Dicembre 2000 - Ordine dei Giornalisti Lombardia

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Dicembre 2000 - Ordine dei Giornalisti Lombardia
Anno XXXI
n. 10, dicembre 2000
Ordine
Direzione e redazione
Via Appiani, 2-20121 Milano
Telefono: 02 63 61 171
Telefax: 02 65 54 307
dei
Giornalisti
della
Lombardia
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Spedizione in a.p. (45%)
Comma 20 (lettera b)
dell’art. 2 della legge n. 662/96
Filiale di Milano
Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo
Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo
Appello di Franco Abruzzo ai direttori perché sostengano la riforma concordata con il ministro della Giustizia Fassino
Tempi strettissimi: il Parlamento
ha ancora quattro mesi di vita.
La pubblicazione della rettifica
ridurrà il risarcimento.
Scompare la riparazione.
Le testate on-line registrate
obbligatoriamente
Cambia la legge sulla stampa:
danno contenuto in 50 milioni
Parlamento ha appena 4 mesi di vita.
Queste le novità:
On-line, diffamazione, risarcimento (tetto
di 50 milioni) e riparazione (che scompaMilano, 4 dicembre. Appello di Franco Abruzre). Le testate on-line dovranno essere regizo ai direttori responsabili delle testate giornastrate come i quotidiani, i periodici, i giornali
listiche italiane, perché sostengano la riforma
radiofonici e televisivi; il reato di diffamazione
della legge sulla stampa così come è uscita
(coordinato con il 595 Cp) prevederà alternadall’incontro del 17 novembre tra il ministro
tivamente carcere (da 6 mesi a 3 anni) o
della Giustizia, Piero Fassino, e i vertici della
multa (non inferiore a un milione), mentre
categoria (tra i quali lo stesso Abruzzo). Ecco
attualmente, quando nell’articolo c’è l’attribuil testo della lettera:
zione di un fatto determinato, abbina carcere
“Cari colleghi, il Senato è sulla strada di ripri(da 1 a 6 anni) e multa (non inferiore a
stinare l’appello rispetto alle sentenze penali
500mila lire); scomparirà
di condanna per il reato di
l’istituto della riparazione
diffamazione a mezzo
(l’entità della somma è
stampa. Le modifiche
A pagina 2 l’opinione
determinata oggi “in relaall’articolo 593 del Cpp
di Antonio Duva
zione alla gravità dell’offepresto andranno in Aula e
sa e alla diffusione dello
nell’Aula sono possibili
stampato”); il danno liquiagguati. Poi l’argomento
Sentenze penali
dato “con valutazione
passerà all’esame della
equitativa” non potrà
Camera.
di condanna
superare i 50 milioni di
Tutto potrebbe essere più
e diritto all’appello:
lire.
facile se decidessero le
tutelare difesa
La «proposta Anedda».
Commissioni Giustizia dei
An ha chiesto e ottenuto,
due rami del Parlamento
e
giustizia
sfruttando un articolo del
in sede legiferante.
regolamento della CameI vertici della categoria,
ra, che la proposta di legge firmata da alcuni
nelle giornate del 13 e del 17 novembre,
suoi deputati (il primo è Gianfranco Anedda)
hanno discusso, con il ministro della Giustizia
in materia di diffamazione avesse la precePiero Fassino, la riforma della legge sulla
denza nell’esame da parte della Commissiostampa, trovando un punto di compromesso
ne Giustizia. Questo progetto in sostanza
a mio modo di vedere accettabile. Il ministro
abolisce il reato di diffamazione a mezzo
ha depositato le modifiche come emendastampa. La proposta (soprattutto quando
menti alla “proposta Anedda”.
parla di non punibilità) appare suggestiva, ma
La Camera dovrebbe cominciare a discutergli esperti ritengono che la stessa sia in
ne. La posta in gioco è altissima come si evinpotenziale conflitto con la Costituzione.
ce dalla lettura degli emendamenti alla propoGli emendamenti del ministro della Giustista n. 7292. Serve una mobilitazione della
zia. Negli emendamenti viene stabilito un
categoria e serve soprattutto che i giornali
principio nuovo, che recupera il contenuto
ne parlino. I tempi sono strettissimi: il
di Franco Abruzzo
dell’articolo 1227 del Cc: «Il risarcimento non
è dovuto per i danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare formulando, ove possibile,
la richiesta di pubblicazione della rettifica,
quando la pubblicazione della risposta o della
rettifica nelle forme e nei termini previsti dalla
legge avrebbe concorso a ridurre le conseguenze dannose».
Si porrà per i direttori dei giornali la sfida di
dare piena attuazione all’articolo 8 della legge
sulla stampa che impone la pubblicazione
delle rettifiche (contenute entro le 30 righe) “in
testa di pagina e nella stessa pagina del giornale che ha riportate la notizia cui si riferiscono” nonché “con le medesime caratteristiche
tipografiche”. Il giudice potrà valutare se la
pubblicazione della rettifica abbia coperto il
danno per intero o solo in parte. Dal pagamento del danno non sono esclusi gli editori.
L’interdizione temporanea. Il ministro della
Giustizia precisa che, in caso di condanna
(anche a una multa), al giornalista possa
essere inflitta l’interdizione temporanea dell’esercizio della professione «per un periodo
non inferiore a due mesi e non superiore a
12». L’interdizione, comunque, è già prevista,
quando emerge una violazione grave dei
«doveri», dagli articoli 30 e 31 del Cp per tutte
le professioni e può abbracciare un periodo
da un mese a 5 anni. Fassino, invece, ha
coordinato la pena accessoria con la legge n.
69/1963 sulla professione giornalistica, che
prevede, in sede disciplinare, la sospensione
per un periodo non inferiore a due mesi e non
superiore a 12, “quando l’iscritto con la sua
condotta abbia compromesso la dignità
professione”.
La misura dell’interdizione non scatta automaticamente, ma va valutata dal giudice caso
per caso.
Coordinazione tra Codice penale e Codice
civile. Il cittadino, che si ritiene diffamato, può
agire in sede penale entro tre mesi, mentre in
sede civile tale termine è di 5 anni, che può
aumentare quando è “più lunga” la prescrizione del reato attribuibile al giornalista (3°
comma dell’articolo 2947 Cc). Anedda suggerisce di contenere tale termine entro i 12 mesi,
mentre l’Ordine dei Giornalisti chiede un
termine di 6 mesi. La modifica suggerita
dall’on. le Anedda è da salvare.
In sostanza il ministro Fassino ha accolto tutti
i suggerimenti, che gli sono stati esposti
dall’Ordine di Milano in una memoria del 28
settembre 2000”.
Feltri radiato dall’Albo
Milano, 21 novembre. Vittorio Feltri, direttore di Libero, è stato radiato dall’Albo dei Giornalisti per le immagini di bambini ricavate da
un sito pedofilo pubblicate sul quotidiano il
29 settembre scorso. La delibera di radiazione è stata presa all’unanimità dal Consiglio
dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
nella seduta di ieri sera ed è stata comunicata oggi. La sentenza del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti afferma che ‘’Vittorio Feltri
ha operato al di fuori del dettato costituzionale e delle norme deontologiche dalla professione giornalistica fissate per legge’’, e ‘’merita la massima sanzione, quella della radiazione, avendo, con la sua condotta, gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità
stessa la sua permanenza nell’Albo’’.
(ANSA)
Servizi alle pagine 4, 5, 6 e 7.
Il ministro Ortensio Zecchino ha firmato il 28 novembre il decreto che completa la riforma dell’Università
Le lauree specialistiche sono 104
(tra le quali quella in giornalismo)
Roma, 28 novembre. Dalle biotecnologie
agrarie, industriali e mediche alle scienze
dell’universo; dalle scienze della nutrizione
umana, delle religioni, dello sport alla teoria
della comunicazione e al giornalismo. Sono
104 (due in più rispetto a quelle comunicate
nei giorni scorsi) le lauree specialistiche definite nel decreto che, con la firma del ministro
Ortensio Zecchino, completa oggi la riforma
dell’Università italiana. Questo è il decreto n.
2, mentre il decreto n. 1 (sulla determinazione
delle 42 classi di laurea) è stato già pubblicato
sulla “Gazzetta Ufficiale” il 19 ottobre 2000.
Ora è atteso il terzo decreto, quello relativo
all’esame pubblico per l’abilitazione all’esercizio delle professioni intellettuali. Nel nuovo
sistema, dunque, si realizzano due percorsi
formativi, quello che conduce fino alla laurea
di base e un biennio successivo che porta ad
approfondire la specializzazione. Un affinamento della qualità degli studi che si basa,
spiega il ministro, sul criterio della “meritocrazia”, visto che le condizioni di accesso sono
“rigorose”. “Non si tratta di una prosecuzione
automatica degli studi – spiega Zecchino – ma
di un itinerario di affinamento delle conoscenze che va riservato a chi ha motivazioni
adeguate. Anche se la valorizzazione del
merito non va disgiunto dall’impegno a sostenere i più bisognosi”. Per accedere ai corsi di
laurea specialistici occorrerà insomma la
laurea di base, ma non basterà. Ciascuna
università è chiamata a definire i requisiti curricolari (sotto forma di crediti attribuiti per due
terzi in base a indicazioni del ministero e per il
resto per scelta autonoma dell’ateneo) necessari per il passaggio al percorso specialistico.
Inoltre, il ‘candidato’ sosterrà un esame per la
valutazione dell’adeguatezza della preparazione, che sarà, sottolinea il ministro, “la vera
garanzia di qualità”. L’autonomia delle singole
università è uno dei principi della riforma.
Cambierà l’esame d’abilitazione
Ora è atteso il terzo decreto, quello sugli
esami di abilitazione all’esercizio professionale dopo i decreti sulle lauree triennali e quello
sulle lauree specialistiche. Il comma 18
dell’articolo 1 della legge n. 4/1999 conferisce
al ministero dell’Università, di concerto con
quello della Giustizia, il potere di “modificare
e integrare”, con regolamento, la disciplina
dell’esame statale di abilitazione “con esclusivo riferimento alle attività professionali per il
cui esercizio la normativa vigente già prevede
ORDINE
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2000
l'obbligo di superamento di un esame di
Stato”. Il regolamento fisserà anche “la disciplina del relativo ordinamento dei connessi
albi, ordini o collegi nonché dei requisiti per
l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove”. La norma prevede che gli Ordini
nazionali “siano sentiti”.
Il terzo decreto abolirà, quindi, gli articoli 32,
33 e 34 della legge n. 69/1963, che oggi regolano la prova di idoneità professionale, il registro dei praticanti e la pratica giornalistica.
Dopo 72 anni scompare il tirocinio fatto nei
giornali come titolo per sostenere l’esame di
abilitazione. Scompare anche la pratica alternativa espletata nelle attuali scuole create
dagli Ordini professionali. Un vecchio mondo
va in pensione: gli editori perdono il diritto di
“creare” i giornalisti. Solo metà dei commissari d’esame saranno giornalisti (oggi sono 5 su
7: gli altri due sono magistrati). Nelle commissioni entreranno i professori universitari
accanto a magistrati e giornalisti.
“Sappiamo che l’autonomia è anche un
rischio, ma è necessario scommettere sulla
capacità degli atenei di realizzare la riforma,
garantendo da parte nostra il necessario
sostegno”, dice Zecchino, che sottolinea i fondi
inseriti a questo proposito nella finanziaria, pari
a 725 miliardi l’anno per il prossimo triennio.
Una quota (già ridotta di 25 miliardi l’anno alla
Camera, che il governo intende “sostenere
con forza” nell’esame del Senato). La laurea
biennale specialistica in giornalismo occupa il
numero 13/S tra le classi delle lauree specialistiche (editoria, comunicazione multimediale e
giornalismo). Una volta pubblicato il decreto n.
2 sulla “Gazzetta Ufficiale”, Ordine dei Giornalisti della Lombardia e Università statale riprenderanno i colloqui per concludere la convenzione sul futuro dell’Istituto “Carlo De Martino”
per la Formazione al Giornalismo. Dall’ottobre
2001, in sostanza, il corso di laurea specialistico in giornalismo sostituirà il corso biennale di
praticantato alternativo. Iniziato nel 1997, il
percorso normativo per definire il quadro
dell’autonomia didattica degli atenei è stato
così completato. Si tratta di 104 “contenitori”
che fissano gli obiettivi e le attività formative
per i titoli di secondo livello attraverso i settori
scientifico-disciplinari, all’interno dei quali le
università – con i regolamenti didattici di
ateneo e dei corsi di studio – “sceglieranno” le
discipline dei curricula. Con la riforma, a partire dal 2001, “tramonteranno” i percorsi di
studio uguali in tutto il territorio nazionale: ufficialmente gli atenei potranno determinare in
autonomia il 34% dei crediti (in tutto 180 per la
laurea e 300 per la laurea specialistica), in
realtà gli spazi di libertà saranno amplificati dal
gran numero di discipline appartenenti a ogni
settore scientifico-disciplinare.
1
Vice presidente del Gruppo DS-L’Ulivo del Senato
L’OPINIONE di Antonio Duva
Sentenze penali di condanna
e diritto all’appello:
tutelare difesa e Giustizia
È stata calcolata in circa 3500 miliardi la cifra
complessiva alla quale ammontano le richieste di risarcimento avanzate, in occasioni di
querele, nei confronti di giornalisti italiani nel
corso degli ultimi due anni. È una somma
enorme, spesso derivante da iniziative strumentali, che si traduce in una indiretta e
indebita pressione sulla libertà di giudizio
degli organi di informazione.
È un segnale di grande disagio dei rapporti fra
stampa, pubblica opinione e giustizia. Non è
tuttavia l’unico: la severa, ma rigorosa, decisione recentemente assunta dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia sul caso Feltri ha posto
in evidenza il tema, spesso trascurato, della
deontologia, mentre altre vicende indicano
quanti limiti vi siano nelle norme sulla rettifica
o in quelle sulla registrazione delle testate online. Questioni complesse e controverse alle
quali spesso molti reagiscono riproponendo,
con sbrigativa superficialità, la logora ricetta
della soppressione dell’Ordine dei giornalisti.
In realtà le vicende recenti dimostrano
proprio il contrario: e cioè che solo l’esistenza dell’Ordine - pur con tanti limiti e vincoli rappresenta un estremo presidio a tutela non
solo della professionalità dei giornalisti ma
anche dei diritti del lettore. Ma indubbiamente problemi di riforma profonda si pongono
per l’Ordine professionale, affinché, esso
possa esercitare al meglio la sua funzione,
così come appaiono necessarie consistenti
modifiche delle normative sulla stampa.
Fra queste - per le ragioni ricordate all’inizio
- presenta un carattere di particolare urgenza quella relativa al diritto di appello contro
le sentenze di condanna, per diffamazione,
per le quali sia stata prevista la sola pena
pecuniaria.
“Parlamento contro giornalisti” ha titolato
il n. 9 di Tabloid. Le cose non stanno proprio
così.
L’allarme ha un suo fondamento ed è giustificato non solo per i giornalisti ma per tutti i
cittadini.
Le ripetute modifiche avvenute nel corso
degli ultimi anni della legislazione processuale penale hanno infatti prodotto conseguenze non sempre opportune dal punto di
vista della funzionalità del sistema e delle
garanzie.
Nel caso specifico, tuttavia, la ricerca di una
soluzione al problema è già avviata.
La Commissione giustizia di Palazzo Madama ha recentemente approvato un disegno
di legge (primo firmatario il senatore Giovanni Russo) che propone un rimedio a mio
avviso tanto equilibrato quanto valido.
Come sottolinea la stessa relazione all’A.S.
n. 4771: “La modifica dell’articolo 593 del
codice di procedura penale - divenuta operativa con l’entrata in vigore della legge 24
novembre 1999 n. 468 - ha suscitato talune
critiche e preoccupazioni, con riferimento a
quei delitti (si pensi, ad esempio, alla diffamazione a mezzo stampa o alle lesioni
colpose) il cui accertamento si accompagna,
se vi è costituzione di parte civile, alla
condanna dell’imputato al risarcimento del
danno, o comunque fa stato nel giudizio civile o amministrativo di danno o in altri giudizi.
In effetti, la ratio della innovazione sta nel
modesto “peso” che assume l’inflizione di
una pena soltanto pecuniaria, rispetto alla
quale non fa sostanziale differenza che essa
consista nell’ammenda… o nella multa; ma
tale ratio certamente non ricorre nei casi in
cui la condanna penale costituisce la base
per una contestuale o successiva condanna
al risarcimento del danno, poiché in tali casi
le conseguenze civilistiche della sentenza di
condanna ‘pesano’ assai di più di quanto non
peserebbe l’inflizione di una modesta pena
detentiva, condizionalmente sospesa”.
Di qui la proposta di un intervento correttivo
- qual è appunto quello prospettato dal Ddl
n. 4771 - che riapra la via dell’appellabilità,
come risorsa per l’imputato, in tutti i casi di
sentenza di condanna in cui la pena pecuniaria sia accompagnata anche dalla previsione del risarcimento dal danno a favore
della parte civile.
Si tratta insomma di tutelare meglio i diritti
della difesa senza appesantire inutilmente la
funzionalità - già così limitata - del sistema
processuale come appunto prevede il Ddl n.
4771 che è stato approvato il 14 novembre
scorso dalla Commissione giustizia in sede
referente.
C’è ora da augurarsi che questo provvedimento concluda nel più breve tempo possibile il suo iter a Palazzo Madama e che, subito dopo, possa ricevere il consenso anche
dalla Camera dei Deputati. Se così sarà
almeno uno dei punti di frizione fra stampa e
giustizia sarà stato rimosso in modo appropriato.
A questo fine il pur poco tempo disponibile
prima della conclusione della legislatura
appare sufficiente.
Occorre però che sia forte e decisa la sollecitazione di quei cittadini, come i giornalisti, che
sono interessati a un simile esito e occorre
che sia coerente, in questo senso, l’impegno
delle forze politiche: difesa della libera informazione e tutela della giustizia mai come in
questo caso coincidono.
Santaniello:
“La Carta Ue
ha non pochi
diritti nuovi”
Roma, 16 novembre. La carta europea dei
diritti è un “documento politico-giuridico che
diventa il presupposto di una vera e propria
cittadinanza europea”. Lo afferma in un’intervista al “Messaggero” il vicepresidente dell’ufficio del Garante per la privacy, Giuseppe
Santaniello, che respinge le critiche mosse
contro il documento comunitario. “Basta
leggerlo - afferma - per constatare che contiene non pochi diritti nuovi. Quali la protezione
dei dati di carattere personale, il riconoscimento del giusto processo, il riconoscimento
dei principi e dei valori della bioetica e della
biomedicina, della qualità della vita, della
multireligiosità e della libertà di coscienza.
Della non discriminazione culturale e linguistica, dei diritti del bambino e degli anziani”.
In particolare, afferma Santaniello, un principio inserito nella Carta, ma che non è presente nelle Costituzioni degli Stati, è quello del
diritto alla protezione dei dati personali, che “è
inquadrata nel titolo libertà. Un fatto estremamente importante. Questa è la visione più
moderna della privacy, in quanto non è isolamento della persona, ma espressione della
sua dignità e, soprattutto, della sua libertà”.
(ANSA)
A Pino Rea
(Ansa) il premio
Ghinetti
San Miniato (Pisa), 16 novembre. È stato
assegnato a Pino Rea, redattore della sede
Ansa di Firenze, il premio giornalistico intitolato a Roberto Ghinetti, il giornalista del
quotidiano “Il Tirreno” morto a 32 anni nel
giugno del 1993. La decisione di assegnare il riconoscimento è stata presa dal
Comune di San Miniato che ogni anno
organizza il premio. Rea, 56 anni, all’ Ansa
dal 1982, ha lavorato in passato per i quotidiani “Il Nuovo” e “Paese Sera” ed è stato
per anni il primo corrispondente dalla
toscana di “Repubblica”. Presidente dell’Ast
dal 1997 è tra i promotori di Isf, Informazione senza frontiere, che si occupa della
situazione dei giornalisti in Paesi nei quali il
diritto all’informazione viene negato o è
considerato “a rischio”.
(ANSA)
Cartellino rosso dall’Ordine al direttore e a un inviato di “Panorama”
Qual è il limite del diritto
di cronaca garantito ai giornalisti?
Pubblichiamo integralmente l’articolo di Alberto Papuzzi, apparso su “ La Stampa” del 27 luglio, che commenta
una deliberazione dell’Ordine di Milano
di Alberto Papuzzi
Qual è il limite del diritto di cronaca garantito
ai giornalisti? Una sentenza dell’Ordine dei
giornalisti della Lombardia ha riaperto
questo problematico interrogativo, che ha
alle spalle una storia in cui s’intrecciano il
principio costituzionale della libertà di stampa e i diritti delle persone coinvolte nell’universo delle notizie. La sentenza è stata
emessa dopo un procedimento disciplinare
per un articolo apparso su “Panorama” del 2
marzo: al direttore Roberto Briglia è stata
comminata la sanzione della censura, l’inviato Marcella Andreoli è stata sospesa per 2
mesi dalla professione. Entrambi respingono
la sentenza, con la solidarietà della redazione: “Decisione inaccettabile” ha scritto Briglia
in una nota ai colleghi: “È un precedente
pericolosissimo”. Quanto alla Andreoli, si
difende ricordando il proprio impegno: “Ho
sempre fatto un giornalismo di denuncia. Per
me il giornalismo è smascherare i mascalzoni”. Oggetto del caso, che certamente rinfocolerà le polemiche sulla legittimità di un
Ordine dei giornalisti, un articolo intitolato Il
sacco, la carota e altre storie di “nonni”, in
cui si raccontavano le violenze subite da un
2
aviere di leva nella base missilistica di
Bagnoli di Sopra in provincia di Padova.
Punto cruciale la cruda descrizione di un
episodio di sevizie, non portate a termine.
L’articolo faceva nome e cognome della vittima di questi atti di nonnismo, indicando
anche il luogo di provenienza. Secondo la
giornalista, i dati si potevano considerare
pubblici essendo pendente un procedimento
penale contro un maresciallo e tre avieri,
accusati delle violenze, che aveva dato luogo
anche a una udienza preliminare. Ma i genitori della vittima si sono appellati alla legge
sulla privacy e al codice deontologico dei
giornalisti, approvato due anni fa, che vieta
di rendere nota l’identità di chi è oggetto di
abusi sessuali.
Marcella Andreoli è conosciuta come una
giornalista di valore. Professionista dal 1973,
iniziò la sua carriera all’“Avanti!”, seguendo
per anni le piste del terrorismo nero e rosso.
Ha fatto parte di una pattuglia di cronisti che
negli anni settanta cercarono di mettere a
nudo i retroscena dello stragismo italiano. Al
telefono ricorda quando un foglio dell’estrema sinistra, il “Quotidiano dei lavoratori”,
dedicò il titolo Ecco i quattro giornalisti killer
a Marco Nozza del “Giorno”, Giulio Obici di
“Paese Sera”, Ibio Paolucci dell’“Unità” e
appunto a lei, “perché non scrivevamo che i
terroristi erano compagni che lottavano”.
Però, dall’altra parte, c’è un giovane poco più
che ventenne che ha visto resa pubblica una
sua dolorosa storia. Perché pubblicare nome
e cognome? Erano fondamentali ai fini
dell’informazione? “Perché c’era già un
processo, perché c’erano degli atti pubblici risponde Andreoli -. Io non ho trafugato nulla,
non ho raccolto indiscrezioni. E anche
perché ho pubblicato tutti i nomi degli accusati, che pure si presumono innocenti fino al
giorno della condanna”. Aggiunge Briglia: “È
vero che la vittima ha subito un danno, ma
va tenuto conto che è stato lui a promuovere
il processo penale. E l’articolo sosteneva la
sua denuncia”.
Così il giornalismo si trova di fronte a un antico confronto, che ne ha segnato l’intera
storia: la natura della notizia, che è plasmata
di dati, di elementi materiali come quelli
sintetizzati nelle celebri cinque W (Who,
When, Where, What, Why), e le vite, la
dignità, i sentimenti, l’immagine delle persone che si trovano ad essere coinvolte nella
macchina dell’informazione, trasformate in
una merce che si chiama notizia. Negli anni
novanta i giornalisti italiani, sotto la pressione anche di vicende come l’inchiesta di Mani
pulite, si sono dati una serie di regole, con
una Carta dei doveri e un codice deontologi-
co, perché la notizia non passi sui diritti delle
persone come un rullo compressore.
Una di queste regole è il divieto di rendere
identificabili le vittime di violenze a carattere
sessuale (prevista anche dal codice penale).
Nella vicenda di “Panorama”, la violazione è
innegabile. Lo stesso Briglia mette in discussione più l’entità della sanzione che il procedimento disciplinare: “Quell’articolo - dice - è
cronaca, cronaca, e ancora cronaca. Marcella Andreoli è una professionista di conclamato impegno e rigore. Se l’Ordine dei giornalisti si assume la responsabilità di sospenderla per due mesi, penso che si debba mettere
in discussione la capacità di giudizio di
questo organismo. Dico che tutti possiamo
sbagliare, ma questa sentenza è una
mazzata che può pregiudicare un’intera
carriera”.
Perciò il direttore di “Panorama” ha inviato
una lettera ai presidenti di Camera e Senato,
per sollevare la questione del diritto di cronaca, collegato anche alle querele ai giornalisti. Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine
della Lombardia, sostenitore di una linea
severa, si limita a dire che le regole deontologiche sono un grande fatto di civiltà. Ma il
confine tra il valore dell’informazione e i
danni che può arrecare non è quasi mai facile da tracciare.
ORDINE
10
2000
Due giornate di sciopero dopo
la rottura del negoziato.
La posta in gioco è la dignità
di chi lavora nei giornali,
nei periodici, nelle emittenti radiotv
e in Internet o come freelance
Giornalista trasferito: accolto il ricorso di Fabio Morabito
Roma, 28 novembre. È illegittimo e “sembra sottendere
una finalità ritorsiva”, il trasferimento dalla sede centrale
alla redazione di Pescara del giornalista del “Messaggero”
Fabio Morabito. Lo ha deciso il giudice del lavoro di Roma,
Elisabetta Mariani, che ha sospeso il provvedimento, rilevando che il trasferimento “non appare sorretto da adegua-
te ragioni tecnico- produttive”. La vicenda di Morabito, con
quella del collega Umberto La Rocca (destinato a Macerata), è al centro di una vertenza. Morabito, assistito dall’avvocato Domenico D’Amati, ha avuto anche il sostegno
dell’Associazione stampa romana, il sindacato locale dei
giornalisti.
Giornalisti uniti contro la Fieg
e nella difesa della professione
Roma, 28 novembre. Il 29 e 30 novembre i
giornalisti della carta stampata hanno incrociato le braccia, seguiti da quelli delle emittenti radiotelevisivi. Il 28 l’incontro Fnsi-Fieg
era naufragato. Il colloquio, come aveva
annunciato la Fnsi in una nota, era considerato “l’estremo tentativo di dialogo prima di
decidere azioni di lotta della categoria”. Si
legge nel comunicato stampa diramato dalla
Fnsi il 28 novembre: “L’interruzione delle trattative per il rinnovo del contratto dei giornalisti avviene dopo 14 mesi dall’avvio del negoziato ed appare quindi particolarmente
grave. La commissione contratto della Fnsi
ha già sottolineato con forza i positivi avanzamenti realizzati nel lungo confronto-scontro con gli editori ma ha giudicato improponibili alcune delle più importanti ipotesi di
conclusione formulate dalla Fieg, mentre ha
confermato i punti irrinunciabili proposti
anche nell’incontro di ieri dal Sindacato dei
Giornalisti.
Siamo consapevoli della rilevanza delle decisioni che abbiamo assunto la cui responsabilità va attribuita alla posizione degli editori
che permane intransigente su alcuni aspetti
fondamentali per il presente ed il futuro della
professione giornalistica. La Federazione
della Stampa ha accettato la sfida della
modernizzazione e della flessibilità, con
l’obiettivo però di far avanzare i confini della
tutela e della rappresentanza dei giornalisti
nei settori finora privi di regolamentazione
contrattuale. E ciò, evidentemente, senza
stravolgere il meccanismo del lavoro giorna-
listico basato sull’autonomia delle redazioni
e dei singoli giornalisti”.
Questi i punti sui quali si è determinata l’interruzione del negoziato:
On line: la possibile intesa, per la prima
volta nel sistema delle relazioni sindacali, per
una regolamentazione del lavoro giornalistico nel Web è ostacolata dalla posizione
negativa degli editori su alcune questioni
economiche e normative di grande rilievo. La
Fnsi non può accettare che le redazioni con
meno di sei giornalisti, molto diffuse nell’on
line, siano lasciate senza rappresentanza
sindacale. Occorre che sia garantito il riposo
settimanale ed il pagamento dell’eventuale
lavoro domenicale, festivo e notturno. Si tratta di conquiste storiche per tutti i lavoratori e
non solo per i giornalisti. Non si può insomma accettare una ipotesi di contratto di serie
B nel quale, per esempio, sia previsto un
diverso regime degli scatti di anzianità rispetto ai colleghi degli altri settori produttivi.
Lavoro autonomo: la regolamentazione del
lavoro dei giornalisti freelance sarebbe limitata, secondo la posizione Fieg, alle sole
collaborazioni coordinate e continuative
escludendo così tutte le collaborazioni autonome professionali. Gli editori vogliono
escludere regole minime di comportamento
per centinaia di giornalisti collaboratori che
vivono della professione e contribuiscono in
maniera determinante alla realizzazione del
prodotto. Gli editori rifiutano inoltre forme di
rispetto del lavoro dei freelance come il dirit-
I punti irrinunciabili
Roma, 22 novembre. La commissione
contratto della Fnsi il 22 novembre aveva
considerato “improponibili” alcune ipotesi
formulate dalla Fieg, ipotesi che nulla hanno
a che fare con la flessibilità e con la modernizzazione del lavoro giornalistico, e che
puntano a minare alla base la struttura e l’autonomia della professione, nonché la qualità
del prodotto. Si legge nel comunicato diramato al termine della riunione della stessa
Commissione: “La commissione respinge
ogni tentativo di smantellare diritti e garanzie
fondamentali, di creare redattori di serie B,
di snaturare le esigenze di flessibilità attraverso un uso artatamente squilibrato dei
contratti a termine, di indebolire la funzione
e l’autonomia dei quadri con un eccessivo
ricorso all’impiego temporaneo, di introdurre
forme autoritarie nell’esercizio della professione. La commissione ritiene possibile stringere la trattativa, in tempi rapidissimi, a
condizione che vengano garantiti in primo
luogo i seguenti punti, che sono di primaria
importanza anche e specialmente per le
nuove generazioni di giornalisti:
On line: va garantito il riposo settimanale, la
rappresentanza sindacale, il pagamento
dell’eventuale lavoro domenicale; freelance:
ampliare l’ambito di applicazione dell’accordo nazionale.
Flessibilità: estensione dei contratti a termine ma solo per la creazione di nuove redazioni e di nuovi inserti. La quantità va proporzionata al numero dei nuovi addetti. A parte
il caso delle nuove iniziative, capiservizio e
capiredattori vanno esclusi dai contratti a
termine relativi alle qualifiche gerarchiche.
Mantenimento dell’indennità di inviato occasionale.
Retribuzione per il prodotto multimediale
e destinato a più testate della stessa azienda editoriale, fermo restando che questo
impegno non può essere sostitutivo rispetto
a quello per la testata di appartenenza.
No all’annullamento dei permessi sindacali. E no a codici disciplinari che snaturino
la professione.
Un adeguato aumento retributivo che
tenga conto dell’accresciuto impegno professionale dei giornalisti, dell’ottimo andamento
del mercato dell’informazione e dell’andamento reale dell’inflazione.
La commissione giudica che questi elementi
siano pienamente funzionali allo sviluppo del
settore e anzi ne favoriscano una crescita
sana, come dimostra il fatto che queste soluzioni siano per larga parte già presenti, con
piena soddisfazione delle parti e con un
buon esito per i bilanci, nei gruppi più importanti e innovativi dell’editoria italiana”.
to alla firma e all’integrità degli articoli, né
vogliono recepire la normativa europea che
prevede il pagamento entro trenta giorni
dalla consegna dei pezzi.
Flessibilità: la Fieg vuole aumentare la
possibilità di stipulare contratti a termine fino
al 30% degli organici redazionali oltre che
per le nuove iniziative anche nei casi di
aumento di foliazione, realizzazione di nuove
cronache e di edizioni locali, supplementi
settimanali, numeri speciali. Gli editori chiedono anche di avere libertà di utilizzare i
contratti a termine per assumere capiservizio e capiredattori, oltre che le qualifiche
superiori, nella misura del 20% degli organici redazionali complessivi. In sostanza la
Fieg vuole il controllo assoluto delle gerarchie redazionali che sarebbero sottoposte al
“ricatto” della contrattazione a termine. Il
sistema proposto dagli editori renderebbe
inoltre possibile una espansione pressochè
senza limiti del precariato sottoposto a forti
pressioni aziendali.
Infine la Fieg vuole cancellare dal contratto
la figura dell’inviato occasionale e utilizzare
l’opera del giornalista oltre che per la testata
per la quale è stato assunto anche per qualsiasi altra testata dell’azienda comprese
quelle multimediali.
Grafici: nella utilizzazione dei sistemi editoriali e nel processo di videoimpaginazione,
specie nel settore dei periodici, si vuole
cancellare la figura del giornalista grafico
spostando le sue competenze su professionalità tecniche.
Rapporti sindacali: la Fieg insiste nel voler
annullare i permessi sindacali retribuiti per
gli organismi dirigenti delle istituzioni della
categoria e per i componenti della commissione d’esame professionale. Gli editori, inoltre, continuano a perseguire l’obiettivo di un
codice disciplinare inserito nel contratto i cui
contenuti rischiano di snaturare il ruolo e la
funzione del giornalismo.
Aumenti retributivi: la Federazione della
Stampa ha chiesto aumenti retributivi almeno pari a quelli ottenuti recentemente da
altre categorie del pubblico impiego, dei
servizi e dell’industria ed ha sottolineato il
momento molto favorevole dell’andamento
dei conti delle aziende del sistema dell’informazione. Il tentativo della Fieg di spostare
gran parte degli aumenti salariali nella
contrattazione aziendale rischia di favorire le
aziende più forti per penalizzare i giornalisti
delle testate medio piccole e rivela il tentativo degli editori di indebolire la contrattazione
nazionale di categoria.
“Il Sindacato dei Giornalisti sottolinea che i
sei elementi di scontro sopra descritti impediscono la conclusione positiva del negoziato. La Fnsi ha già compiuto numerosi sforzi
di adeguamento del contratto alle trasformazioni del mondo della comunicazione e ritiene di aver avanzato proposte compatibili con
uno sviluppo sano del settore che ponga al
centro la qualità dell’informazione. Se gli
editori saranno disposti ad ulteriori avanzamenti sui punti sopra descritti la Fnsi sarà
pronta a riprendere il confronto contrattuale”.
Nuovi scioperi in vista
Roma, 1 dicembre. ‘’Dopo 14 mesi di negoziato, cinque interruzioni e altrettante riprese
delle trattative - afferma la Fnsi in una nota resta intatta la capacità di mobilitazione e di
lotta contro la volontà degli editori di stravolgere le redazioni e il lavoro giornalistico’’.
‘’Ancora una volta, purtroppo, si segnalano i
comportamenti scorretti, antisindacali e
provocatori di alcuni editori e direttori che,
pur in presenza di una consistente astensione dal lavoro dei giornalisti delle loro testate,
si sono adoperati per far uscire i loro giornali. Al gruppo Riffeser i direttori, d’accordo con
l’editore, hanno scritto lettere fotocopia ai
giornalisti per invitarli a devolvere in beneficenza parte del loro salario. Una proposta
giustamente respinta dalle redazioni che
hanno scioperato con una percentuale di
adesione di oltre il 95%.
I giornali sono usciti con il lavoro dei gruppi di
direzione, di alcuni redattori con contratto a
termine e di diversi giovani stagisti. In altre
testate si sono ripetuti inviti al crumiraggio e
vere e proprie intimidazioni fermamente
respinte dai giornalisti. Nel settore dell’on-line
la partecipazione allo sciopero è stata elevatissima, ad eccezione di alcune nuove iniziative informative, come ‘Il Nuovo.it’, i cui direttori hanno ricercato ragioni pretestuose e
inaccettabili per indurre i colleghi a lavorare’’.
“La Fnsi - prosegue la nota - ricorda che la
mobilitazione proseguirà nei prossimi giorni
in tutti i settori produttivi. Il giornalismo italiano vive una fase difficilissima nella sua
storia, sottoposto a continui assalti, a ristrutturazioni e a tagli occupazionali che hanno
devastato realtà editoriali storiche del Paese
(come l’Unità).
La Federazione esprime solidarietà ai giornalisti licenziati e cassaintegrati da giornali
ed emittenti radiotelevisive private (come
Antenna 1 e Rete 7 di Bologna e le radio
locali di RTL-102.5) ed ai colleghi trasferiti
con inaccettabili prassi autoritarie (come
all’ADNKronos e al ‘Messaggero’)”.
