molte discussioni
e distinzioni, culminate poi nel comunicato finale in
cui si sosteneva l’appello limitatamente alle sanzioni e
ai disinvestimenti, seguendo la linea di alcune leader
delle WIB israeliane contrarie al boicottaggio. Nel 2007
a Valencia una parte del gruppo europeo approvò il bds,
ma solo per i prodotti dei territori occupati, a eccezione
delle DIN italiane contrarie.
Fu eluso, in particolare da alcune delle leader storiche, il tentativo di discutere il bds come critica all’ideologia sionista e le contraddizioni che esso metteva in luce nella storia del «progetto» delle Din italiane, di relazione fra donne femministe pacifiste contro il
nazionalismo, militarismo, patriarcato16.A una prima
111
analisi delle cause di questa «riluttanza» ad affrontare i
nodi cruciali si può rilevare il fatto che andarono sempre più aumentando le pressioni politiche, sulle organizzazioni più vicine ai sindacati e ai partiti, soprattutto
a partire dal 2006, sia dopo le elezioni palestinesi del
gennaio 2006, vinte dal partito di Hamas, e le misure
prese da Usa, Israele e Unione europea contro il nuovo
governo con la chiusura totale della Striscia di Gaza, sia
dopo la guerra in Libano dell’estate 2006.
Da quella fase divenne infatti sempre più percepibile il pesante clima di ricatto e di propaganda, diffuso in
Italia dai maggiori quotidiani, dai politici italiani di entrambi gli schieramenti, dai rappresentanti israeliani,
dalle comunità ebraiche, contro le critiche al governo
israeliano, che vennero definite immediatamente «antisemite». Questo clima di ricatti, non solo psicologici,
non fecero che indebolire ulteriormente le posizioni di
gruppi e di individui più esposti.
Ma si potrebbe anche avanzare l’ipotesi che, a partire
dalla prima intifada (1988) e durante i venti anni successivi, nel contesto del «processo di pace», il «progetto» di molti gruppi pacifisti, con le iniziative di dialogo
per stabilire relazioni fra gruppi di donne e di uomini
dei due popoli «in conflitto», di viaggi e scambi, come
già si era cercato in Jugoslavia, stava tutto all’interno di
uno schema teorico che, visto dal contesto europeo
sembrava rappresentare al meglio il giusto percorso
verso la pace nella equidistanza. Ma non affrontava i nodi cruciali, non solo l’asimmetria tra occupante e occupato, ma i fatti sul terreno che stavano trasformando irreversibilmente la situazione, la natura stessa dello Stato d’Israele come Stato ebraico di esclusione e
oppressione, anche al suo interno. Non affrontava soprattutto il problema del sionismo, divenuto in Europa
un «tabù», uno strumento ideologico strettamente col112
legato con il ruolo dello Stato israeliano nella sua funzione di «punta avanzata» del nuovo colonialismo occidentale in Medio Oriente.
In questa ottica, non venivano colte completamente
nella loro pericolosità, o meglio le si percepiva separate
dal contesto locale, le trasformazioni della globalizzazione in atto in quell’area. E cioè l’attacco massiccio che
il complesso industriale, militare, culturale occidentale
stava organizzando con le politiche del neoliberismo e
del neoconservatorismo (e con i fondamentalismi cattolico, protestante e ebraico) contro i territori «nemici»
mediorientali e contro il «fondamentalismo islamico».
Il tutto nel quadro del progetto più ampio, dall’11 settembre 2001, dei governi Bush, dei governi israeliani,
europei e arabi «moderati», di distruzione dei territori,
annientamento delle popolazioni o espulsione nei nuovi «campi», per accaparrsi risorse e per occupare posizioni strategiche. Un progetto che comportava anche
l’attacco sul «fronte interno», nei confronti del lavoro,
dei giovani, degli immigrati e in particolare l’attacco ai
diritti e l’indebolimento sempre più forte dei movimenti di partecipazione di base.
Questo attacco su più fronti, sostenuto con la complicità dei partiti di «sinistra», di cosiddetti intellettuali
e accademici, dei media in generale e dei commentatori televisivi in particolare, fu accompagnato dal perfezionamento della potente macchina della propaganda,
della manipolazione del consenso e degli strumenti autoritari contro la società e gli individui. Con essa crebbero i timori, i ricatti, le afasie, le ipocrisie, le molte reticenze, il rifiuto di mettere in discussione i nodi cruciali
della questione israelo-palestinese, l’oscuramento della
realtà dei fatti e talora le complicità di parte dei vertici
del movimento pacifista.
