Il salto del vigliacco
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Il salto del vigliacco
Il salto del vigliacco Le cene a San Miguel di Betania sono sempre qualche cosa di speciale. Vado per ventidue chilometri a nord, in moto. Sono le sei e mezza di sera. A quest’ora il verde della selva, che avvolge aggressivamente la strada, si sta facendo nero. Il cielo è nascosto e, solo per alcuni attimi, sbuca dalle foglie regalandomi una sberla pesante sulla guancia. C’è quasi freddo. Lo dimostrano la mia felpa indossata come un grembiule, i capezzoli appuntiti e le orecchie dure. Adriano cucina bene, molto bene. È attento ai sapori ed anche alla salubrità del piatto. Un infarto gli è servito a questo, a fare attenzione ai grassi. Ma alle sigarette, a quelle chi se ne frega. Ho vissuto qui i miei primi sei mesi di Venezuela, ospite, a volte scomodo, di questa comunità di indios Pemones. Ho vissuto in questa casa di legno a due piani dove Adriano vive da vent’anni. Un indigeno. Un uomo. A volte un prete. Di certo un amico, di certo il mio amico. Colui che mi ha aiutato a sradicare completamente la mia vita da un terreno ormai morto. Colui che una notte mi disse: “Ma tu hai paura di andare a vivere da solo a Ciudad Dorada? Sei un vigliacco!!!”. E io, che vigliacco certamente lo ero, ma orgoglioso di 19 più, quella notte mi trasferii rapido in quel postaccio, avamposto della più grande miniera d’oro del mondo e zona tra le più pericolose dell’America Latina. Mi ci infilai di forza in quella casa buia, che ci pioveva dentro come a un cartone. Per tre mesi con Adriano non parlai. Lui fece lo stesso con me, e ci mancherebbe pure il contrario. Ogni volta che lo guardo negli occhi, ci rivedo dentro quella notte, la mia paura e il suo disprezzo voluto. E per questo evito di farlo, godendomi invece quel cibo denso ad occhi serrati, come, al termine di un’ora di amore sbagliato, quando non vuoi di certo vedere l’errore. Cinghiale cotto in acqua con piccante e termiti giganti, insalata e una bottiglia di cabernet cileno, che ho portato per brindare al mio onomastico, stanno lì a guardarci, aspettando solo le nostre gole. Il tavolo di legno che ci ospita sputa fuori la storia di un popolo indigeno riscattato finalmente da una politica attenta e rispettosa, ma che è fortemente in balia di una “transculturazione” violentatrice delle origini e dell’animismo e di un camminare di secoli. Mi sembra, a volte, che su quel tavolo ci si scivoli, non si riesca a tenere il piatto fermo. Ho come la certezza che il legno vomiti sudore di gente e il mio equilibrio sia sempre e inevitabilmente messo in discussione. Gli indigeni parlano poco e piano, e questo loro centellinare tutto è di una violenza feroce per chi vive in una realtà rumorosa e stracolma di parole come la 20 mia. E mi stanco, a volte, anche di questi vuoti afoni che devo riempire con i profumi di lotte al di là dell’oceano, raccontatemi al buio da valorose guerrigliere del nostro tempo. Saltiamo in due, ora, a piedi pari sul tavolo con una eleganza da Simeoni e una paura da non lo so. Una Lora, serpentaccio mortale, rosso come il sangue di chi c’ha l’emoglobina a diciassette, ci ha strofinato i piedi con il suo culo. Non c’è possibilità di ucciderla perché è veloce e noi siamo ancora al piano di sopra, con le infradito incastrate tra i bicchieri e le forchette e le ginocchia tachicardiche. “Due serpenti in pochi giorni, cazzo!” penso. Adriano lo sa, perché mi dice con un sorriso vero: “quattro in ventiquattro ore”. È bello essere vigliacchi in due. Dandoci le spalle l’uno all’altro, ci accendiamo contemporaneamente una sigaretta buona. 21