“La Giunta della Federazione Nazionale
della Stampa - continua la nota - ha deciso
di confermare gli scioperi dell’emittenza televisiva nazionale per l’11 e il 12 dicembre, di
confermare le astensioni dal lavoro dei periodici, che stanno iniziando in questi giorni, e
di attuare altri scioperi dei uotidiani le cui
date e modalita’ saranno comunicate dalla
Segreteria.
La conferenza nazionale dei cdr si riunirà nei
prossimi giorni per esaminare la grave situazione che sarà anche discussa dal Consiglio
Nazionale convocato per il 20 dicembre”.
(ANSA)
Beppe Giulietti (ds) chiede la mediazione del Governo
MILANO. Il sindacato dei giornalisti andrà avanti negli scioperi per la vertenza del rinnovo del contratto di lavoro, per il
quale “gli editori devono mettere in campo soluzioni diverse
da quelle prospettate”. Paolo Serventi Longhi, segretario
della Fnsi, continua per la sua strada. “Il risultato dello sciopero” ha detto intervenendo al Forum della comunicazione
locale a Frascati (Roma) è “stato molto positivo: abbiamo già
in previsione le due giornate di sciopero dell’emittenza per
l’11 e il 12 dicembre e dobbiamo decidere gli altri scioperi
dei quotidiani”. Ragioniamo in una situazione di grande
adesione, ma anche di qualche problema che ha riguardato
l’informazione che fa riferimento a una parte politica. E non
“ha tenuto a precisare” perché la Fnsi faccia riferimento,
ORDINE
10
2000
come dice Vittorio Feltri, all’ala bolscevica della società italiana, ma perché qualunque sia la parte politica danneggiata è
evidente che le azioni sindacali in qualche modo vanno ad
interferire”.
Giuseppe Giulietti, responsabile informazione Ds, sollecita il
Governo a intervenire. “Dovrebbe verificare almeno in via
informale se esistono margini di una possibile mediazione
per la vertenza del rinnovo del contratto dei giornalisti”, ha
detto a margine del convegno romano.
Giulietti non ha nascosto la preoccupazione per la “delicata
scadenza elettorale che si avvicina: i black-out dell’informazione diventano sempre più rischiosi per una evidente scelta
politica della destra di boicottare gli scioperi dei giornalisti” e
di “approfittare degli scioperi per organizzare campagne di
stampa coordinate”.
Intanto ai sindacati arriva una frecciata: lo sciopero dei giornalisti colpisce pesantemente gli editori della carta stampata
mentre non pesa granché su quelli tv. A lanciarla è Ernesto
Auci in un convegno a Milano. Un’osservazione, ha precisato
lo stesso direttore del “Sole-24 Ore”, che vuole essere spunto
di riflessione e in nessun modo un attacco al diritto di sciopero. Gli editori della carta stampata “ci rimettono totalmente in
caso di sciopero” ha detto Auci “ma quelli televisivi in realtà ci
guadagnano potendo mandare qualche spot in più e forse
annoiando meno i telespettatori con i telegiornali”.
(da “Il Sole 24 Ore” del 3 novembre 2000)
3
Lettera alle autorità dello Stato, ai parlame
DELIBERAZIONE
Assolto
otto volte
Vittorio Feltri radiato
dei bambini (usati dai
Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
nella sua seduta del 20 novembre 2000;
sentito il consigliere istruttore, Sergio D’Asnasch (articolo 6
della legge 7 agosto 1990 n. 241);
visti gli articoli 2 e 48 della legge 3.2.1963 n. 69 sull’ordinamento della professione giornalistica con riferimento agli articoli 2 e 21 (comma 6) della Costituzione; 15 della legge n.
47/1948 sulla stampa;
lette la sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale secondo la quale l’Ordine «....con i suoi poteri di ente pubblico vigila, nei confronti di tutti e nell’interesse della collettività, sulla
rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si
traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla
libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla» e la sentenza n. 7543
del 9 luglio 1991 (Mass. 1991) della Cassazione civile secondo la quale «la fissazione di norme interne, individuatrici di
comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché
non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione
disciplinare»;
espletate le sommarie informazioni di cui all’articolo 56 della
legge 3.2.1963 n. 69;
tenuto conto della sentenza 14 dicembre 1995 n. 505 della
Corte costituzionale;
visti altresì gli atti del procedimento;
considerato quanto segue:
1. Fatti e avviso disciplinare
In data 29 settembre 2000 il presidente di questo Consiglio
ha notificato al giornalista professionista Vittorio Feltri questo
avviso disciplinare:
«Nell’ambito dei poteri attribuitimi dagli articoli 4, 5 e 6 della
legge n. 241/1990, informo che, anche su segnalazione di
una iscritta all’Albo, la segreteria del Consiglio ha acquistato
una copia di “Libero” di oggi 29 settembre 2000.
Nella pagina 3 hai pubblicato sette fotografie, ricavate da un
“sito pornografico reso disponibile dai pedofili russi”, e una a
pagina 4 (raffigurante “una scena di violenza tratta dal video
di pedofilia sequestrati dalla magistratura”) che appaiono
contrarie al buon costume e tali, “illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti”, “da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare”. La pubblicazione
delle 8 fotografie integra la violazione degli articoli 2 e 48
della legge sull’ordinamento della professione giornalistica.
Il tuo comportamento potrebbe essere inquadrato a queste
due massime giurisprudenziali:
1) In assenza di tipizzazione dei comportamenti illeciti sul
piano disciplinare, la rilevanza deontologica dei comportamenti del giornalista va teleologicamente valutata in rapporto all’obbligo di comportarsi in modo conforme al decoro ed
alla dignità professionale e tale da non compromettere la
propria reputazione o la dignità dell’Ordine sancito dall’art.
48 1. n. 69 del 1963 nonché al dovere di lealtà e buona fede
ed all’obbligo di promuovere lo spirito di collaborazione tra
colleghi, la cooperazione tra giornalisti ed editori e la fiducia
tra la stampa ed i lettori sanciti dall’art. 2 della legge medesima. (App. Milano, 18 luglio 1996; Foro It., 1997, I, 919)
2) Oltre all’obbligo del rispetto della verità sostanziale dei
fatti con l’osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il
giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve
anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si
fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa. (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n.
Brovelli; Foro It., 1997, I, 938)»;
2. Sommarie informazioni, capo d’incolpazione
e comunicazioni alle parti
Vittorio Feltri non ha raccolto l’invito di fare pervenire al
Consiglio una sua nota difensiva entro 15 giorni dal ricevimento dell’avviso disciplinare. La pubblicazione di fotografie
impressionanti e raccapriccianti è espressamente proibita
dall’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa e contrasta con i principi fissati negli articoli 2 e 21 (VI comma) della
4
Costituzione e negli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963
sull’ordinamento della professione giornalistica. Pertanto il
Consiglio, nella seduta del 16 ottobre, ha deliberato l’apertura del procedimento disciplinare, con riferimento agli articoli
2 e 48 della legge n. 69/1963 in relazione agli articoli 21
(comma 6) della Costituzione e 15 della legge n. 47/1948, a
carico di Vittorio Feltri, direttore di “Libero” (ex articolo 6 del
vigente Cnlg e articolo 7 della legge n. 633/1941) con la
contestazione del seguente addebito: «Aver disposto, nella
sua qualità di direttore di “Libero”, la pubblicazione alla pagina 3 dell’edizione del 29 settembre 2000 del quotidiano di
sette fotografie impressionanti e raccapriccianti di bambini
ricavate da un “sito pornografico reso disponibile dai pedofili
russi”, e di una ottava fotografia a pagina 4 (raffigurante “una
scena di violenza tratta dal video di pedofilia sequestrati dalla
magistratura”), fotografie che appaiono tutte contrarie al
buon costume e tali, “illustrando particolari raccapriccianti e
impressionanti”, “da poter turbare il comune sentimento della
morale e l’ordine familiare”. La pubblicazione delle 8 fotografie integra la violazione degli articoli 2 e 48 della legge m.
69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica in
relazione all’articolo 21 (VI comma) della Costituzione e
all’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa. Il Consiglio, che ha fatto notificare il provvedimento ai controinteressati, ha sottolineato in quella occasione quanto affermato dai
supremi giudici: “Il provvedimento con il quale il Consiglio
dell’Ordine deliberi l’apertura del procedimento disciplinare
non implica, neppure implicitamente, alcuna pronuncia sulla
colpevolezza del professionista, ma costituisce mero atto
preliminare della decisione» (Cass. sez. un. 25 ottobre 1979
n. 5573).
3. Audizione dell’incolpato
Vittorio Feltri ha rinunciato a comparire, non ha nominato un
difensore di fiducia, non ha risposto, come già riferito,
all’«avviso» disciplinare del 29 settembre 2000. Appare
opportuno, per inquadrare la vicenda, riportare l’articolo di
fondo di “Libero” del 29 settembre 2000 con il quale Vittorio
Feltri spiega e giustifica le ragioni che lo hanno spinto a
pubblicare “quelle” immagini. Ecco il testo dell’articolo che ha
questo titolo Scandalo necessario per svegliare le nostre
coscienze:
“Non hanno capito niente o hanno finto di non aver capito.
Da Torre Annunziata arriva una notizia da infarto: migliaia di
pedofili scovati in vari siti Internet e sottoposti a indagine,
alcuni già finiti in galera e altri in procinto di andarci. Sequestrato materiale da brividi, documenti inequivocabili, fotografie, filmini: bimbi violentati, umiliati, usati come bambole
gonfiabili, poi torturati, tagliuzzati, uccisi. Scoperto un
commercio laido e miliardario, scambio di indirizzi, compravendita di carne infantile. Gli italiani sentono ma non credono
ai propri orecchi, vedono e non credono ai loro occhi. Succede tutto questo e sapete che cosa fanno loro, quelli della sinistra e quelli Polo? Se la pigliano con i direttori del Tg1 Gad
Lerner e del Tg3 Rizzo Nervo. Che hanno combinato i giornalisti, sono gli organizzatori della macelleria e dello spaccio? Nossignori. Hanno commesso un reato molto più grave:
si sono permessi di raccontare lo schifo della pedofilia con
servizi forti, forse troppo, in cui si getta in pasto ai cittadini la
realtà. Una realtà cruda, da togliere il sonno a chi la guarda,
un pugno nello stomaco, d’accordo, ma che colpa hanno i
cronisti se in giro per il Paese accadono cose ripugnanti?
Dovevano sfumare. Sfumare è la specialità del giornalismo
nostrano, che dinanzi alle notizie brutte si volta, ignora, lascia
perdere. Ecco, secondo gli ipocriti (costituiscono la base del
conformismo nazionale) anche ora bisognava lasciar perdere.
D’accordo, ci sono i pedofili, sono tanti, affollano Internet, si
scambiano i bambini come fossero figurine, se il piccolo
crepa sulla scena il prezzo naturalmente sale, ovvio, la merce
rara costa di più. Però gli italiani sono scemi ed è meglio che
scemi rimangano: non diciamogli nulla. Anzi, diciamogli pure
qualcosina, senza esagerare altrimenti si turbano; diciamogli
che le migliaia di indagati sono sì pedofili, ma appena appena, roba piccola. Date retta: cambiate canale che c’è su la
partita. Questo sarebbe piaciuto ai vertici della Rai. Che il
Tg3 e il Tg1 fossero stati così gentili da evitare certe informazioni. E siccome gentili non sono stati, giù legnate. Minaccia-
ti di sanzioni gli autori materiali dei servizi, e i responsabili
sono stati dimessi. Dato che una tantum hanno fatto il loro
dovere, vanno cacciati, additati al volgo quali disturbatori
della quiete e delle coscienze.
È una storia incredibile. Lerner, dopo la trasmissione delle
agghiaccianti immagini circolanti su Internet senza freni né
ostacoli, è andato personalmente in video e ha chiesto
scusa. Scusa di che? Il direttore di un Tg sarebbe obbligato
a scusarsi se nascondesse le notizie per opportunità (anzi,
opportunismo). Ma quando, vincendo il ribrezzo e la voglia di
cestinare registrazioni e documenti, fornisce al pubblico le
prove dei fatti, inclusi i più indigesti, è da applaudire. Come si
fa a non mostrare il vizio osceno di cinquemila pedofili che
hanno agito indisturbati fino a ieri, comunicando tra loro,
consigliandosi sulla merce più preziosa da acquistare? Cari
lettori, qui non siamo di fronte a ordinarie perversioni, a forme
un po’ stravaganti di sessualità, a porcelloni qualunque, ma a
gente che adopera e favorisce l’utilizzo dei bambini, bambini
trattati come vuoti a perdere, seviziati, ammazzati. Per godere. O si sbatte la faccia contro questa realtà o non la si
comprende fino in fondo e si tende a minimizzare. Quante
persone ho udito dire: massì, cose sempre esistite, una
carezza non ha mai ucciso una ragazzina e poi, va’ là, che
certe ragazzine sono più puttane delle adulte. Sicuro, è un’opinione corrente. Ed è questa mentalità il brodo di cultura
della pedofilia. Un brodo in cui si sviluppano l’indifferenza e
l’omertà, addirittura la complicità della moglie del pedofilo
che violenta la figlia: conviene tacere, nascondere per non
rovinare la famiglia.
Guai adattarsi all’ipocrisia bigotta e codina di quelli che preferiscono fare spallucce e seguitare a vivere nell’ignoranza
d’un fenomeno più diffuso di quanto si immagini. Così il fenomeno non si stronca. Bisogna creare, viceversa, allarme e
riprovazione sociale. E l’unico mezzo idoneo è lo scandalo:
toh, guardate che fanno ai bambini, forse anche ai tuoi. Le
coscienze per ribellarsi devono essere offese. E le scene
bestiali mandate in onda dai Tg forse hanno raggiunto lo
scopo, speriamo. Altro che licenziare i giornalisti, i direttori,
accusarli di aver scherzato coi bambini, come ha detto Mario
Landolfi, presidente della vigilanza Rai. Non Lerner, non
Rizzo Nervo hanno scherzato coi bambini, ma i pedofili. È
contro i pedofili che occorre scagliarsi, non contro chi ne ha
denunciato e documentato i misfatti. Se la realtà fa orrore,
non è colpa dello specchio che la riflette. Lo specchio in
questo caso è l’informazione.
Tg3 e Tgl hanno ecceduto? È vero. Sarebbe stato più saggio
attenuare la violenza di alcune scene. Discutiamone pure.
Ma non confondiamo l’involucro con il contenuto. E non
dimentichiamo che prima viene la tutela delle vittime e la
necessità di bloccare il tritacarne, poi provvederemo al resto,
alle pecette sul volto e sui genitali dei ragazzini torturati affinché sorridano per la gioia dei pedofili.
Ultima nota. Nell’ambito di un programma di informazione,
quale il Tg1, non solo è lecito ma conveniente ricorrere a
documenti per incrementare la credibilità delle notizie, e solo
un deficiente può sospettare che tali documenti vengano
diffusi con compiacimento. Ai dirigenti Rai e ai politici che
s’azzuffano disputandosi un paio di poltrone da assegnare
agli amici ai fini propagandistici, diciamo una sola parola:
vergognatevi. Chi sfrutta i bambini per giochi di potere è
peggiore del pedofilo”.
4. Valutazioni conclusive
Le accuse sono fondate e va, quindi, affermata la responsabilità disciplinare di Vittorio Feltri. Il direttore di “Libero”, con
le sue scelte collegate alla pubblicazione di immagini da lui
stesso definite “agghiaccianti” e “bestiali” (che vengono unite
in copia a questo provvedimento) nel fondo del 29 settembre
sopra riportato, si è messo fuori dalla Costituzione e, quindi,
dall’Ordine professionale, che, in linea con il dettato della
carta fondamentale della Repubblica, vuole la professione
esercitata in conformità ai doveri della correttezza e del
rispetto della persona umana nonché del rispetto della reputazione del singolo iscritto all’Albo e della dignità dell’Ordine
stesso al quale Feltri appartiene dal 16 dicembre 1971.
In via preliminare va osservato che Vittorio Feltri è direttore
di “Libero”, mentre direttore responsabile è il pubblicista Franco Garnero, iscritto all’Albo tenuto dall’Ordine di Torino.
Feltri svolge non solo le funzioni di direttore (ex articolo 6 del
ORDINE
10
2000
ntari e agli altri Ordini professionali
Milano, 22 novembre. Franco Abruzzo ha
trasmesso alle autorità dello Stato, ai
parlamentari e agli altri Ordini professionali la “sentenza Feltri”. Questo il testo
della lettera di accompagnamento:
«Trasmetto la decisione (di 11 pagine) di
questo Consiglio relativa a Vittorio Feltri, direttore di “Libero”, radiato dall’Albo. Il Consiglio
dell’Ordine della Lombardia ha assolto in
passato Feltri per ben 8 volte: era stato accusato a causa di commenti molto severi. Abbiamo difeso la sua libertà di critica, aiutati in
questo (e molto) dalla nostra Costituzione e
da alcune sentenze della Corte europea dei
diritti dell’uomo. Da questa circostanza affiora
evidente l’ingiustizia di alcune affermazioni
rilasciate dal direttore di “Libero”. Confesso
che è duro far comprendere (soprattutto ai
giornalisti e ai... direttori) che esiste un problema (grave) di legalità deontologica. Molte
dichiarazioni, lette ieri sulle agenzie, mi sono
apparse stupefacenti per l’ignoranza totale di
varie norme contenute nella nostra Costituzione e in diverse leggi. Non esiste nell’ordinamento la libertà di pubblicare tutto e neppure
la libertà di pubblicare foto choc di bambini
usati dai pedofili oppure nomi dei cittadini
violentati. Ho colto nelle dichiarazioni la preoccupazione dei direttori di adeguarsi a comportamenti “virtuosi”. Tanti ignorano che l’Ordine,
ente pubblico, è “giudice” di natura amministrativa (articolo 2229 Cc; articoli 1 e 20, punto
d, della legge n. 69/1963; sentenza n.
505/1995 della Corte costituzionale).
Giorgio Bocca scrive che “per essere un Ordine rispettabile bisognerebbe per cominciare
che avesse un codice morale da difendere ma
questo codice l’Ordine dei giornalisti non se
lo è mai dato”. Giorgio Bocca ignora che le
regole deontologiche della professione sono
scritte negli articoli 2 e 48 della legge professionale (n. 69/1963) e nel “Codice di deontologia sulla privacy”, emanazione della legge
n. 675/1996 (e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 agosto 1998). Quel Codice è
norma. Giudici delle violazioni di quel Codice
sono solo i Consigli dell’Ordine dei Giornalisti.
Ho provato amarezza nello scorrere oggi il
fondo di Bocca su “Repubblica” e tanta pena
per lui. Bocca scrive molto, ma legge poco.
Nella stessa seduta in cui abbiamo giudicato
Feltri - che non è il direttore responsabile di
“Libero” - abbiamo adottato altre due decisioni
di una certa gravità: una radiazione e una
sospensione per 6 mesi. Vengo accusato da
Feltri - giornalista distratto perché non ha
controllato quanto ha scritto - che, con
questa “sentenza”, ho cercato di uscire dal
“grigiore della mia vita professionale”. Sappia
Feltri che io sono orgoglioso di aver svolto in
passato le funzioni di redattore capo centrale de “Il Sole 24 Ore” (massimo grado “tecnico” raggiungibile da un giornalista) e di occuparmi oggi sullo stesso prestigioso quotidiano di problemi della Giustizia.
Non posso esprimermi sulla mia attività di
“giudice” dell’Ordine. Ma ho la fierezza di dire
che svolgo le mie funzioni pubbliche con
passione, con impegno civile e con trasporto
verso i problemi, che via via emergono. Qualche volta ho pagato prezzi salati per aver
fatto solo il mio dovere».
dall’Albo per le immagini
pedofili) pubblicate su “Libero”
vigente Cnlg e articolo 7 della legge n. 633/1941), ma di fatto
anche quelle di direttore responsabile (articolo 5 della legge
n. 47/1948 sulla stampa-articolo 46 della legge n. 69/1963
sulla professione giornalistica - articolo 57 Cp).
Secondo l’articolo 7 della legge n. 633/1941 “il giornale è
opera collettiva dell’ingegno di cui il direttore è autore”. Il
ruolo del direttore è fissato, però, dal Contratto nazionale.
Dice l’articolo 6 del Contratto nazionale di lavoro giornalistico
(Cnlg): “È il direttore che propone le assunzioni e, per motivi
tecnico-professionali, i licenziamenti dei giornalisti. Tenute
presenti le norme dell’articolo 34 (Comitato di redazione), è
competenza specifica ed esclusiva del direttore fissare ed
impartire le direttive politiche e tecnico-professionali del lavoro redazionale, stabilire le mansioni di ogni giornalista, adottare le decisioni necessarie per garantire l’autonomia della
testata, nei contenuti del giornale e di quanto può essere
diffuso con il medesimo, dare le disposizioni necessarie al
regolare andamento del servizio e stabilire gli orari (di lavoro)”. L’articolo 7 della legge e l’articolo 34 del Cnlg parlano
del “direttore”, ma non di direttore responsabile. Le due figure sono disgiunte, anche se coincidenti nella stragrande
maggioranza dei casi. Il direttore responsabile opera nell’ambito dell’articolo 57 del Cp e della legge professionale n.
69/1963 (firmando, ad esempio, le dichiarazioni di cui agli
articoli 31, 34 e 35).
Il direttore in conclusione attua la linea politica concordata
con l’editore, garantisce l’autonomia della testata (e dei
redattori) e anche la qualità dell’informazione. Secondo l’articolo 2 della legge n. 69/1963 (sull’ordinamento della professione giornalistica) la stessa libertà di informazione e di critica, diritto insopprimibile, «è limitata dall’osservanza delle
norme dettate a tutela della personalità altrui».
In base all’articolo 57 del Cp, il direttore risponde di “omesso
controllo” quando non impedisce che “con il mezzo della
pubblicazione siano commessi reati”. “La responsabilità del
direttore di giornale ex art. 57 Cp presuppone la concreta
possibilità di impedire che col mezzo della stampa siano
commessi reati, e cioè che siano da lui esigibili particolari
comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza e di vigilanza tali che, attuati, il fatto sarebbe evitato o
realizzato in guisa da essere penalmente indifferente” (Trib.
Roma, 10 marzo 1989; Parti in causa: Scottoni; Riviste: Foro
It., 1990, II, 137).
Vittorio Feltri, con la pubblicazioni delle 8 immagini di cui nel
capo d’incolpazione, ha sicuramente violato l’articolo 21 della
Costituzione, che, al comma 6, vieta “le pubblicazioni a stampa contrarie al buon costume”. È l’unico limite che l’articolo
21 pone alla libertà di manifestazione del pensiero. L’articolo
15 della legge n. 47/1948 sulla stampa recita: “Le disposizioni dell’art. 528 del Cp si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o
anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare o da poter
provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. “Per la sussistenza del reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante previsto e punito dall’art. 15 della
legge 8 febbraio 1948 n. 47 deve ritenersi sufficiente, sul
piano oggettivo, l’idoneità delle immagini pubblicate ad
offendere il comune sentimento della morale, nel cui
concetto non può non essere ricompreso il sentimento
della pietà verso i defunti, e sul piano soggettivo, il dolo
generico, consistente nella cosciente volontà di pubblicare immagini impressionanti e raccapriccianti recanti
in astratto detta idoneità, mentre è irrilevante lo scopo
perseguito dall’autore di mantenere viva l’esecrazione e
la condanna per il fatto cui le immagini si riferiscono”
(Trib. Roma, 3 febbraio 1995; Parti in causa Minerbi e altro;
Riviste Dir. Informazione e Informatica, 1996, 43; Rif. legislativi L 8 febbraio 1948 n. 47, art. 15). La sentenza citata smonta la tesi, annunciata dal titolo (Scandalo necessario per
svegliare le nostre coscienze) sostenuta da Feltri nel fondo
del 29 settembre: “Guai adattarsi all’ipocrisia bigotta e codina di quelli che preferiscono fare spallucce e seguitare a
vivere nell’ignoranza d’un fenomeno più diffuso di quanto si
immagini. Così il fenomeno non si stronca. Bisogna creare,
viceversa, allarme e riprovazione sociale. E l’unico mezzo
idoneo è lo scandalo: toh, guardate che fanno ai bambini,
forse anche ai tuoi. Le coscienze per ribellarsi devono essere offese. E le scene bestiali mandate in onda dai Tg forse
hanno raggiunto lo scopo, speriamo. Altro che licenziare i
ORDINE
10
2000
giornalisti, i direttori, accusarli di aver scherzato coi bambini,
come ha detto Mario Landolfi, presidente della vigilanza Rai.
Non Lerner, non Rizzo Nervo hanno scherzato coi bambini,
ma i pedofili. È contro i pedofili che occorre scagliarsi, non
contro chi ne ha denunciato e documentato i misfatti. Se la
realtà fa orrore, non è colpa dello specchio che la riflette. Lo
specchio in questo caso è l’informazione. Tg3 e Tg1 hanno
ecceduto? È vero. Sarebbe stato più saggio attenuare la
violenza di alcune scene. Discutiamone pure. Ma non
confondiamo l’involucro con il contenuto. E non dimentichiamo che prima viene la tutela delle vittime e la necessità di
bloccare il tritacarne, poi provvederemo al resto, alle pecette
sul volto e sui genitali dei ragazzini torturati affinché sorridano per la gioia dei pedofili”.
È il caso di sottolineare una sentenza dei supremi giudici
amministrativi sul comma 6 (o ultimo) dell’articolo 21 della
Costituzione: “Il principio contenuto nell’art. 21, comma ultimo cost. - secondo cui sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al
buon costume - è applicabile anche alle espressioni artistiche cinematografiche, senza contraddire il principio di libertà
dell’arte (art. 33 Cost.), tenuto conto della complementarità
degli art. 21 e 33 Cost. Deve escludersi pertanto, che il riconosciuto valore artistico di un’opera cinematografica importi
di per sé la sua libera ed incondizionata visione al pubblico”
(Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 1996, n. 139; Riviste Vita
Notar., 1996, 184; Giur. Costit., 1996, 1249, n. Marchetti). Sul
rovescio si può affermare: “Deve escludersi che il riconosciuto valore costituzionale del diritto di cronaca importi di per sé
la libera ed incondizionata pubblicazione di immagini contrarie al buon costume”.
L’articolo 15 della legge sulla stampa è stato valutato con la
sentenza 293/2000 dalla Corte costituzionale. Secondo
questa norma le sanzioni previste dall’art. 528 del Codice
penale per le pubblicazioni oscene “si applicano anche nel
caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari
impressionati o raccapriccianti avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare
il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da
poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. La difesa di
un giornalista ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 15 della legge sulla stampa, sottolineando che, in base all’articolo 25 (II comma) della Costituzione,
“nessuno può essere punito se non forza di una legge che
sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. La norma
costituzionale - ha sostenuto la difesa – deve essere interpretata nel senso che la legge penale deve stabilire criteri
oggettivi per la determinazione dei fatti punibili, mentre il
parametro del “comune sentimento della morale” previsto
Infanzia,
il diritto alla tutela
prevale su quello
di cronaca
ROMA. Il diritto dei minori può diventare prevalente
persino sul diritto di cronaca. Questa, in sostanza, la filosofia dell’articolo 11 del ddl 1138, in via di approvazione
alla Commissione Lavori pubblici e Comunicazione del
Senato. L’articolo 11 (38 gli emendamenti presentati, 31
quelli già esaminati) riconosce, nel sistema delle comunicazioni, “il diritto prevalente alla tutela dello sviluppo
fisico, psichico e morale dei minori” e vieta la diffusione
di “produzioni e di programmi che lo possano ledere”.
Si vietano nel provvedimento la diffusione e la produzione di programmi che possano ledere i minori perché
troppo violenti o pornografici, o contenenti incitamenti
all’odio o all’intolleranza basati su differenze di razza,
sesso, religione o nazionalità. In più si introducono
sanzioni.
dall’articolo 15, per la sua genericità, finisce per rimettere a
valutazioni soggettive l’individuazione del fatto punibile. La
Cassazione ha ritenuto la questione non manifestamente
infondata e, con ordinanza del 17 febbraio 1999, ha promosso il giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 15 per
contrasto non solo con l’articolo 25, ma anche con gli articoli 21 (libertà manifestazione del pensiero) e 3 (principio di
uguaglianza) della Costituzione.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 293 del 17 luglio
2000, ha dichiarato non fondata la questione sollevata dalla
Cassazione, in quanto ha ritenuto che le pubblicazioni vietate dall’articolo 15 della legge sulla stampa siano quelle lesive
della dignità umana e perciò avvertibili dall’intera collettività.
La persona umana – ha precisato la Corte Costituzionale –
è tutelata dall’articolo 2 della Costituzione, in base al quale
deve essere interpretato l’articolo 15 della legge sulla stampa; la descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato,
indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che
appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e
indeterminatezza.
Quello della dignità della persona umana – ha affermato la
Corte - è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il
diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di
quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale.
La violazione del principio fissato nell’articolo 15 della legge
sulla stampa costituisce anche violazione deontologica in
quanto l’articolo 2 della legge professionale pone come limite al diritto insopprimibile della libertà di informazione e di
critica il rispetto della persona umana, cioè il valore-cardine
rappresentato dall’articolo 2 della Costituzione.
Conseguentemente Vittorio Feltri, avendo operato al di fuori
del dettato costituzionale e delle norme deontologiche della
professione giornalistica fissate per legge, merita la massima sanzione, quella della radiazione, avendo, “con la sua
condotta gravemente compromesso la dignità professionale
fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua
permanenza nell’Albo”;
PQM
il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ritenuta la sussistenza dei fatti addebitati,
delibera
1) di sanzionare con la radiazione (articolo 54 legge n.
69/1963) il giornalista professionista Vittorio Feltri. Dice l’articolo 54: “La radiazione può essere disposta nel caso in cui
l’iscritto con la sua condotta abbia gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con
la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo, negli elenchi
o nel registro”.
2) di trasmettere la presente deliberazione all’Ordine di Torino, perché esamini la posizione del pubblicista Franco
Garnero, direttore responsabile del quotidiano “Libero”.
Avverso la presente deliberazione (notificata ai controinteressati ex legge n. 241/1990) può essere presentato (dall’interessato e dal Procuratore generale della Repubblica) ricorso al Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (Lungotevere dei Cenci 8, 00186 Roma) ai sensi dell’articolo 60
della legge n. 69/1963 nel termine di 30 giorni dalla notifica
del provvedimento stesso e secondo le modalità fissate dagli
artt. 59, 60, e 61 del Dpr 4 febbraio 1965 n. 115.
La presente deliberazione, “di immediata efficacia in quanto
atto di natura amministrativa” (Cass., sez. un. civ., sentenza
n. 9288/1994), si intende sospesa in caso di impugnazione
con istanza cautelare volta alla “paralisi” della sua esecutività
allorché possano derivare al ricorrente danni gravi e irreparabili dall’esecuzione dell’atto medesimo (così il parere 10
novembre 1999 del prof. avv. Franco Gaetano Scoca al
Cnog, trasmesso all’OgL in data 13 dicembre 1999, prot,
5998/1999).
Il presidente dell’OgL-estensore
(dott. Franco Abruzzo)
5
Vittorio Feltri, in nome della vecchia amicizia, mi perdonerà la
malignità. Quando ho saputo che era stato radiato dall’Ordine
dei giornalisti, ho provato a immaginarmi quale potesse essere stata la sua reazione. La sola che mi è venuta in mente è
stata questa: «Peccato che non ci sia la liquidazione». Se non
lo è stata, sono certo che si rammaricherà di non averci
pensato e che, alla prima occasione, con il solito paradossale
realismo, mi ringrazierà di avergliela attribuita. Feltri è un
talento naturale. Giornalistico e, diciamo così, affaristico.
Riesce a curare giornali malati (“L’Europeo”, “L’Indipendente”,
“Il Giornale”, “Il Borghese”), passando dall’uno all’altro con il
tempismo e le parcelle di un grande clinico, a dirigerne
contemporaneamente tre (“Il Giorno”, “Il Resto del Carlino”,
“La Nazione”), abbandonandoli, altrettanto tempestivamente
e proficuamente, alle ambizioni direttoriali del loro editore, a
fondarne, infine, un ottavo (“Libero”), scommettendoci la reputazione in vista di altri potenziali guadagni.
Caro Vittorio, non te la prendere col tuo vecchio direttore che
ti aveva (ri)assunto al Corriere una quindicina di anni fa. Ma,
al tuo confronto, certi direttori-imprenditori di giornali, attaccati alla professione e allo scoop ai limiti del cinismo e a costo di
far perennemente scandalo raccontati dalla cinematografia
americana, sembrano dei frati fancescani...
Sotto il profilo giornalistico, il talento di Feltri consiste nel
fregarsene anche di quello che lui stesso pensa. Probabilmente, della Lega egli ha, più o meno, la stessa opinione che
ho io: che è rozza, populista, tendenzialmente xenofoba. La
“Corriere della Sera”, 25 novembre
Feltri, un anarchico
che ama fare scandalo
di Piero Ostellino
differenza fra me e lui è che io sarei del tutto incapace, prigioniero dei miei pregiudizi culturali e ideali, di fare un giornale che
appoggiasse il movimento di Bossi; lui ne ha fatti più di uno.
Riuscendo, con ciò, in un’impresa apparentemente disperata:
imporre alle forze politiche e far circolare fra la gente comune la
rumorosa presenza del solo partito che davvero voleva cambiare qualcosa. Se l’Italia e gli italiani avranno uno straccio di federalismo, che piaccia o no, lo devono a quel rozzo demagogo di
Bossi e a chi ha avuto lo stomaco di sostenerne le stralunate
ragioni (Feltri). La radiazione dall’Ordine dei giornalisti, per aver
pubblicato otto fotografie di bambini ricavate da un sito di pedofili russi e da un video porno, è l’ultimo scoop di questo giornalista che ha trasformato la professione in un continuo scandalo.
Nell’ottica anarcoide di Feltri, la vera notizia è, infatti, questa;
non la pubblicazione, a suo tempo, delle foto incriminate. Le
motivazioni del provvedimento, che lo accusano di aver violato la Costituzione e la legge sulla stampa, sono, in realtà,
legalmente fondate. In queste cose, il presidente dell’Ordine
dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo, è un maestro.
Il guaio è che, in mancanza di un codice, che peraltro non
sarebbe neppure facile individuare, redigere e poi applicare
senza sollevare un mare di obiezioni, le motivazioni di carattere strettamente deontologico lo sono assai meno. Dove
incominciano e dove finiscono, rispettivamente, la violazione
del rispetto della persona umana e del comune senso del
pudore e la libertà di stampa? E perché la sanzione per Vittorio Feltri e non per Gad Lerner, il direttore dimissionario del
Tg1 che trasmise immaigni analoghe, come ha insinuato
maliziosamente Giorgio Forattini nella sua quotidiana vignetta sulla “Stampa”? L’imbarazzo col quale, pur solidarizzando
con Feltri, ma prendendone al tempo stesso le distanze
sull’opportunità della pubblicazione delle foto, la maggioranza
della corporazione ha commentato il caso e disapprovato il
provvedimento dell’Ordine dei giornalisti è la testimonianza
più diretta delle difficoltà di trovare regole del gioco facilmente
condivisibili. Stampare e diffondere un giornale pornografico,
ha sentenziato la Corte suprema degli Stati Uniti, facendo
riferimento al primo emendamento della Costituzione nella
causa “Larry Flint”, rientra nella libertà di manifestazione del
pensiero. Dal caso fu tratto persino un film, proiettato anche
da noi. A quando un film su Vittorio Feltri, cui, manco a dirlo,
andrebbero i diritti di immagine?
Vittorio Feltri
radiato dall’Albo
per le immagini
dei bambini
(usati dai pedofili)
pubblicate
su “Libero”
Foto Corriere della Sera
“Il Sole 24 Ore”, 22 novembre - commenti e inchieste
Vittorio Feltri radiato dall’Ordine dei giornalisti. La notizia
suscita scalpore anche in chi non ama particolarmente i
giornalisti e ancor meno l’Ordine dei giornalisti e sarebbe
incline a liquidarla come una tipica baruffa in famiglia. Essa
tuttavia impone alcune riflessioni meno epidermiche che
tengano conto dei diversi punti di vista.
In primo luogo quello dell’Ordine che ha emesso il provvedimento.
Non mancano certo disposizioni di Costituzione, (l’articolo
2 sui diritti fondamentali della persona), di legge (l’articolo
15 della legge sulla stampa che fa divieto di pubblicare
immagini raccapriccianti) e deontologiche (l’articolo 2 della
legge professionale e le varie “carte” dei doveri dei giornalisti) che giustificano la decisione di considerare disciplinarmente illecita la pubblicazione di fotografie raffiguranti
bambini sottoposti a violenze sessuali. L’articolo 15 della
legge sulla stampa è poi uscito rafforzato da una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (il caso era quello della pubblicazione delle foto della “scientifica” su un noto
omicidio di una nobildonna in una villa romana) e posto a
presidio della dignità essenziale cui ogni persona, anche
se defunta, ha diritto.