In questo modo si andò perfezionando il «progetto»
113
occidentale e israeliano di supremazia, con gli spietati
massacri in Afganistan, in Irak, in Libano e nella Striscia di Gaza.
1. S. Lev-Ari, L’immaginazione letteraria aiuta le pubbliche relazioni, «Haaretz», 6.08.2007.
2. Baruch Kimmerling, The Code of Security: The Israeli Military-Culture
Complex, in «Invention and Decline of Israeliness – State, Society, and The
Military», University of California Press 2001. Questo capitolo è stato
pubblicato nella rivista «Conflitti globali», n. 6, Israele come paradigma,
per la traduzione di Marco Allegra.
3. S. Peres, Upgrading war, privatizing peace, «Haaretz», 31.8.06.
4. Il Peres center addestra i palestinesi ad accettare la superiorità ebraica (occhiello su homepage di «Haaretz»), M. Benvenisti, Un monumento a un
tempo perduto e a speranze perdute, «Haaretz», 30.10.08.
5. Y. Laor,The most moral army in the world. Fact, «Haaretz», 14.04.2009
6. Casa delle Donne di Torino, Associazione Almaterra, Associazione
culturale La Locomotiva, Centro Studi Sereno Regis, Cicsene, Comitato
di solidarietà con il popolo palestinese, CTM altromercato, Donne in Nero Torino, Eco (Ebrei contro l’occupazione), Hydroaid, Mondo nuovo,
Ponte di Pace Onlus, Progetto Sviluppo-Cgil.
7. A. B. Yehoshua, Noi ebrei e i razzi di Gaza, «La Stampa», 8.01.2009.
8. G. Levy, An open response to A. B.Yehoshua, «Haaretz», 18.01. 2009.
9. cfr. Giulio Marcon, Le utopie del ben fare, l’ancora del mediterraneo
2004; David Rieff, Un giaciglio per la notte – il paradosso umanitario, Carocci 2003; Thierry Pech e Marc-Olivier Padis Le multinazionali del cuore,
Feltrinelli2004.
10. Quella di Milano è descritta con accenti assai ironici da Francesco Battistini, sul «Corriere della Sera» del 19 novembre 2006,
«Riflessioni: ”Non si deve affievolire la solidarietà con Israele” (Filippo Penati,
presidente Provincia di Milano). Due soli leader nazionali: Guglielmo Epifani e Raffaele Bonanni, Cgil e Cisl. Troncare, sopire ogni provocazione. L’ordine di servizio funziona. I toni sono morbidi. Gli amici dappertutto:”Amici vigili urbani, potete spostarvi?”, chiede qualcuno al megafono. Il promoter Flavio Lotti va a Palazzo Reale a incontrare “gli amici ebrei” (quelli della mostra
Israele. Arte e vita 1906-2006, nda). Arriva “l’amico ambasciatore palestinese”, Sabri Atehieh, ma è amichevolmente che gli sconsigliano di parlare dal
palco “per non squilibrare”. E Abu Ali Shwaima, l’imam di Milano, quello della rissa con la Santanché? Chi l’ha invitato? “Vorrei dire che questo corteo è un
po’ troppo filoisraeliano …”. Tengono giù dal palco anche lui. Con amicizia»
12 Proposta di lavoro di Action for Peace, fine 2005
13. Mentre potevano essere chiare e affermate perentoriamente, in questo progetto, le critiche alle donne palestinesi che ritenevano prioritaria
114
la lotta per la liberazione nazionale, rispetto alla lotta di liberazione delle
donne, difficile e spesso elusa fu, almeno nel dibattito italiano, la critica
alle posizioni di difesa, di molte WIB israeliane, dell’ideologia sionista e
dello Stato d’Israele come Stato ebraico.
13. Proposta di lavoro di Action for Peace, fine 2005.
14. Il Parents Circle è una associazione di famiglie israeliane e palestinesi che hanno figli o parenti morti a seguito delle violenze nella regione.
15. I Combatants for Peace sono un gruppo di israeliani, che hanno combattuto nell’idf, e di palestinesi coinvolti in atti di violenza in nome della
liberazione palestinese.
