«el lavabo», «el cormeo», «in spadina», «el

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«el lavabo», «el cormeo», «in spadina», «el
«EL
LAVABO», «EL CORMEO», «IN SPADINA», «EL SCOAGNÀRO»
« El lavabo» esiste anche in lingua italiana, dove però un tempo significava soltanto l'acquaio che si trova
nelle sacrestie, nel quale i preti si" lavano le mani prima di prepararsi a dir messa.
Nelle chiese antiche ce ne sono di stupendi, come quello in terracotta verniciata, opera di Giovanni della
Robbia, nella grande sacrestia di Santa Maria Novella a Firenze. In veneto significa, come ormai anche in
italiano, qualunque recipiente che serva per lavare, soprattutto mani e viso.
Nella lingua italiana si chiama « lavabo» anche quella parte della Messa che precede di poco il Prefazio e
viene recitata dal prete mentre si lava le mani. (Non si confonda con la lavanda in sacrestia, accennata
priina). E' un salmo di Davide (il 25 oppure 26, secondo un'altra numerazione progressiva) che comincia: «
Lavabo interinnocentes manus meas». Laverò fra gli innocenti le mie mani. In latino infatti « lavabo» (futuro
semplice del verbo lavare) significa « laverò ».
Mi sembra certo che lavabo derivi dalla prima parola del salmo « Lavabo », da cui in italiano il nome
dell'acquaio di sacrestia, estesosi poi a significare ogni acquaio anche di casa privata. Il passaggio dal
linguaggio ecclesiastico al profano può essere avvenuto per mezzo di qualche « zagheto » (il ragazzo che «
serve» messa), che portò fuori di sacrestia la parola, estendendone poi il significato.
« El cormeo», altra magnifica parola padovana. Indica quel piolo di pietra che si colloca ai bordi delle strade,
oppure per segnare confini o divieti di passaggio dei veicoli. In italiano si chiama con un brutto nome
composto: paracarro. La parola padovana, mi pare, deriva dal latino « columella» (diminutivo di « columna »,
cioè colonnetta). « Columella » è femminile, mentre « cormeo » è maschile, ma il mutamento di genere non
è cosa tanto rara. Per esempio « domus » femminile (la casa) dà « el domo »,cioè il duomo (casa del
Signore); « populus » femminile dà, come vedemmo in altro luogo, « la piopa », femminile in veneto, ma in
italiano dà « il pioppo », maschile, passaggio comune, del resto, a tutti i nomi di piante (femmine in latino,
maschi in italiano).
Questo benedetto latino, perseguitato ormai, bisogna ben dirlo, non tanto nei programmi scolastici o nelle
chiese quanto nella perduta coscienza del suo valore formativo insostituibile, di guisa che lo si ritiene inutile
« praticamente », sembra una di quelle vecchie piante troncate che ripullulano sempre di rametti e foglie
verdoline. Ricordo una vecchia sarta che diceva: « 'na cotola longa nonanta », cioè una gonnella lunga
novanta centimetri (altro che « minigonna »). « Cotola» evidentemente è sorella di cotta, la cui etimologia è
misteriosa. Dà origine a due umoristiche parole padovane: « scotolon » e « incotola ». « Scotolon» è l'uomo
che va dietro alle donne, in italiano: femminiere o donnaiolo.
Però nel nostro « scotolon » ci sento quasi il fruscidelle gonnelle così caro all 'orecchio « dei scotoloni ». «
Incotolli » è invece l'uomo succubo della moglie o dell'amante, avvolto, si può dire, sempre nella gonnella
d'una donna. A parlare con 'gli qomini si direbbe che gli « incotollii » non esistono, o per lo meno « incotollii »
sono soltanto « gli altri ». Chi parla è sempre un piccolo sovrano assoluto a casa sua. In italiano non saprei
come dirlo con una parola sola. Fa ricordare l'« uxorius » diVirgilio e di Orazio, usato per indicare appunto
uno troppo ligio al volere della donna (uxor = moglie).
Ma torniamo al « nonanta ». lo, ragazzo, ridevo di questo « nonanta » invece di novanta. Ingiustamente,
perché è una parola purissima, più vicina al latino « nonaginta » che non il moderno novanta. Non parliamo
poi del « quatre-vingt-dix » dei francesi, i quali, quando da « Galli II impararono il latino, non giunsero a
contare oltre il sessanta (soixante; si osservi l'x di « sexaginta » l, conservato nella scrittura), dicendo
soixante-dix (settanta) e quatre-vingts (ottanta).