Né può dirsi che la decisione dell’Ordine lombardo sia frutto di una improvvisa alzata d’ingegno: non solo la sua giurisprudenza si connota da circa un ventennio per un maggio-
I torti di Feltri
e i dubbi
sull’Ordine
di Vincenzo Zeno-Zencovich
re (e sicuramente non disprezzabile) rigore, ma essa trova
conforto anche in decisioni di altri ordini regionali e del Consiglio nazionale, in particolare con riguardo alla pubblicazione
dell’identità di minori vittime di violenze sessuali.
Sorge dunque un primo dubbio: se una pubblicazione così
disdicevole fosse stata opera di uno sconosciuto cronista alla
ricerca di notorietà (e non di un famoso direttore), ci si interrogherebbe sulla sua eventuale radiazione? Probabilmente
no.
Ma anche dal punto di vista del “radiato” la decisione lascia
perplessi. La legge professionale prevede quattro tipi di
sanzioni: l’avvertimento (per mancanze di lieve entità), la
censura (per mancanze di grave entità), la sospensione
(quando la condotta abbia compromesso la dignità professionale), la radiazione (quando la permanenza dell’iscritto
è incompatibile con la dignità dell’Ordine stesso). Si consideri che tale sanzione non ha trovato grande applicazione:
direttori di riviste pornografiche, iscritti alla P2, autori di reati
comuni. Era proprio solo questo un caso da radiazione?
Qui sorge un secondo dubbio: che la gravità della sanzione
sia stata commisurata alla (voluta) provocatorietà della
decisione di pubblicare le foto dei bambini dei minori violentati. Dubbio per risolvere il quale occorrerebbe addentrarsi
nel processo mentale del giornalista e dei suoi (colleghi)
giudici. Il punto di vista che però interessa tutti è però ancora un altro: in Italia, per dirigere un giornale occorre essere
iscritti all’Ordine dei giornalisti. La radiazione dall’Albo
comporta, ovviamente, la impossibilità di esercitare la
professione. Ha senso un sistema del genere nell’anno
2000 ed in un mondo nel quale l’informazione costituisce
un bene al tempo stesso essenziale e realizzabile da tutti?
“la Repubblica”, 22 novembre - prima pagina
L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha espulso Vittorio
Feltri, fondatore e direttore di “Libero”, per aver pubblicato
delle fotografie di bambini vittime della pedofilia. Accusa e
difesa sono note.
Dice l’accusa: Feltri ha violato il codice professionale pur di
far crescere le vendite del suo giornale che stenta a decollare e in cui ha impegnato la sua fama e il suo denaro.
La difesa: il codice professionale è inesistente, il giornalismo d’assalto non può ignorare le notizie anche se scandalose, nell’ informazione contemporanea della carta stampata come di quella informatica, “on line” come la si chiama, le violazioni della morale corrente (ma anche su di
esse in questo travolgente libertinismo commerciale non
c’è più un criterio comune) sono la normalità, gran parte
delle televisioni commerciali, passata l’ora fatale della
mezzanotte trasmettono servizi da bordello, negli Stati Uniti
ci sono produttori di spettacoli porno che hanno fatto e
continuano a fare miliardi servendoli su Internet al prezzo
di uno o due milioni. Il voyeurismo dilaga, la grande invenzione tecnica della rete, del Web è frequentatissima da riciclatori di denaro sporco, da mafiosi, da truffatori internazionali.
A noi l’avventurismo di Feltri non è mai piaciuto e non solo
per ragioni moralistiche; per noi Feltri rientra in quella strana genia di persone che pur provviste di un talento che gli
permetterebbe ottime carriere sentono il bisogno dell’az-
6
Falsi censori
veri scandali
di Giorgio Bocca
zardo e delle scorciatoie. Ma sono fatti così e pensare di
cambiarli è una pura illusione, è come consigliare a un
fanatico della roulette di mettersi a giocare a tombola con i
fagioli.
Ma di fronte a questo avventurismo che gioca sui giornali
come sui cavalli c’è la decisione di un Ordine cui si addice
il titolo di Calvino, il cavaliere inesistente. Per essere un
Ordine rispettabile bisognerebbe per cominciare che avesse un codice morale da difendere ma questo codice l’Ordi-
ne dei giornalisti non se lo è mai dato perché Ordine e la
professione che rappresenta mancano della autonomia
necessaria per dare lezioni di comportamento. Questo
Ordine è una sorta di fantasma burocratico che si sveglia
solo se c’è da fare una difesa corporativa, ma che ha
lasciato passare senza risposta tutte le violazioni e i condizionamenti che la economia pubblicitaria, il potere politico,
le arroganze e lo strapotere della rivoluzione tecnica gli
hanno imposto. Pubblicare delle fotografie indecenti e
penose di bambini è certo una violenza inaccettabile ma
che sta nella folla di notizie e di propagande che appoggiano le speculazioni più irresponsabili.
In questi ultimi anni la politica elettoralistica ha colpito a
manca e a destra senza alcun ritegno: ha diffamato tutti i
fondamenti del nostro Stato, la democrazia, la Resistenza
al nazifascismo, la magistratura, la morale del padre di
famiglia, il rispetto delle persone dando via libera a diffamazioni senza ritegno. La diffamazione, fra le altre, che
continua nei confronti dei nostri maggiori uomini di cultura
e di democrazia come Norberto Bobbio, diffamazioni che
rientrano nella anarchia generale voluta, premeditata per
creare questo crepuscolo sociale in cui tutti i gatti sono bigi.
Di Vittorio Feltri si potrebbe dire: chi è causa del suo mal
pianga se stesso. Gli è arrivato addosso il boomerang di
un giornalismo violento e spazzatura a cui ha dato il contributo del suo talento professionale. Che è un’aggravante.
ORDINE
10
2000
Con il titolo “Feltri radiato, vittoria dei pedofili” e quattro pagine di servizi e interviste, “Libero” tratta oggi l’espulsione del
suo direttore, Vittorio Feltri, dall’Ordine lombardo dei giornalisti per aver pubblicato otto foto di bambini apparse su Internet nei siti dei pedofili, in quanto contrarie alle norme costituzionali sulla libertà di pensiero e alla deontologia professionale. La notizia viene ripresa e commentata in prima pagina
da diversi altri giornali, ispirando la satira dei vignettisti a
cominciare da Giorgio Forattini sulla “Stampa”. In un coro
generale di reazioni negative alla clamorosa decisione
dell’Ordine, anche i colleghi meno teneri con Feltri sottolineano il rischio di farne “un martire di una malintesa libertà
di stampa”, come avverte per esempio Mario Ajello sul
“Messaggero”.
“Da quando esiste l’Ordine, e sono quarant’anni - commenta
il direttore di “Libero” - mai un direttore era stato espulso. Io
vengo radiato per aver denunciato, forse in malo modo, i
pedofili e i loro protettori.
Per fortuna il mio Tribunale speciale non emette sentenze
definitive. L’ultima parola spetta all’Ordine nazionale da cui
non mi aspetto benevolenza, ma serenità”. Nel
frattempo, il giornale continuerà
a uscire regolarmente. Si
è offerto di firmarlo, per un
mese, l’ex direttore del
Tg1, Gad Lerner.
Definite “bestiali e agghiac-
Rassegna stampa (www.valeoggi.it, 22 novembre)
Feltri un po’
meno libero
cianti” dallo stesso Feltri, quando furono pubblicate il 29
settembre scorso su “Libero”, quelle foto tendevano nelle sue
intenzioni a suscitare tra i lettori sdegno e condanna per la
pedofilia. Qualche giorno prima, il 25 settembre, immagini
analoghe erano state trasmesse dal Tg3 delle 19 e dal Tg1
delle 20, suscitando un vespaio di polemiche che portarono
poi alle dimissioni proprio di Gad Lerner da direttore del Telegiornale, dopo le sue scuse in diretta. Ed è Lerner, in un’ampia intervista pubblicata da “Libero”, a difendere ora Feltri
sostenendo che “quelle immagini non hanno mai fatto male
a nessuno”.
“Pedofili: Feltri radiato, Lerner beato”, titola a tutta pagina il
“Giornale”. E il direttore Mario Cervi polemizza indirettamente con l’ex direttore del Telegiornale, rilevando la disparità di
trattamento nei rispettivi casi. “Le due situazioni - scrive - non
sono paragonabili: la Rai è un servizio pubblico, incassa il
canone, ha doveri di comportamento cui altri mezzi d’informazione non devono sottostare. L’impatto del Tg1 è terrificante, quello di “Libero” - sia scritto senza voler offendere - è
molto limitato”.
Sulla “Stampa”, nel suo quotidiano “Buongiorno”, Massimo
Gramellini afferma che “la scelta di Feltri può essere argomento di un convegno, non di una sentenza”. E conclude:
“Fino a nuovo Ordine, nei Paesi liberi l’unico tribunale che
decide è quello dei lettori, visto che i giornali non piombano
nelle case senza filtri come un tg, ma dopo un atto cosciente di acquisto”.
Urbano Cairo
non sarà azionista
di “Libero
ROMA, 5 dicembre. Urbano Cairo ha rinunciato all'
opzione di ingresso nella Vittorio Feltri Editore e C. spa,
editrice del quotidiano Libero. Nel darne notizia, la
società aggiunge che l'assemblea straordinaria dei
soci, convocata per il 21 dicembre, deciderà ''un
aumento di capitale fino a 12 miliardi'' per ''favorire
l'ingresso di nuovi soci che hanno manifestato interesse ad entrare nella compagine azionaria della
Vittorio Feltri Editore''. La nota del Gruppo Cairo
Communication dice in particolare: ''Le condizioni preliminari
e sostanziali concordate da Umberto Cairo nell' accordo iniziale e a carico dei soci della Vittorio Feltri Editore da adempiere
prima dell'ingresso nella società previsto per il 30 novembre,
non hanno trovato integrale e tempestiva attuazione''. (ANSA)
lympia
Foto O
“Corriere della Sera”, 22 novembre
“la Repubblica”, 22 novembre
“la Repubblica”, 22 novembre
Barenghi
“Ha speculato.
Giusto
punirlo”
“Così vogliono
eliminare
un personaggio
scomodo”
“Nessuna
persecuzione
le regole
si rispettano
di Fabrizio Roncone
ROMA. Gustavo Selva, capogruppo dei deputati di An,
giornalista. Nessun dubbio nel commentare il caso Feltri:
“L’Ordine dei giornalisti è politicizzato, orientato a sinistra.
Io cancellerei subito l’Ordine, non Feltri”.
Onorevole Selva, è un estimatore della campagna sulla
pedofilia di “Libero”?
“Al contrario, non lo sono mai stato, un estimatore, né dei
servizi di “Libero” né di quelli del Tg1. Proprio per questo
posso dire senza essere mal interpretato di non essere
d’accordo con il provvedimento dell’Ordine. Feltri è stato
vittima di un’azione punitiva, è un personaggio scomodo,
da eliminare. Conosco il metodo...”.
Nel senso?
“Per la vicenda P2 fui esonerato dalla direzione del Gr2.
E anche quando si fu risolto tutto, e fui scagionato, la Fnsi
plaudì al mio allontanamento”.
Qui si trattava di decidere se era giusto o no, rispettoso
delle norme o no, mettere delle foto di bimbi in prima
pagina...
“Senta, Feltri usa lo spadone, non il fioretto, è fatto così,
coglie gli umori più intimi della gente. Io non condivido
questo approccio ma nemmeno la sentenza dell’ Ordine.
E se proprio dovevano condannarlo, allora mi chiedo
perché hanno graziato Gad Lerner, che ha fatto la stessa
cosa sul Tg1, un mezzo decisamente più potente”.
Lerner ha ammesso di aver sbagliato, Feltri ha sempre
difeso la sua scelta, per dirne una.
“Comodo pentirsi mezz’ora dopo aver mandato in onda
quei servizi. Evidentemente non aveva salde convinzioni...”.
ROMA - Beppe Giulietti, responsabile della Comunicazione per i Ds, giornalista. Si arrabbia se qualcuno gli parla di
un “caso Feltri”. “Non esiste nessun caso Feltri - dice esiste piuttosto un caso pedofilia con un ignobile e cinico
uso dei bambini sbattuti in prima pagina”.
Giulietti, anche da sinistra si è levata qualche voce
contraria a provvedimenti censori come questo. Lei
non si unisce al coro?
“No, io non provo nessuna angoscia per Feltri, e non soffro
di nessuna sindrome corporativa. Il direttore di “Libero” sarà
appena contento di questa grancassa. Io penso piuttosto
ai familiari dei bambini finiti in copertina. Ma voglio anche
chiarire una cosa”.
Prego.
“Pur essendo dall’altra parte del pianeta Feltri, io sono
sempre stato contrario agli approcci disciplinari, alle radiazioni, alle censure. Però non posso non rilevare le contraddizioni di chi tuona se il Parlamento decide di mettere
mano al diritto di cronaca e poi non risponde a una semplice domanda: l’autodisciplina deve funzionare o no? Sì,
perché se si vuole essere liberi da vincoli, bisogna anche
pretendere l’integrale rispetto delle regole. L’Ordine, in
questo caso, le ha applicate. Se non vanno bene, basta
cambiarle”.
Da destra dicono che l’Ordine ha usato due pesi e due
misure.
“Feltri ha deliberatamente cercato la provocazione per più
giorni. Feltri ha fatto una scelta e l’ha rivendicata persino con
orgoglio. Non è affatto lo stesso atteggiamento di Lerner che,
semmai, ha peccato di omesso controllo e si è dimesso”.
“Giornalismo spazzatura”
L’articolo 15 della legge sulla stampa
Caro Presidente, Carlo Rossella, direttore di “Panorama” ha dichiarato al “Corriere della Sera” di oggi
22/11/00 che nelle foto pedofile pubblicate dal suo pari
grado Vittorio Feltri “c’era del giornalismo” . Si è dimenticato un aggettivo: “spazzatura”, “giornalismo spazzatura” Dimenticanza da poco, forse per affinità di casta.
Cordialmente Giuseppe Dicorato
“Le disposizioni dell’art. 528 del codice penale si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della
morale e l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.
ROMA. Riccardo Barenghi, direttore del quotidiano “il
manifesto”, dice che “la radiazione di Vittorio Feltri è un
provvedimento giusto e piuttosto inevitabile, per un Ordine dei giornalisti che deve dare un senso alla sua esistenza”. Direttore, prima di parlare dell’Ordine, riparliamo di
quelle foto.
“Certo, anche perché sono e restano la questione centrale: è sbagliato distrarci, perdere tempo a ragionare su
Feltri, sulla gravità della sanzione che ha ricevuto. La
verità è che Feltri ha pubblicato delle foto terrificanti,
impubblicabili, e non solo...”.
C’è altro?
“L’Ordine ha fatto finta di non ricordare che, lo stesso
Feltri, qualche settimana prima, aveva già compiuto un
gesto a dir poco discutibile”.
Quale?
“La pubblicazione di quell’elenco di pedofili. Un altro atto
violento”.
Giornalismo, replica chi difende Feltri.
“Macché giornalismo. Dietro la pubblicazione di foto
raccapriccianti e liste che incitano al peggio, non c’è quello che Feltri vorrebbe farci credere: cioè una provocazione coraggiosa, un giornalismo sfacciato...”.
Cosa c’è, Barenghi?
“C’è speculazione bassa, meschina, penosa. C’è la voglia
di fare pubblicità ad un giornale, c’è il tentativo di farlo
comprare di più. A chi, poi, lo possiamo intuire”.
La radiazione è comunque un provvedimento pesante,
non crede?
“Durissimo. Per questo credo che il coro di solidarietà a
Feltri in cui si sono uniti molti miei colleghi, sia anche e
soprattutto determinato da puro stupore”.
Diceva dell’Ordine...
“Ci interroghiamo sulla necessità della sua esistenza. È
un dibattito aperto. Ma intanto, finché c’è, di fronte a certe
situazioni, deve radiare. Per forza”.
ORDINE
10
2000
7
Un volume ricorda i trent’anni dalla scomparsa di Angelo Rizzoli
di Gino Banterla
“Il giorno più bello della mia vita di bambino
fu il 10 febbario 1895, quando entrai nell’orfanotrofio maschile dei Martinitt. Mi ricordo
che io e le mie sorelle partimmo alla mattina
presto alle sette e andammo a piedi fino in
corso di Porta Vittoria dove c’era l’istituto.
Quando entrai lì finalmente mi sentivo felice
perché ero un povero tra i poveri, non più un
bambino solo nella scuola dei ricchi, ma uno
uguale a tutti gli altri. Se penso a tutta la mia
lunga vita, in fondo, posso dire che ho subito
delusioni, a volte anche profonde, ma vere
umiliazioni mai: tranne quel breve periodo
che passai nella scuola dei ricchi, io bambino poverissimo, di una miseria nera che non
si può neanche immaginare”.
Il vecchio Angelo Rizzoli si commuoveva
quando negli ultimi anni di vita si lasciava
andare alle confidenze, lui uomo un po’
burbero ma anche capace di improvvise
tenerezze, e rievocava la sua straordinaria
avventura imprenditoriale e umana. Dall’orfanotrofio, dove frequentò le elementari e
apprese le prime nozioni del mestiere di tipografo, alla creazione di uno dei più importanti gruppi editoriali d’Europa, la storia del
“Commenda” - come familiarmente e insieme rispettosamente lo chiamavano i suoi
dipendenti - fu tutta un susseguirsi di successi. Inventò collane popolari che fecero conoscere a generazioni di giovani i classici della
letteratura italiana e straniera; diede vita a
periodici autorevoli, palestra di tante firme
celebri del giornalismo italiano, e a rotocalchi a larga tiratura che arrivarono in tutte le
case; intuì l’importanza del cinema e fece
conoscerere a un’Italia aperta alla speranza
dopo i lutti della guerra il De Sica di “Umberto D”, il Rossellini di “Francesco giullare di
Dio”, il Fellini di “Otto e mezzo” e della “Dolce
vita”.
In possesso della sola licenza elementare,
Rizzoli fu per oltre mezzo secolo un protagonista assoluto della vita culturale italiana.
Sono i paradossi della storia. Oggi, in tempi
di esasperate concentrazioni editoriali nelle
quali conta molto più il mercato che la cultura, sembra decisamente lontana questa figura di imprenditore che seppe coniugare con
grande sensibilità le esigenze della cultura
con le leggi del mercato, come fece anche il
suo amico-antagonista Arnoldo Mondadori.
Chi ricorda più questi mitici pionieri dell’industria editoriale, soprattutto tra i giovani
cresciuti con Internet? Del resto, immersi in
una società dai ritmi sempre più convulsi, noi
siamo ormai abituati a dimenticare in fretta.
Ma le ricorrenze, di tanto in tanto, diventano
un’opportunità di recupero della memoria
collettiva. Così, per celebrare i trent’anni
dalla morte del “Commenda”, avvenuta a
Milano il 24 settembre 1970, la Rcs pubblica
un volume che raccoglie bellissime fotografie
e le testimonianze di Gaetano Afeltra, Giulio
Andreotti, Manuela Berto, Silvio Bertoldi,
Enzo Biagi, Oriana Fallaci, Carlotta e Alberto Guareschi, Indro Montanelli, Paolo Occhipinti, Michele Prisco. Il libro ci offre l’occasio-
ne per ripercorrere le tappe di una vita che
ha il sapore della leggenda.
Angelo Rizzoli nacque a Milano il 31 ottobre
1889 da una famiglia poverissima. Il padre,
operaio, era morto tre mesi prima e la
madre, quando il figlio compì sei anni,
dovendo tirar su anche due bambine non
poté fare altro che mandarlo all’orfanotrofio.
Tra i “Martinitt” Angelo rimase una decina
d’anni, e quando uscì andò a fare l’apprendista presso un tipografo nela zona di Porta
Vittoria.
Qualche anno più tardi si mise in proprio e
aprì una piccola tipografia in via Cerva. Con
un anticipo di 500 lire aveva comprato da un
tedesco macchine tipografiche per seimila
lire, impegnandosi a pagare la differenza in
cinque anni. Fu un periodo di lavoro duro.
“Quando stampavo i cartoncini Manila per le
cassette del mercato ortofrutticolo”, si divertiva a raccontare, “qualcuno mi prendeva per
il fattorino e alla consegna dei pacchi mi
allungava un ventino di mancia. Io naturalmente lo accettavo”.
Il potere di carta dell’ex
Fabbrica di periodici e di giornalisti
Cinema e un fuoco d’artificio di iniziative
Partito per la guerra, nel 1915, Rizzoli fu costretto a sospendere l’attività.
Negli anni successivi al conflitto riuscì via via a sviluppare l’azienda, a costo
di enormi sacrifici e tante cambiali. Finché nel 1927 diventò editore. Acquistato, con l’aiuto di Ugo Ojetti, un gruppo di riviste mensili e quindicinali sconosciute che vivacchiavano con poche migliaia di copie di tiratura, le trasformò
nella grafica e nei contenuti. Una di queste si chiamava “Novella”, che di lì a
poco, diventata settimanale, si sarebbe rivelata il cavallo di battaglia del giovane editore. Un’altra era “Il Secolo Illustrato”. “Fu quello il momento più importante della mia vita”, ricordava. “Dissi tra me e me: vi faccio vedere io.
E portai in Italia la prima macchina a rotocalco che si fosse vista da noi. Perché lo
feci? Non lo so: alcuni dicevano che sarebbe stato il sistema di stampa dell’avvenire,
ma eravamo negli anni Venti e per uno che
avesse guardato soltanto ai quattrini quel
tipo di avvenire non era molto allettante”.
Invece il futuro premiò quell’intuizione e il
rotocalco ebbe un rapido sviluppo. “Novella”
raggiunse in poco tempo tirature record.
Ormai nessuno poteva più fermare Rizzoli,
che nel frattempo, nei primi anni Trenta, aprì
la prima ampia sede in piazza Carlo Erba,
dove rimase fino al 1961. Ai successi di
quelle riviste ne seguirono altri a ruota: “Il
Bertoldo” di Giovanni Mosca, “Omnibus”
diretto da Leo Longanesi, “Oggi”, poi
soppresso per alcuni anni, e infine “Annabella” e “Settegiorni”. Negli stessi anni fu lo
stampatore dell’Enciclopedia Treccani.
Dopo la guerra, che nell’agosto 1943 gli
costò la distruzione dello stabilimento
durante un bombardamento aereo, diede
vita a “Il Candido” di Giovannino Guareschi e fece rinascere “Oggi”. L’elenco
delle pubblicazioni si allungò negli anni successivi con altri settimanali e
mensili: “L’Europeo”, “Annabella”, “Sorrisi e Canzoni”, “Sogno” e altri ancora.
Tra questi merita di essere ricordato “Concretezza” un quindicinale divulgativo
sui problemi della vita
pubblica nato da un incontro
nel 1954 tra Rizzoli e un
giovane Giulio Andreotti,
che ne fu poi direttore. La
rivista uscì per 22 anni e
valse a Rizzoli, ricevuto in
Vaticano, i complimenti di
Paolo VI che ne era assiduo
lettore. Ricorda il senatore a
vita: “Non era certo un affare
per la casa editrice, abituata
alle grandi tirature, ma almeno potei dargli quella occasionale soddisfazione”.
Parallela a quella dei periodici si sviluppò nel dopoguerra
la pubblicazione di libri, un
settore nel quale Rizzoli si
impegnò con la stessa
passione. L’iniziativa più fortunata fu indubbiamente, a
partire dal 1949, quella della Biblioteca Universale Rizzoli, una colossale operazione di divulgazione dei classici attraverso volumi a basso prezzo. “Ho fatto la
Bur con l’idea di diffondere la cultura e la conoscenza in un Paese distrutto”,
diceva Rizzoli, “ma non avrei mai immaginato di poterne fare anche un affare
economico”. Poi arrivarono le monografie d’arte, le grandi opere come l’Enciclopedia Rizzoli-Larousse, le coproduzioni letterarie internazionali.
L’attività cinematografica, iniziata a metà anni Trenta con la produzione di pellicole minori, si affermò dopo la guerra sotto il marchio Cineriz con la fortunatissima serie di Peppone e don Camillo e con la “scoperta” di registi quali Vittorio
De Sica, Roberto Rossellini, Federico Fellini.
Tra le molteplici realizzazioni dell’editore sono da ricordare la costruzione
delle cartiere di Marzabotto, la trasformazione di Lacco Ameno a Ischia in un
grande centro alberghiero e termale, l’apertura del Centro Rizzoli nella Quinta Strada di New York per la diffusione sul mercato americano di libri, riviste
film di produzione italiana.
Ma era l’editoria il settore trainante del suo impero costruito giorno per giorno con un lavoro tenace, con una volontà ferrea e anche - su questo sono
tutti concordi quanti lavorarono con lui - con il rispetto dei suoi dipendenti,
dall’ultimo fattorino al grande direttore. Nelle redazioni dei periodici si formarono centinaia di giornalisti, molti dei
quali diventati “grandi firme”. Con loro
Rizzoli amava scherzare con un po’ di
civetteria: “Voi siete gente intelligente,
ma siete anche un po’ carogne, in senso
buono, sia chiaro, e non vi fate incantare da un ometto come me...”.
Alla morte di quell’ometto, avvenuta il 24
settembre 1970, dal nuovo stabilimento
aperto nel 1961 in via Civitavecchia
(oggi via Angelo Rizzoli) uscivano ogni
mese venti milioni di copie di riviste. Vi
trovavano lavoro, tra giornalisti, impiegati e tipografi, quasi cinquemila persone.
Nonostante l’enorme ricchezza accumulata Rizzoli non dimenticò mai le sue
umili origini. Scrive Silvio Bertoldi nel
libro ora pubblicato: “Il successo, la
ricchezza, l’ossequio dei potenti a cui
aveva dovuto abituarsi erano la scorza;
oltre la quale era rimasto con i suoi
sentimenti di ex-povero, allevato nel
bisogno, abituato al rispetto del lavoro
(proprio e altrui) e dunque legato a certi
valori dei suoi tempi, l’onestà, il dovere, la solidarietà, la capacità di farsi
coinvolgere, l’orgoglio per il proprio Paese. Non era personaggio da frasi
storiche, ma ne ricordo
una che era il migliore
ritratto di sé: i soldi bisogna
farseli perdonare”.
Questo ritratto spiega la
profonda amicizia che lo
legò per molti anni a Pietro
Nenni, di umili origini e
orfanello anche lui, come
lui formato alla scuola
della vita avendo frequentato soltanto le elementari.
L’amicizia tra i due, che
negli ultimi anni si materializzava spesso in interminabili partite a bocce e in
lunghe chiacchierate, fu
molto
criticata
negli
ambienti industriali.
Le stesse critiche andarono al leader socialista da
parte di esponenti del Pci.
Rizzoli con semplicità spiegava: “Per me non esiste un uomo rispettabile come Nenni. È un galantuomo, un vero socialista che ha sempre vissuto in modo coerente con le sue
idee. È l’unico politico con cui vada d’accordo”.
Come è stata possibile una simile intesa?, chiese Oriana Fallaci a Nenni in
lacrime davanti alla bara del “Commenda”. Rispose: “Non è difficile capirlo.
Lui vedeva in me la continuazione di Filippo Turati, io vedevo in lui una persona perbene che faceva i suoi interessi senza schiacciare i piedi a nessuno.
Non aveva idee politiche, ma aveva una tal comprensione dei grandi problemi umani...”.
8
Angelo
Rizzoli
apprendista
tipografo
agli inizi
del secolo.
Angelo
Rizzoli
con
Federico
Fellini
durante
le riprese
di un film.
ORDINE
Rizzoli con
il “rivale”
Arnoldo
Mondadori.
Rizzoli
in Vaticano
ricevuto
da papa
Paolo VI.
10
2000
“Tabloid”, rivista di godibile lettura
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera di Saverio Barbati, già presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti:
Caro presidente, ho appena finito di leggere l’ultimo numero di “Tabloid” e avverto il bisogno di scriverti - come desideravo da tempo - poche righe di felicitazioni e di ringraziamento.
Di felicitazioni, perché il giornale è interessante, contiene informazioni, dati e commenti
utili non soltanto per chi fa il nostro mestiere ma per tutti coloro che seguono i problemi
della informazione nel nostro paese.
Di ringraziamento, perché grazie al tuo appassionato e disinteressato impegno l’Ordine
della Lombardia - a mio avviso - è l’unico organismo di categoria a produrre una rivista
non fredda, non ufficiale, non burocratica, non “sindacalese”, ma viva, attraente e soprattutto di godibile lettura.
Buon lavoro, caro presidente. Continua a darci un foglio, che ci arricchisce tutti.
Cordialmente Saverio Barbati
25 volumi, 250 autori, 315 saggi
x-martinitt
“Oggi”, il quotidiano di domani mai uscito
Fra tanti successi nel campo dei periodici, nella storia imprenditoriale di
Rizzoli c’è un sogno mai realizzato: il quotidiano. Lavorò a questo progetto
per un lungo periodo. “Oggi, il quotidiano di domani”, come già annunciavano i cartelloni pubblicitari agli inizi degli anni Sessanta, doveva esssere il suo
fiore all’occhiello. C’erano già direttore e condirettore, rispettivamente Gianni
Granzotto e Gaetano Afeltra.
C’erano le rotative e le linotype. Doppia redazione a Milano e a Roma. Decine di colloqui per l’assunzione dei redattori. Viaggi a Parigi e a Londra per
esplorare i metodi di lavoro dei più importanti giornali di quelle capitali. Prove
a non finire. Era stato predisposto un progetto ambizioso e avveniristico.
“Tutto era kolossal”, ricorda Afeltra nel
volume. “Il piano era ambizioso e per i
tempi che correvano addirittura rivoluzionario. Anticipava di almeno un decennio
quello che poi nella grande editoria giornalistica sarebbe diventata regola comune: vale a dire le edizioni simultanee teletrasmesse con pagine aggiunte di cronaca locale”.
Alla fine non se ne fece nulla: “Noi che
avevamo creduto nell’impresa cominciavamo a sentirci come il tenente Giovanni
Drogo del ‘Deserto dei tartari’”, scrive
amaramente Afeltra. “Eravamo anche noi
in una fortezza editoriale, facevamo
anche noi turni di guardia rigidi e complicati, ma il nostro avamposto restava inerte. Ogni giorno un menabò, un fondo
scritto in fretta, centinaia di titoli vivaci
ma, come nel libro di Buzzati, senza fare
un passo avanti”.
E spiega: “Il Commenda scalpitava, ma
in famiglia serpeggiavano i malumori. Il
figlio, la figlia, il genero non erano d’accordo. Il momento non sembrava il
migliore: la verità è che non credevano all’impresa. Il Commenda non cedeva. Ma intanto si continuava a rimandare. Di fronte a quest’incertezza la
nostra resistenza cominciava a vacillare. Dopo un po’ scoppiammo e ce ne
andammo, lasciando
due lettere molto dure”.
Quei malumori erano
forse l’avvisaglia di
vicende che si sarebbero sviluppate dopo
la morte del fondatore.
Era certamente fiducioso nel futuro il vecchio Commenda quando, facendo un bilancio
della sua vita, disse:
“Quello che soprattutto
mi interessava si è
avverato. Mio figlio ha
avuto successo, ha
mantenuto in pieno le
speranze e oggi comanda lui, come volevo; non solo, ma i figli
dei miei figli mostrano
le stesse inclinazioni,
si sono già inseriti nella
casa editrice, promettono bene e mi danno
il conforto di vedere assicurata la discendenza”. Le cose come sappiamo
andarono assai diversamente. Anche il “rivale” Arnoldo Mondadori non poteva certo immaginare che cosa sarebbe accaduto, dopo la sua scomparsa, al
suo impero di carta.
Strana la beffa parallela giocata dal destino a questi due grandi dell’editoria.
Ma questa è un’altra storia.
ORDINE
10
2000
L’editore a
New York
con Walter
Chiari nel
1964 all’inaugurazione della
libreria
Rizzoli.
Rizzoli
con Sophia
Loren e
Carlo Ponti.
Storia della società
italiana (Teti Editore)
di Mario Geymonat
Confesso di aver provato perplessità prima
di accettare di presentare un’opera così
vasta e impegnativa come la “Storia della
società italiana” con i suoi 25 volumi, i suoi
315 saggi e i suoi 250 autori, a un pubblico
colto come quello dei “colleghi” giornalisti
(sono solo pubblicista, ma da oltre 30 anni)
di cui moltissimi hanno all’attivo opere storiche di grande pregio e di grandissimo
successo. Ma ho superato l’indugio di dover
tessere gli elogi di un’opera alla quale sono
fiero di aver dato la mia collaborazione (IV
volume) sia perché confortato dai giudizi
autorevoli di Paolo Mieli (“Continuerà ad
essere strumento di approfondimento e
consultazione anche per le generazioni future. Per questo si può dire che è un’opera che
fa onore alla storiografia italiana”) e da “Il
Sole-24 Ore” (“La Storia della società italiana non è né dogmatica né tantomeno “chiusa”, e non potrebbe essere altrimenti visto
l’elevato numero di collaboratori provenienti
da aree culturali e geografiche - gli stranieri
sono oltre 20 - diversissime tra loro. D’altra
parte le scelte dei 250 autori sono state
guidate dal principio della competenza e non
da quello dell’appartenenza ideologica”.
Paolo Wilhekm), per restare nell’ambito giornalistico, e sia per dare un contributo al
superamento del gap esistente tra i grandi
meriti dell’opera e la sua scarsa notorietà.
Detto questo, mi limito a ricordare sinteticamente le caratteristiche peculiari della “Storia
della società italiana”. Nel momento in cui
infuria la polemica sui libri di testo (e del
Comitato scientifico Giovanni Cherubini,
Franco Della Peruta, Giuliano Procacci e
Rosario Villari sono autori di testi largamente
diffusi nelle scuole) va detto che l’opera trae
ispirazione dall’insegnamento gramsciano
(“La storia riguarda gli uomini viventi e tutto
ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, in quanto si uniscono tra loro
in società e lavorano e lottano e migliorano”);
ma - come ha sottolineato “Il Sole-24 Ore” è frutto dei contributi di specialisti di ogni
tendenza storiografica. Cito per tutti Franco
Cardini.
4.000 anni di storia
A differenza di opere analoghe la “Storia
della società italiana” prende l’avvio dalla più
profonda antichità nella convinzione che l’Italia, sebbene ricomposta a unità politica da
140 anni, presenta sostanziali caratteri di
continuità materiali e culturali dei 4.000 anni
della sua evoluzione storica.
Basterà pensare ad alcuni fenomeni di incredibile continuità: il tracciato della rete stradale, fino alle autostrade moderne, i capoluoghi di provincia che noi abitiamo sono quasi
tutti di origine romana (pochissime sono
STORIA DELLA SOCIETÀ ITALIANA
(dalla preistoria al 1990).
Teti Editore.
25 volumi rilegati, 250 autori, 315 saggi,
12.538 pagine
£. 1.875.000.
Per i lettori di Tabloid £. 1.400.000
quelle che non vantano origini romane: Latina, Venezia, Ferrara, La Spezia, Alessandria); e il territorio conserva evidenti tracce
romane della centuratio.
Una storia globale
I venticinque volumi della “Storia della
società italiana” per offrire un’indagine storica a 360 gradi, dilatano la propria ricerca
all’ambiente e alle sue trasformazioni a
opera dell’uomo; all’appropriazione delle
risorse della natura e alle loro utilizzazioni;
all’economia e alle strutture produttive; alla
circolazione dei beni, ai rapporti sociali di
produzione e alle vicende delle classi e dei
ceti sociali; alla scienza, alla tecnica e ai
modi della produzione materiale; alla demografia, alle epidemie e alle malattie ad andamento più o meno ciclico; al panorama degli
insediamenti rurali e urbani; alle infrastrutture e alle basi della vita materiale; agli assetti
istituzionali e amministrativi e alle molteplici
forme di aggregazione e di organizzazione
della vita associata; alle strutture mentali e
alle ideologie; ai comportamenti e al costume; alla cultura nelle sue diverse espressioni
e al linguaggio artistico e insieme agli aspetti religiosi, diplomatici e militari, alla filosofia,
alla letteratura e al teatro, alle arti e al costume, alla tecnologia, all’agricoltura, all’industria, al commercio, ai movimenti sindacale,
cooperativo e d’emancipazione della donna,
alle condizioni materiali di vita, alle migrazioni, alle organizzazioni del lavoro, alle istituzioni e alla gestione del potere.
Una storia organica
Tutte le discipline intervengono a ricondurre
a unità le varie storie settoriali, fino a fornire
un quadro completo dei piccoli e grandi
problemi storici. Rifiutando ogni giustapposizione di elementi distinti la “Storia della
società italiana” costituisce l’ampia e articolata sintesi dei multiformi aspetti della ricerca
storica, accessibile per esemplare chiarezza
d’esposizione, globale per tematica, interdisciplinare per metodo.