16. Mentre potevano essere chiare e affermate perentoriamente, in questo progetto, le critiche alle donne palestinesi che ritenevano prioritaria
la lotta per la liberazione nazionale, rispetto alla lotta di liberazione delle
donne, difficile e spesso elusa fu, almeno nel dibattito italiano, la critica
alle posizioni di difesa, di molte WIB israeliane, dell’ideologia sionista e
dello Stato d’Israele come Stato ebraico.
115
10. La campagna BDS in Italia e non solo
Tre sono gli appelli dai quali partire per impostare la
campagna bds:
• l’appello bds palestinese del 9 luglio 20051;
• il documento sulla Palestina del FSM 2009 a Belèm2;
• l’appello di Forumpalestina del 21 febbraio 20093.
A seguito di quest’ultimo appello si stanno costituendo in Italia comitati di base per il bds.
La campagna di boicottaggio, malgrado numerose
proposte e iniziative anche in anni lontani, ad esempio
dopo lo scoppio della prima intifada, solo all’inizio del
2009, dopo quanto è avvenuto nella Striscia di Gaza e a
quasi quattro anni dall’appello bds palestinese del 9 luglio 2005, ha cominciato ad assumere una dimensione
nazionale. È fondamentale che abbia collegamenti internazionali sistematici e che ogni iniziativa per la Palestina in futuro sia riconducibile, direttamente o indirettamente, alla campagna bds. Ci vorrà ovviamente del
tempo perché, sia a livello locale sia a livello nazionale,
sia raggiunta la necessaria capillarità e efficacia. All’inizio non si potrà che procedere per prova ed errore, accumulando progressivamente, a livello locale e a livello
dei coordinamenti nazionali, il know how necessario.
116
Siamo solo all’inizio e il percorso da compiere è lungo e arduo. Ogni iniziativa deve prevedere un momento, anche minimo, di pianificazione, un meccanismo
capace di monitorarne i risultati e deve essere accuratamente documentata. La valenza politica della campagna bds non si limita solo a quanto indicato nell’appello
palestinese del 9 luglio 2005.
Nell’intervista già citata4, Justin Podur chiede a
Omar Barghouti: «il bds, una strategia tesa a isolare
Israele, arriva in un momento in cui Israele sta tentando, con qualche successo, di isolare i palestinesi e di dividerli». Barghouti risponde:
Un’argomentazione dei sostenitori di Israele è che il problema
vero non è Israele, ma sono i palestinesi. Ma i i colonizzatori hanno sempre cercato, per governare, di dividere i nativi. Quindi le
divisioni nella società palestinese sono una profezia che si autoavvera. Molti di quelli che chiedono l’unità dei palestinesi come
condizione per porre fine all’assedio criminale di Gaza sono gli
stessi governanti e gli stessi politici che non hanno accettato il risultato delle elezioni democratiche palestinesi del 2006 e che,
per punizione, ci hanno messo sotto assedio. In ogni caso, questo è uno dei momenti più difficili per il movimento palestinese,
perché la nostra leadership ufficiale lavora per l’altra parte. Ogni
movimento ha i suoi quislings, ma non abbiamo mai visto una
leadership collaborare così apertamente con l’oppressore. Anche
da questo punto di vista la campagna bds è utile perché unisce i
palestinesi su una piattaforma di resistenza civile, nel momento
in cui hanno estremo bisogno di riferimenti unitari. Il consenso
dietro il bds è così forte che anche l’anp non ci attacca apertamente. L’anp arresta, mette in prigione e commette altre infamie
per conto di Israele, ma non ha condannato il bds.
Omar Barghouti, palestinese cittadino di Israele, è
uno dei soci fondatori del pacbi; ha studiato ingegneria
117
elettronica negli Usa, è un coreografo e studia filosofia all’università di Tel Aviv. Nel mese di aprile 2009 una petizione promossa dall’organizzazione Israel Academia
Monitor (http://israel-academia-monitor.com), che monitora le attività anti-israeliane degli accademici israeliani, ne ha chiesto l’espulsione dall’università, raccogliendo più di 65.000 firme. La risposta, pacbi Statement on
the McCarthyist Campaign against Omar Barghouti, è all’indirizzo www.pacbi.org/etemplate.php?id=992.
Un altro sito ultra-maccartista è quello che contiene
un elenco di più di 8000 ebrei che odiano se stessi (Selfhating and/or Israel-Threatening list), www.masada2000.org/shit-list.html.