Probabilmente è segno del sistema duodecimale (contar per dodici, ancora vivo in molti usi odierni: per
esempio le ore e i minuti; i mesi; le merci vendute a dozzine). I Romani invece, col loro modo di scrivere i
numeri·e col limite a cento. usavano un sistema che si può chiamare decimale.
Una frase notevole per la sua stranezza è quella che si usa per dire, in autunno avanzato o in inverno, che
uno esce senza soprabito: « El va fora in spadina ". L'origine è chiara e storicamente interessante. Si pensi
al costume d'un signore veneto del '700: parrucca bianca col codino, cappello a tricorno, giacca un po' lunga.
pantaloni corti, stretti al ginocchio, polpacci (magari imbottiti, se troppo magri per natura) con calze bianche.
scarpe basse con fibbia, bastoncino da passeggio, occhialino per guardare le « tose » che si
pavoneggiavano sul « liston » in Piazza San Marco. (Si ricordi la bella statua di bronzo, opera di Dal Zotto,
che rappresenta Carlo Goldoni, in Campo San Bartolomeo, a Venezia). Talora il nobile portava al fianco una
piccola spada, più ornamento che arma: ormai la vecchia Repubblica era più gaudente che combattente e «
Dominante » D'inverno, si capisce, col mantello, la « spadina » spariva, ma se uno usciva senza il mantello,
ecco che si diceva: « El va fora in spadina », cioè colla spadina in vista.
La frase è ancora vivissima. ricordo dell'ultimo periodo della Repubblica Veneta, sebbene ormai le spade e
spadine si trovino soltanto nei musei o nelle palestre di scherma.
Un 'altra graziosa parola del nostro dialetto è Il scoaguaro », cioè quello che scopa (scoa) il nido (guaro).
Indica spiritosamente l'ultimo nato d'una famiglia numerosa « Gnaro Il forse deriva dalla radice « nase » (in
latino anche « gnas », che ha il participio passato « gnatus », cioè il nato, il figlio): « 'gnataro » (il luogo dove
si pongono i nati, il nido; « gnat » con ,suffisso « aro », come « vesparo » o « bresparo » il vespaio, dove
s'annidano le vespe, « luamaro »dove si colloca il letame « luame » ecc. Gnataro, gnaaro, gnaro. Confesso
che la mia ipotesi mi lascia incerto, ma di meglio non saprei trovare.
Da notare che « gnatus II latino è vivo ancora nel nostro dialetto e nella lingua italiana nei vocaboli: « cugna
», « cugnada Il (cognato e cognata). Strano il passaggio dal significato latino di « cognatus », parente
consanguineo (da « cum » e « gnatus », cioè nato insicme, nella stessa famiglia) a quello nostro di parente
acquistato, non consanguineo, per via di matrimonio, non di nascita. Evidentemente il senso etimologico
della parola si è perduto ed anzi capovolto addirittura. La parola « scoagnaro », come dissi, è molto
graziosa. Eppure, benché padovano, nato e vissuto a Padova, fino a poco tempo fa non la conoscevo. Me la
disse per caso, chiacchierando con me, un giovanissimo artigiano di Rio di Ponte San Nicolò. Era venuto a
lavorare a casa mia: alle nove di sera egli seguitava ancora il suo lavoro, perché voleva assolutamente
finirlo.
Che bravo, gli dissi. Allora (pur seguitando a lavorare svelto, svelto) mi raccontò che era d'una famiglia
numerosa, l'ultimo di tanti fratelli: « el scoagnaro ».Sono ormai tutti fuori di casa. lo solo vivo coi miei genitori
ed anche quando mi sposerò resterò vicino a loro.
Non voglio mica abbandonare « i me veci » Altro che gioventù bruciata, conflitti con la famiglia, complessi e
incomprensioni e alienazioni. La gente umile, la gente che lavora sul serio non ha tanti problemi e tante
storie. Ragazzi e ragazze come quello ne ho conosciuti e ne conosco molti nella nostra città e nella
provincia. Sono silenziosi, studiano o lavorano seriamente per costruirsi una vita migliore o per continuare la
tradizione d'una famiglia onesta.
I giornali, i rotocalchi, i fumetti se ne occupano molto raramente. Non dobbiamo però dimenticarli.
Ricordiamo pure le glorie e le bellezze antiche, ma guardiamoci bene intorno anche nel presente e
cerchiamo di scorgere fra gli sterpi e le spine della vita odierna anche i modesti fiori . dell'antica e sempre
giovane gente padovana.