Tutti i settori della ricerca vengono trattati
non con saggi giustapposti, non con “storie
parallele”, ma nella loro interconnessione,
nella loro funzione di componenti dinamiche
e dialettiche della nostra società.
Da quanto accennato risulta evidente che
una simile opera nessuno finora l’aveva
realizzata ma per una valutazione più
completa e obiettiva invito ad esaminare
l’opuscolo illustrativo contenente oltre alla
rassegna stampa, gli indici completi di tutti i
25 volumi. Per concludere mi permetto di far
presente che la “Storia della società italiana”
non può mancare nella biblioteca di ogni
persona colta, ma vorrei sottolineare che
soprattutto i 12 volumi dedicati all’età contemporanea costituiscono uno strumento di
lavoro indispensabile per ogni giornalista.
L’ETA’ CONTEMPORANEA
della Storia della società italiana
(1815-1990).
Teti Editore.
12 volumi (gli ultimi - XIV-XXV) ribrossurati
107 autori, 131 saggi,
2 cronologie, 5.490 pagine
£. 660.000.
Per i lettori di Tabloid £. 450.000
A richiesta vengono forniti l’opuscolo illustrativo e il modulo per l’acquisto rateale dei 25 volumi rilegati. Teti Editore, via Rezia 4 - 20135 Milano
tel. 02/55015575-84 - fax 02/55015595 - e-mail: [email protected]
9
Cronisti , inviati e legge
GIURISPRUDENZA
Il segreto professionale de
di Sabrina Peron, avvocato in Milano
L’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69
statuisce che “giornalisti ed editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla
fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal
carattere fiduciario di esse”.
Tuttavia, prima della riforma del codice di
procedura penale, tale obbligo deontologico
imposto ai giornalisti dalla legge professionale, non trovava alcun riscontro né, nel codice
di procedura penale (nel quale a favore del
giornalista non era previsto alcun temperamento dell’obbligo di rivelare al giudice anche
la fonte delle notizie) né nell’art. 622 c.p., che
nel punire come delitto la rivelazione di quanto appreso “per ragione del proprio stato o
ufficio o della propria professione o arte”, non
fa alcuna menzione del segreto giornalistico.
La Corte Costituzionale chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità di tale mancanza –
con sentenza del 28.01.1981, n. 16 – pur
escludendo che la mancata previsione del
giornalista fra le ipotesi contemplate dall’art.
351 vecchio c.p.p. violasse il principio di uguaglianza, aveva sollecitato un coordinamento
legislativo tra l’esercizio del diritto posto
dall’art. 21 della Costituzione, a mezzo dell’attività giornalistica, e l’interesse fondamentale
della giustizia, auspicando una ragionevole ed
equilibrata composizione degli opposti interessi. In particolare secondo la Corte Costituzionale spettava al “legislatore valutare se il
segreto giornalistico sia talmente essenziale
o di effettiva utilità strumentale alle esigenze
dell’informazione al punto da prevalere – e in
quali limiti – sugli interessi della giustizia, tanto
più che tra questi va considerato, oltre all’interesse all’accertamento della verità, anche
quello della difesa da parte dei soggetti attinti
dalle notizie divulgate, e che, per altro verso,
le esigenze della informazione involgono
anche un interesse alla controllabilità delle
notizie giornalistiche si da parte dei lettori che
degli altri operatori della stampa, la cui possibilità di concorrente accesso alle notizie stesse è condizione di un effettivo pluralismo
dell’informazione”.
Tale impostazione venne ribadita anche dalla
Corte di Cassazione, la quale statuì che il
giornalista non può astenersi dal testimoniare
circa le fonti della notizia non essendo
compreso fra coloro che eccezionalmente la
legge processuale esonera dall’obbligo della
testimonianza (Cass., 16.10.1981, Fallaci, in
Riv. pen., 1982, 579).
È solo con l’emanazione del nuovo codice di
procedura penale che finalmente vengono
accolte le istanze avanzate dalla più attenta e
sensibile dottrina in tema di segreto giornalistico, riconoscendo il diritto di astenersi dal
deporre anche “ai giornalisti professionisti
iscritti nell’albo professionale, relativamente
ai nomi delle persone dalle quali i medesimi
hanno avuto notizie di carattere fiduciario
nell’esercizio della loro professione. Tuttavia
se le notizie sono indispensabili ai fini della
prova del reato per cui si procede e la loro
veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il
giudice ordina al giornalista di indicare la fonte
delle sue informazioni” (art. 200, 3° comma,
c.p.p.).
Si è così tentato di realizzare un bilanciamento tra la necessità di riservatezza dell’informatore e le esigenze di giustizia, che deve colpire il reo quando la sua identificazione sia resa
possibile dalla rivelazione del nome della
fonte.
Esigenza di giustizia peraltro:
■ rafforzata dal disposto di cui all’art. 362
c.p.p., il quale dispone applicazione di quanto
previsto dall’art. 200 c.p.p. anche alle informazioni assunte dal Pubblico Ministero tramite
persone che possono riferire circostanze utili
ai fini delle indagini;
■ ed integrata dal disposto di cui all’art. 256
c.p.p. in forza del quale “le persone indicate
nell’art. 200 devono consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria che ne faccia
richiesta gli atti ed i documenti anche in originale se così è ordinato e ogni altra cosa
esistente presso di esse per ragioni della loro
professione tranne che dichiarino per iscritto
che si tratti di segreto inerente la loro professione; se la dichiarazione risulta infondata
l’autorità giudiziaria dispone il sequestro”.
Sin da una prima lettura della norma si può
notare che il riconoscimento del segreto giornalistico operato dall’art. 200 c.p.p. incontra i
seguenti limiti:
a) il segreto riguarda la fonte della notizia e
non anche il suo contenuto;
b) le notizie devono rivestire carattere fiduciario;
c) il soggetto interessato deve essere un giornalista professionista.
Inoltre, il giornalista può esercitare il suo diritto di opporre all’autorità giudiziaria il segreto
professionale qualora la fondatezza delle notizie pubblicate sia verificabile mentre, in caso
contrario, tale segreto non può essere validamente opposto (e, difatti, con le parole della
giurisprudenza, “la norma di cui al 3º comma
dell’art. 200 c.p.p. deve intendersi riferita
all’accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all’esame
della sua veridicità che può trovare l’unico
strumento nella identificazione della fonte
fiduciaria; solo in tale circostanza quindi il
giudice, al fine di verificare la rispondenza
della notizia indispensabile per la prova di un
reato per cui si procede, potrebbe ordinare al
giornalista di indicare la sua fonte, purché sia
l’unico strumento investigativo a disposizione” così, Pret. Roma, 21.02.1994, Gambino,
in Cass. pen., 1994, 1953). Il magistrato può
dunque rimuovere il segreto e, se malgrado
l’ordine di nominare la fonte della notizia, il
giornalista riaffermi il suo rifiuto, quest’ultimo
potrà essere imputato del reato di cui all’art.
372 c.p. (falsa testimonianza). Inoltre, l’Autorità Giudiziaria è lasciata libera di sindacare la
dichiarazione resa dal giornalista e, qualora
ritenga ingiustificato il rifiuto di rivelare la fonte,
può, ai sensi dell’art. 256 c.p.p., procedere al
sequestro di atti e documenti.
In questa prospettiva è stato suggerito che “il
giornalista prudente e rispettoso della personalità del suo informatore potrebbe, e forse
dovrebbe, prima di diffondere la notizia,
procurarsi ulteriori prove della sua rispondenza al vero onde mettersi in condizioni: a) di
opporre il segreto al giudice; b) di provare,
comunque invitando indirettamente il giudice
a completare la sua opera, la verità di quanto
pubblicato.
In mancanza di ulteriori prove il giornalista se
non è disposto a rivelare la sua fonte e
neppure a rischiare l’arresto per reticenza
dovrà tacere.
Ma non sarà un gran danno per la collettività
perché una notizia non controllabile oggettivamente è spesso infondata se non addirittura calunniosa” (L. Biagioni, Note sul riconoscimento del segreto professionale ai giornalisti professionisti nel nuovo c.p.p., in Giur. it.,
1991, IV, 477).
Notevoli perplessità sono, inoltre, state avanzate in ordine alla limitazione del riconoscimento del diritto di astenersi dal deporre a
favore dei soli giornalisti professionisti, rimanendo esclusi dal dettato legislativo i giornalisti pubblicisti, anch’essi iscritti all’albo e che,
pur essendo giornalisti a tutti gli effetti, si
vedono ingiustamente penalizzati rispetto ai
colleghi professionisti (al riguardo è stata
sottolineata l’irragionevolezza della scelta del
legislatore “dal momento che gli episodi di
cronaca giudiziaria vedono, per di più in grande numero, come protagonisti, giornalisti
pubblicisti i quali, a parte la precarietà del
posto di lavoro e l’occasionalità della collaborazione al giornale stampato o radiotelevisivo
e, di conseguenza la differenza sotto il profilo
retributivo, esercitano la loro professione con
modalità identiche ai giornalisti c.d. professionisti”, così, testualmente, M. Di Camillo, segreto giornalistico e diritto di cronaca nel diritto
sostanziale e processuale alla luce della riforma del rito penale del 1988, in Giur. merito,
1990, 668).
Tale quadro normativo ha indotto alcuni autori
ad affermare che il vero principio che permea
il segreto professionale del giornalista sia la
coercizione diretta ad ottenere la rivelazione
della fonte (R. Bianco, Il diritto del giornalismo,
Padova, 1997, 140).
Ciononostante il segreto professionale del
giornalista è stato recentemente riaffermato
sia a livello nazionale che europeo.
A livello nazionale è stato riaffermato:
■ dall’art. 13, n. 5, L. 675/1996 (legge sulla
privacy) che, con riguardo al trattamento di
dati personali ha statuito, che “restano ferme
le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia”;
■ dal Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il quale, all’art. 2, n. 3, dispone che “gli archivi personali dei giornalisti,
comunque funzionali all’esercizio della professione e per l’esclusivo perseguimento delle
relative finalità, sono tutelati, per quanto
concerne le fonti delle notizie, ai sensi dell’art.
2 della legge n. 69/1963 e dell’art. 13, comma
5 della legge n. 657/1996”.
A livello comunitario tale diritto è stato riaffermato:
■ dalla Risoluzione sulla segretezza delle
fonti d’informazione dei giornalisti adottata dal
Parlamento europeo in data 18.01.1994;
■ dalla Raccomandazione n° R (2000) 7
adottata dal Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa in data 08.03.2000 ed indirizzata agli Stati membri per determinare una base
minima di norme europee comuni concernenti il diritto dei giornalisti di non rivelare le
proprie fonti di informazioni.
Come si può evincere dall’analisi del contenuto di tali ultimi documenti, la protezione delle
fonti d’informazione assume caratteri che
vanno ben oltre le problematiche nazionali,
posto che “il diritto alla segretezza delle fonti
di informazione dei giornalisti” contribuisce “in
modo significativo ad una migliore e più
completa informazione dei cittadini”, influendo, di fatto, “anche sulla trasparenza del
processo decisionale, rafforzando il carattere
democratico delle istituzioni comunitarie e
delle istanze nazionali degli Stati membri” ed
essendo “indissolubilmente connesso con la
libertà di informazione e la libertà di stampa
in senso lato, in quanto fornisce un contenuto
sostanziale al fondamentale diritto alla libertà
di espressione quale è definito all’art. 10 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”
(Risoluzione del Parlamento europeo del
18.01.1994).
Al riguardo si tenga presente che l’art. 10 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
tutela il diritto dei giornalisti di “comunicare
informazioni su questioni di interesse generale quando si esprimono in buona fede, sulla
base di fatti veri e forniscono informazioni affidabili e precise nel rispetto dell’etica giornalistica” (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,
sentenza del 21.01.1999 nel caso Fressoz e
Roire c. Francia).
Le raccomandazioni del Consiglio d’Europa
In questo contesto, il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la citata Raccomandazione, muovendo dalla petizione di principio che “la protezione delle fonti d’informazione dei
giornalisti costituisce una condizione essenziale perché i giornalisti possano lavorare liberamente così come per la libertà
dei media”, ha formulato le seguenti raccomandazioni:
1.- l’adozione, da parte degli Stati membri, di una protezione
esplicita e chiara del diritto dei giornalisti di non divulgare le
informazioni identificanti una fonte, essendo questo diritto
parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione,
espressamente garantito dall’art. 10 della Convenzione per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (Principio 1). Laddove per
informazioni identificanti una fonte devono intendersi (lett. d
delle Definizioni):
a) nome, indirizzo, numero di telefono, fax ed altri dati personali (quali ad esempio voce e fotografie) della fonte;
b) le circostanze concrete dell’ottenimento di informazioni (ad
esempio, luogo ed ora dell’incontro, mezzo di corrispondenza
usato o gli accordi particolari convenuti tra una fonte ed il giornalista);
c) la parte non pubblicata dell’informazione fornita da una fonte
a un giornalista (ad esempio altri fatti, dati, suoni, immagini
che possano indicare l’identità di una fonte e che non siano
10
ancora stati pubblicati);
d) i dati personali dei giornalisti o dei loro datori di lavoro legati alla loro professione o al loro lavoro, che potrebbero essere
rinvenuti in liste di indirizzi, annotazioni di chiamate telefoniche, di comunicazioni informatiche, di documenti di viaggio o
di annotazioni di conti bancari;
2.- l’utilizzo di particolari cautele nel porre limitazioni al diritto di
non divulgare le fonti (Principio 3), quali:
a) l’ordine di divulgazione potrà rendersi necessario solo in
presenza di un imperativo preponderante di interesse pubblico
e nel caso in cui le circostanze presentino un carattere sufficientemente grave e vitale;
b) la divulgazione di informazioni identificanti una fonte potrà
aversi solo qualora non esistano altre misure alternative alla
divulgazione stessa. In altre parole solo dopo che altri mezzi o
altre fonti siano state in via preliminare esperite senza successo;
3.- il diritto del giornalista a che la pronuncia di una sanzione
per non aver divulgato le informazioni identificanti la fonte, sia
sottoposta al controllo di un’altra autorità giudiziaria (Principio
5). In particolare ogni decisione di un’autorità nazionale che
limiti il diritto dei giornalisti di non divulgare le loro fonti può
essere sottoposta anche al controllo esercitato dalla Corte
europea dei Diritti dell’Uomo;
4.- limitazione dell’applicazione di misure quali intercettazioni,
perquisizioni, sequestri o di misure di sorveglianza dei giornalisti o dei loro contatti, tutte le volte in cui tali misure tendano
ad aggirare il diritto dei giornalisti a non divulgare le proprie
fonti;
5.- l’estensione del diritto di non divulgazione oltre che ai giornalisti (intesi come “tutte le persone fisiche o giuridiche praticanti a titolo continuativo o professionale la raccolta e la diffusione d’informazioni al pubblico attraverso tutti i mezzi di
comunicazione di massa”), anche a soggetti terzi che abbiano
avuto conoscenza della fonte nel quadro delle loro relazioni
professionali con i giornalisti (Principio 2), quali, ad esempio, i
colleghi giornalisti, il personale di segreteria, il personale incaricato della stampa, il redattore capo, tutte le volte in cui esse
non siano già coperte dalla definizione di giornalista.
ORDINE
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2000
LIBRERIA DI TABLOID
el giornalista
In definitiva tale Raccomandazione cerca di
porre i presupposti per una protezione
adeguata del diritto dei giornalisti di non rivelare le proprie fonti al fine di assicurare la
libertà del giornalismo ed il correlativo diritto
del pubblico ad essere informato dai media.
Con riguardo all’importanza ed alla delicatezza dell’esercizio di tale diritto, altresì, si noti
che la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte evidenziato come la protezione delle fonti giornalistiche sia una delle pietre
angolari della libertà di stampa, poiché “l’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa ad informare il pubblico su questioni di
interesse generale”.
Conseguentemente la “stampa potrebbe
non essere in grado di giocare il suo ruolo
indispensabile di «cane da guardia» e la sua
idoneità a fornire informazioni precise ed
affidabili potrebbe essere ridotta. Tenuto
conto dell’importanza che la protezione delle
fonti giornalistiche riveste per la libertà di
stampa in una società democratica e dell’effetto negativo sull’esercizio di tale libertà che
un’ordinanza di divulgazione rischia di
produrre, simile provvedimento può conciliarsi con l’art. 10 della Convenzione solo se
è giustificato da un preponderante imperativo di interesse pubblico” (così, testualmente,
Corte europea Diritti dell’Uomo, sentenza sul
caso Goodwin c. Regno Unito, emessa il
27.03.1996).
In questa prospettiva, l’obbligo di rivelare la
fonte impedisce alla stampa di svolgere la sua
funzione di fornire informazioni precise ed affidabili, posto che ogni rivelazione di una fonte
può avere un effetto inibente per le future fonti
che così saranno meno desiderose di comunicare informazioni ai giornalisti.
Per tornare alla legislazione del nostro Paese
vediamo come da più parti sia stata sottolineata la limitatezza di una interpretazione
strettamente letterale dell’art. 21 Cost., rivendicandone la necessità di “ampliarne e specificarne il contenuto nelle nuove formule:
libertà di informazione, diritto all’informazione” (Barile e Grassi, Informazione, in App.
nuoviss. dig. it, 200).
In particolare, sia da parte della dottrina che
da parte della giurisprudenza, è stata effettuata un’operazione di ridefinizione dell’art. 21
Cost., che ha portato ad ipotizzare l’esistenza
di un vero e proprio diritto all’informazione, cui
fa da corollario la libertà di “dare e divulgare
notizie, opinioni, commenti” (C. Cost.,
15.06.1972, n. 105, in Giur. cost. 1972, 1196),
libertà che trova una sua garanzia fondamentale nel diritto di segretezza delle fonti riconosciuto al giornalista.
In ogni caso è bene ricordare che invocando il segreto professionale il giornalista non
si ripara da eventuali responsabilità per notizie false o diffamatorie da lui diffuse, potendo ugualmente incorrere nel reato di diffamazione o di divulgazione di segreto
processuale.
Per saperne di più
GRILLI Luigi, La pubblicazione degli atti e il
segreto professionale del giornalista, in Giust.
pen., 1990, III, 565
BIAGIONI Luca, Note sul riconoscimento
del segreto professionale ai giornalisti
professionisti nel nuovo c.p.p., in Giur. it.,
1991, IV, 477
RAFARACI Tommaso, Segreto del giornalista
e processo penale, in Cass. pen., 1991, I, 919
DI CAMILLO Massimo, Segreto giornalistico
e diritto di cronaca nel diritto sostanziale e
processuale alla luce della riforma del rito
penale del 1988, in Giur. merito, 1990, 668
GRILLI Luigi, La pubblicazione degli atti e il
segreto professionale del giornalista, in Documenti giustizia, 1990, fasc. 4, 81
LETTA Guido, Il punto sul segreto professionale del giornalista, in Dir. e società, 1986, 759
CALDERONE C. Renato, Segreto del giornalista ed essenzialità della giustizia, in Quaderni giustizia, 1986, fasc. 58, 27
FAVINO Luigi, Segreto giornalistico ed
esigenze della giustizia, in Riv. pen., 1985,
1041
FORTUNA Ennio, Segreto dei giornalisti e
segreto istruttorio nel processo accusatorio, in
Cass. pen., 1985, 1740
GREGORI Giorgio, Informazione e segreto
professionale: tutela del giornalista e del cittadino, in Dir. radiodiffusioni, 1984, 505
PIETRONI Nazzareno, Il segreto professionale del giornalista, in Giur. merito, 1985, 495
BARBUTO Mario, Il segreto professionale
non è uguale per tutti: i diversi gradi di impenetrabilità del segreto degli avvocati, dei
consulenti del lavoro, dei dottori commercialisti, dei giornalisti, in Impresa, 1985, 1565
NEPPI MODONA Guido, Profili contraddittori
del rapporto tra giustizia e informazione: il
segreto professionale del giornalista e il
segreto istruttorio, in Questione giustizia,
1983, 543
FERRATO Dino, Il segreto giornalistico nelle
prospettive della riforma, in Riv. pen., 1983,
737
MASTRONE Angela, Il “segreto giornalistico”
nel processo penale, in Arch. giur., 1983, 75
PISA Paolo, Il “segreto giornalistico” nel
processo penale: spazi stretti per una prospettiva di riforma (Nota a Corte costit., 28
gennaio 1981, n. 1, Massa), in Riv. it. dir. e
proc. pen., 1982, 291
CONSO Giovanni, Il segreto giornalistico
dopo la sentenza della corte costituzionale
(Nota a Corte costit., 28 gennaio 1981, n. 1,
Massa), in Giur. costit., 1981, I, 8
LONARDO Filippo, Il segreto professionale
del giornalista (Nota a Corte costit., 28
gennaio 1981, n. 1, Massa), in Giust. civ.,
1981, I, 676
CRESPI Alberto, Il segreto dei giornalisti nel
responso della corte costituzionale e nelle
prospettive di riforma del processo penale
(Nota a Corte costit., 28 gennaio 1981, n. 1,
Massa), in Riv. dir. proc., 1981, 351.
Ordine/Tabloid
ORDINE - TABLOID
periodico ufficiale del Consiglio
dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Mensile / Spedizione in a. p. (45%)
Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXI - Numero 10,
dicembre 2000
Consiglieri:
Bruno Ambrosi, Annibale Carenzo,
Letizia Gonzales, Cosma Damiano Nigro,
Domenico Tedeschi.
Collegio dei revisori dei conti
Aldo Borta Schiannini,
Davide Colombo, Rino Felappi (presidente);
Direttore responsabile FRANCO ABRUZZO
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Franco Abruzzo, presidente;
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Gabriele Moroni, consigliere segretario,
Sergio D’Asnasch, consigliere tesoriere
Iscritto al n. 983/ 1983
del Registro nazionale della Stampa
Comunicazione e Pubblicità
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Via G.C.Venini, 46 - 20127 Milano
Tel. 02/ 261.49.005 - Fax 02/ 289.34.08
La tiratura di questo numero è stata
di 20.100 copie
Chiuso in redazione il 2 dicembre 2000
Lorenzo Del Boca
Il dito dell’anarchico
Franco Fucci
Novecento. Morte di un Savoia
Enzo Magrì
I fucilati di Mussolini
di Gigi Speroni
Il filo rosso dell’anarchismo
lega tre libri firmati da colleghi già autori di successo.
Anarchico era Gaetano
Bresci, che il 29 luglio del
1900 uccise a Monza, con
tre colpi di pistola, Umberto
I: un’occasione colta da
Franco Fucci in “Novecento.
Morte di un Savoia”, per
raccontare il tragico avvenimento e, soprattutto, tratteggiare la personalità del re
inquadrandola nel suo
tempo. In Italia la pena di
morte era stata abolita da 12
anni e Bresci finirà all’ergastolo, ma soltanto per dieci
mesi, sin quando non verrà
trovato impiccato in una
cella del carcere di Santo
Stefano. Suicidio di Stato?
Nel 1926 Gino Lucetti,
protagonista del libro di
Lorenzo Del Boca “Il dito
dell’anarchico”, maldestramente attenterà alla vita di
Mussolini gettando una
bomba verso l’auto su cui
viaggiava il Duce, diretto a
Palazzo Chigi. È l’undici
settembre del 1926: in
novembre il regime varerà le
“leggi fascistissime” con le
quali sarà reintrodotta la
pena di morte “per gli attentati al Re, al Reggente, alla
Regina, al Principe Ereditario e al Capo del Governo”.
Per due mesi Lucetti la
scampò: condannato a
trent’anni ne sconterà 17,
sino alla caduta del fascismo. Liberato nel 1943,
verrà ucciso a Ischia da uno
shrapnel sparato, forse,
dall’ultimo tedesco rimasto
sull’isola o, probabilmente,
da un incrociatore inglese.
Di venerdì 17.
Infine Angelo Pellegrino
Sbardella, l’anarchico sorpreso a Roma, il 4 giugno
1932, con due bombe destinate al Duce è uno de “I fucilati di Mussolini”, nel libro
dove Enzo Magrì narra le
storie di quattro tra i 32
condannati alla pena capitale eseguita dal 1926 al 1943
dal “Tribunale speciale per la
difesa dello Stato”.
Se, dunque, Bresci, Lucetti,
Sbardellotto, sono il filo
rosso dell’anarchismo, sin
da queste brevi note appare, però, chiaro che le tre
opere hanno un taglio metodologico e letterario ben
diverso, rispondente alle
personalità dei loro autori.
Ognuno è godibile di suo,
insomma.
Per Fucci “Non si può giudicare l’atto di Gaetano Bresci
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2000
se prima non si prende
conoscenza degli avvenimenti del quarto di secolo
che lo precedette”. Che
produssero “«l’atmosfera»
nella quale maturò il regicidio”. Fucci scava nei fatti, li
analizza nel loro contesto
storico, arricchisce il racconto con corpose note a piede
di ogni capitolo. Sedici capitoli brevi, (accorta decisione
per facilitare la lettura) che
già nei titoli tracciano il
percorso del volume:
“Il re, l’anarchico, la tragedia”; “Un Paese in crisi di
crescita”; “Ritratto di un re
guerriero”; “Il Re, le donne,
la Regina”; “Un destino
crudele”; “Un Paese alla
svolta”… e poi: “«La protesta
dello stomaco», che passa
“Dal malcontento al furore”.
Comprensibile, in un Paese
dove “numerosi erano i
disgraziati che dovevano
vivere con il salario di una
lira al giorno, il che voleva
dire la catastrofe se il prezzo del pane aumentava
anche di pochi centesimi al
chilo. ... Nell’Italia umbertina
la gente lavorava dodici e
anche quindici ore al giorno;
in mansioni umilissime e
spesso pericolose erano
impiegati i bambini. ... Sovrano e vertice politico respingono ogni ipotesi di compromesso con le nuove forze
emerse nel Paese e vedono
l’unica soluzione possibile
nei «governi della sciabola»
che tanto piacciono a
Umberto (e ancor più a
Margherita)...”.
Così a Milano il “furore”
sfocerà nei “primi tumulti”, in
una “città in stato d’assedio”
dove “la repressione trionfa”
con i cannoni del generale
Fiorenzo Bava Beccaris.
È il maggio di sangue del
1899 segnato da 80 morti e
450 feriti. “Numeri raccapriccianti se si pensa che le 5
Giornate del 1848 avevano
provocato in tutto 350 morti;
eppure allora contro gli
insorti era schierato un esercito straniero; nel 1898,
cinquant’anni dopo, contro
coloro che «scioperavano
per la fame» c’erano solo
poliziotti e soldati italiani”…
E via sino all’ultimo capitolo:
“Un «processo» un «suicidio»”, entrambi tra virgolette, visto che Bresci venne
condannato dopo una giornata di dibattimento, e resta
il fondato dubbio che in
carcere sia stato suicidato.
Fucci, dunque, racconta la
Storia con rigore ineccepibile e nello stesso stile coinvolgente già esercitato in
“Radetzky a Milano”. Il suo è
un classico esempio di divulgazione che mi ha ricordato
una lettera a “La Stanza” del
“Corriere della Sera”. A un
lettore che si rammaricava
con Montanelli perché si “sia
persa una grande occasione
di avere un “testo del giornalista/scrittore adottato nelle
nostre scuole”e gli domandava “se le sia mai venuta
l’idea di dedicarsi a una
opera così socialmente utile
e nel caso cosa possa averla dissuaso” Montanelli ha
risposto: “Avrebbe potuto
dissuadermi il fatto che
nessun insegnante ha mai
permesso a un mio libro di
varcare la porta della sua
scuola. Ma conosco parecchi ragazzi che avendo
taciuto la grave colpa di
averla studiata sui miei libri,
hanno brillantemente superato l’esame di Storia. Ed è
per questo che continuo a
scriverli”. Chiusa la digressione.
Umberto I conferirà a Bava
Beccaris la Croce di Grande
Ufficiale dell’Ordine militare
di Savoia “per rimeritare il
grande servizio che Ella
rese alle istituzioni e alla
civiltà e perché Le attesti la
riconoscenza mia e della
Patria”, e nella lontana
America questa decisione
rafforzerà in Bresci l’idea di
uccidere il sovrano per
vendicare i morti di Milano.
Il re venne assassinato il 29
luglio 1900. Un mese dopo il
31 agosto nasceva ad Avenza, nel comune di Carrara,
terra di cavatori di marmo,
“uomini contro”, Gino Lucetti, il protagonista del libro di
Lorenzo Del Boca, Il dito
dell’anarchico, “l’uomo che
sognava di uccidere Mussolini”.
Lucetti “brillava di una scintilla perennemente trasgressiva che non poteva confondersi con un potere, qualunque esso fosse. Voleva
un’insistita anormalità. Era
un ribelle esistenziale… divorato da una malinconia
creativa che, con i suoi languori, gli impediva di accettare l’ineluttabile e lo spingeva a partecipare.
A indicargli la strada, anzi, a
imporgli la scelta, più che i
riferimenti teorici, fu la sua
natura visceralmente ribelle.
La pratica dell’azione diretta
lo mantenne anarchico e, in
qualche modo, lo condannò”.
In queste poche righe c’è il
Del Boca dallo stile personalissimo, carico di colore e vis
polemica, l’autore del tranciante “Maledetti Savoia”,
11
LIBRERIA DI TABLOID
dove già il titolo spiegava il
pensiero di uno scrittore che
«usa» i fatti e le persone per
vestirli da romanzo. Si può
capire perché Del Boca
abbia scelto un personaggio
come Gino Lucetti, un anarchico che non amava “i riferimenti teoretici”, più che un
intellettuale era un uomo
dalle semplici e radicate
convinzioni, un sognatore in
politica, “viscerabilmente ribelle”, ma, anche, un sognatore in amore nel timido,
puro rapporto con la cugina
Nella, una sartina. “La loro
storia sentimentale fu un
intrecciarsi di sospiri, di attese e di solitarie fantasie che
architettavano un futuro
impraticabile. Pochi baci e
pochissime carezze… Rievocare le estasi e i languori i
disinganni e le ambasce è
impossibile sulla base di
resoconti documentati, ma
sarebbe banale trascurarli
soltanto perché non se ne
trova traccia negli archivi di
Stato. Per questo la storia
degli storici è una scommessa persa in partenza. Loro
non si occupano – non ce la
fanno – degli uomini e delle
donne come sono, con tutti i
loro intrecci e i misteri delle
loro sensazioni. Non cercano le stramberie caratteriali,
gli umori momentanei e –
magari – i capricci istintivi
del loro temperamento. Alla
fine, gli stati d’animo non
contano e si procede per
schemi fissi, rincorrendo la
certezza delle date, il rigore
della carta autografa e la
verità dei documenti riproducibili in fotocopie”.
Comunque il Del Boca romanziere è anche un accurato ricercatore: lo testimoniano le corpose “Note al
testo” e lo scrupolo con cui
lo scrittore rivisita Porta Pia,
dove l’anarchico gettò sconsideratamente la bomba
verso l’auto del Duce senza
manco scalfirlo, descrivendo
il luogo sin nei minimi particolari: …“è andata distrutta
l’edicola di legno con il tetto
a punta come se fosse un
piccolo minareto ed è stata
sostituita da un abitacolo di
maniera che assomiglia a un
container bislungo. Come
disposizione è un po’ più
vicina al marciapiede ma i
proprietari sono gli stessi:
adesso ci lavora il nipote
della persona che vendeva i
giornali nel 1926”.
Al processo “Lucetti abbandonò i suoi pensieri quando
il presidente del tribunale
Sanna gli chiese che cosa
aveva fatto la mattina dell’11
settembre. Che domanda…?! tagliò corto, limitandosi a ciò che – immaginava
– era di interesse per i giudici. «Mi recai in via Nomentana, nei pressi di Porta Pia. E
lanciai una bomba contro
l’automobile del signor
Mussolini».
Un attentato contro un signore. Non si riferì al capo
del Governo perché riteneva
che quell’incarico fosse
stato usurpato con la violenza”.
Condannato a 30 anni, liberato dopo la caduta del fascismo, ucciso nel modo che
sappiamo “al momento della
traslazione, mentre si stava
riesumando la salma, si
ruppe la falangetta del dito
mignolo della mano sinistra
di Lucetti. Nella Menconi, la
fidanzata, raccolse quel
12
brandello d’osso e lo tenne
per sé. “Il dito dell’anarchico”, per l’appunto, con cui
“tentò di fermare il treno in
corsa del fascismo”.
L’anarchico Angelo Pellegrino Sbardellotto è uno dei
quattro protagonisti de I fucilati di Mussolini, che Enzo
Magrì ha scelto tra i 32
giustiziati nei 17 anni in cui
operò il Tribunale speciale
per la difesa dello Stato,
voluto nel 1926 dal Duce
dopo aver subito quattro
attentati andati a vuoto,
anche fortunosamente, e
affrontati con freddezza
tanto da fargli dire «Le
pallottole passano, Mussolini resta» e «Il mio cuore non
ha accelerato i suoi battiti».
Quattro vicende da realtà
romanzesca: “Le storie d’ un
operaio comunista disoccupato, d’un anarchico imbranato, d’un industriale dinamitardo per soldi, d’un
sottufficiale che vendette la
Marina italiana alla Francia,
mandati davanti al plotone
d’esecuzione fascista tra il
’28 e il ‘33”. Scelte dall’autore perché “drammatiche,
alcune così toccanti e
avventurose da sembrare
inverosimili, ma tutte tragicamente vere, ricavate dalle
pagine
dei
processi”.
Raccontate dallo stesso
autore del fortunato “Pitigrilli”. Con un Magrì dove l’avvincente scrittura fa da vetrina, da supporto, allo scrupolo del ricercatore. Storie che
vanno godute anche negli
aneddoti, nei particolari e
che rimandiamo al lettore
per non incartarci in descrizioni affrettate, troppo sintetiche.
Qui ci limitiamo ad accennare a Sbardellotto, minatore
esule in Belgio, sconsideratamente inviato a Roma
dalla concentrazione antifascista con due bombe nella
valigia e l’incarico di uccidere Mussolini. “Sprovvisto di
cognizioni circa la città che
visita per la prima volta,
privo d’una base di informatori e sfornito anche d’un
piano per l’attentato, Sbardellotto affida la sua missione all’improvvisazione. Da
mezzogiorno alle 16, gironzola con le bombe addosso
e la pistola in tasca tra piazza dei Cinquecento e via
Nazionale. Per perdere un
altro po’ di tempo, sempre
imbottito d’esplosivo, si reca
a visitare l’Esposizione coloniale”…. Gironzola a vuoto,
non riesce ad avvicinarsi al
Duce, ritira la sua valigia alla
stazione Termini e sconsolato riprende la via del Belgio”.
Siamo alla fine d’ottobre del
1931.
Depresso, ma determinato,
l’anarchico ritorna a Roma
nell’aprile del 1932, gli va
ancora buca e ritenta due
mesi dopo. Ma stavolta qualcosa succede. “Sono le
15.40 del 4 giugno 1932.
Una voce gli ordina: «Favorisca i documenti» Sbardellotto ha un passaporto falso
intestato a “Gavini Angelo fu
Luigi,
di
Bellinzona,
commerciante” ma non il
foglio di soggiorno, e “sente
che la fiducia nella sua
capacità di recitare con
naturalezza sta venendo
meno e che è sul punto di
essere preso dal panico”.
Arriva un secondo poliziotto,
il “sospetto” viene perquisito,
gli agenti scoprono le
bombe. “Quando viene
fermato il veneto ha solo l’intenzione di uccidere il dittatore. Che dopo otto mesi e
tre missioni a Roma non era
riuscito neppure a vedere da
lontano. Ma per i giornali è
come se Mussolini fosse
scampato allo scoppio di
una bomba”. E anche per i
giudici che lo condannano a
morte “mediante fucilazione
alla schiena” dopo un
processo durato 2 ore e 15
minuti. Aveva 26 anni.
Il presidente del Tribunale
speciale, tramite l’avvocato
difensore
consiglia
al
condannato di presentare la
domanda di grazia, dichiarandosi pentito. L’anarchico,
altero, sconcerta i giudici
«Ma che pentito e pentito»
replica al legale d’ufficio, «Io
rimpiango solo di non averlo
ammazzato». Rifiuterà l’assistenza
religiosa
del
cappellano “«Non credo in
nulla» gli rispose, respingendolo”.
Suo fratello, Olivo, di anni ne
contava 17. Cinque mesi
dopo la fucilazione di Angelo, per la precisione “un giorno della metà di novembre
del 1932 in casa Sbardellotto si presentò un incaricato
del federale di Belluno.
Rivolgendosi a Olivo l’ospite
ordinò: «Preparati. Presto
ché dobbiamo fare un viaggetto». Così il giovanotto si
ritrova nella sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia,
sull’attenti davanti al capo
del governo. “«Come stai?»
chiese il dittatore. «Bene
duce», rispose il ragazzo.
«Coraggio»,
lo
esortò
Mussolini. E spiegò al giovane che «era stato fatto ciò
che doveva essere fatto».