Un ebreo che critica lo Stato di Israele non può essere accusato di antisemitismo e allora si suggerisce che
sia uno psicopatico, uno che odia sé stesso. Un altro sito del genere è www.stoptheism.com nel quale è apparso l’invito all’esercito israeliano di uccidere l’attivista italiano dell’ISM, Vittorio Arrigoni, presente nella Striscia
di Gaza durante l’attacco israeliano iniziato il 27 dicembre 2008.
Il boicottaggio dei prodotti
I prodotti che sono imballati ed etichettati in Israele
hanno un codice a barre israeliano che inizia con 729.
Ma alcuni prodotti israeliani sono imballati in Belgio,
in Francia o in altri Paesi, dalle grandi catene di distribuzione con un codice a barre nazionale.
Alcuni prodotti da boicottare sono:
• i prodotti agricoli israeliani a marchio Jaffa e Carmel,
presenti sui banchi dei supermercati e di molti negozi.
• i prodotti farmaceutici israeliani della azienda Teva
che, tanto in Italia quanto in Francia, ha acquisito una
posizione dominante nel mercato dei farmaci generici
e da banco.
118
• i prodotti cosmetici del gruppo L’Oréal, già oggetto
di boicottaggio per i test effettuati sugli animali. Oltre a
essere uno dei maggiori investimenti israeliani, il gruppo L’Oréal commercializza prodotti realizzati con materie prime come i sali del Mar Morto.
• i prodotti dell’azienda Lavazza, da oltre due decenni leader nel mercato israeliano del caffè, delle macchine per bar e uffici, dell’architettura e dell’arredamento
dei locali, attraverso la ditta israeliana Gils Coffee Ltd. Il
boicottaggio della Lavazza è raccomandato anche dall’organizzazione pacifista israeliana Gush Shalom e
dalla Coalizione delle Donne per la Pace israeliana, anche per il legame diretto fra la Lavazza stessa e la Eden
Springs Ltd., azienda israeliana che dal 2002 detiene i
diritti per la distribuzione delle macchine per il caffè e
delle capsule di caffè «Lavazza – Espresso Point». La
Eden Springs imbottiglia e distribuisce l’acqua delle Alture del Golan, territorio siriano occupato e colonizzato
illegalmente da Israele dal 1967.
Elenchi più completi dei prodotti da boicottare nei
siti www.forumpalestina.org, www.bigcampaign.org e
www.bdsmovement.net.
Scrive Vittorio Arrigoni5:
Haidar Eid, professore all’università Al Quds di Gaza City si fa
portavoce del pacbi e del bds e con lui ho discusso di boicottaggio. … Haidar mi invita a divulgare il suo appello per tutti gli italiani a non comprare più alcun prodotto made in Israel.
Aggiunge Haidar:
Se compri anche un solo bicchiere d’acqua proveniente da Israele, di fatto compri anche un proiettile che prima o poi andrà a
conficcarsi nel cuore di uno dei nostri figli.
119
La critica-contestazione-boicottaggio dei complici
L’appello BDS palestinese del 9 luglio 2005 invita a
esercitare misure punitive non-violente fino al momento in cui Israele fa fronte ai suoi obblighi di riconoscere
il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione e di rispettare completamente le indicazioni del diritto internazionale.
Ma un compito altrettanto importante è la criticacontestazione-boicottaggio dei complici che, ad ogni livello, si adoperano in iniziative a sostegno dello Stato di
Israele, attraverso accordi di cooperazione militare,
economica e culturale. L’insieme di queste iniziative
dovrebbe essere monitorato e, almeno per le più gravi,
dovrebbe essere organizzata una critica e/o una contestazione adeguata. Israele fa parte in pratica dell’Unione Europea e della Nato. Lo conferma un esempio poco
noto, nel 2006 il Teatro Habimah, che è il teatro nazionale di Israele, è stato inserito nell'Unione dei Teatri
d'Europa. I rapporti dei politici italiani, di destra, di centro e di sinistra, con le comunità ebraiche e con lo Stato
di Israele sono sotto gli occhi di tutti. Come afferma
Yitzhak Laor (2008, p. 30), «durante gli anni dell’unificazione europea, il genocidio degli ebrei è servito alla
costruzione di un’identità europea. Gli Europei, che in
altri tempi si erano così ben distinti dall’ebreo considerato come uno straniero – non era come loro, non si
comportava come loro, non era uno di loro –, possono
oggi darsi da fare per amarlo, intanto perché ormai è loro simile, e poi perché non vive più tra loro».