Assumendo il tono del padre
severo, ma buono, gli parlò
per parabole spiegandogli
che «a volte è necessario
potare dei rami dannosi per
fare crescere meglio una
pianta e per far sì che essa
dia buoni frutti»… Oltre che
alla coscienza di Mussolini,
quella visita si rivelò utile
anche agli Sbardellotto.
Meno ingenuo di quanto
potesse apparire, il giovane
Olivo, ritornato a Mel, diffuse una studiata bugia . A tutti
quelli che gli chiedevano che
cosa gli avesse detto il duce,
egli rispondeva: «Al ma dit,
ricordati: se ghe ne qualchedun che te dà fastidio, fame
saver a mi, che me interessi
mi».
Non tutti probabilmente
credettero a quelle parole
pronunciate dal capo del
governo. Ma la frase si rivelò
ugualmente un provvidenziale salvacondotto per tutta
la famiglia.
Gran Paese, l’Italia.
Lorenzo Del Boca,
“Il dito dell’anarchico”,
Piemme,
pagg. 229,
lire 30.000.
Franco Fucci,
“Novecento.
Morte di un Savoia”,
Mursia,
pagg. 272,
lire 26.000.
Enzo Magrì,
“I fucilati di Mussolini”,
Baldini & Castoldi,
pagg. 305,
lire 32.000.
Mobbing, insidia
di Luisella Nicosia, avvocato in Milano
Mobbing, il termine è ormai entrato nell’uso comune. E se ne parla diffusamente. Talvolta a
sproposito, attribuendo a quella parola (derivante dal verbo inglese to mob, aggredire) un
significato non sempre corretto dal punto di vista medico e legale. Di cosa si tratta? La scienza medica definisce mobbing “quella forma di violenza o molestia psicologica, ripetuta in
modo iterativo, con modalità polimorfe, con caratteri di intenzionalità, per un tempo determinato, dai sei mesi in su, con ampia variabilità dipendente dalle modalità e dalla struttura di
personalità dei soggetti”. In altre parole, una violenza morale, esercitata da superiori (cosiddetto mobbing verticale) o da pari grado (mobbing orizzontale) con sistematica frequenza. E
seppure meno praticata, esiste una terza variante, quella esercitata dai subalterni singolarmente o in gruppo, mediante attacchi contro la persona, con la finalità di screditare il suo
lavoro, di immiserirne il ruolo e lo status professionale.
L’offesa viene prolungata nel tempo e sustanziata con umiliazioni costanti, con continui
deprezzamenti e critiche rivolte alla qualità e alla finalità del lavoro svolto, attuata con reiterati sabotaggi, con emarginazioni e svuotamento di mansioni impedendo o vanificando ogni
contributo lavorativo, al punto di rendere evidente la sindrome che si definisce “della scrivania
vuota”. O, ancora, con continue forme di aggressioni sanzionatorie, con eccessivo ricorso
alle visite fiscali, alle contestazioni disciplinari, al trasferimento in sedi lontane, al rifiuto immotivato di concessione di permessi o di ferie, al mancato riconoscimento di legittime gratificazioni, a uno stato di obbligata inedia lavorativa, a costanti e reiterate angherie.
A chi non è mai capitato di vedersi criticare o di vedersi negare un sacrosanto riconoscimento di merito conquistato sul campo?
Certo non è storia solo dei giorni nostri (anche se l’organizzazione del lavoro, basata oggi
sull’eccessiva competitività e sul ricorso massiccio alla tecnologia, esaspera il fenomeno,
La scienza classifica il male
La giustizia garantisce tutela
Nel mirino del “mobber” più numerose le donne
“Lo stillicidio quotidiano di offese, umiliazioni, ritorsioni, intimidazioni, vessazioni
psicologiche e un generalizzato e costante
clima di tensione comportano un’alterazione della sfera neuropsichica – aggiunge il
professor Gilioli, che è stato relatore a un
convegno recentemente tenutosi a Milano
sull’argomento – il soggetto colpito da
mobbing, spesso, cade in depressione,
talvolta perde il posto di lavoro e in ogni
caso intacca il proprio menage familiare”.
Quando un soggetto diventa il capro espiatorio all’interno di un’azienda per fronteggiare l’accresciuta concorrenza dei colleghi, il fantasma della disoccupazione reso
ancora più preoccupante dalla crisi cronica
di posti di lavoro, il montante stress, di lì a
breve dovrà far fronte ad insonnia, paura,
debolezza generalizzata, si sentirà crollare
addosso il mondo, in una forma di isolamento sistematico o di attacchi più o meno
diretti alla propria persona.
“Nel nostro Centro finora abbiamo esaminato circa mille casi – spiega ancora il
professor Gilioli – si tratta di persone
provenienti da tutta Italia, di entrambi i
sessi, anche se con una lieve prevalenza
femminile, con un’età media tra i 35-44
anni e 44-55 anni, con un livello di scolarità medio-alta (diploma superiore oltre ad
un’elevata presenza di laureati), che rivestono qualifiche di impiegati, quadri e dirigenti (solo in minima parte operai) sia nel
settore privato sia nel pubblico, costrette a
subire queste forme di abuso di potere per
periodi anche molto lunghi, dai due ai quattro, cinque anni e oltre, talvolta. Queste
persone manifestano i primi disagi con
sintomi di allarme psicosomatico: si va
dalle cefalee ai disturbi dell’equilibrio, dai
problemi gastrici ai dolori ostearticolari.
Ma non solo. Spesso a questo quadro
iniziale si associano nel tempo disturbi di
natura emozionale, quali ansia, tensione,
attacchi di panico, disturbi del sonno e
dell’umore, e di natura comportamentale,
quali anoressia, bulimia, farmacodipendenza, fobie.
Difficile la diagnosi per l’omertà dei colleghi
Non sempre risulta facile la diagnosi delle
situazioni lavorative di mobbing e delle
malattie correlate proprio per una scarsa
collaborazione dell’ambiente di lavoro;
perciò diventa importante il ruolo svolto
all’interno dell’azienda dai responsabili
delle risorse umane e dal medico del lavoro, anche ai sensi di quanto previsto dall’attuale normativa in materia, in primo luogo
il D.L. 626/94”. Ma tant’è. I problemi delle
persone perseguitate cadono nell’indifferenza e spesso suscitano un diffuso senso
di fastidio nell’ambiente di lavoro. È un
male, quello dei mobbizzati, che, ancora
oggi, l’Inail non riconosce ufficialmente e
che spesso anche a livello sindacale
richiama scarsa attenzione per la sua stessa natura.
Se poi il mobbing è strategicamente mirato
in ragione di un preciso disegno di esclusione di un lavoratore (al fine di creare le
condizioni ottimali per un licenziamento o
per le dimissioni, una sorta di morbido
ammortizzatore sociale, come viene visto
da molti) o è solo un mobbing cosiddetto
emozionale, perché deriva da un’esaltazione dei comuni sentimenti di ciascun individuo, quali gelosia, rivalità, antipatia, ambizione, questo non cambia la sostanza del
problema.
E dal punto di vista giuridico cosa s’intende per mobbing? Esiste una legge ad hoc?
Come si sono orientati finora i giudici?
Finalmente qualcosa si muove, occorre
dirlo, sia pure a fatica comincia a farsi strada, da qualche anno, una maggiore attenzione alla portata del fenomeno e una più
precisa presa di coscienza da parte delle
istituzioni.
Diversi disegni e progetti di legge sono
stati portati all’esame del Parlamento (il
primo cronologicamente parlando risale
addirittura al 1996), con lo scopo di produrre il varo di leggi specifiche, con linee guida
comuni anche se con profonde differenze,
aventi finalità preventive e di informazione
ma anche repressive (si prevedono infatti
sanzioni penali per chi pone in essere atti
di violenza psicologica nei confronti di individui “costretti a subire tali atti a causa di
uno stato di necessità”). Il mobbing,
dunque, comincia ad essere considerato
come violenza o persecuzione psicologica, una sorta di vero e proprio terrorismo
psicologico contro il quale si rendono
necessari provvedimenti di tutela di e difesa dei lavoratori impiegati in tutte le tipologie di lavoro “pubblico e privato, comprese
le collaborazioni”, con sanzioni notevolmente aumentate se la condotta illegittima
comporta per la persona offesa anche
danni psico-fisici o danni materiali ed
economici o sanzionando espressamente
la condotta di strategia societaria illecita o
istituendo uno sportello unico contro gli
abusi nei posti di lavoro.
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2000
Le persone colpite, costrette a subire violenze psicologiche, cadono vittime, sovente, di gravi patologie di tipo psichiatrico. Un male insidioso che mette a rischio anche la salute dei congiunti. Si calcola che in Italia siano oltre un milione e mezzo i prestatori d’opera assoggettati ad attacchi sistematici durante l’attività lavorativa. Il fenomeno studiato e classificato dalla scienza medica. Quale tutela legislativa? Sono in atto iniziative parlamentari, ma l’ordinamento è già in grado di sanzionare le responsabilità accertate. Dai tribunali sono
recentemente venute significative sentenze.
mortale ma occorrono le prove
Trasferimenti ingiustificati ma anche pesanti carichi
di lavoro
rendendo in taluni casi secondaria l’importanza del fattore uomo). Il mobbing è sempre esistito.
Ma è solo negli ultimi anni che il fenomeno, che ha assunto pesantissimi costi sociali e sanitari, ha richiamato l’attenzione degli operatori. Tanto da rappresentare una materia di studi interdisciplinari, avviati con sistematicità e con rigore scientifico.
È bene, tuttavia, tenere presente che perché si possa parlare, non a sproposito, di mobbing
(termine importato dalla Svezia, dove per la prima volta ne è stata individuata la rilevante
portata sociale), occorre la ripetitività, la reiterazione per mesi e anni da comportamenti di offesa perpetrati nei confronti dei soggetti interessati.
Secondo le definizioni mediche, in pratica, si tratta di un rischio lavorativo cosiddetto “relazionale” o “interpersonale” che va sempre più diffondendosi, al punto che, secondo uno studio
condotto e reso noto dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working
Conditions, in Italia interesserebbe attualmente il 4,2% della forza lavoro, vale a dire circa
1.000.000 di persone (dati da riferirsi agli anni dello studio 1996-97, mentre per quest’anno si
fanno già proiezioni oltre 1.500.000), con conseguente grave perdita di efficienza per le aziende. Dunque, una vera e propria emergenza.
“Il mobbing – afferma il professor Renato Gilioli, responsabile del Centro per il disadattamento
Lavorativo, istituito da due anni presso la Clinica del Lavoro di Milano, unico centro pubblico in
Italia ad occuparsi in modo specifico del problema – comporta effetti devastanti sulla salute del
lavoratore e dei suoi congiunti (che sono vittime secondarie del fenomeno) provocando situazioni patologiche, il più delle volte di tipo psichiatrico, con disturbi post-traumatici da stress e
disturbi dell’adattamento.
Ciò spesso provoca, nel soggetto colpito, ferite psichiche non più rimarginabili nel tempo, indipendentemente dalla personalità individuale del mobbizzato”.
Solo la certificazione medica può dare sostanza all’accusa
Vi è da dire però che, a tutt’oggi, già esistono nel nostro ordinamento gli strumenti
validi per configurare il mobbing e per tutelare il lavoratore che da esso viene colpito
e vi sono state le prime pronunce di merito
sul problema, applicando in modo organico la normativa in vigore, con disposizioni
sparse nel sistema. Con la particolarità,
tuttavia, che nel caso del mobbing viene
completamente ribaltato, per il giurista, il
piano di studio del fenomeno: normalmente, in ambito giuridico, se un comportamento è giuridicamente rilevante in quanto
posto in essere in violazione di una norma,
cioè contra legem, se ne studiano gli effetti e le conseguenze di carattere risarcitorio, in questo caso, il punto di partenza è la
patologia accertata dal medico e solo in un
secondo tempo se ne individuano le cause
e i possibili rimedi; in buona sostanza, se
lo psichiatra dichiara il lavoratore ammalato, se la causa trova origine nell’ambiente
di lavoro, allora si può parlare, dal punto di
vista degli operatori del diritto, di mobbing.
E, in questa ottica, una definizione giuridica, anche se ancora eccessivamente
generica, di mobbing si può già ricavare,
dalle due pronunce di merito rese dal Tribunale di Torino (16.11.1999; 30.12.1999),
che hanno sanzionato espressamente il
fenomeno: “spesso nelle aziende il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte
dei superiori e, in particolare, vengono
poste in essere nei suoi confronti pratiche
dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e,
nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il
cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore d’opera,
menomandone la capacità lavorativa e la
fiducia in sé stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino
suicidio”. Si deve quindi trattare di comportamenti intenzionalmente mirati a una
pressione psicologica e morale sul lavoratore, non occasionali e sporadici, ma
predeterminati. Nel caso specifico, tuttavia,
il Tribunale ha assolutamente dimenticato
di esaminare in quante occasioni e per
quanto tempo la ricorrente ha subito trattamenti incivili tali da configurare una condotta mobbizzante, trascurando in toto di dare
rilievo a quegli elementi di ripetitività e
frequenza necessari a dare sostanza al
mobbing.
Va anche detto che, al momento, la giurisprudenza ancora non si è pronunciata su
possibili forme di mobbing perpetrate da
colleghi di pari livello o, addirittura, da
subalterni.
E occorre poi sottolineare come già in
passato i giudici in realtà si siano occupati
di fattispecie configurabili come mobbing,
pur senza che lo si classificasse come tale.
Non è episodico, infatti, il caso di reiterate
distorsioni createsi nell’ambito lavorativo,
con conseguenti negative incidenze sull’individuo colpito, anche non necessariamente da parte di un gruppo, ma semplicemente ad opera di un solo soggetto: si va
dalle molestie sessuali (importante sul
punto la recentissima sentenza 8.1.2000
nella quale la Corte di Cassazione ribadisce come tali atti “costituiscono uno dei
comportamenti più detestabili fra quelli che
possono ledere la personalità morale e,
come conseguenza, l’integrità psico-fisica
dei prestatori d’opera subordinati”, facendo
sorgere a carico del datore di lavoro “una
vera e propria responsabilità contrattuale
per l’inadempimento dell’obbligo previsto
dall’articolo 2087 codice civile”), esercitate
abusando molto spesso di una posizione
di potere, fino alla negazione completa
della professionalità lavorativa, con relativo
ridimensionamento e dequalificazione,
oltre che con una mortificazione nelle
aspettative professionali e un mancato
conseguente riconoscimento della qualificazione professionale, con una palese
violazione del dettato legislativo (articolo
2103 codice civile).
In tali ipotesi, ovviamente, oltre all’obbligo
in capo al datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nelle mansioni spettantigli, sussiste quello del risarcimento del
danno alla professionalità globalmente
intesa, danno che viene liquidato in via
equitativa dal giudice. E tale danno, per la
negazione della professionalità di una lavoratrice in seguito a comportamenti distorsivi mirati a un demansionamento, è stato
riconosciuto e liquidato anche nella succitata sentenza del Tribunale di Torino
30.12.99.
Condanna esemplare dei responsabili
oltre a un congruo risarcimento
Certo, i problemi, dal punto di vista della
tutela dei diritti del lavoratore, si fanno più
rilevanti quando la difesa, anziché di fronte
a un licenziamento (in presenza del quale
può sempre reagire, con l’impugnazione),
si trova a dover riparare a una situazione
di dimissioni forzose, alle quali il soggetto
mobbizzato è stato costretto al culmine di
anni di vessazioni e ritorsioni.
Cosa fare, come reagire? Se si prova il
mobbing e quindi una giusta causa, va
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riconosciuto un risarcimento, oltre al preavviso. E, ancora, si può chiedere la reintegrazione, provando (con un onere probatorio pesante a carico del lavoratore, soprattutto in considerazione delle omertà fisiologiche ed inevitabili dei colleghi di lavoro),
che le dimissioni non sono state frutto di
una scelta consapevole ma determinate da
un comportamento illegittimo, ai sensi
dell’articolo 1434 codice civile.
Spesso il Giudice, chiamato ad accertare
la sussistenza di condotte e comportamenti mobbizzanti, si trova a dover valutare se
il datore di lavoro non abbia nel caso di
specie inciso con propri atti (trasferimenti,
valutazioni, assegnazione di mansioni inferiori a quelle per le quali si è stati assunti,
licenziamenti) sulla posizione del lavoratore, mosso da intenti discriminatori, di ritorsione o punitivi o per motivi irragionevoli ed
illeciti, anche in considerazione dei principi
cardine di buona fede e correttezza. Se da
una valutazione complessiva dei comportamenti reiterati emergono connotazioni
persecutorie, il giudice ha il dovere di
sanzionare tali condotte.
Ma anche l’impegno eccessivo richiesto a
un prestatore d’opera a causa di una cattiva organizzazione del lavoro all’interno
dell’azienda (ad esempio, dover lavorare
ininterrottamente, senza poter godere del
riposo settimanale o dover lavorare con
eccessivi carichi di lavoro giornalieri), va
stigmatizzato, come ha ribadito la Suprema Corte in una sua recente pronuncia:
l’eccessivo sovraccarico di lavoro, tale da
eccedere la normale tollerabilità secondo
le regole di comune esperienza, oppure un
carico sproporzionato di lavoro usurante,
configura una violazione degli articoli 32
(che tutela il diritto primario ed assoluto
alla salute, con una norma immediatamente precettiva) e 41, comma 2 della Costituzione (che pone un limite all’iniziativa
economica privata, laddove ne vieta l’esercizio con modalità tali da pregiudicare sicurezza e dignità umana), dell’articolo 18
dello Statuto dei Lavoratori, nonché un
inadempimento dell’articolo 2087 codice
civile (che contempla la responsabilità
contrattuale del datore di lavoro e che in
tale ambito va intesa come norma di chiusura dell’ordinamento a protezione del
lavoratore), posto che il datore di lavoro ha
l’obbligo di organizzare al meglio i carichi
di lavoro e di adottare tutte le misure volte
a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro (Cassazione
5.2.2000 n. 1307).
Risulta chiaro, perciò, quale tipo di responsabilità incomba sul datore di lavoro. Per
lui non esiste solo un generico obbligo
all’adozione di tutte le misure di prudenza
e diligenza necessarie al fine di tutelare
l’incolumità e l’integrità psico-fisica del
lavoratore, ma anche un espresso divieto
di compiere direttamente qualsiasi azione
lesiva dell’integrità del dipendente e un
obbligo specifico di prevenire e scoraggiare la realizzazione di condotte potenzial-
mente lesive nell’ambito del rapporto di
lavoro. In sostanza, se il datore di lavoro
viene a conoscenza di condotte illegittime
tenute da alcuni suoi collaboratori o dipendenti nei confronti di un altro suo dipendente ha l’espresso obbligo di intervenire a
tutela del soggetto vessato, anche con il
licenziamento in tronco dei “mobber”,
come ha riconosciuto più di una volta la
giurisprudenza.
Se poi, il mobbing presenta deprecabili
connotazioni di maltrattamento verbale e
di aggressione ingiuriosa a danno del lavoratore, lo stesso ha diritto al risarcimento
del danno patrimoniale alla professionalità
o all’immagine professionale, del danno
biologico per i danni alla salute e alla vita
di relazione, del danno esistenziale di più
recente creazione dottrinale e giurisprudenziale (da intendersi come somma di
ripercussioni relazionali di segno negativo,
che si concreta nella rinuncia a un facere)
e del danno morale, ex articoli 2043 e 2059
codice civile, oltre a sconfinare addirittura
nel reato di ingiurie.
Tra le più recenti pronunce, in merito, si
segnala, tra le altre, la sentenza n. 11727
del 18.10.99 nella quale i giudici hanno
riconosciuto un danno esistenziale conseguente a un ipotesi accertata di demansionamento del lavoratore. In questa lettura
combinata delle disposizioni del nostro
ordinamento, bisogna tenere presenti
anche gli articoli 1175 e 1375 codice civile,
che prevedono i principi fondamentali della
buona fede e correttezza, nonché tutte le
norme antidiscriminatorie, in particolare gli
articoli 2, 3, 4, 13, 35 ultimo comma, 37,
comma 1, 39, 46 della nostra carta costituzionale, gli articoli 8, 15 e 19 dello Statuto
dei Lavoratori, le leggi 903/1977,
125/1991, 135/1990 e tutte le norme internazionali e comunitarie in tema di divieto
di discriminazione sul luogo di lavoro. In
pratica, laddove si accerta un nesso di
causalità tra condotta mobbizzante e lesione, il relativo danno psichico (che dal punto
di vista medico non è mai effetto di una
sola causa, ma di una serie di concause o
fattori di rischio), va riconosciuto come
malattia professionale.
Sul piano penale, d’altra parte, i reati direttamente collegati al mobbing e ravvisabili
nei diversi casi, possono ricomprendere
molte fattispecie: dalle lesioni personali alle
molestie sessuali, dall’abuso di ufficio alla
violenza privata, spesso con l’aggravante
di aver commesso il fatto con abuso di
autorità, di relazioni d’ufficio o di prestazione d’opera.
Attenti: se manca la prova si rischia il licenziamento
È bene, altresì, rilevare, che, accanto a
condotte tipiche, configurabili già come
comportamenti tenuti in violazione di ben
precise disposizioni di legge, e quindi già
immediatamente stigmatizzate dal nostro
ordinamento (licenziamenti, demansionamenti, mancata osservanza dei comportamenti di reintegra del giudice), esiste ancora una serie numerosissima di condotte
cosiddette atipiche, più subdole e striscianti, non immediatamente sanzionate e difficilmente sanzionabili, se non accompagnate da altre condotte tipiche, per la difficoltà stessa per il giudice di accertare il
danno effettivamente arrecato al lavoratore
(ad esempio, l’eccessivo numero di visite
fiscali richieste, il controllo esasperato del
tempo trascorso alla macchina del caffè o
al telefono etc.); queste ultime, difficilmente connotabili giuridicamente, oltre ad
essere certamente espressione dell’autorità del datore di lavoro, possono anche
essere tenute da colleghi pari grado o
addirittura subalterni e possono comunque
causare gravi danni al lavoratore, se
trascendono la normale tollerabilità e se
vengono protratte con una certa frequenza
e un’esasperata ripetitività. Solo in tal
modo, un comportamento atipico con
connotati persecutori e/o vessatori,
espressione fisiologica di ogni aggregazio-
ne sociale, può acquisire rilevanza giuridica. Ma, se oggi in tanti rivendicano di essere stati mobbizzati per lungo tempo dal
datore di lavoro, la Corte di Cassazione
avverte: sono da evitare in ogni caso le
esasperazioni e le accuse infondate; infatti,
“un’accusa non provata di mobbing giustifica la comminazione di un licenziamento
per giusta causa, per violazione dello stesso rapporto di fiducia lavoratore-datore di
lavoro” (Cassazione 8.1.2000 n. 143). In
breve, muovere un’accusa di mobbing,
significa essere in grado “per il lavoratore
di provare gli elementi essenziali della fattispecie.
Al punto che, pur non potendosi escludere
che il reperimento delle varie fonti di prova
possa risultare particolarmente difficoltoso
a causa di eventuali sacche di omertà
sempre presenti, o per altre ragioni, non è
chi non veda che la mancata acquisizione
della prova in questione, riguardo alle
cause che hanno determinato la lesione
dedotta e gli effetti che si asserisce essere
derivati, impedisce al giudice l’accoglimento della domanda” (Cassazione citata). In
buona sostanza, attenzione: un’accusa
non provata di mobbing costituisce un
motivo legittimo di risoluzione del rapporto
di lavoro.
Luisella Nicosia, avvocato in Milano
13 (21)
Il disegno di legge concernente
Il provvedimento in pillole
“Delega al governo in materia
CRITERI GENERALI
• Delega a realizzare la riforma delle professioni intellettuali
entro diciotto mesi
• Accesso libero alle professioni, senza predeterminazione
numerica
• Garantire un’adeguata tutela del cliente e degli interessi
pubblici
• Possibilità di attività pubblicitaria
• Assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile del
professionista o della società professionale
di professioni intellettuali”
approvato il 10 novembre
dal Consiglio dei ministri
PROFESSIONI REGOLAMENTATE
• Esame di Stato, iscrizioni in Albi o elenchi, vigilanza da parte
di Ordini e Collegi
• Attività professionali riservate nei soli casi di legge
• Nuova disciplina per il tirocinio e per l’esame di Stato in modo
da garantire l’uniforme valutazione su base nazionale dei
candidati
• Previsione di corrispettivi minimi e massimi per la prestazione entro i quali viene fissato il costo effettivo
• Ammissione della pubblicità con carattere informativo
• Mantenimento dell’organizzazione in Ordini o Collegi connotati come enti pubblici non economici dotati di autonomia
patrimoniale
• Prevedere che il potere disciplinare sugli iscritti sia esercitato
da organi nazionali e locali con competenza distrettuale
• Delega per l’emanazione di Testi unici di riordino delle professioni
Gli Ordini (compreso il nostro)
e i Collegi salvati dal Governo,
ma non ne nasceranno di nuovi
Per i professionisti ammessa la pubblicità
Art. 1 - (Delega al Governo in materia di professioni intellettuali)
1. Il Governo è delegato ad emanare, entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più
decreti legislativi aventi ad oggetto la disciplina delle professioni intellettuali e delle rispettive forme organizzative, in
coerenza con le direttive comunitarie e nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi della presente legge.
2. Gli schemi di decreti legislativi di cui al comma 1, nonché
di regolamenti previsti dalla presente legge, sono emanati
sentiti gli ordini e collegi professionali interessati e le associazioni delle professioni non regolamentate rappresentate
nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nonché
previo parere delle competenti commissioni parlamentari. Gli
avvisi ed i pareri sono resi nel termine di trenta giorni dalla
ricezione degli schemi stessi, decorso il quale i decreti legislativi ed i regolamenti sono comunque emanati.
3. Entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascuno
dei decreti di cui al comma 1 possono essere emanati decreti correttivi e integrativi di questi ultimi con le modalità di cui
al comma 2, nel rispetto dei medesimi principi e criteri direttivi indicati nella presente legge.
4. Per l’adozione delle disposizioni di attuazione dei decreti
legislativi di cui al comma 1, nonché delle disposizioni volte a
coordinare con detti decreti la normativa già vigente, il Governo è autorizzato ad emanare regolamenti anche ai sensi
dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
con le modalità di cui al comma 2.
Art. 2 - (Principi e criteri generali di disciplina delle
professioni intellettuali)
1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 il Governo
disciplina le modalità generali di esercizio delle professioni
intellettuali e di accesso alle medesime, con le diversificazioni necessarie in relazione alla specificità delle singole tipologie professionali, nel rispetto dei seguenti principi e criteri
direttivi e fatti salvi i criteri specifici riguardanti le professioni
regolamentate, di cui agli articoli 3 e 4:
a) prevedere che l’accesso sia libero, in conformità al diritto
comunitario, senza vincoli di predeterminazione numerica se
non per le professioni aventi quale oggetto caratterizzante
l’esercizio di funzioni pubbliche;
b) assicurare, qualunque sia il modo o la forma, anche associativa, di esercizio della professione, un’adeguata tutela del
cliente e degli interessi pubblici connessi al corretto e legale
esercizio della professione medesima, la correttezza e la
qualità delle prestazioni, il rispetto delle regole deontologiche, la salvaguardia dell’autonomia del professionista nelle
scelte inerenti lo svolgimento della propria attività, la diretta e
personale responsabilità del professionista incaricato per
l’adempimento della prestazione professionale nonché per il
danno ingiusto derivante dalla prestazione stessa;
c) dare attuazione ai principi del pluralismo e della libertà di
scelta del cliente, distinguendo la disciplina dell’esercizio
della professione da quella dell’attività di impresa, comunque
nel rispetto dei principi nazionali e comunitari a tutela della
concorrenza, come affermati dagli articoli 81 e seguenti del
trattato istitutivo della Comunità europea e successive modificazioni;
d) consentire la pubblicità;
e) prevedere che il corrispettivo della prestazione professionale sia fissato con determinazione consensuale delle parti,
garantendo il diritto del cliente alla preventiva indicazione dei
criteri di determinazione;
f) prevedere l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria per
la responsabilità civile del singolo professionista ovvero della
società professionale, conseguente ai danni causati nell’esercizio dell’attività professionale, tale da assicurare l’effettivo risarcimento del danno, anche in caso di attività professionale svolta da dipendenti professionisti;
14 (22)
g) introdurre, al fine di assicurare la corretta informazione del
cliente e tutelarne la buona fede, l’obbligo per il professionista di specificare la situazione aggiornata del proprio stato
con riferimento all’appartenenza ad ordini o collegi ovvero
ad associazioni di cui all’articolo 9.
Art. 3 - (Principi e criteri generali speciali per l’accesso
alle professioni intellettuali regolamentate)
1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il Governo
disciplina le specifiche modalità di accesso alle professioni
intellettuali attualmente regolamentate, nel rispetto dei
seguenti principi e criteri direttivi e con le diversificazioni
necessarie in relazione alla specificità delle singole tipologie
professionali:
a) prevedere l’esame di Stato per l’abilitazione professionale,
l’iscrizione in Albi o elenchi, la vigilanza su questi ultimi di
Ordini o collegi professionali di cui all’articolo 6, nei limiti e
nella misura in cui tali requisiti sono previsti dalle disposizioni
vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge,
senza che dalla natura di professione regolamentata derivi
una riserva di attività professionale a favore degli iscritti agli
Ordini o collegi, se non nei casi di cui alla lettera b);
b) nell’ambito delle professioni regolamentate limitare le attività professionali riservate a determinati professionisti ai soli
casi in cui tale riserva è prevista dalle disposizioni di legge
vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge;
c) disciplinare l’esame di Stato per l’abilitazione professionale in modo da garantire l’uniforme valutazione dei candidati su base nazionale e la verifica oggettiva del possesso
delle competenze tecniche necessarie, tenendo conto della
specificità delle singole professioni; prevedere che le
commissioni giudicatrici siano composte secondo canoni di
imparzialità e di adeguata qualificazione tecnica, limitando la
presenza di membri designati dagli Ordini e collegi professionali a non oltre la metà dei componenti e garantendo, in
caso di esami in sede locale, che detti membri, se iscritti allo
stesso Ordine o collegio, siano iscritti ad Albi o elenchi territoriali diversi da quelli di riferimento dell’esame di Stato;
d) disciplinare il tirocinio professionale, ove previsto, secondo
modalità che garantiscano effettività e flessibilità dell’attività
formativa, un equo compenso commisurato all’effettivo
apporto del tirocinante all’attività dello studio professionale,
forme alternative di tirocinio, di carattere pratico o con la
frequenza a corsi specialistici riconosciuti dal Ministero
competente, assicurandone una durata omogenea; possibilità di effettuare il tirocinio, anche in parte, all’estero e nelle
eventuali forme alternative, contemporaneamente agli studi
necessari per il conseguimento del titolo professionale,
garantendo in ogni caso lo studio dei fondamenti teorici e
deontologici della professione.
Nei testi unici la nuova mappa degli Ordini
Art. 4 - (Principi e criteri speciali relativamente ad alcuni
aspetti dell’esercizio di professioni intellettuali regolamentate)
1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 il Governo,
con riferimento alle professioni regolamentate di cui all’articolo 3, disciplina la materia dei corrispettivi e della pubblicità,
tenendo conto delle disposizioni e delle decisioni comunitarie adottate in materia e del diritto del cliente ad una prestazione professionale qualitativamente adeguata nonché attenendosi ai seguenti principi e criteri specifici rispetto a quanto previsto dall’articolo 2:
a) prevedere che il corrispettivo della prestazione professionale sia fissato con determinazione consensuale delle parti,
ai sensi del comma 1, lettera e), dell’articolo 2, salvo quanto
previsto dalle lettere b) e c) del presente articolo;
b) individuare i casi in cui, a tutela del cliente, sono fissati i
corrispettivi massimi delle prestazioni professionali, che
devono essere rispettati dalle parti;
c) individuare i corrispettivi minimi che devono essere rispettati dalle parti per le prestazioni professionali, nonché i corri-
spettivi che devono essere applicati dalle parti per le prestazioni imposte, in modo tale che i predetti corrispettivi siano
rapportati al costo della prestazione, comprensivo delle
spese e del compenso del professionista;
d) affidare a decreti del Ministro competente, adottati su
proposta di commissioni istituite dal Ministro medesimo, con
la partecipazione in percentuale minoritaria di esperti designati dagli Ordini e collegi professionali interessati, la fissazione dei casi e dei corrispettivi di cui alle lettere b) e c);
e) prevedere che la pubblicità abbia carattere informativo,
con riferimento alle oggettive caratteristiche delle prestazioni
offerte ed al percorso formativo e professionale, anche di
specializzazione, del professionista.
2. In via transitoria e fino all’adozione dei decreti di cui alla
lettera d), restano applicabili le disposizioni, vigenti alla data
di entrata in vigore della presente legge, che prevedono tariffe professionali.
Art. 5 - (Principi e criteri in materia di società di professionisti)
1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il Governo
prevede che le professioni intellettuali possano essere esercitate individualmente ovvero in associazione ovvero in
società, queste ultime costituite come segue:
a) relativamente alle professioni non regolamentate, secondo i tipi di cui all’articolo 2249 del codice civile o secondo il
tipo di società professionale di cui al comma 3;
b) relativamente alle professioni regolamentate, secondo il
tipo di società professionale di cui al comma 3.
2. È comunque consentita la costituzione di società ai sensi
dell’articolo 2249 del codice civile, anche con soci che conferiscono mero capitale, per l’esercizio di servizi, come definiti
dalla direttiva 92/50/CE o da altre disposizioni comunitarie,
implicanti prestazioni professionali regolamentate di cui all’articolo 3, salvi i limiti derivanti dalla disciplina delle attività
riservate e salvo il disposto del comma 5.
3. La società professionale di cui al comma 1 lettera b) è
disciplinata, come tipo autonomo e distinto da quelli previsti
dall’articolo 2249 del codice civile, nel rispetto dei principi
della presente legge e secondo i seguenti criteri:
a) prevedere l’obbligo dell’uso della denominazione “società
professionale”, con la precisazione in essa dell’attività professionale esercitata;
b) limitare l’oggetto sociale all’esercizio di attività professionale o multiprofessionale, con i limiti derivanti dalle attività
riservate, e riservare la partecipazione societaria nonché le
cariche sociali a soci professionisti;
c) prevedere che il conferimento dei soci professionisti possa
consistere nella prestazione professionale ovvero in detta
prestazione unitamente a capitale, anche sotto forma di
apporto di clientela;
d) prevedere che la quota sociale possa essere rappresentata, quando sussistano specifiche esigenze in tal senso,
anche da titoli partecipativi;
e) prevedere che delle prestazioni contratte dalla società
professionale risponda illimitatamente il socio professionista
che ha eseguito la prestazione professionale o che ha agito in
nome della società nonché, in solido, la società professionale;
f) prevedere la sottoposizione della società, nei casi di
società aperta a soci esercenti professioni intellettuali diverse, alle disposizioni riguardanti le diverse professioni rilevanti, con modalità tali da coordinare le norme sostanziali e
procedimentali che regolano i diversi profili di responsabilità,
anche disciplinare;
g) prevedere limitazioni alla partecipazione alle società
professionali ove detta partecipazione porti a situazioni di
conflitto di interessi o di elusione delle incompatibilità fissate
dalla legge;
h) disciplinare l’iscrizione, con gli opportuni adattamenti e a
pena di scioglimento, delle società professionali, in apposite
sezioni degli Albi professionali relativi alle professioni intellettuali esercitate e prevedere specifica responsabilità disciplinare delle società stesse per i profili loro ascrivibili, ferme
restando l’iscrizione e la responsabilità disciplinare, anche
concorrente, dei singoli professionisti;
ORDINE
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2000
ASSOCIAZIONI
• Possibilità di costituire libere associazioni di professionisti su
base volontaria, di natura privatistica e nel rispetto della libera concorrenza
• Possibilità di rilascio di attestati di competenza
• Previsione di una registrazione presso il ministero della
Giustizia delle associazioni professionali che rilasciano attestati di competenza
SOCIETÀ PROFESSIONALI
• Costituzione come società professionali o in base all’articolo 2249 del Codice civile per le professioni non regolamentate
• Costituzione come società professionali per le professioni
regolamentate
• “Salvataggio” delle società di ingegneria
• La società professionale dovrà: usare la denominazione
“società professionale”, riservare partecipazioni e cariche
ai soci professionisti, prevedere che delle prestazioni
risponda il socio professionista, disciplinare l’iscrizione in
apposite sezioni degli Albi professionali relativi alle professioni esercitate
(da “Il Sole 24 Ore on-line”)
i) prevedere il diritto di prelazione a favore dei soci professionisti e di gradimento da parte di una maggioranza qualificata
di questi ultimi nei confronti del nuovo socio in caso di cessione di partecipazioni nella società professionale, nonché del
diritto di riscatto a favore degli altri soci della partecipazione
societaria del socio escluso o deceduto;
l) disciplinare l’attività della società professionale in modo
che, in caso di affidamento dell’incarico a quest’ultima, siano
garantiti il diritto del cliente di scegliere il professionista incaricato della prestazione professionale e la responsabilità
diretta di quest’ultimo; prevedere che, in caso di mancata
scelta del professionista, sia comunicato al cliente, prima
dell’esecuzione della prestazione, il nominativo del professionista incaricato, con conseguente responsabilità disciplinare della società, in difetto di idonea comunicazione; assicurare comunque l’individuazione certa del professionista
autore della prestazione;
m) qualificare, ai fini tributari e previdenziali, il reddito dei
professionisti, derivante dalla partecipazione all’attività della
società professionale, con riguardo alla natura del conferimento nella società;
n) individuare le informazioni che il professionista, anche in
deroga alla normativa sul segreto professionale, è tenuto a
fornire alla società alla quale partecipa sullo svolgimento dei
propri incarichi;
o) disciplinare in maniera autonoma le situazioni di insolvenza della società professionale con esclusione della sottoposizione a fallimento.
4. Sono fatte salve le disposizioni vigenti in materia di società
di ingegneria di cui alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, e
successive modificazioni, e le disposizioni emanate in attuazione delle direttive comunitarie ed in particolare dell’articolo
19 della legge 21 dicembre 1999, n. 526.
5. Il professionista che a qualunque titolo svolge attività
professionale intellettuale per conto delle società di cui al
presente articolo è soggetto alla disciplina propria dell’attività
professionale medesima. Questa ultima e gli atti in cui essa
si estrinseca sono direttamente imputabili al professionista
che ne è autore e ne risponde in solido con la società.
6. Eventuali disposizioni, necessarie ai fini del coordinamento tra le norme emanate sulla base del presente articolo e
altre normative già vigenti, sono adottate ai sensi del comma
4 dell’articolo 1 della presente legge.
g) demandare agli Ordini e collegi nazionali compiti di indirizzo e coordinamento degli Ordini e collegi locali ed in particolare il controllo sulle elezioni di questi ultimi;
h) prevedere come compiti degli organi professionali locali,
con riferimento agli iscritti: la tenuta aggiornata dell’Albo o
dell’elenco; l’esercizio della vigilanza disciplinare; l’adozione
di iniziative volte alla formazione e all’aggiornamento professionali; la continua verifica della permanenza dei requisiti per
il corretto esercizio dell’attività professionale degli iscritti; la
vigilanza sul rispetto delle regole deontologiche.
Art. 6 - (Principi e criteri in materia di ordini e collegi
professionali)
1. Nell’attuazione della delega di cui all’articolo 1 il Governo
provvede a disciplinare l’organizzazione degli Ordini e collegi
professionali, sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi:
a) mantenere, per le professioni regolamentate di cui all’articolo 3, l’organizzazione in Ordini o collegi professionali cui
spetta la tenuta degli Albi o elenchi, la disciplina degli iscritti,
nonché la tutela degli interessi pubblici connessi all’esercizio
delle professioni stesse;
b) connotare gli Ordini e collegi professionali come enti
pubblici non economici dotati di autonomia patrimoniale,
finanziaria e di autorganizzazione, soggetti alla vigilanza del
Ministero competente, nel rispetto dei principi fissati dalla
presente legge e dai decreti legislativi di attuazione, nonché
dalle altre leggi dello Stato;
c) prevedere che l’obbligo di versamento da parte degli iscritti dei contributi determinati dagli Ordini e collegi, nazionali e
locali, di appartenenza, sia limitato alla misura necessaria
all’espletamento delle funzioni specificamente demandate
all’Ordine o al collegio;
d) disciplinare, anche con rinvio a regolamenti ministeriali, i
meccanismi elettorali per la nomina a cariche degli Ordini e
collegi professionali, intesi a garantire la trasparenza delle
procedure, la tutela delle minoranze, nonché l’individuazione
dei casi di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza, il diritto
di voto e l’elettorato attivo e passivo degli iscritti, la durata
temporanea delle cariche ed i limiti di rinnovo delle stesse;
e) prevedere l’articolazione territoriale degli Ordini e collegi
professionali in organi nazionali e locali, secondo criteri
tendenzialmente uniformi, tenuto conto delle specifiche
necessità delle singole professioni e ferma restando l’estensione dell’abilitazione all’esercizio della professione a tutto il
territorio nazionale, salve le limitazioni volte a garantire
l’esercizio di funzioni pubbliche;
f) prevedere l’attribuzione agli Ordini e collegi professionali
nazionali, della vigilanza sugli organi locali, nonché del potere di adottare atti sostitutivi in caso di inerzia di questi ultimi
esclusivamente in presenza di rilevante interesse pubblico
generale e previa diffida; demandare agli Ordini e collegi
nazionali l’adozione del codice deontologico nazionale,
nonché l’eventuale competenza di secondo grado sui provvedimenti disciplinari dell’Ordine locale; affidare loro l’adozione di misure idonee ad assicurare la completa informazione
del pubblico in materia di prestazioni professionali, anche
mediante la diffusione delle relative norme tecniche, per
promuovere la formazione professionale, la cultura della
qualità nonché il monitoraggio del mercato delle prestazioni
e la ricognizione dei contenuti tipici delle prestazioni medesime;
ORDINE
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2000
Art. 7 - (Principi e criteri in materia di codice deontologico e potere disciplinare)
1. Nell’attuazione della delega il Governo di cui all’articolo 1,
con specifico riferimento all’emanazione di codici deontologici di categoria e al potere disciplinare degli ordini e collegi
nei confronti degli iscritti, si attiene in particolare ai seguenti
principi e criteri generali:
a) fissare criteri e procedure di adozione, da parte di ciascuno degli organi nazionali, di un codice deontologico professionale, al fine di tutelare gli interessi pubblici del corretto
esercizio della professione e comunque coinvolti nell’esercizio della professione stessa, nonché di indirizzare quest’ultima a fini sociali, di tutelare l’affidamento e la libera scelta del
cliente, di assicurare la qualità della prestazione professionale, nonché l’adeguata informazione sui contenuti e le modalità di esercizio della prestazione professionale;
b) prevedere che il potere disciplinare sugli iscritti agli Ordini
e collegi professionali sia esercitato da organi nazionali e
locali con competenza distrettuale, che mantengono natura
giurisdizionale ove attualmente prevista, distinti dagli organi
gestionali degli Ordini e collegi medesimi e composti da
professionisti con modalità idonee ad assicurare adeguata
rappresentatività, imparzialità ed indipendenza; prevedere in
particolare che in sede locale i componenti delle commissioni disciplinari iscritti all’Ordine o collegio professionale non
La riforma riguarda
5 milioni di persone
ROMA, 11 novembre. Il
Consiglio dei ministri ha
approvato, ora la parola
passa al Parlamento per una
corsa contro il tempo: il riordino degli Ordini professionali, messa a punto dal ministro della Giustizia Piero
Fassino, potrebbe essere
l’ultima grande riforma del
centrosinistra. La legge
darebbe due anni al governo
che verrà per disciplinare le
professioni.
Si tratta di una riforma
necessaria, attesa da molti e
per molti anni che prevede
una mini rivoluzione per 26
Albi che rappresentano un
milione e mezzo di professionisti e che resteranno tutti
in vita, mentre non ne
nasceranno di altri. Un
mondo complesso attorno al
quale orbitano anche tre
milioni di precari, tirocinanti,
giovani e meno giovani in
cerca di un futuro spesso
blindato. Ieri il disegno di
legge proposto da Fassino
ha segnato una nuova strada per tutto il mondo della
professioni. Si va dalla liberalizzazione dell’accesso,
alla “adeguata tutela degli
utenti e degli interessi
pubblici”. Nel documento si
parla poi di “pluralismo
professionale e libertà di
scelta da parte del cliente;
trasparenza nella pubblicità
delle caratteristiche delle
prestazioni, a tutela del
cliente. Sostituzione delle
attuali tariffe con un sistema
di corrispettivi fondati sull’effettivo costo delle prestazioni”. Tra i punti più controversi
della difficile ricerca di un
equilibrio, di un accordo con
il Cup, il comitato che riuni-
sce tutti gli Ordini d’Italia,
resta “la possibilità di esercitare la professione sia individualmente, sia con la costituzione di società professionali secondo tre modalità...”.
La parte più innovativa, e
quella destinata a suscitare
le maggiori polemiche, riguarda la possibilità di formare società di capitali
anche con soci non professionisti e senza il tetto del
25% come in primo tempo
ipotizzato. Lo schema di
Fassino prevede tre soluzioni.
Prima: società di soli professionisti senza capitale
(potranno mettersi insieme
commercialisti,
avvocati,
architetti, etc.) per le attività
regolamentate (iscrizione
all’Albo previo esame di
Stato) con esclusione per le
società di ingegneria come
previsto dalla legge Merloni
che rientrano così nel terzo
schema.
Seconda: società, anche
con partecipazione di capitale, per tutte le attività professionali “non regolamentate”
dagli Albi ma dalle associazioni.
Terza: società di capitale per
l’esercizio di servizi “implicanti prestazioni professionali regolamentate e non,
salvo i limiti previsti per le
attività riservate come i
medici e i notai.
Altri aspetti importanti sono la
sostituzione delle tariffe minime con un sistema di corrispettivi basati sull’effettivo
costo delle prestazioni e stabiliti da un un’autorità terza.
(“Corriere della Sera”,
“la Repubblica”,“La Stampa”)
appartengano allo stesso Ordine o collegio locale cui appartiene l’incolpato, eventualmente con lo spostamento della
competenza a conoscere del procedimento disciplinare;
c) prevedere regole procedurali per l’efficace esercizio dell’azione disciplinare e per favorire la celere conclusione del
procedimento, nonché la coerenza con i principi del contraddittorio e del giusto procedimento;
d) consentire l’impugnazione avanti gli organi nazionali dei
provvedimenti degli organi locali e l’esperibilità del ricorso
per cassazione avverso i provvedimenti degli Ordini e collegi
nazionali;
e) prevedere l’intervento nel procedimento disciplinare del
pubblico ministero o del Ministro competente alla vigilanza,
rispettivamente ove si tratti di procedimento giurisdizionale o
meno, nonché l’esercizio, in via sostitutiva, dell’azione disciplinare da parte del predetto Ministero nei casi in cui vi sia
inerzia dell’ordine o collegio competente;
f) prevedere, in casi di particolare gravità o di reiterata violazione di legge, il potere del Ministro competente di sciogliere,
sentiti gli ordini nazionali, i consigli degli Ordini o dei collegi
territoriali nonché di proporre al Consiglio dei Ministri lo scioglimento dei consigli degli ordini o dei collegi nazionali;
g) prevedere, anche con riferimento all’articolo 6, il rinvio a
regolamenti ministeriali, le norme procedurali idonee a
garantire il corretto svolgimento delle funzioni attribuite agli
Ordini e collegi, nella loro articolazione sia nazionale sia locale.
Art. 8 - (Principi e criteri in materia di testi unici di riordino delle professioni regolamentate esistenti)
1. Il Governo è delegato ad emanare, con le modalità previste dall’articolo 1, testi unici di riordino delle disposizioni
vigenti in materia di professioni regolamentate, attenendosi
ai principi e criteri direttivi della presente legge nonché ai
seguenti:
a) riordinare le attività delle singole professioni, con eventuali accorpamenti degli Ordini e collegi interessati, tenendo
conto in particolare della compatibilità con le esigenze di
circolazione dei titoli di studio presupposti all’esercizio delle
professioni nell’ambito dell’Unione europea, nonché delle
disposizioni comunitarie in materia di libere professioni;
b) perseguire una tendenziale uniformità, ove non incompatibile con il rispetto delle specificità delle singole professioni,
delle disposizioni applicabili a ciascuna professione a seguito della adozione dei testi unici stessi;
c) rinviare a regolamenti da emanare a norma dell’articolo
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, la disciplina degli aspetti organizzativi e procedimentali;
d) effettuare la puntuale individuazione del testo vigente delle
norme;
e) esplicitare le norme abrogate, anche implicitamente, da
successive disposizioni;
f) procedere al coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento,
le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica
e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio normativo;
g) esplicitare quali disposizioni non inserite nel testo unico
restano comunque in vigore;
h) dichiarare l’abrogazione delle rimanenti disposizioni, non
richiamate, che regolano la materia oggetto di delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico.
2. Dalla data di entrata in vigore del testo unico sono comunque abrogate le norme che regolano la materia oggetto di
delegificazione, non richiamate ai sensi della lettera g) del
comma 1;
3. Al fine di consentire una contestuale compilazione delle
disposizioni legislative e regolamentari riguardanti una
medesima professione, il Governo è autorizzato, nell’adozione dei testi unici di cui al comma 1, ad inserire nel medesimo testo unico, con adeguata evidenziazione, le norme sia
legislative sia regolamentari vigenti per ciascuna professione.
Art. 9 - (Principi e criteri in materia di associazioni
professionali)
1. Nell’attuazione della delega di cui all’articolo 1 il Governo
provvede inoltre a disciplinare, ferme restando le competenze di legge degli ordini e collegi professionali, le associazioni
di esercenti professioni intellettuali sulla base dei seguenti
principi e criteri direttivi:
a) garantire la libertà di costituire libere associazioni di
professionisti, di natura privatistica, fondate su base volontaria, senza vincolo di esclusiva e nel rispetto della libera
concorrenza;
b) prevedere la registrazione presso il Ministero della giustizia, sentito il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro,
delle associazioni professionali che svolgono l’attività di cui
alla lettera c), richiedendo che gli statuti e le clausole associative delle medesime associazioni garantiscano la trasparenza delle attività e degli assetti associativi, la dialettica
democratica tra gli associati, l’osservanza di principi deontologici, una struttura organizzativa e tecnico-scientifica
adeguata all’effettivo ed oggettivo raggiungimento delle finalità dell’associazione;
c) prevedere, relativamente alle professioni intellettuali non
regolamentate, anche in riferimento alle direttive 89/48/UE e
92/51/UE, che le associazioni di cui alla lettera b) possano
rilasciare attestati di competenza riguardanti la qualificazione
professionale, tecnico-scientifica e deontologica, in ogni caso
assicurando che le eventuali certificazioni richieste dalle
predette associazioni per tutti o parte degli associati abbiano
carattere oggettivo e provengano da soggetti terzi professionalmente qualificati;
d) prevedere, nel disciplinare le associazioni di cui alla lettera b), modalità idonee ad escludere incertezze in ordine alle
funzioni rispettivamente attribuite dalla legge agli ordini e
collegi professionali ed alle associazioni di professionisti;
e) prevedere anche per le associazioni di professioni intellettuali regolamentate, i cui statuti e le cui clausole associative
rispondono ai requisiti di cui alla lettera b), la facoltà di richiedere la registrazione presso il Ministero della giustizia al fine
dell’identificazione tecnico-professionale dei propri associati,
comunque senza pregiudizio per la concorrenza e senza
effetti restrittivi sull’esercizio della professione.
15 (23)
A Bologna, confronto internazionale su presente e futuro d
Il giornalista naufrago nella babele
di Gino Banterla
Quali sono le prospettive dei media alle prese con l’accelarazione del progresso tecnologico
e con la globalizzazione economico-culturale? In un momento di smarrimento collettivo i giornalisti, epigoni di quello che fu il Quarto Potere, non riescono a trovare risposta. Tantopiù se
discutono di “Informazione, conoscenza, verità”, tema altisonante e seducente sul quale
peraltro già dibattevano gli storici e i filosofi dell’antichità greca e romana, ma che dopo
duemila anni (e nonostante si siano affacciati nel frattempo sul palcoscenico della storia
Gutenberg, radio, televisione e Internet) lascia aperti gli stessi interrogativi.
Sull’argomento si sono confrontati all’Università di Bologna, il 29 e 30 ottobre scorsi, semiologi, premi Nobel, direttori di quotidiani e telegiornali, star varie del giornalismo. Umberto Eco, il
padrone di casa, ha provato a tirar le fila dei numerosi inteventi.
Ma alla fine una risposta esaustiva alle domande non c’è stata. Anzi, dal convegno organizzato dall’Académie universelle des cultures, dalla Scuola superiore di studi umanistici e da
Bologna 2000, è venuta la conferma che siamo immersi in una babele informativa nella quale
è sempre più difficile orientarsi. Il rischio di abdicazione da parte degli “operatori” di un servizio fondamentale per le democrazie moderne si fa sempre più concreto, proprio ora che il
progresso mette a loro disposizione mezzi di comunicazione rivoluzionari. Proprio ora che
possiamo sapere in un istante, atraverso il suono, l’immagine, la parola, quanto accade negli
angoli più remoti del pianeta.
Elie Wiesel, Nobel per la pace 1986 e presidente dell’Académie, ha detto: “Oggi siamo in
grado di sapere tutto e subito. Con l’affermarsi di Internet l’individuo è esposto a una valanga
d’informazioni così diverse, così numerose, che è praticamente impossibile assorbirle e
soprattutto gestirle. Improvvisamente l’informazione non è più una carta vincente. Essere
troppo informati significa essere male informati”.
Ecco il nocciolo del problema. L’informazione non deve essere fine a se stessa, come sta
accadendo ora, bensì va considerata nel complesso dei bisogni insopprimibili dell’individuo.
Essa infatti è la base della conoscenza, è un mezzo, non un fine. “L’informazione tratta nomi,
fatti, date, numeri, mentre la conoscenza è legata al senso che ne deriva”, ha continuato
Wiesel. “L’informazione usa i criteri della comunicazione, la conoscenza quelli della metafisica. In altre parole: io mi servo dell’informazione, ma aspiro alla conoscenza. E qual è il fine di
quest’ultima? Lo sappiamo tutti: è la verità”.
Elie Wiesel
Lucia Annunziata
Eugenio Scalfari
Gad Lerner
Furio Colombo
Umberto Eco
Eugenio Scalfari: la verità non esiste
Il rapporto perverso quotidiani-televisione
Si scivola inevitabilmente nel campo filosofico. Dovere del giornalista è dare un’informazione il più possibile obiettiva di un avvenimento, in modo da fornire al lettore o al telespettatore tutti gli elementi che gli consentano perlomeno, per il tramite della conoscenza, di avvicinarsi alla verità. Anche se è vero,
come ha detto Roger de Weck, direttore di
“Die Zeit”, che il giornalista oggi “cerca la
verità, mentre i media mettono in scena la
verità. E ad averla vinta sono i media”.
Provocatorio l’intervento di Eugenio Scalfari:
“Questo è un problema che ci ponevano
anche dieci o vent’anni fa, prima di Internet.
La verità però, va detto subito, non esiste. Mi
spiego. In cinquant’anni di carriera sono
sempre stato portatore di una verità, la mia.
In questo ero fondamentalista perché,
credendo di essere io nel vero, ritenevo che
chi non la pensava come me non lo fosse.
Ho tentato per tutta la vita di convertire gli
altri alla mia verità. In realtà esiste il verosimile, non il vero.
Ciascuno di noi guarda dal suo punto di
vista: se io osservo un volto di profilo lo vedo
diversamente da chi lo guarda di faccia, se
osservo dal basso o da sinistra non vedo la
stessa cosa di chi guarda dall’alto o da
destra”.
Secondo il fondatore di “Repubblica” chi
guida un giornale ha l’obbligo morale di dire
in maniera continuativa ai suoi lettori, e non
soltanto quando firma il primo editoriale, da
quale punto di vista egli osservi la realtà.
Sarà poi il lettore a trarre le conclusioni e a
costruirsi una sua opinione. “Purtroppo ciò
non accade”, ha aggiunto Scalfari. “I maggiori giornali, non soltanto italiani, si vantano di
non avere pregiudiziali. Il che equivale ad
esibire una patente di onnipotenza e di onnipresenza. Cioè: io ti vedo da tutti i punti di
vista, quindi sono imparziale.
Questo è non solo falso, ma materialmente
impossibile. Naturalmente, una volta scelto il
punto di vista, cioè la linea del giornale, io
giornalista devo raccontare tutto ciò che
vedo e capisco. Perché se, oltre ad essere
già in un certo senso parziale, pratico su ciò
che vedo censure oppure agginte, beh, allora cado nella sfera della scorrettezza”.
Oggi nel campo dell’informazione assistiamo
a una sorta di mercato delle verità nel quale,
secondo il poeta estone Jaan Kaplinski, ci
sono più risposte che domande, con la
conseguenza che la libertà d’opinione si
riduce “a libertà di scelta, come quando si
compila un questionario”. In questo stesso
Prendiamo per esempio il perverso rapporto
tra i quotidiani e la televisione. Umberto Eco
ha così analizzato il problema: “In Italia se un
uomo politico vuole che una sua dichiarazione appaia e sia vastamente commentata
sulla stampa, deve creare una provocazione
televisiva. Il mondo politico fissa l’agenda
delle priorità giornalistiche affermando qualcosa alla tv (addirittura facendo sapere che
lo affermerà), e la stampa il giorno dopo non
parla di quel che è accaduto nel paese ma
di quel che ne è stato detto o sarebbe potuto
essere stato detto in tv. La stampa, per attirare il pubblico della televisione, ha imposto
la tv come spazio politico privilegiato, pubblicizzando oltre misura il proprio concorrente
naturale. La stampa che parla della televisione è come un’automobile Fiat che porti
costantemente impresso sul cofano: acquistate Renault”.
E che dire della vecchia intervista, cara a
generazioni di giornalisti? “Intervistare vuol
dire regalare il proprio spazio a qualcuno per
fargli dire quello che vuole lui”, è il pensiero
di Eco. “Pensate solo a quel che accade
quando un autore pubblica un libro. Il lettore
si attende dalla stampa un giudizio e un
orientamento, e si fida dell’opinione di un
critico noto o della serietà della testata. Ma
oggi un giornale si ritiene battuto se non
riesce ad avere prima di tutto, con quell’autore, un’intervista. Che cos’è un’intervista
con l’autore? Fatalmente, autopubblicità.
Rarissimo che l’autore affermi di aver scritto
un libro ignobile. È consueto un ricatto implicito all’autore. Se non concedi l’intervista,
non faremo neppure la recensione; ma spesso il giornale, pago dell’intervista, dimentica
la recensione. In ogni caso il lettore è stato
defraudato; la pubblicità ha preceduto o
sostituito il giudizio critico e spesso il critico,
quando finalmente scrive, non discute più il
libro, ma quello che l’autore ne ha detto nel
corso delle varie interviste”.
Altra contraddizione della stampa italiana: la
ricerca dello scoop ad ogni costo. “Si dice
che un cane che morde un uomo non è una
notizia, mentre lo è un uomo che morde un
cane”, ha detto ancora Umberto Eco. “Non è
del tutto vero, perché se improvvisamente, in
una certa zona, troppi cani mordono gli
uomini, siamo di fronte a un fenomeno di cui
si dovrebbe parlare. Ma anche la notizia
dell’uomo che morde il cane diventa uno
scoop se è inconsueta. Troppi scoop si
annullano l’un l’altro in un rumore di fondo”.
Il perché di questa situazione è stato così
16 (24)
mercato ci sono spesso grandi verità che
contraddicono piccole verità, come ha spiegato Furio Colombo: “No alla clonazione
umana, dice la grande verità. Neppure a
quella che potrebbe salvare i grandi ustionati?, ribatte la piccola verità”.
Sulle problematiche che investono il giornalista nella scelta delle tante verità messe in
circolazione si è soffermato anche Gad
Lerner: “Noi abbiamo a che fare con grandi
verità che non sono affatto verificabili. Siamo
di fronte a una sorta di verità rivelate che
ripropongono confini e conflitti di civiltà. Si
pensi per esempio a quanto è accaduto in
Italia con il fenomeno di rigetto dell’Islam,
che ha visto schierati insieme esponenti religiosi e politici.
Dobbiamo fare i conti con queste verità,
comprenderne i valori, se vogliamo arrivare
a una possibile convergenza”.
Quando poi ci si trova a rappresentare le
verità del male, soprattutto nella cronaca
nera ma anche nella politica, secondo
Lerner peccano d’ingenuità coloro che
pensano di poter assolvere a una funzione
di controllo e di neutralizzazione. “Il male
non ha bisogno dei media per diffondersi
nella società, anzi, spesso il censurarlo dalla
nostra rappresentazione lo rende più potente”.
Tra le altre incertezze in cui si trova ad
operare il giornalista oggi, in un’epoca di
affermazione delle appartenenze, l’ex direttore del Tg1 individua quella del rapporto tra
il lavoro quotidiano e la verità che ciascuno
sente dentro di sé. “Occorre la consapevolezza della propria identità e della propria
personalità”, ha sottolineato Lerner.
“Il giornalismo dei polli d’allevamento, ridotto
a pura scuola, senza esperienze di vita
partecipate e rielaborate al suo interno
diventa soltanto marketing”. Vera o verosimile che sia, la rappresentazione della realtà
fatica sempre più ad emergere dalle nebbie
della omologazione planetaria.
Su questo sono tutti concordi, ottimisti e
pessimisti. Assistiamo all’affermaizone
crescente di un’informazione drogata di
sensazionalismo e di spettacolarizzazione
estrema.
Nel Bel Paese, in questo senso, abbiamo
saputo distinguerci. In negativo, ovviamente,
anche se il direttore del “Corriere della Sera”
Ferruccio de Bortoli non ha mancato di
mettere in evidenza i pregi della stampa
italiana, che sa dare prova, a suo dire, di
essere libera e indipendente.
illustrato da Eco: “Per far fronte alla concorrenza televisiva i quotidiani hanno aumentato le pagine, per aumentarle hanno lottato
per acquisire pubblicità, per avere più pubblicità hanno aumentato ulteriormente le pagine e hanno inventato i supplementi, per
occupare tutte quelle pagine dovevano pur
raccontare qualcosa, per raccontarlo sono
stati obbligati ad andare al di là della notizia
secca (già data dalla televisione) e quindi
sono diventati sempre più simili ai settimanali. Il giornale ha dovuto occuparsi sempre
più di eventi sociali e di costume, di varietà,
di gossip e soprattutto, se non c’erano notizie, è stato costretto a inventarle”.
“Inventare una notizia”, ha concluso Eco,
“non vuol dire informare su un evento che
non è avvenuto, bensì fare diventare notizia
quello che prima non lo era: la frase sfuggita
a un uomo politioc in vacanza, gli eventi del
mondo dello spettacolo, gli amori fra due
personaggi noti, persino trasformando nella
notizia di un divorzio o di un adulterio il fatto
che due persone erano state casualmente
viste insieme una sera al ristorante”.
Nello Ajello, saggista e giornalista già condirettore dell’“Espresso”, non vede via di
scampo: “Commuoversi, scandalizzarsi, indignarsi: è il motivo conduttore del giornalismo
di questi anni. I giornali mimano il linguaggio
televisivo, quasi la tv fosse la fonte stessa
della verità. Ormai la stampa ha dato partita
vinta all’imperialismo della televisione”.
Un altro vizio della stampa italiana, ma in
questo caso anche dell’informazione televisiva, è stato messo in evidenza da Furio
Colombo, che ha citato come esempio l’inchiesta di Torre Annunziata sulla pedofilia: “I
magistrati hanno detto: ci potrebbero essere
quattro bambini scomparsi, non identificati
né identificabili perché si tratta di un’ipotesi. I
giornalisti hanno riferito: ci sono quattro
bambini italiani scomparsi. La differenza è
sostanziale. Dobbiamo saper distinguere tra
vero, falso e verosimile. Non è compito del
giornalista concludere le inchieste giudiziarie”. La lunga lista dell’“colpe” dei giornalisti
potrebbe continuare. Si prenda un altro
esempio: l’abitudine a riferire senza verifica
voci incontrollate. “Alcune voci spacciate per
informazioni nascondono o negano la verità”,
è la denuncia di Laure Adler, saggista e direttrice del canale televisivo France Culture. “Le
voci si rivelano come attentati ai valori più
sacri della società. Mi chiedo se i giornalisti
non siano i diretti responsabili di una nuova
incultura”.
ORDINE
10
2000
dei media nell’era di Internet
LIBRERIA DI TABLOID
dell’informazione
La “via figiana” di Umberto Eco
A questa incultura appartengono anche le
cosiddette leggende metropolitane, ossia
narrazioni particolareggiate di fatti a cui
manca sia una fonte sia una verifica. Hanno
come protagonisti preferiti i bambini (rapimenti, traffici di organi, uccisioni rituali e chi
più ne ha più ne metta). È stato questo il
tema della relazione di Furio Colombo: “Il
giornalismo scritto e televisivo è responsabile delle leggende metropolitane perché ne
favorisce la diffusione, dato il carattere drammatico; le rende più solide e credibili, dato il
mezzo di diffusione. E poi le abbandona
perché il nulla che c’è dietro non fa notizia. E
accade che tali leggende, trasformate nuovamente in notizie, entrino nel contesto di
uomini di Stato inserite fra preoccupazioni
fondate che, di nuovo, attribuiscono forza alla
leggenda e la rilanciano. Ciò può avvenire a
causa del doppio comportamento giornalistico: grande rilievo all’annuncio, senza seguito, senza inchiesta, senza verifica, senza
controlli, senza ricerca di esiti di storie precedenti”. In questo poco edificante quadro si
fanno strada, per quanto riguarda la carta
stampata, due proposte di Umberto Eco. La
prima potrebbe intitolarsi “la via figiana”.
Ricordando un suo soggiorno nelle isole Figi,
una decina d’anni fa, il celebre semiologo ha
portato ad esempio quei giornali locali, ottododici pagine perlopiù contenenti notizie
d’agenzia e cronache locali e con poca
pubblicità. Per ricondurre i quotidiani al loro
ruolo sarebbe dunque necessaria una
massiccia cura dimagrante. Ma siffatti giornali sarebbero destinati a una élite, perché
per comprendere il peso di una notizia data
in modo essenziale occorre un occhio esperto. L’altra possibile soluzione potrebbe essere quella della cosiddetta “attenzione allargata”. Il quotidiano cioè rinuncia alla settimanalizzazione per diventare attendibile miniera
di notizie, inchieste, commenti su tutto quello
che accade nel mondo. Ma anche questo
tipo di giornale si rivolgerebbe ad un pubblico d’élite e per di più sarebbe molto costoso.
E allora? Dobbiamo arrenderci all’imperversare di un giornalismo becero svolto in barba
alle elementari regole professionali e alle
leggi?
La Rete tra incognite e certezze
A complicare le cose, in Italia come nel resto
del mondo, si è aggiunto Internet, strumento
che sta rivoluzionando i nostri modi di vita e
che ha spaccato le redazioni in due, da una
parte gli entusiasti del villaggio globale,
dall’altra gli apocalittici. “Internet ha una grande potenzialità, quella di far saltare la cupola
informativa oggi imperante”, ha detto Lucia
Annunziata, attuale direttore dell’Agenzia
d’informazione internazionale Ap-e.Biscom.
“Esiste infatti un establishment informativo
che ha un potere tremendo: decide di che
cosa parlare, di che cosa non parlare, e
soprattutto di come parlarne”.
“Internet nella carta stampata aggiunge mali
ai mali”, è il parere espresso da Enrico Mentana, direttore del Tg5, che vede una possibilità
di superare l’attuale crisi attraverso l’azzeramento del prezzo dei giornali. Ossia, quotidiani gratis sostenuti soltanto dalla pubblicità,
come già accade in alcune metropoli europee,
anche a Roma e a Milano. “Ma i giornali
gratuiti non saranno mai liberi”, gli ha risposto
Andrés Ortega del “Paìs”.
“La Rete obbligherà la carta stampata a
cambiare alcune tecniche”, ha puntualizzato
Eugenio Scalfari. “Ma il giornale è fatto
anche di grafica, di impaginazione, di immagini icastiche dei titoli, di fraseggio dei grandi
reporter. Tutto questo su Internet non ci sarà
mai”. E Umberto Eco: “Il quotidiano on line
ha alcuni vantaggi: permette di avere subito
le notizie più importanti; siccome però non
può completamente sostituire il rito mattuti-
no della lettura di molte pagine, mentre si
beve il caffè, non elimina l’acquisto del quotidiano cartaceo, bensì l’incoraggia. E poi è
utilissimo come archivio, perché permette di
consultare i numeri precedenti”.
Ci sono poi altri aspetti fondamentali messi
in luce nel corso dei numerosi interventi.
Questo il punto di vista del filosofo Pierre
Lévy: “Internet mette indiscussione le situazioni del monopolio del ‘potere di dire’ nelle
vecchie democrazie dell’Europa occidentale
e nel Nord America. Esso dà una boccata
d’ossigeno e, tra breve, una capacità di
gridare e di esprimersi ai popoli ancora
soggiogati dalle dittature”.
(Tragica parentesi: nei Paesi privati delle
libertà fondamentali i giornalisti continuano a
morire. Secondo i dati di 2 reporters sans
frontieéres resi noti da Roberto Grandi,
docente di teorie e tecniche delle comunicazioni di massa all’università di Bologna, nel
1999 sono stati uccisi nel mondo 36 giornalisti durante l’esercizio della loro attività o a
causa delle opinioni espresse; 85 sono finiti
in carcere per gli stessi motivi; 34 sono stati
sequestrati, 446 fermati dalla polizia, 653
aggrediti o minacciati).
Diversa l’interpretazione del fenomeno Internet data da Vittorio Zambardino, responsabile giornalistico del sito Repubblica.it: “Il suo
specifico non è tanto quello di aver prodotto
informazioni e portali, ma la straordinaria
capacità di aggregare individui e grupppi e
di favorire lo sviluppo delle culture”.
Globalizzazione e concentrazioni editoriali
Con Internet però si è accentuato il processo
di globalizzazione informativa avviato dalla
televisione. Franz-Olivier Giesbert, saggista
francese già direttore di autorevoli quotidiani e
periodici, si è scagliato duramente contro
l’uniformità dell’informazione, premessa di
quello che lui chiama pensiero unico: “Il giornalista si appasiona all’argomento del
momento, lo sbuccia freneticamente e ne ricava la polpa essenziale, prima di passare a
quello successivo. Generalmente dimentica
ciò che è stato detto la sera prima e non gli
importa per nulla di contraddirsi. Potremmo
dire che la contraddizione è il suo mestiere.
Contrariamente a ciò che si sarebbe potuto
pensare, la globalizzazione non fa che aggravare l’istinto gregario dei mass-media. Essa
non ha favorito la diversificazione dei
commenti e delle informazioni. Al contrario, ha
contribuito a unificare tutto”, ha insistito
Giesbert. “Le notizie sono diventate planetarie
e le proteste internazionali. Anche la verità e
l’errore sono stati globalizzati: è lo stesso
pensiero che guida tutti gli agenti della circolazione dell’informazione. Si assiste pertanto
a questo paradosso spaventoso: quanto più i
modi della comunicazione si diversificano,
tanto più l’informazione diventa uniforme”.
Accuse e mea culpa si sono succeduti a
raffica nel convegno di Bologna. Qual’è il
messaggio finale che si può trarre da questo
ORDINE
10
2000
confronto, mentre i media sono ridotti
sempre più a contenitori pubblicitari e i giornalisti rinunciano alla loro identità e al loro
ruolo? Più di altre, forse, valgono le parole di
Jean-Marie Colombani, direttore di “Le
Monde”, che ha lanciato un messaggio forte
alla numerosa platea convenuta nell’aula
magna dell’ateneo bolognese: “Mi meraviglia
che qui non si sia parlato dell’unico uomo al
mondo che, se sarà di nuovo capo del governo, sarà di fatto in grado di controllare,
proprio nel vostro Paese, la quasi totalità
dell’informazione televisiva, pubblica e privata. La chiave di lettura per quanto sta accadendo nei media è pensare di più alle condizioni economiche in cui si svolge il lavoro del
giornalista. Di fronte all’estendersi delle
concentrazioni di testate nelle mani delle
holding editoriali i giornalisti devono reagire
certamente con la ricerca inesorabile della
verità. Ma devono anche far sì che i giornali
appartengano sempre di più ai giornalisti.
Dobbiamo essere in un certo senso una istituzione sovversiva”.
La parola d’ordine è dunque il recupero dal
punto di vista etico, politico e professionale
della figura del giornalista. Forse è ancora
possibile evitare la disfatta della categoria.
Prima che il Grande Fratello imponga il suo
invisibile e “democratico” bavaglio a tutti noi.
Gino Banterla
Marco Innocenti
I cannoni di settembre.
La tragica estate del 1939
di Gigi Speroni
“I cannoni di settembre”
sono quelli che iniziarono a
tuonare il primo settembre
1939, quando Hitler aggredì
la Polonia dando il via alla
seconda guerra mondiale.
Marco Innocenti, al suo
decimo libro dedicato a
raccontare il come eravamo,
dagli anni Trenta al 1960,
stavolta si concentra sul
periodo che immediatamente precedette l’entrata in
campo dell’Italia a fianco
della Germania nazista: l’ultima estate “scandita da
feste e voglia di vivere”,
seguita da 10 mesi di “non
belligeranza” (perché, come
confessò Mussolini a Ciano:
«Non possiamo fare la guerra, le nostre condizioni non
ce lo permettono») sino al
fatale 10 giugno 1940, quando il Duce ruppe gli indugi
convinto di poter sedere, in
cambio di «un pugno di
morti», al tavolo della pace
a fianco dei tedeschi che
avevano messo in ginocchio
la Francia.