Bisogna dimostrare di amarlo, anche perché ogni
politico italiano, certamente se una volta «comunista»,
per arrivare a Washington e avere il placet per fare il presidente di un qualche cosa, deve passare per Tel Aviv.
120
Il boicottaggio accademico e culturale
La prima iniziativa importante in Italia di boicottaggio culturale è stata la campagna contro la presenza dello Stato di Israele come ospite d’onore della Fiera del Libro di Torino edizione 2008, nel 60° anniversario della
sua costituzione.
Ci sono i primi segni che stanno maturando le condizioni per iniziative simili a quelle promosse dal bricup inglese.
Scrive il professor Angelo Baracca6:
La questione posta dagli studenti dell’Università La Sapienza di
Roma del boicottaggio accademico di Israele, e in generale della
ricerca militare, investe più di una questione, che vorrei affrontare nel portare il mio sostegno alla proposta. Una prima questione
riguarda gli aspetti politici contingenti, su cui pesa il giudizio su
Israele e il conflitto israelo-palestinese: se in 42 anni la potenza
incomparabilmente più forte della regione non ha trovato il modo di risolvere il problema del popolo e dello stato palestinesi,
porta senza dubbio la responsabilità preponderante…
La scienza è un prodotto dell’attività degli uomini, partecipa e risente delle loro finalità, ed essi non possono lavarsi le mani del
suo uso. Non si ricorda mai che una fetta notevole della comunità scientifica lavora in centri di ricerca militare, che hanno tutte le
diramazioni possibili, e forse impensabili. Condivido le riserve a
collaborare con l’università di California, che collabora con il laboratorio Livermore dove si progettano le armi nucleari. Oggi, di
fronte alle sfide che l’umanità deve affrontare (e la prima è forse
il rischio di un olocausto nucleare), gli scienziati devono assumersi maggiori responsabilità nei confronti del loro lavoro e delle loro scelte.
Il prof. Gianni Vattimo, già docente di filosofia teoretica all’Università di Torino, dopo aver sostenuto il
boicottaggio della Fiera del Libro 2008, non presenterà
121
il suo ultimo libro, Addio alla verità all’edizione 2009
della Fiera, perché ospite d’onore è l’Egitto che, oltre a
distinguersi per le violazioni dei diritti umani al suo interno, è complice di Israele e dei paesi occidentali nel
blocco del suo confine con la Striscia di Gaza.
Informazioni sugli sviluppi della campagna bds in
Italia si possono trovare sul sito www.forumpalestina.org o si possono ricevere da ism-Italia, inviando
una richiesta di inserimento nella mailing list a
[email protected].
1. www.bdsmovement.net/?q=node/52#Italian
2. www.forumpalestina.org/news/2009/Febbraio09/12-0209Fsm2009Documento.htm
3. www.forumpalestina.org/news/2009/Febbraio09/23-02-09APPELLObds.htm
4. J. Podur, The South Africa Moment in Palestine, interview with Omar Barghouti, April 05, 2009, www.zmag.org/znet/viewArticle/21078.
5. Vittorio Arrigoni, Gaza Restiamo umani, Manifestolibri, 2009.
6. A. Baracca, Scienza e guerra, non c’è neutralità - Boicottare le università di
Israele?, «il manifesto», 22.01.2009.
122
11. Boicottare Israle:
un dovere morale, un dovere politico
Jean-Moïse Braitberg, uno scrittore ebreo francese ha
scritto al presidente dello Stato di Israele una lettera
(«Le Monde», 28 gennaio 2009) nella quale chiede che
sia cancellato il nome di suo nonno, Moshe Brajtberg,
dal Memoriale di Yad Vashem dedicato alla memoria
degli ebrei vittime del nazismo.
Le chiedo di accogliere la mia richiesta, signor presidente, perché
quello che è accaduto a Gaza e, più in generale, la sorte imposta
da sessant’anni al popolo arabo di Palestina squalifica ai miei occhi Israele come centro della memoria del male fatto agli ebrei, e
quindi a tutta l’umanità. …. Conservando nel Memoriale di Yad
Vashem, nel cuore dello Stato ebraico, il nome dei miei cari, il
suo Stato tiene prigioniera la mia memoria familiare dietro il filo
spinato del sionismo per renderlo ostaggio di una sedicente autorità morale che commette ogni giorno l’abominio che è la negazione della giustizia.