La “guerra lampo” diventerà
un immane conflitto mondiale costato 50 milioni di vittime e conoscerà una pubblicistica sterminata, a cui lo
stesso Innocenti ha contribuito con tre volumi dedicati
all’Italia del 1940, del 1943 e
del 1945. Sempre col suo
stile particolare: incorniciando politicamente i fatti in un
quadro dove tratteggia il
vivere quotidiano della gente
comune. Tratteggia, perché
alle notizie trovate con puntigliose, non facili, ricerche,
unisce le pennellate d’autore. Per descriverle, meglio
ricorrere a qualche corposo
stralcio tratto da questa sua
ultima fatica.
Il giorno in cui nazisti invadono la Polonia “in alta Italia
piove, nel resto del Paese al
sole si alternano le nuvole,
ma il Lido di Venezia fa
ancora pubblicità per la fine
stagione e la lotteria di
Merano («La fata dei nostri
giorni») è un sogno alla
portata di tutti per 12 lire al
biglietto… Sembra carnevale, la gente prova le maschere antigas; le Pc 38 sono in
vendita a dieci comode rate
di 4 lire l’una. La pubblicità
mostra una signorina sorridente che infila la maschera
a un malcapitato barboncino. C’è chi la porta a tracolla, chi appesa al collo, ma le
ragazze più spregiudicate la
portano alla cintola, come
un trofeo, «come uno scalpo» direbbe uno dei tanti
personaggi dei feuilleton
d’avventura… Un commerciante che sa il fatto suo
offre carte speciali per oscurare i vetri, e i bimbi, in
cambio di un soldino da infilare nel salvadanaio di terracotta, aiutano i nonni a incollarle alle finestre”… Per ora
niente guerra. E gli italiani
respirano. È la lieve ebbrezza del malato quando si
sente risanato e riprende
timidamente l’esistenza di
prima. La non belligeranza,
presso la gente, è una brillante trovata del Duce. La
vita ricomincia, è una liberazione, la paura è passata…
Luci riaccese, negozi aperti,
cinema e teatri pieni, aria di
festa dopo il grande incubo.
File di biciclette di studenti
nel mite autunno italiano. Sul
piatto del grammofono, nelle
feste private, Polvere di stelle e Tornerai. … I treni popolari viaggiano per l’ultima
volta a fine settembre, l’orario ferroviario d’autunno è
drasticamente sfoltito. È l’ultima avventura che travolge
la domenica italiana, su quei
vagoni di terza classe, l’elastico a tenere su le maniche
delle camicie, un fiasco di
vino a fare buon sangue”.
Dieci mesi ancora, poi
anche gli italiani vivranno
una ben altra avventura:
tragica, sette giorni su sette.
Per ora la guerra la leggono
sui giornali che “sparano le
foto dei biondi eroi tedeschi
sorridenti che avanzano
vittoriosi verso Varsavia”.
Hitler “si illude che tutto
possa risolversi con una
passeggiata nella pianura
polacca”, ma la Francia “tirata per i capelli” e l’Inghilterra,
hanno dichiarato guerra alla
Germania. “Parigi ha un
aspetto leggermente trasandato, come una donna sorpresa senza trucco… Il Paese è fiacco, senz’anima.
Disorientato, disarmato, trascinato dagli avvenimenti,
sta preparando, senza saperlo, la propria disfatta.
L’opinione pubblica è divisa,
non c’è entusiasmo, non c’è
voglia di rischiare. C’è una
calma rassegnata, forse la
speranza segreta che sia
ancora possibile far tornare
indietro gli orologi e gli eserciti”.
A Londra “centinaia di
migliaia di vecchi e di bambini vengono sfollati su treni,
ambulanze, auto, e battelli
lungo il Tamigi. Gli inglesi,
anche nell’emergenza, non
si smentiscono.
Viene messo in salvo anche
il prezioso zoo, ma, annuncia
costernato il direttore, «abbiamo dovuto uccidere 40
serpenti che non potevano
essere trasportati, due ragni
e uno scorpione». Dappertutto volontari riempiono sacchetti di sabbia per rinforzare
le difese degli edifici”.
Queste pennellate ci spiegano perché la Francia subirà
una disfatta e la Gran Bretagna terrà duro sino alla vittoria finale. Per l’inglese Lloyd
George «di fronte a un atto
di brigantaggio il Governo
non poteva fare che quello
che ha fatto», per il generalissimo francese Gamelin
«ci si può battere solo con
uomini che vogliono battersi».
Nel quadro di Innocenti
appaiono anche tutti i protagonisti dell’epoca (ed è un
peccato che al libro manchi
un indice dei nomi). “Gli
«uomini del ’39» sono pro-
fondamente diversi come
estrazione, come percorso
di vita, come background
umano e professionale… Ci
sono artisti mancati e
graduati di truppa come
Hitler, venditori di champagne che si fregiano di un
«von» cui non hanno diritto
come Ribbentrop, assi
dell’aviazione e seduttori di
belle donne come Goering,
avvocati di provincia come
Chamberlain, discendenti di
una vecchia famiglia nobiliare come lord Halifax, autodidatti, giornalisti d’assalto e
comizianti come Mussolini,
figli di papà, amanti del golf
e sottanieri di classe come
Ciano, spie come Beck,
insegnanti di scuola media
nella Francia profonda come
Daladier, cospiratori e rivoluzionari come Stalin e Molotov. Quando si incontrano –
cosa che avviene spesso
nel concitato ’39 – non
rappresentano soltanto interessi nazionali divergenti,
ma diverse ideologie e filosofie, diverse concezioni del
mondo, diversi retroterra
culturali e morali”.
Ciò non toglie che Hitler e
Stalin non trovino un punto
d’incontro, in linea con lo
stesso freddo, feroce, pragmatismo che li ha portati al
potere. Il primo vuol garantirsi da un intervento sovietico alla vigilia d’invadere la
Polonia, il secondo vuole
approfittare dell’occasione
per ritagliarsi una fetta di
territorio polacco. Così il 23
agosto 1939, “a notte fonda,
in una sala del Cremlino, il
patto di non aggressione e i
protocolli per la spartizione
dell’Est sono cosa fatta.
«Brindo alla salute del Fuehrer» dice un euforico Stalin
alzando l’ennesimo calice di
champagne e definendo
Hitler «un uomo per cui ha
sempre avuto una straordinaria venerazione». Molotov
e Ribbentrop prendono una
grossa carta geografica e
tracciano i nuovi confini
dell’Europa centrale”. È la
fine delle vacanze, la fine
dell’estate. Copertosi a Est il
Fuehrer è pronto a colpire”.
Poi sappiamo com’è andata.
L’opera di Marco Innocenti
qui è doppiamente meritoria:
oltre a donarci, come nel
passato, uno spaccato originale di un mondo e di un’epoca ben determinata, ora
ha scelto di approfondire la
conoscenza di un periodo
normalmente sorvolato dagli
storici, concentrati sugli anni
della guerra. Come venne
vissuto l’anno fatale in cui il
conflitto maturò è un prezioso tassello che mancava al
mosaico di questo appassionato e originale autore. E ai
lettori.
Marco Innocenti,
“I cannoni di Settembre.
La tragica estate
del 1939”,
Mursia, pagg. 147,
lire 24.000.
17 (25)
La manifestazione sponsorizzata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Milano, 24 novembre.
Il prestigioso premio che ricorda
una delle figure storiche
del giornalismo italiano
è stato assegnato all’inviata
di “Repubblica” per il servizio
sulle donne sfregiate
del Bangladesh.
Comitato permanente
Linda David Locatelli
Lucio Lami
Massimiliano David
Presidenza
Sergio Zavoli
(pres. onorario)
Franco Abruzzo
(vice pres. onorario)
La giuria
Bruno Ambrosi
Lucia Annunziata
Piero Benetazzo
Mimmo Càndito
Giuseppe Chisari
Renzo Cianfanelli
Vittorio Dell’Uva
Lucio Lami
Ettore Mo
Valerio Pellizzari
Giorgio Torchia
I vincitori
delle passate
edizioni
Lucio Lami
Ettore Mo
Piero Accolti
Bernardo Valli
Franco Ferrari
Piero Benetazzo
Frane Barbieri
Vittorio Zucconi
Mimmo Càndito
Egisto Corradi
Lucia Annunziata
Vittorio Dell’Uva
Paolo Rumiz
Vittorio Ferrari
Valerio Pellizzari
Alberto Pasolini Zanelli
Carmen Lasorella
Renzo Cianfanelli
Renata Pisu
A sinistra, Linda David Locatelli
con Renata Pisu
A Renata Pisu il “Premio Max David”
Renata Pisu la “cinese”
inviata nel mondo
di Angelo Crespi
Venti anni. Non sono pochi per un premio,
specie in un Paese come il nostro che scoppia di manifestazioni di questo tipo, e nel
quale una medaglia o una medaglietta non
si nega a nessuno. Il “Max David” il premio
nazionale per l’inviato speciale, ormai da tre
anni sponsorizzato dall’Ordine dei giornalisti
della Lombardia, ha saputo invece ritagliarsi
uno spazio importante. Ed è diventato edizione dopo edizione una sorta di Pulitzer italiano: sarà per l’importanza dei vincitori, o per
la serietà della giuria che evita con tenacia
ogni tipo di pressione, fatto sta che la figura
di uno dei più celebri reporter del nostro giornalismo, come Max David, rimane tutt’oggi a
monito ed esempio per le nuove generazioni.
E a conferma di questo, l’edizione del
ventennale è andata a Renata Pisu della
“Repubblica”, come ha sottolineato la giuria,
“per le corrispondenze dal Bangladesh che
hanno rivelato al grande pubblico, prima
italiano e poi occidentale, la tragedia delle
donne sfigurate e ustionate per vendetta.
Per i magistrali servizi dall’Indonesia e per
quelli successiva dalla Cina, dedicati al Tibet,
che testimoniano uno studio autentico e
approfondito, iniziato dieci anni fa, unico nel
panorama del giornalismo italiano”. La
premiazione si è svolta venerdì 24 novembre nelle sale dell’Excelsior Hotel Gallia alla
presenza di numerose personalità del
mondo del giornalismo, della cultura e
dell’arte ed è stata l’occasione per una sentita commemorazione di tutti gli inviati scomparsi mentre svolgevano il loro lavoro.
Lucio Lami, primo vincitore e oggi membro
del comitato permanente, ha ricordato gli alti
valori che innervano la professione e i pericoli alla quale sta andando incontro: “Agli
inizi degli anni Ottanta, nessuno di noi immaginava che il Premio avrebbe indirettamente
offerto anche una difesa a una categoria,
quella degli inviati speciali, destinata a essere ostinatamente colpita, fino alla minaccia
di estinzione, dai nuovi nocchieri; quelli
secondo i quali “l’estero non interessa
nessuno”, “la cultura è un soporifero”, “con
Internet e la Tv non c’è bisogno di buttare
soldi mandando qualcuno sul posto”, “non
c’è bisogno di controllare la notizia: se è
falsa la si smentisce il giorno dopo”. Ed è
singolare che il “Max David” festeggi i suoi
quattro lustri mentre da più parti si chiede
ufficialmente l’abolizione della figura dell’inviato speciale. Per venti anni questo Premio
ha riconosciuto l’alta professionalità dei testimoni di qualità scelti tra i pochi giornalisti che
ancora viaggiano. Indipendentemente dalle
loro convinzioni politiche e resistendo al rullo
compressore del grande fratello (quello
orwelliano, naturalmente), essi hanno
descritto con onestà le realtà più difficili e
inquietanti della nostra epoca, dopo averle
viste con i proprio occhi e avendo come
interlocutore solo il lettore. Realtà che altrimenti sarebbero state ignorate, sommerse
dall’inesauribile affabulazione dei mass
media”.
Allo stesso modo, il Presidente onorario,
Sergio Zavoli ha voluto, attraverso la figura
di David, puntare l’attenzione sul ruolo
dell’inviato. “È giusto in questo momento
18 (26)
Sergio Zavoli
ricordare il numero crescente di nostri colleghi morti sul campo. Altrimenti passano le
generazioni e scompare le memoria di coloro che giorno dopo giorno hanno fatto la
storia del giornalismo. Tutto scorre velocemente e non siamo più interessati a capire
cosa succede intorno a noi. L’inviato al
contrario induce il sistema dell’informazione
a fermarsi. E sono convinto che dopo la
buriana di un giornalismo prêt-à-porter, della
coriandolizzazione dell’informazione, verrà
di nuovo il tempo di un giornalismo meno
futile, più preciso, che costi fatica, che ci
induca a rallentare”.
Pur assente per motivi di lavoro, la testimonianza del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, è riportata nella pubblicazione per i vent’anni del
Max David, che ripercorre la storia del
premio e dei vincitori delle passate edizioni:
“Avendo sede a Milano – ha scritto Abruzzo
– ed essendo diventato uno dei premi giornalistici più importanti e seri d’Italia, il “Max
David” ha assunto un ruolo di tale rilievo che
non poteva non interessare l’Ordine della
Lombardia. È stato dunque per me un piacere favorire la vita del premio, anche in termini economici, sapendo che l’Ordine in questo
modo assicurava il futuro a una manifestazione che riconosceva giornalisti inviati il
merito, il talento, le capacità professionali.
Sapevano anche che una giuria indipendente, formata da inviati o ex inviati, quasi tutti
già vincitori del Premio, avrebbe garantito
scelte meditate e puramente meritocratiche.
Per questo il “Max David” ci consente, non
solo di premiare i migliori testimoni di eventi,
ma anche di additare modelli esclusivi di
professionalità, cultura e deontologia dei
quali c’è forte bisogno. I giornali senza inviati, sarebbero pressoché tutti uguali. Gli inviati, quindi, assicurano l’identità e la peculiarità
delle testate”.
Ma torniamo a Renata Pisu,
che ha voluto ringraziare “il
mondo intero” e tutti i colleghi per il riconoscimento.
Ha poi narrato, con la partecipazione scherzosa degli
amici in sala, le vicende più
stravaganti o tragiche della
sua carriera, soffermandosi
in special modo sul servizio
delle donne sfigurate con
l’acido del Bangladesh,
apparso nella pagine di “D”
di “Repubblica”: “È la prima
volta, almeno per quanto mi
riguarda – ha sottolineato
Renata Pisu – che la denuncia di un’atrocità pubblicata
sulle pagine di un giornale,
è servita a qualcosa, ha fatto
nascere qualcosa.
Tre mesi fa, infatti, tramite
un’organizzazione umanitaria, la Coopi, è stato fondato
a Dhaka il primo centro
grandi ustionati di tutto il
Bangladesh, grazie soprattutto ai fondi raccolti in Italia
con la campagna “Un volto
per la vita” che ho seguito
personalmente”.
Ma la carriera della Pisu, è
ricca di altri avvenimenti e
successi. Romana di nascita, Renata ha lasciato la
città natale nel 1958, a soli
venti anni, per studiare all’Università di Pechino e diventare “cinese” d’adozione. Dal
1964, anno del suo rientro in
Italia, ha optato in modo
deciso per il giornalismo,
agli inizi come è naturale,
con una particolare attenzione ai problemi dell’Asia
orientale.
Così da 1982 al 1987 ha
vissuto a Tokyo come corrispondente del quotidiano
“La Stampa”, scoprendo e
raccontando i mille volti del
Giappone.
Dalla stessa città, ha seguito anche le vicende cinesi, e
quelle di paesi come le Filippine, la Corea, Taiwan,
Singapore, recandosi spesso in missione durante gli
avvenimenti più importanti.
Nello stesso periodo, si è
recata numerose volte a
Pechino per seguire i contrasti del “nuovo corso” della
politica cinese imposto da
Deng Xiaoping.
Nel giugno del 1989 è poi
tornata in Cina per i tragici
fatti di piazza Tian An Men,
ultimo e appassionato reportage per il giornale torinese.
Nel 1990 passa infatti a
“Repubblica”, quotidiano per
il quale continua a girare il
mondo, su tutti i fronti delle
guerre, non dichiarate ma
combattute, di tutte le insurrezioni popolari, di tutte le
catastrofi: dal Kuwait al
Ruanda, dalla Bosnia all’Indonesia, dalla Cambogia al
Sud Africa, dall’India al
Tibet, senza mai trascurare
la Cina e il Giappone dove si
reca spesso per raccontare
le “crisi” e le “riprese” di un’economia che ha visto scoppiare la sua “bolla” ma che è
ancora salda e battagliera.
E arriviamo ai giorni nostri.
Renata Pisu continua percorrere il pianeta per confermare il valore della testimonianza dell’inviato, come è
accaduto ancora di recente
nel caso della tragedia dei
marinai del Kursk, il sottomarino nucleare russo, la
cui agonia ha raccontato
questa estate con bravura e
intelligenza.
Ma non dobbiamo dimenticare nemmeno le sue prove
letterarie: “La via della Cina”,
il libro che racconta i suoi
anni di studentessa a Pechino, ha vinto il Premio Rapallo ed è stato finalista allo
Strega.
Ora è in libreria, “Alle radici
del sole”, sugli anni giapponesi.
Max David,
l’esempio da seguire
Il premio Max David, fondato nel 1980 per iniziativa del
poeta e pittore Vittorio Grotti, e in collaborazione con
Linda David Locatelli, vedova di Max David, celebra
una delle figure storiche del
giornalismo italiano. Nato a
Cervia il 25 dicembre del
1908, Max David seguendo
un istinto di avventura che lo
accompagnerà in tutta la
carriera, si imbarcò giovanissimo su una nave da carico,
con rotta per i mari del nord.
E da allora fu instancabile
viaggiatore attraverso i
continenti e le vicende che
hanno fatto la storia del
’900. Dalla guerra in Etiopia,
la prima che seguì come
giornalista, passando per la
Spagna, il Biafra, la Corea,
la Tanganika, quindi la
Russia, l’Iran, il Pakistan,
l’India.
In quarant’anni di servizio, di
cui venticinque al “Corriere
della Sera”, David interpretò
in tipico stile hemingwaiano il
lavoro dell’inviato speciale.
Innamorato della Spagna,
come lo scrittore americano,
arrivò perfino a cimentarsi
nella corrida e per questo
venne soprannominato Mazarino II in onore di un famoso matador di origine italiana.
Come ricordava Leonardo
Vergani, in un articolo del
“Corriere della Sera”, in Max
David “c’era una vocazione
all’avventura, ma sempre
un’avventura fatta per poi
essere raccontata. Fu uno
dei pochissimi giornalisti per
esempio a seguire la ritirata
di Ciang-Kai-shek dalle posizioni sulla riva sinistra dello
Yang-tze-kiang verso Nanchino, giù giù fino all’ultimo
bastione di Canton. ‘Un giornalista deve fiutare il vento –
diceva spesso – deve chiu-
dere la macchina da scrivere nel suo astuccio e mettersi in cammino lungo la direttrice contraria a quella del
nemico, per raggiungere le
proprie personali posizioni,
da dove telefonare o telegrafare il servizio. Se viene
bloccato, il suo è un lavoro
inutile’. Per questo, dopo
essersi salvato per miracolo
tra le fiamme del Cairo, era
furibondo. ‘Era la prima volta
che mi capitava di bucare un
servizio’”.
Definito come un uomo dallo
spirito garibaldino, tra una
corrispondenza e l’altra riuscì a dedicarsi alla letteratura e alla saggistica, affiancando a migliaia di articoli
alcuni romanzi e saggi, come “Volapié” che gli valse il
premio Bagutta. Morì il 22
marzo 1980 mentre stava
scrivendo una biografia su
Lawrence d’Arabia.
ORDINE
10
2000
LIBRERIA DI TABLOID
Dante Ferrari
Il grande trading italiano
Storie di operatori con l’estero
di Alberto Mazzuca
Linda David Locatelli, Sergio Zavoli e Lucio Lami
La morte
del fotoreportage
Ma il Premio è anche l’occasione per un approfondimento sui grandi temi legati
all’informazione nell’era di
Internet e delle nuove tecnologie, tanto utili quanto pericolose per un’informazione
corretta. Ogni anno, infatti,
viene organizzato a completamento del Premio un
convegno in collaborazione
con la professoressa Anna
Lisa Carlotti, dell’Università
Cattolica di Milano, al quale
nelle scorse edizioni hanno
partecipato scrittori, giornalisti, fotografi di tutto il mondo.
Quest’anno il dibattito, che si
è svolto nell’aula magna
della Cattolica nel pomeriggio di venerdì 24 novembre,
dal titolo “Fotoreportage?
Ieri, oggi, domani” ha aperto
la discussione su un altro
problema molto sentito dalla
categoria: quello dell’inviato
fotografico, un tempo vero
occhio del giornale e oggi
relegato ai margini della
redazione, soppiantato da
strumenti più moderni e
dalle agenzie.
Uliano Lucas, fotografo e
studioso, ha voluto esaminare la storia di un genere giornalistico, il fotoreportage,
oggi quasi in disuso. “In
realtà – ha spiegato Lucas –
il fotoreportage in Italia non
è mai esistito. Solo due
testate come “Epoca” e
“l’Europeo” hanno dedicato
spazio ai grandi servizi fotografici. Oggi non produciamo
più nulla e dipendiamo al
75% da materiale straniero,
e anche la scuola è in ritardo nel propugnare una
cultura visiva che possa in
qualche modo fare capire ai
giovani l’importanza della
fotografia. La causa di
questa desolante situazione
ORDINE
10
2000
è facile da intendere: l’immagine è un fatto in sé politico,
per questo motivo, si teme il
reporter in quanto uomo
libero, avulso dalle logiche
redazionali e spesso figura
scomoda”.
Un’analisi critica che però
ha trovato d’accordo anche
tre miti del giornalismo fotografico italiano, come Gianni
Berengo Gardin, Giorgio
Lotti e Gianfranco Moroldo.
Berengo Gardin ha stigmatizzato l’uso che i giornali
fanno della fotografia: “Testine di politici, attrici e attricette, calendari di nudi, santini
scontornati, questo è quanto si chiede oggi al fotografo”. Giorgio Lotti ha invece raccontato i favolosi anni,
quando “Epoca” era invidiata persino da “Life” per i suoi
servizi fotografici: “Un tempo
avevamo tempo, potevano
fermarci, capire, poi fotografare. L’altra mattina invece
sono stato costretto a scattare un ritratto in 2 minuti.
Una volta facevamo ‘buone’
fotografie, oggi al massimo
‘orribili belle fotografie’”. E gli
ha fatto eco, il collega e
“nemico” dell’Europeo, Moroldo: “Per avere grandi
servizi è necessario che si
ricostruisca la fertile simbiosi tra giornalista e fotografo,
come per esempio è accaduto a me in Vietnam con
Oriana Fallaci”.
Infine la parola è andata al
giovane Francesco Zizola,
che si è soffermato sulla
dura professione del freelance: “Oggi non ci sono più
i servizi di un tempo, perché
i giornali hanno perso il loro
scopo, quello di informare.
Da molti anni non esistono
più gli editori puri, le pubblicazioni sono in mano a
gruppi politici o industriali,
che usano i loro fogli per altri
fini. Quindi non ha senso
parlare di crisi del fotogiornalismo, bensì di crisi del
giornalismo in generale. E
ora, l’innovazione digitale
porta con sé altri e più gravi
dilemmi etici. Il pericolo di
manipolazione non solo
esiste in prospettiva, ma già
è entrato stabilmente nelle
redazioni. Talora solo per
‘piegare’ l’immagine di cronaca alle esigenze glamour
e patinate dei giornali, ma
talora anche per motivi
meno ‘nobili’”.
Angelo Crespi
Ieri si diceva mercante, oggi
si dice trader a causa della
prevalenza dell’inglese nel
lessico economico. Ma in
ogni caso si tratta sempre di
spiriti avventurosi che, con
la stessa intraprendenza, la
stessa fantasia, la stessa
voglia di fare di quello che è
l’esempio più eclatante,
Marco Polo, hanno fatto
delle qualità mercantili italiane una ricchezza conosciuta nei secoli. “Il commercio,
comunque lo si chiami –
scrive Sergio Romano
nell’introduzione al libro di
Dante Ferrari, “Il grande
trading italiano” – appartiene
alla cultura degli italiani ed è
una delle cause del prestigio
di cui hanno goduto in alcuni momenti della storia d’Europa”. Con effetti vistosi
proprio negli ultimi due
secoli, noti come la culla del
trading internazionale. Non
per niente l’abbattimento
delle barriere tariffarie è del
1997, appena l’altro giorno
quindi.
Ferrari, milanese doc, è un
giornalista con una lunghis-
sima esperienza nei quotidiani economici. Prima “Il
Globo”, quindi “Il Sole”, infine “Il Sole-24 Ore”. Ed al
libro ha dato questo illuminante sottotitolo: “Storie di
operatori con l’estero”.
Storie che si inseriscono nel
XX secolo, vale a dire in un
periodo molto fecondo per il
trading nonostante gli ostacoli e le difficoltà che
sembravano a prima vista
insormontabili.
Perché commerciare con
l’Unione Sovietica in un
periodo in cui la Nato e il
Patto di Varsavia si puntavano addosso le armi più micidiali partorite dalla tecnologia militare, significa avere
doti, voglia di rischiare,
entrature, fuori dal comune.
Ed in effetti molti di questi
trader sono fuori dal comune, sono davvero miti. Ed
ognuno con una propria
storia, sempre affascinante,
spesso persino incredibile. E
tutte storie godibilissime.
Come quella di Dino Gentili,
uomo di cultura, socialista
impegnato con un’esperienza anche nel Partito d’Azione, intimo amico di Nenni: è
lui ad aprire le porte del
commercio con la Cina nel
1954 fondando prima la
Comet e poi la Cogis ed è lui
ad incontrare Fidel Castro
per importare zucchero
cubano in un momento di
difficoltà della produzione
interna italiana. Finendo per
diventare l’emblema della
diplomazia difficile. Come
quella di Piero Savoretti,
l’uomo che partito nel ’48
per Londra con una 500,
s’insedia nel 1956 a Mosca
dove organizza per la Fiat
l’affare colossale di Togliattigrad che ha dato all’Italia le
chiavi per entrare nel mercato sovietico. Come quella di
Serafino Ferruzzi, il romagnolo che diventa il re della
Borsa di Chicago.
Grande conoscitore dei
mercati dell’Urss è Alberto
Levi, fratello del giornalista
Arrigo: comincia in Sud Africa, quindi si sposta in
Argentina operando nel
campo tessile e meccanico.
Poi eccolo proiettato nell’Est
europeo dove fa vendere
alla Snia Viscosa sessanta
impianti chiavi in mano. È
legato in parte all’Urss
anche il nome di Giulio
Tamaro il quale – tra le tante
cose – importa anche cotone uzbeko di ottima qualità,
fino a quel momento ancora
sconosciuto in Italia. Jack
Clerici, corridore automobilista, diventa uno dei trader
più potenti nel campo delle
commodities, battendo ogni
primato nell’import di carbone e nell’armamento.
Luigi Deserti, un ravennate
trapiantato a Bologna, fa
conoscere ai consumatori
italiani i più raffinati marchi
mondiali di tè, champagne,
vini, marmellate e cento altri
prodotti. Aldo Bonapace,
nipote del fondatore della
famosa Magnesia San Pellegrino, diventa il più affermato trader di specialità
medicinali. E poi Giulio Pugliese, i Cauvin, Tito Trinca, i
Noberasco, Gino Pesenti.
Insomma, il top dei trader. E
tutto raccontato come un
romanzo in cui abbondano
le testimonianze vere e in
cui sapientemente sono
mescolati il rischio e la fantasia, le due grandi risorse del
commercio.
Dante Ferrari,
“Il grande trading italiano
(Storie di operatori con
l’estero)”,
Libri Scheiwiller ,
pagg. 348, s.p.
Camillo Albanese
Le più belle del reame
di Gianni de Felice
Conosco Napoli, perché vi
sono nato, e penso di conoscere i napoletani, anche se
vivendo a Milano da una
quarantina d’anni li ho forse
un po’ persi di vista. Ma li ho
subito ritrovati, e riconosciuti, fin dalle prime pagine di
questo nuovo libro di Camillo Albanese. Delizioso narratore di figure, fatti e fatterelli
storici, che editori e librai
avevano
sbadatamente
prestato per troppi anni a
dirigenze e management di
associazioni ed enti; e che
ora si sono tardivamente
ripreso, obbligandolo a recuperare – per fortuna dei suoi
lettori – con la fornitura di
una chicca l’anno.
“Le più belle del reame” –
così si intitola l’ultima chicca
– non sono le donne, ma le
storie che Camillo Albanese
è andato a scavare negli
archivi più antichi e polverosi di Napoli; e che confermano anche l’altro senso del
titolo, avendo quasi sempre
a protagoniste donne di
straordinaria bellezza e di
non meno strabiliante disponibilità. Avventuriere, regine
ninfomani o lesbiche, amanti vergini e “incontaminate”,
suore assatanate e perfino
una pasticciera dell’800, che
ha tentato – fortunatamente
invano – di impedire al mari-
to, don Pasquale Pintauro,
d’inventare la “sfogliatella” e
la “zeppola di San Giuseppe”. La sciagurata.
Intorno a queste damazze si
muovono principi e popolani, pittori e re, frati e bellimbusti, giovani scaltri, donzelle intraprendenti, padri severi e, su tutti e tutte, scorre la
storia fatta di battaglie e
dinastie, assedi e rese,
impiccagioni e feste a corte.
Lo scenario è la Napoli
angioina che si lustra e
rinnova, la Napoli aragonese che si fortifica e potenzia,
la Napoli stracciona, disperata e schiava del becero
vice-reame spagnolo, la
Napoli borbonica che rifiorisce all’inizio e si fossilizza –
dopo la sanguinosa repressione della Repubblica del
1799 e la parentesi francese
– nella pavida grettezza
degli ultimi decenni.
Se studiassero la storia per
aneddoti – come predicava
Mérimée e pratica Albanese
– invece che per date, i
giovani ne capirebbero forse
meglio il senso e dunque
l’utilità. In questa raccolta di
aneddoti, apparentemente
slegati, in realtà c’è una
trama, un filo conduttore.
È la “napoletanità”: un
concetto vago, impalpabile,
affiorante ora in senso picaresco, ora in chiave drammatica, ora in tono epico,
ora in forma munifica, ora in
versione
semplicemente
cialtrona e carogna. Ma
sempre riconoscibile, eguale a se stessa, immutabile,
sia che i padroni del momento parlino in francese o
in castigliano, in catalano o
in tedesco, o in dialetto
napoletano come usavano
gli ultimi re borbonici.
In certe nobildonne, ho riconosciuto ammiratissime signore della borghesia di
oggi. Lo sfarzo delle corti, lo
rivedo nella pomposità di
certi circoli o nella ricchezza
un po’ barocca di appartamentoni e ville, molto esclusive, di Posilllipo. L’atmosfera un po’ sbracata delle feste
all’aperto nei “casini” di
campagna, la si ritrova le
sere di giugno nella piazzetta a Capri. Che sul trono
sieda Federico II o il comandante Lauro, Roberto d’Angiò o Bassolino, Napoli non
cambia: è la sua forza, la
sua debolezza. E Camillo
Albanese ce lo dimostra con
l’aria lieve di chi sta raccontando robetta di poco conto.
Tuttavia, fra tante storie, ce
n’è una che non può trovare
riscontro ai giorni nostri:
quella del San Carlo. L’appalto viene firmato il 14
marzo 1737 e il 4 novembre
dello stesso anno – giorno di
San Carlo, meno di otto
mesi dopo – Carlo di Borbone inaugura il teatro. Il re si
complimenta col costruttore
Carasale, ma lamenta la
mancanza di un passaggio
interno con l’adiacente
reggia: alla fine della rappresentazione il passaggio è
pronto e tappezzato, fatto in
tre ore. Denunciato da concorrenti invidiosi, Carasale
viene poco tempo dopo
condannato per irregolarità
amministrative nell’impresa;
si protesta innocente davanti al sovrano, ricordandogli
gli elogi per la bellezza del
teatro e la rapidità di costruzione; ma il re non fa una
piega, permette che venga
messo in prigione nella
fortezza di Sant’Elmo e lì sia
lasciato fino a morte.
Nell’Italia di oggi, che non
riesce a ricostruire la Fenice, anche a Napoli sarebbe
impossibile erigere un teatro
in otto mesi, perforare un
corridoio regale in tre ore e,
soprattutto, vedere un costruttore imbroglione in galera.
Camillo Albanese,
“Le più belle del reame”,
Esi 2000,
pagg. 187,
lire 28.000
19 (27)
I NOSTRI LUTTI
Guido Nozzoli, un grande inviato
che veniva dalla Resistenza
di Vittorio Emiliani
“Adesso mi prendo un bel caffè, faccio due o
tre testa-coda in Melchiorre Gioia e vado a
casa a dormire”. Erano in genere le 2 di notte,
e anche di più, quando Guido Nozzoli, ex ufficiale degli autieri, leggendario pilota di moto
e auto, lasciava cadere questa frase paradossale sui colleghi del turno di notte al “Giorno”,
nel complesso alzato fra le brume della
Martesana, vicino alla “Cassina di pòmm”.
Guido era un classico “animale notturno”,
come tanti inviati della sua generazione (che
di inviati straordinari ne aveva sfornati parecchi, nel dopoguerra), ed era uno dei più godibili, inventivi, teatrali affabulatori che noi
giovani di quei primi anni Sessanta avessimo
avuto la fortuna di incontrare. Lui e, in modo
diverso, il marchigiano Manlio Mariani erano
senza dubbio i più estrosi e folgoranti. Da
romagnolo, potevo poi apprezzare in modo
tutto speciale anche le sfumature di quei
racconti inesauribili sugli anni Trenta e
Quaranta, sull’epos della nostra comune
regione d’origine (guai a chi gli avesse chiesto se era “emiliano”), sulla storia degli anarchici. Non per caso la sezione italiana della
Prima Internazionale era nata sotto il segno
di Bakunin nella sua città, Rimini, con Andreino Costa segretario a vent’anni e Carlo
20 (28)
Cafiero presidente. L’eroe delle affabulazioni
notturne di Guido era soprattutto il concittadino Amilcare Cipriani, eroe di suo per davvero, volontario a sedici anni nel 1859, poi coi
Mille in Sicilia, bello, alto, intrepido, combattente e disertore sull’Aspromonte, colonnello
della Comune parigina, deportato fra inumane sofferenze in Nuova Caledonia, poi tornato trionfalmente in Italia, candidato-protesta
amatissimo ma di nuovo gettato in una cella,
a Portolongone, per anni. Di lui Nozzoli
raccontava che dalla Nuova Caledonia l’avevano dovuto rimpatriare perché “messo a
spaccare le pietre, riduceva con un colpo di
maglio la roccia in polvere: insomma, ne faceva del talco, inservibile.”
Guido era giunto al giornalismo dopo la
stagione, tanto dura quanto appassionante,
della Resistenza vissuta insieme a “Quelli di
Bulow” (il titolo del suo primo bel libro, uno dei
pochissimi purtroppo), cioè con l’esercito
partigiano di pianura costituito da Arrigo
Boldrini nel Ravennate. Gli episodi feroci della
repressione nazifascista si mescolavano ad
altri con un lieto fine, come quando era scampato alla fucilazione apostrofando il capomanipolo repubblichino con una frase del tipo:
“Sei così vigliacco che non hai neanche il
coraggio di sparare a me che sono disarmato”. O quando si era salvato per un pelo in
bicicletta nella nebbia incombente anche se
Guido Nozzoli (al centro) tra i colleghi de “Il Giorno”
gli si era rotto di colpo un pedale e aveva
dovuto filare via azionando freneticamente un
solo piede, e qui entrava in scena il mimo
Nozzoli, non meno bravo del raccontatore. A
Rimini, nel primissimo dopoguerra, l’irrompere della libertà aveva eccitato in lui e in altri,
nel futuro psicologo Gino Pagliarani per
esempio, il gusto per gli scherzi più clamorosi. Una notte cambiarono quasi tutta la
segnaletica stradale cittadina e quando il
compagno Spartaco li convocò in federazione per una irata reprimenda, con facce serissime risposero che avevano voluto in quel
frangente “disorientare la borghesia”. Venendo cacciati all’istante dal furibondo segretario
del Pci riminese, mentre loro ridevano come
matti.
Federico Fellini, di due anni più giovane, era
già sceso a Roma prima della guerra e però
in quei racconti di Guido c’erano già tanti temi
e personaggi dei “Vitelloni” e, ancor più, in
fondo, di “Amarcord”. Quando questo film
uscì nelle sale, alcune figure e altrettante
storie ci erano già familiari. A cominciare dal
motociclista che all’inizio attraversa la scena
saltando sulle “focarine” della Segavecchia di
mezza Quaresima, Scurèza, che Tonino
Guerra aveva collocato lì pensando ad un
altro romagnolo del “Giorno” e cioè ad Enzino Lucchi, cesenate, lui pure motociclista
epico, protagonista proprio con Guido Nozzoli di una gara motoristica rimasta storica. I
due, uno comunista (Nozzoli), l’altro repubblicano (Lucchi), si misero un giorno a discutere furibondamente su quale fosse la strada
più breve fra Rimini e Cesena. E decisero di
sfidarsi. Partirono rombando dalla periferia
nord dirigendosi verso la città di Renato
Serra. Traguardo finale la casa della maestra
Lucchi, madre di Enzo. Dove questi arrivò
primo sollevando una nuvola di polvere. Si
mise ad aspettare il rivale seduto sugli scalini
dell’ingresso. “Vuoi vedere che quel pataca di
un riminese mi ha fatto uno scherzo ed è
tornato indietro”. Stava pensando questo
quando passò una donna che faceva l’infermiera all’ospedale civile. “Ti vedo un po’ giù,
Enzino. Ti è successo qualcosa di brutto?” Lui
le raccontò la storia. E lei, un po’ esitante:
“Guarda che all’ospedale stanno medicando
uno, uno robusto, moro...”
“È lui, è lui, embé ?”
“No, niente di grave, solo che gli è andata la
catena della moto nei raggi della ruota di
dietro, è partito a volo d’angelo finendo in un
campo di canapa secca e gli stanno levando
uno per uno tanti pezzetti di canapoli conficcati dappertutto”.
Gli anni passati all’“Unità”, a Bologna e poi a
Milano, avevano maturato un fior di giornalista, dalla scrittura serrata ed espressiva,
bravo a sbozzare caratteri, a raccontare fatti,
di nera, di bianca, di politica internazionale, a
rendere come un affresco i grandi processi
dell’epoca. Naturalmente teneva i colleghi
alzati fino a notte fonda raccontando storie su
storie e presentandosi l’indomani in aula
pronto a ricominciare: a prendere appunti, ad
annotare, a scrivere.
Col Pci e quindi con l’“Unità” i rapporti si
erano fatti sempre più difficili finché non era
approdato al “Giorno” diretto allora da Italo
Pietra, anche lui uomo della Resistenza,
anche lui temperamento forte, anche lui con
una vasta esperienza internazionale. Credo
che si fossero conosciuti nel modo più singolare: Guido entrò nella sede del comando del
Fronte di Liberazione algerino, sui monti della
Kabilia, e vi scorse Pietra che era già lì, intento a spiegare come in guerriglia si dovessero
scordare quello che avevano imparato alla
scuola di guerra facendo anzi il contrario.
Proprio lui che, dopo la scuola di guerra di
Pinerolo, si era fatto dodici anni in grigioverde
prima del biennio, quasi, da partigiano, nel
natio Oltrepò. I rapporti fra i due, va detto, non
furono dei più facili e tuttavia Nozzoli poté
dare sulle pagine del “Giorno” molte delle sue
prove migliori. Ricordo benissimo i servizi,
ricchi di fatti e di pathos, che realizzò, con
Franco Nasi, subito dopo il terribile disastro
del Vajont. Rammento anche che, quando a
tavola l’inviato di un grande quotidiano si
ostinò a parlare di “calamità naturale”, Guido,
che fisicamente era fortissimo, lo sollevò
praticamente di peso dalla sedia in preda ad
una indignazione incontenibile. Molto bella fu
anche la serie di servizi dedicati alla guerra
nel Vietnam, realizzati calandosi ben dentro
quel dramma collettivo. Ad onor del vero, e
per non farne un santino, comprese di meno
quanto stava per succedere all’Est, durante i
fatti di Praga e poco prima della repressione
sovietica che ne seguì, nell’agosto del 1968.
Quella sulla quale il Pci, segretario Luigi
Longo, espresse il primo “grave dissenso”
dando inizio al processo di dissociazione che
sfociò più avanti nello “strappo” berlingueriano da Mosca.
Guido Nozzoli fu, ovviamente, in prima fila –
come lo fu il giornale – dopo le bombe di
piazza Fontana, avvio di quella strategia della
tensione seminata di stragi, sfociata nella
catena sanguinosa di atti terroristici durante
gli anni di piombo. Che colpirono anzitutto
Milano seminando paura e mettendo a dura
prova la resistenza di un tessuto democratico
ancora forte fondato sull’antifascismo e sulle
fabbriche. Guido partecipò attivamente, come
altri colleghi, al Movimento Giornalisti Democratici e poi alla controinformazione, ormai
vicino ai gruppi extraparlamentari di sinistra.
Dal giornalismo attivo volle però uscire il giorno stesso in cui compiva i 55 anni, senza
sentir ragioni. La sua pensione era bassa?
Era abituato a vivere con grande sobrietà.
Con le sue note-spese “francescane” aveva
messo in difficoltà più di un collega versato
nella spesa facile. Alla direzione del “Giorno”
era arrivato da poco più di un anno (eravamo
nel dicembre del 1973) Gaetano Afeltra e il
nostro quotidiano era oggetto di una cura
“normalizzatrice” decisa e pesante. Che poteva ben sintetizzarsi nel titolone del luglio 1972
“La Polizia espugna la Statale”. Figuriamoci
se uno come Guido, allora criticamente vicino al Movimento Studentesco, poteva continuare a lungo a lavorare in un giornale del
genere. Ero nel Comitato di redazione, cercai
di convincerlo a restare ancora, a darci una
ORDINE
10
2000
Vecchio Guido, te ne sei
andato anche tu. Io, ingenuo
e folle, nonn vedendoti, dopo
che ti eri rintanato a Rimini,
pensavo saresti vissuto in
eterno. Tu c’eri sempre, eri a
Rimini. E proprio l’altra notte,
tra sabato 11 e domenica 12
ti ho sognato assieme a
diversi altri vecchi colleghi
del grande “Giorno” (Giulio,
Cisco, Marco Nozza, Pier
Maria Paoletti e altri vivi che
non nomino). E alzandomi
sorridevo, mentre mi chinavo
sullo zerbino della porta di
casa per raccogliere il
“Corriere”. La macchinetta
del caffè ha cominciato a
gorgogliare e io a sfogliare il
giornale distrattamente, fino
ai necrologi che mia moglie
milanese mi ha abituato a
guardare. Un sobbalzo:
“Gaetano Tumiati piange la
morte di Guido Nozzoli”.
So che se ti avessi raccontato di questa coincidenza, mai
accadutami prima (e su
episodi così ho sempre irriso
le mie vecchie sorelle del
Sud) tu avresti sorriso e poi
magari mi avresti spiegato
perché accadono. Ma tu,
Guido, non ci sei più ed io
non riesco a crederci.
Passavi, di notte, finché eri a
Milano, a trovarmi alla redazione esteri, dove ero di
turno. “Fuma, se permetti
prendo un po’ di carta”.
“Guido, quella risma è tutta
tua”. Ti avrei dato tutto
Le sue cronache
ricordavano
Brecht
perché sapevo che avresti
subito cominciato a deliziarmi, affabulatore unico, sugli
ultimi episodi della commedia politica italiana.
Non ho mai dimenticato i tuoi
strepitosi reportages. Come
quello, per dirne uno solo,
quando, primo inviato italiano in Vietnam, dopo aver
descritto da maestro quel
terribile inferno di fuoco, spiegasti: “Per capirci, gli americani combattono i piccoli
vietcong come un fabbro che
per uccidere un moscerino
adopera un martello”. O le
tue cronache da antologia
sulla tragedia e poi sul
processo del Vajont. A me
sembrava dopo aver “passato” il testo in tipografia, di
aver letto Brecht, con il
sottofondo musicale di Weill,
tanto era ben riprodotta
anche la mimica dell’entrata
in scena di imputati, giudici,
testimoni e avvocati.
Ora, Guido, non ci sei più.
Chissà dove è finito quel
cinturone con cui stringevi il
tuo stomaco un po’ debordante. Quando, scherzando,
te lo facevo notare, mi
rispondevi: “Cosa vuoi, mi
sono... imborghesito”.
I ricordi galoppano. Una
volta, eri da poco arrivato al
mano nella difesa sempre più ardua di quel
“patrimonio di famiglia” rappresentato da un
giornale avanzato, aperto e progressista. Non
ci fu niente da fare. Aveva esaurito la riserva
di pazienza. Mi elencò i progetti di libri che
avrebbe scritto da pensionato, sui “birri” riminesi, sull’amatissimo Cipriani, su altro ancora.
Purtroppo non ne ha pubblicato nemmeno
uno. Probabilmente ci sono appunti e prove
di stesura, e però del tutto inedite. Qualcosa
si era rotto dentro di lui – che pure era un
narratore dalla prosa ricca, intensa, aguzza –
prima con la grave malattia della figlia Serena, impegnata nel movimento femminista, già
giovane scrittrice, e poi con la sua precoce
scomparsa. Una ferita profonda che in Guido
non si rimarginò mai.
Così, la sua bibliografia è rimasta purtroppo
assai più scarna di quanto il Nozzoli scrittore
non meritasse. Se non vado errato, gli unici
libri di Guido sono il volume dedicato alla
Resistenza nel Ravennate, “Quelli di Bulow.
Cronaca della 28 Brigata Garibaldi” (Editori
Riuniti), e l’altro realizzato su “I ras del regime. Gli uomini che disfecero gli italiani”
(Bompiani). Il primo, finito di scrivere nel 1955
e pubblicato quasi due anni dopo, gli procurò
grandi amarezze e i primi seri screzi col partito: Nozzoli si era buttato a scriverlo con un
impegno totale, come sapeva lui, ed ambiva
ad un premio che invece venne assegnato al
libretto subito dimenticato di un funzionario di
partito il quale presso la nomenklatura contava molto più di lui sempre insofferente e in
odore di eresia.
A rileggerne oggi la prefazione, si coglie per
intero il personaggio: “Spesso, scrivendo
queste pagine e rievocando il sacrificio di
questi compagni, la commozione mi ha fatto
groppo in gola. La commozione non è un
sentimento da storico; ma io non sono uno
storico, sono un giornalista, cioè un cronista.
E sono un romagnolo che ama la sua terra,
la sua gente, la sua idea. Ovunque io vada
ne porto il ricordo chiuso in me come la cosa
più cara della mia vita. Non v’è viaggio che
possa cancellare in me quel paesaggio che
riposa fra i dolcissimi colli dell’Appennino e la
riva dell’Adriatico, fra il Sillaro e il Marecchia”.
Il secondo libro, uscito nel 1972, porta una
dedica significativa: “Ai miei figli Serena e
Daniele e a tutti i giovani come loro che
vogliono essere liberi”. In esso erano stati
raccolti e integrati gli articoli rievocativi, ampi
e ben costruiti, che Guido aveva pubblicato
sul rotocalco domenicale del “Giorno”, col
corredo di fotografie del ventennio decisamente rare. Nella prima puntata campeggiava una immagine di grandi dimensioni con
Mussolini che in auto lasciava il Quirinale
dove Vittorio Emanuele III gli aveva appena
assegnato l’incarico di formare il governo,
dopo la Marcia su Roma. Sul predellino della
macchina era salito un giovanotto elegante,
che sfoggiava una spiritosa paglietta ed un
sorriso soddisfatto: era, ben identificabile,
Francesco Malgeri che poi doveva dirigere il
“Messaggero” dal 1932 al 1941 e che, al
tempo della rievocazione di Nozzoli, era diretORDINE
10
2000
“Giorno” dall’“Unità”, mi dicesti: “Per Dio, Fuma, guarda la
mia busta”. Uscivamo insieme il giorno di “sanpaganino”
dall’ufficio di Rovetti, l’ufficiale pagatore. Guardai e rimasi sconvolto. Io, peone,
guadagnavo più di te, anche
se per via degli scatti di
anzianità. Ma tu mi desti
subito la spiegazione. Con
un ticchio del naso che incrinava il tuo stupendo accento
romagnolo, mi dicesti: “Sai,
Italo Pietra mi dà il minimo
sindacale, perché dice che
ha già fatto il miracolo di fare
entrare un comunista al Giorno”. A proposito, Guido,
apprendo adesso dai necrologi che tu eri un massone.
Non lo sapevo. Voglio solo
dirti che a me, credente, non
me ne frega niente. Mi ha
unito a te la stima altissima
che concepii man mano che
leggevo i tuoi servizi e che
aumentò quando mi confidasti il dolore che ti attanagliava per la malattia di tua figlia,
quell’angelo che io avevo
conosciuto alle Acli di Milano
e che poi se ne andò giovanissima. Di te fui sempre
amico e ammiratore e ti
considerai assieme ai Nasi,
ai Paoletti, ai Nozza e pochi
altri un autentico giornalista.
Non posso ancora credere
che a Rimini non c’è più
Guido Nozzoli.
Ciao Guido! Tuo
Peppino Fumarola
tore generale al “Giorno”, incaricato dai dorotei di far fuori, con mano pesante e tuttavia
senza riuscirvi, il direttore, Italo Pietra. Le
risate e i sarcasmi al giornale si sprecarono.
Malgeri, che aveva un sorriso lampeggiante,
precisò a denti stretti: “Ero un giovane cronista e Mussolini mi aveva invitato a salire in
auto con lui per darmi il programma di governo”. “Sì, però da quell’auto non è più sceso,
per vent’anni”, commentò tagliente lo stesso
Pietra.
Alla galleria dei gerarchi (da Arpinati a Farinacci, a Bottai, a Grandi, a Balbo, dieci
complessivamente) mancava però il ravennate Ettore Muti, “Gim dagli occhi verdi”, come
l’aveva battezzato a Fiume Gabriele D’Annunzio, bello e forte, tanto coraggio e poca
testa (“Muti d’accento e di pensier”, si ironizzava nel ventennio), fatto ammazzare, con
ogni probabilità, dal maresciallo Badoglio che
ne temeva la popolarità, dopo l’8 settembre
1943. Fui io a convincere Guido a scriverne
un ritrattone per il libro su Ravenna che stavo
realizzando insieme a Tino Dalla Valle. Così
la sua seconda e, credo, ultima opera poteva
dirsi completa. Le altre sono rimaste, a quel
che se ne sa, un progetto, anche se Nozzoli
scrisse contributi cospicui su Romagna &
Romagnoli in libri antologici dedicati alla terra
di origine e al concittadino Fellini, che erano
già idee di base da tradurre in volume.
Quand’ero direttore del “Messaggero” gli
telefonai insistentemente per chiedergli se lui,
così bravo nella rievocazione storica, non
avrebbe voluto scrivermi una serie di pezzi
sui cinquant’anni dalla guerra d’Africa. Mi
ringraziò amichevolmente e però fu fermissimo nel sottrarsi. Non so perché.
Si schermiva dicendo che, in pensione, nella
sua Rimini, preferiva dedicare il tempo libero
al lavoro di “stipettaio” – come puntigliosamente si autodefiniva – fabbricando mobili o
modellini di mobili (che non avemmo mai
modo di vedere).
Mi raccontarono che aveva finito per occupare col suo laboratorio gran parte della casa
fino a quando la moglie Anna, con lui pazientissima, non gli aveva intimato l’alt. Guido
amava la vita, la compagnia, la convivialità,
anche se il temperamento romagnolo (di una
volta) lo portava spesso a dure spigolosità e
anche a rotture taglienti. Lo vidi però apertamente, dichiaratamente commosso al Teatro
Novelli di Rimini allorché per pochissimi voti
alla fine di una interminabile seduta notturna
i giornalisti italiani riuniti a congresso elessero loro presidente Paolo Murialdi, un altro
della banda del “Giorno”, un coetaneo, il
primo presidente della Federstampa che
venisse dalla Resistenza.
Corse a casa e ne tornò con un paio di bottiglie di Sangiovese che stappò in quell’alba di
settembre del 1974 costringendo affettuosamente tutti noi, morti di sonno e di fatica, ad
alzare il bicchiere per salutare felici il singolare evento (compreso l’astemio Antonio Airò),
davanti al mitico Grand Hotel di Rimini biancheggiante al primo sole mentre partivano
per la gita a San Marino e a Urbino i pullman
dei turisti tedeschi.
I NOSTRI LUTTI
Franco Belli, rigore
e senso del dovere
di Emilio Pozzi
Il rigore di Franco Belli si è manifestato ancora una volta, quando ha avuto la sensazione, per inquietanti segnali premonitori, di non
farcela più: prima di uscire di casa per andare in clinica, si è seduto alla scrivania e ha
preparato, scrivendolo a mano, un asciutto
necrologio: “Silvana Belli annuncia con
profondo dolore la morte di….” E questo per
togliere alla moglie una dolorosa incombenza. Condensato in un aggettivo, “profondo”,
c’era il senso di un’unione, quarantadue anni
di vita in comune, sottolineata dalla scoperta, negli ultimi anni, di aver riimparato a ridere insieme. Quel gesto, il necrologio scritto
da sé prima di lasciare l’appartamento di via
Bigli (“in questa casa non ci tornerò più”,
dirà, prima di salire sul taxi) ha stupito e
sconcertato molti. Non certo gli amici, che in
quell’atto, freddo e lucido, hanno ritrovato un
altro segno di coerenza, di coraggio e di
immenso rispetto per gli altri.
A salutare Franco, nell’area della clinica “La
Madonnina”, destinata agli ultimi adempimenti mortuari (il cliente non abita più qui), ci
siamo ritrovati, in un pomeriggio dell’inizio di
ottobre, in molti, venuti da tante parti, ciascuno testimone di una frazione della sua vita di
lavoro: chi lo ricordava alla “Notte” di Nutrizio,
con i suoi esordi di fotografo, chi al “Giorno”,
chi al “Corriere”, chi al “Tempo”, chi a “Repubblica” dove ha guidato la pattuglia della prima
redazione milanese. Guido Vergani rammentava il suo contributo al recentissimo “Dizionario della Moda”. Nella vita di lavoro era
severo. Nessuno, dei tanti giovani che aveva
contribuito a crescere (si era guadagnato il
titolo di “zio”) può dire di aver mai ricevuto una
pacca sulla spalla (però a casa parlava di
ciascuno con affetto).
Nel suo dolore era serena Silvana. A chi le
stava vicino, mentre la burocrazia perdeva
tempo in imbarazzanti lungaggini, raccontava sommessamente di Franco: delle sue ultime giornate in clinica, di una telefonata, alle
tre di notte, per dirle che si era rivestito per
andarle a comprare un libro, delle raccomandazioni minuziose da dare a Piero, per la
potatura degli alberi, a Missano di Bettole.
Franco amava la campagna e il mare (l’isola
d’Elba gli era nel cuore), la musica, tutta, e i
suoi due gatti, Biondo Romeo e Minouche.
Un risvolto di vita, questo, che è giusto ricordare, lontano dalla quotidianità di giorni e
notti, anni, trascorsi a obbedire alla legge
della chiarezza e della precisione, a insegnare a non tirar mai via.
Le ceneri di Franco (era nato a Varese nel
1927) sono ora in quella terra dei colli
piacentini, tra vigne e boschi, vicino ai contadini che lo vedevano arrivare il sabato e
sapevano del suo amore per le piante, il
rosmarino soprattutto, i fiori , la natura. Per
loro non era il burbero “zio” e, in suo onore,
hanno mangiato buone e semplici torte,
ricordandolo com’era.
Franco Belli non avrebbe voluto sopravvivere a menomazioni fisiche o mentali che certe
malattie portano con sé, spesso causa degli
stress del nostro lavoro.
Non sarebbero tornati i conti con la sua
pagella umana e professionale. Di rigore e di
umiltà: quella consapevole umiltà, ecco
ancora una volta il rigore, che non ci fa trovare, nel suo curriculum, un libro di ricordi, di
saggistica o di narrativa.
Mi rendo conto di non essere certamente io
il collega più meritevole di ricordarlo in
queste nostre pagine. Lo considero, però, un
privilegio perché mi viene data la possibilità
di testimoniare, - per un breve tempo di lavoro trascorso insieme, quand’era responsabile delle pagine degli spettacoli al “Giorno”,
un periodo non facile nei rapporti personali la sua integrità, la sua onestà e un senso
assoluto del dovere nei confronti del nostro
unico vero padrone: il lettore.
Massimo Miggiano,
un grafico moderno
Milano, martedì 28 novembre. Sabato
notte, come di consueto, si era fermato in
redazione sino alla chiusura della seconda
edizione.
Domenica pomeriggio, ad appena 53 anni,
Massimo Miggiano ci aveva già lasciati, tradito da un cuore che mai gli aveva inviato
messaggi di cui preoccuparsi. Una morte
tanto improvvisa quanto discreta, fotocopia
dei tanti anni trascorsi a far quadrare i conti
di una grafica con la quale giocava a rimpiattino per la sua invidiata bravura.
Massimo era arrivato al “Sole-24 Ore” il 2
maggio 1975. Il giornale, a quei tempi, contava soltanto su una manciata di redattori. E
lui si era messo subito in evidenza per la
voglia di fare, di distinguersi. A cominciare
dal settore normativo, che iniziava allora a
muovere i primi passi e che lo aveva visto
per un certo periodo attivo protagonista. Non
a caso ben presto sarebbe stato nominato
caposervizio e successivamente, con la
responsabilità dell’intero settore grafico, vicecaporedattore.
In parallelo sarebbe arrivato anche il colpo di
fulmine, che l’avrebbe portato a sposarsi con
una “compagna di banco”, del giornale,
Rosalba Luparia e ad avere un bambino,
Carlo, che ora ha vent’anni. E a loro va tutto
l’affetto dei colleghi, che in tutti questi anni
hanno avuto Massimo (il Max appassionato,
veloce di computer, sempre disponibile) a
loro fianco. Impossibile non volergli bene.
(da “Il Sole 24 Ore”
del 28 novembre 2000)
L’ECO DELLA STAMPA
ECO STAMPA MEDIA MONITOR S.R.L.
Via Compagnoni 28, 20129 Milano
Tel. 02 74 81 131 Fax. 02 76 11 03 46
21 (29)
22 (30)
ORDINE
10
2000
Ai funerali di Valentina un inviato di 11 anni
Cronaca e lavoro:
giurisprudenza
della Cassazione
Pollena Trocchia (Napoli), 16 novembre. Dall’alto dei suoi 140 centimetri d’altezza Alessio,
undici anni, è un inviato... molto speciale ai funerali della piccola Valentina, la bambina di due
anni uccisa domenica mattina davanti al negozio di fiori dello zio, nella cui sparatoria sono
rimasti feriti anche il padre e la mamma, Raffaele Terracciano e Maria Civita, entrambi di 28
anni. Il piccolo, “armato” di carta e penna, raccoglie appunti e commenta il funerale dal “suo
mondo dell’infanzia”. “Da grande - dice il ragazzino - voglio fare il giornalista. È la mia passione principale, già da un anno scrivo e commento i fatti che accadono nel mio paese. A fine
anno pubblico le mie notizie in un giornalino, con l’aiuto di mamma e papà”. Ha dato anche un
nome alla testata: “Daily Planet”, il giornale di Superman, il personaggio dei fumetti che preferisce. Alessio, frequenta il primo anno della scuola media di Pollena, “Raffaele Viviani”.
Il piccolo si avvicina ai numerosi inviati delle televisioni e dei giornali, presenti davanti alla chiesa di Pollena. Chiede loro per quali giornali scrivono, come si diventa giornalista, come ”nasce“
la notizia.
(ANSA)
La critica e la satira non devono degenerare nell’insulto
gratuito – Va rispettato il limite della continenza nella
forma espositiva (Sezione Terza Civile n. 14485 del 7
novembre 2000, Pres. Iannotta, Rel. Lupo).
L’azione per ottenere il risarcimento del danno causato
da diffamazione internazionale a mezzo stampa deve
essere promossa nello Stato in cui si è verificato l’evento dannoso – Ossia dove il periodico è stato edito o
distribuito (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1141 del 27
ottobre 2000, Pres. Vela, Rel. Olla).
Il settimanale l’Espresso ha pubblicato nel dicembre del 1990
un articolo di Giampaolo Pansa che conteneva la frase:
«Quando Forlani spedì Bruno Vespa a dirigere il TG1, qualcuno mi disse: “Preparati a vederne d’ogni colore. Quello lì
ha lo sguardo del sicario, bovino umidoso, ma con lampi di
sadismo che promettono sfracelli”». Bruno Vespa ha chiesto
al Tribunale di Roma di condannare il direttore del periodico,
l’autore dell’articolo e l’editore al risarcimento del danno.
L’azienda si è difesa sostenendo di avere correttamente esercitato il diritto di critica e di satira. Il Tribunale, con sentenza
del febbraio del 1993, ha respinto la domanda. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Roma che,
con sentenza del dicembre del 1996, ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno non patrimoniale,
liquidato in via equitativa in misura di 50 milioni nonché alla
riparazione pecuniaria prevista dall’articolo 12 della legge n.
47 del 1948 in misura di 10 milioni.
La Corte ha rilevato che la frase oggetto del contendere,
valutata sia da sola che nel contesto dell’articolo, non si collegava direttamente ad altri argomenti usati dall’articolista e
sconfinava in uno sprezzante dileggio, travalicando i limiti del
diritto di critica e di satira.
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 14485 del 7
novembre 2000, Pres. Iannotta, Rel. Lupo) ha rigettato il
ricorso proposto dai giornalisti e dal direttore dell’“Espresso”.
Il requisito della correttezza della forma espositiva (cosiddetta continenza) – ha affermato la Corte – sussiste non solo
per l’informazione di cronaca ma anche per i commenti di
natura critica e per la satira. La Corte ha richiamato la sua
giurisprudenza secondo cui il diritto di critica, anche politica,
pur consentendo toni aspri, non può mai sconfinare nella
pura contumelia e non consente l’uso di affermazioni gratuitamente denigratorie e di mero disprezzo.
Anche il diritto di satira, quale particolare forma del diritto di
critica – ha precisato la Corte – non può essere sganciato
da ogni limite di forma espositiva; l’esigenza della continenza
è stata affermata dalla Cassazione penale anche nel caso in
cui si adoperino vignette e caricature e quindi a maggior
ragione non può essere negata quando, come nel caso di
specie, la satira si esprima in forma esclusivamente verbale.
La sentenza della Corte d’Appello di Roma – ha affermato la
Cassazione – deve perciò ritenersi giuridicamente corretta
nella parte in cui ha affermato che il diritto di critica non può
essere inteso come “diritto del libero insulto”.
L’attrice A. P. ha promosso davanti il Tribunale di Bologna
un’azione giudiziaria nei confronti della società svizzera Can
Publishing, editrice della rivista Union edita in Svizzera e
stampata in Francia, chiedendone la condanna la risarcimento del danno per avere pubblicato, al fine di promuovere
una “hot line” telefonica, una sua fotografia con didascalia di
contenuto estremamente offensivo.
L’attrice ha sostenuto che, pur non essendo la rivista Union
distribuita in Italia, la sua reputazione era stata danneggiata
anche in questa nazione, in quanto la notizia della pubblicazione era stata ampiamente ripresa da giornali italiani.
La società svizzera ha proposto, davanti alla Suprema Corte,
regolamento preventivo di giurisdizione sostenendo che in
base all’art. 5 della Convenzione di Lugano del 16.9.1988
l’azione giudiziaria avrebbe dovuto essere promossa in Svizzera e non in Italia.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 1141 del 27 ottobre 2000, Pres. Vela, Rel. Olla) ha accolto il ricorso, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano. La Corte
ha rilevato che in base all’articolo 5 della Convenzione di
Lugano “il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato
contraente può essere citato, in materia di delitti o quasi delitti, davanti al giudice del luogo in cui l’evento dannoso si è
verificato”.
Nel caso di diffamazione internazionale a mezzo stampa –
ha precisato la Corte – questa norma deve essere interpretata nel senso che la competenza giurisdizionale appartiene,
oltreché al giudice dello Stato del convenuto, al giudice: a )
del luogo dell’evento–generatore, ossia del luogo dove è
stabilito l’editore della pubblicazione controversa; b) dei
luoghi ove la pubblicazione diffamatoria è stata diffusa e
quindi ove si è manifestato il danno direttamente riconducibile all’azione dell’editore.
Non è rilevante ai fini della giurisdizione – ha aggiunto la
Corte – il luogo in cui è stato distribuito un mezzo di stampa
che abbia “ripreso” il fatto diffamatorio, ossia si sia limitato a
dare notizia che un altro giornale non collegato editorialmente è stato pubblicato un fatto idoneo a ledere la reputazione
di una persona fisica o giuridica.
Le Sezioni Unite hanno richiamato i principi affermati dalla
Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sentenza
7.3.1995 resa nella causa C-68/93, Fiona Shevill c. Presse
Alliance S.A., che ha interpretato l’articolo 5 della Convenzione di Bruxelles del 27.9.1968, identico nella formulazione
all’articolo 5 della Convenzione di Lugano.
Definire un disc jockey “sballato” può costituire diffamazione – La critica non deve trascendere nel dileggio e
nella contumelia personale (Cassazione Sezione Quinta
Penale n. 10119 del 25 settembre 2000, Pres. Lacanna, Rel.
Amato)
e pertanto ha condannato P.E. alla pena della multa e al risarcimento del danno in favore della parte civile. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano, che
ha ravvisato nelle espressioni usate da P.E. una violazione
del limite della continenza.
La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 10119 del 25
settembre 2000, Pres. Lacanna, Rel. Amato) ha rigettato il
ricorso dell’imputato, richiamando la sua giurisprudenza
secondo cui la critica, se anche può assumere toni vibrati,
non deve trascendere nel dileggio e nella contumelia personale: sicché possono ritenersi giustificate solo le espressioni
strettamente correlate alla critica e ad esse strettamente
funzionali, mentre non lo sono quelle ultronee allo scopo e
gratuitamente offensive della persona. Poiché il tema dell’intervista era costituito dal possibile uso di droga da parte di
appassionati della techno music – ha osservato la Corte –
l’epiteto “sballato” assumeva una connotazione diffamatoria,
evidenziata anche dal termine “pseudo-redenzione”.
(www.legge-e-giustizia.it).
Il disc jockey E.P. ha rilasciato nel 1993 al quotidiano “Il Giornale”, un’intervista sul genere musicale denominato “techno
music” sostenendone la pericolosità per i suoi possibili effetti
di induzione al consumo di droga. Riferendosi ai suoi colleghi P.G. e F.E. egli ha espresso stupore “per la pseudo-redenzione dei due deejay più sballati d’Italia”.
I due lo hanno querelato per diffamazione. E.P. si è difeso
sostenendo di avere esercitato il diritto di critica e di non aver
fatto ricorso a termini ingiuriosi, in quanto il termine “sballato”, diffuso nel gergo giovanile, non ha efficacia lesiva, poiché
designa una persona euforica ovvero dotata di caratteristiche straordinarie.
Il Tribunale di Monza ha ritenuto sussistente la diffamazione
Antisindacale il comportamento di un’emittente televisiva che utilizza come dipendenti i soci di una cooperativa
appaltatrice dei servizi giornalistici - Per mancato rispetto degli obblighi di informazione previsti dalla legge n.
223 del 1991 in occasione di una riduzione del personale e per l’eliminazione di lavoratori rimasti fedeli al sindacato (Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, ordinanza del 20
ottobre 2000, Est. Arbore).
La Telenorba S.p.A. è titolare di due emittenti televisive
operanti in Puglia, che diffondono, tra l’altro, informazioni
giornalistiche mediante telegiornali, notiziari e rubriche. Sino
al 1982 i servizi giornalistici sono stati realizzati da dipendenti diretti di Telenorba, ai quali veniva corrisposto un trattamento inferiore a quello previsto dal contratto nazionale di
lavoro giornalistico. Successivamente, in seguito alla conciliazione di vertenza da loro promossa per ottenere l’applicazione del CNLG, i dipendenti della Telenorba addetti all’informazione hanno costituito la cooperativa “Comunicazione &
Immagine”, alla quale Telenorba ha affidato, in appalto, la
realizzazione di tutti i suoi servizi giornalistici; della cooperativa sono entrati a far parte anche alcuni tecnici, in precedenza legati all’emittente da contratti di collaborazione autonoma. Telenorba ha mantenuto alle sue dipendenze un solo
giornalista, con mansioni direttive. Direttore responsabile
della testata è stato nominato, su designazione di Telenorba,
il presidente della cooperativa, che per un certo periodo è
stato inquadrato alle dipendenze dell’emittente al fine di
conseguire l’iscrizione nell’Albo dei Giornalisti, elenco professionisti. Nel 1996 Telenorba ha deciso di por termine al
rapporto con la cooperativa al fine di auto produrre i servizi
giornalistici e di ottenere in tal modo le provvidenze previste
dalla legge n. 422/95 a favore delle emittenti locali. Ne è
seguita una vertenza sindacale, nel corso della quale il presidente della cooperativa ha ottenuto da parte di un gruppo di
soci la sottoscrizione di un documento di condanna dell’operato del sindacato. Poiché Telenorba ha mantenuto ferma la
decisione di non utilizzare più la cooperativa, questa ha licenziato tutti i soci giornalisti e tecnici, una parte dei quali è
passata alle dipendenze di Telenorba; sono rimasti privi di
lavoro coloro che non avevano firmato il documento di
condanna del sindacato. In seguito a ciò l’Associazione
Regionale della Stampa di Puglia e il Sindacato dei Lavoratori della Comunicazione–CGIL hanno promosso davanti al
Giudice del Lavoro di Bari un procedimento per repressione
di comportamento antisindacale, in base all’art. 28 St. Lav.,
nei confronti di Telenorba S.p.A. sostenendo che essa era
l’effettiva datrice di lavoro dei soci della cooperativa Comunicazione ed Immagine e che pertanto, in occasione del licenziamento dei 60 giornalisti e tecnici, avrebbe dovuto rispettare la procedura prevista dalla legge n. 223/91 in materia di
riduzione del personale, informando previamente il sindacato
della sua decisione; le ricorrenti hanno anche affermato che
Telenorba aveva tenuto un comportamento illecitamente
discriminatorio assumendo, dopo il licenziamento, alle sue
dipendenze, solo i lavoratori che si erano allontanati dal
sindacato. Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Bari, dott.ssa
Angela Arbore, dopo aver sentito testimoni e acquisito documenti, con provvedimento del 20 ottobre 2000 ha dichiarato
l’antisindacalità del comportamento tenuto da Telenorba
S.p.A. e la nullità dei licenziamenti, ordinando all’azienda di
reintegrare tutti i lavoratori e di pagare loro la retribuzione
maturata dalla data del licenziamento. Il Giudice ha applicato
la legge n. 1369 del 1960, che vieta l’interposizione nei
rapporti di lavoro, in quanto ha accertato che i soci della
cooperativa sono stati inseriti nell’organizzazione aziendale
di Telenorba S.p.A., e vi hanno operato in condizioni di subordinazione, utilizzando impianti e attrezzature dell’emittente e
ricevendo disposizioni da dipendenti della medesima. Il
Giudice ha ravvisato l’antisindacalità del comportamento di
Telenorba nel mancato rispetto delle procedure previste dalla
legge n. 223/91 e nell’avere utilizzato, quale criterio di scelta
del personale da eliminare, quello di punire chi non aveva
sottoscritto il documento di condanna del sindacato.
Garante della privacy: “Il tribunale di Trento non può dare i nomi degli emofilici”
Trento, 15 novembre. Non si possono diffondere su Internet i nomi degli emofilici parti lese
nel processo per il sangue infetto, che sta per aprirsi a Trento, neppure se la scelta del tribunale è stata dettata da esigenze organizzative basate sul costo delle procedure o sull’ onerosità degli accertamenti. Lo sostiene il Garante per la privacy, Rodotà.
Sollecitato dalla Lila (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids) e dalla Federazione delle Associazioni Emofilici, Stefano Rodotà ha inviato una nota al ministro di Giustizia in merito alla
pubblicazione sul sito Internet del tribunale di Trento delle generalità di più di 1.000 persone
costituitesi parte civile per aver subito la somministrazione di emoderivati infetti.
La Lila di Trento ha diffuso il testo del Garante, in cui si afferma che “la tutela di dati delicati,
come quelli relativi allo stato di salute, non può essere affievolita per accordare preferenza
a esigenze organizzative basate sul costo delle procedure o sull’ onerosità degli accertamenti” e si “esprime viva preoccupazione per l’inadeguata sensibilità prestata nei confronti
ORDINE
10
2000
della riservatezza e della dignità delle persone offese, che sono state rese riconoscibili ad
un pubblico indeterminato di persone e all’ intera opinione pubblica la cui attenzione è stata
richiamata dalla cronaca”. Il Garante “ribadisce il divieto della diffusione indiscriminata di
dati idonei a rivelare lo stato di salute (art. 23, legge n.675/97) e le elevate garanzie di
anonimato riconosciute in particolare alle persone affette da Hiv/Aids (legge n.135/90)e
deplora il fatto che ulteriori danni, derivanti dalla diffusione di dati personali e sensibili,
possano derivare a persone già offese da gravi fatti-reato”.
Infine Rodotà “sottolinea la necessità di integrare con urgenza le norme processuali vigenti
al fine di tutelare con idonee misure organizzative la riservatezza e la dignità delle persone,
ciò anche al fine di salvaguardare il diritto di difesa delle vittime di reato, che possono essere indotte a non difendersi proprio per evitare ulteriori danni legati ad un’ampia conoscenza
del proprio stato di salute”.
(ANSA)
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