Il 16 marzo 2009 Michael Neumann, docente di filosofia alla Trent University in Ontario, Canada, e suo
fratello Osha, artista e avvocato, hanno fatto la stessa richiesta per la loro nonna Gertrud Neumann. Michael
Neumann ha scritto:
123
La nostra complicità è spregevole. Non credo che il popolo ebraico, nel cui nome avete commesso così tanti crimini con un simile compiacimento oltraggioso, possa sbarazzarsi della vergogna
che gettate su di noi. La propaganda nazista, nonostante tutte le
sue calunnie, non ha mai disonorato né corrotto gli ebrei; voi ci
siete riusciti. Non avete il coraggio di assumere la responsabilità
dei vostri atti di sadismo: con un’insolenza mai vista prima, vi siete fatti portavoce di un’intera razza, come se la nostra stessa esistenza fosse un’approvazione alla vostra condotta. Avete macchiato i nostri nomi non solo con i vostri atti, ma con le menzogne, i discorsi evasivi, la compiaciuta arroganza e l’infantile
moralismo con cui avete ricamato la nostra storia.
Osha Neumann ha aggiunto:
Sono cresciuto credendo che gli ebrei fossero un gruppo etnico
con la missione storica di trascendere l’etnicità in un fronte unico contro il fascismo. Essere ebreo significava essere anti-fascista. Da tempo Israele mi ha svegliato dal mio sonno dogmatico
sull’immutabile relazione tra ebrei e fascisti. È stata macchinata
una fusione tra l’immagine di torture e criminali di guerra ebrei
e quella di vittime emaciate dei campi di concentramento. Trovo
che questa commistione sia oscena. Non voglio farne parte. Avete perso il diritto di essere i custodi della memoria di mia nonna.
Non desidero che Yad Vashem sia il suo memoriale.
Tre prese di posizione a dimensione, dura e intensa,
di umanità e di verità che indicano anche quale sia il nostro dovere morale e politico: non accettare, non collaborare, non mentire.
Non accettare, non collaborare e non mentire boicottando Israele e contestando i suoi complici.
RESTIAMO UMANI!
Perché verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l’umanità che hanno accompagnato il conflit124
to israelo-palestinese e altri conflitti in questo passaggio d’epoca, saranno chiamati a rispondere davanti ai
tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai
loro complici e da quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l’opportunismo.
125
Abbreviazioni
anc
anp
attac
aut
azapo
badil
bds
bc
bla
bricup
codesa
cupe
idf
ism
ism-Italia
mercosur
ja
jnf
mk
nam
natfhe
olp
opt
pacbi
r&d
sacp
ucu
udf
unsc
wbgs
wto
wzo
zanu
zapu
126
African National Congress
Autorità Nazionale Palestinese
Associazione per la Tassazione delle Transazioni
finanziarie e per l’aiuto al cittadino
Association of University Teachers
Azanian People’s Organization
Resource Center for Palestinian Residency
and Refugee Rights
Boycott, Divestments and Sanctions
Black Consciousness
Black Local Autorities
British Committee for Universities for Palestine
Convention for a Democratic South Africa
Canadian Union for Public Employees
Israeli Defence Force
International Solidarity Movement
International Solidarity Movement-Italia
Mercato Común del Sur (America del Sud)
Jewish Agency
Jewish National Fund
Umkhonto we sizwe, l’ala militare dell’anc
Non-Aligned Movement
National Association of Teachers in Further
and Higher Education
Organizzazione per la Liberazione della Palestina
Territori Occupati Palestinesi
Palestinian Campaign for the Academic and Cultural
Boycott of Israel
Research and Development – Ricerca e Sviluppo
South Africa Communist Party
University and College Union
United Democratic Front
United Nation Security Council
Consiglio di Sicurezza dell’Onu
West Bank and Gaza Strip
Cisgiordania e Striscia di Gaza
World Trade Organization
World Zionist Organization
Zimbabwe African National Union
Zimbabwe African People’s Union
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Per altri indirizzi utili http://www.bdsmovement.net/?q=node/54
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