Dicembre 2000 - Ordine dei Giornalisti Lombardia
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Dicembre 2000 - Ordine dei Giornalisti Lombardia
Anno XXXI n. 10, dicembre 2000 Ordine Direzione e redazione Via Appiani, 2-20121 Milano Telefono: 02 63 61 171 Telefax: 02 65 54 307 dei Giornalisti della Lombardia http://www.odg.mi.it e-mail:[email protected] Spedizione in a.p. (45%) Comma 20 (lettera b) dell’art. 2 della legge n. 662/96 Filiale di Milano Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo Appello di Franco Abruzzo ai direttori perché sostengano la riforma concordata con il ministro della Giustizia Fassino Tempi strettissimi: il Parlamento ha ancora quattro mesi di vita. La pubblicazione della rettifica ridurrà il risarcimento. Scompare la riparazione. Le testate on-line registrate obbligatoriamente Cambia la legge sulla stampa: danno contenuto in 50 milioni Parlamento ha appena 4 mesi di vita. Queste le novità: On-line, diffamazione, risarcimento (tetto di 50 milioni) e riparazione (che scompaMilano, 4 dicembre. Appello di Franco Abruzre). Le testate on-line dovranno essere regizo ai direttori responsabili delle testate giornastrate come i quotidiani, i periodici, i giornali listiche italiane, perché sostengano la riforma radiofonici e televisivi; il reato di diffamazione della legge sulla stampa così come è uscita (coordinato con il 595 Cp) prevederà alternadall’incontro del 17 novembre tra il ministro tivamente carcere (da 6 mesi a 3 anni) o della Giustizia, Piero Fassino, e i vertici della multa (non inferiore a un milione), mentre categoria (tra i quali lo stesso Abruzzo). Ecco attualmente, quando nell’articolo c’è l’attribuil testo della lettera: zione di un fatto determinato, abbina carcere “Cari colleghi, il Senato è sulla strada di ripri(da 1 a 6 anni) e multa (non inferiore a stinare l’appello rispetto alle sentenze penali 500mila lire); scomparirà di condanna per il reato di l’istituto della riparazione diffamazione a mezzo (l’entità della somma è stampa. Le modifiche A pagina 2 l’opinione determinata oggi “in relaall’articolo 593 del Cpp di Antonio Duva zione alla gravità dell’offepresto andranno in Aula e sa e alla diffusione dello nell’Aula sono possibili stampato”); il danno liquiagguati. Poi l’argomento Sentenze penali dato “con valutazione passerà all’esame della equitativa” non potrà Camera. di condanna superare i 50 milioni di Tutto potrebbe essere più e diritto all’appello: lire. facile se decidessero le tutelare difesa La «proposta Anedda». Commissioni Giustizia dei An ha chiesto e ottenuto, due rami del Parlamento e giustizia sfruttando un articolo del in sede legiferante. regolamento della CameI vertici della categoria, ra, che la proposta di legge firmata da alcuni nelle giornate del 13 e del 17 novembre, suoi deputati (il primo è Gianfranco Anedda) hanno discusso, con il ministro della Giustizia in materia di diffamazione avesse la precePiero Fassino, la riforma della legge sulla denza nell’esame da parte della Commissiostampa, trovando un punto di compromesso ne Giustizia. Questo progetto in sostanza a mio modo di vedere accettabile. Il ministro abolisce il reato di diffamazione a mezzo ha depositato le modifiche come emendastampa. La proposta (soprattutto quando menti alla “proposta Anedda”. parla di non punibilità) appare suggestiva, ma La Camera dovrebbe cominciare a discutergli esperti ritengono che la stessa sia in ne. La posta in gioco è altissima come si evinpotenziale conflitto con la Costituzione. ce dalla lettura degli emendamenti alla propoGli emendamenti del ministro della Giustista n. 7292. Serve una mobilitazione della zia. Negli emendamenti viene stabilito un categoria e serve soprattutto che i giornali principio nuovo, che recupera il contenuto ne parlino. I tempi sono strettissimi: il di Franco Abruzzo dell’articolo 1227 del Cc: «Il risarcimento non è dovuto per i danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare formulando, ove possibile, la richiesta di pubblicazione della rettifica, quando la pubblicazione della risposta o della rettifica nelle forme e nei termini previsti dalla legge avrebbe concorso a ridurre le conseguenze dannose». Si porrà per i direttori dei giornali la sfida di dare piena attuazione all’articolo 8 della legge sulla stampa che impone la pubblicazione delle rettifiche (contenute entro le 30 righe) “in testa di pagina e nella stessa pagina del giornale che ha riportate la notizia cui si riferiscono” nonché “con le medesime caratteristiche tipografiche”. Il giudice potrà valutare se la pubblicazione della rettifica abbia coperto il danno per intero o solo in parte. Dal pagamento del danno non sono esclusi gli editori. L’interdizione temporanea. Il ministro della Giustizia precisa che, in caso di condanna (anche a una multa), al giornalista possa essere inflitta l’interdizione temporanea dell’esercizio della professione «per un periodo non inferiore a due mesi e non superiore a 12». L’interdizione, comunque, è già prevista, quando emerge una violazione grave dei «doveri», dagli articoli 30 e 31 del Cp per tutte le professioni e può abbracciare un periodo da un mese a 5 anni. Fassino, invece, ha coordinato la pena accessoria con la legge n. 69/1963 sulla professione giornalistica, che prevede, in sede disciplinare, la sospensione per un periodo non inferiore a due mesi e non superiore a 12, “quando l’iscritto con la sua condotta abbia compromesso la dignità professione”. La misura dell’interdizione non scatta automaticamente, ma va valutata dal giudice caso per caso. Coordinazione tra Codice penale e Codice civile. Il cittadino, che si ritiene diffamato, può agire in sede penale entro tre mesi, mentre in sede civile tale termine è di 5 anni, che può aumentare quando è “più lunga” la prescrizione del reato attribuibile al giornalista (3° comma dell’articolo 2947 Cc). Anedda suggerisce di contenere tale termine entro i 12 mesi, mentre l’Ordine dei Giornalisti chiede un termine di 6 mesi. La modifica suggerita dall’on. le Anedda è da salvare. In sostanza il ministro Fassino ha accolto tutti i suggerimenti, che gli sono stati esposti dall’Ordine di Milano in una memoria del 28 settembre 2000”. Feltri radiato dall’Albo Milano, 21 novembre. Vittorio Feltri, direttore di Libero, è stato radiato dall’Albo dei Giornalisti per le immagini di bambini ricavate da un sito pedofilo pubblicate sul quotidiano il 29 settembre scorso. La delibera di radiazione è stata presa all’unanimità dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nella seduta di ieri sera ed è stata comunicata oggi. La sentenza del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti afferma che ‘’Vittorio Feltri ha operato al di fuori del dettato costituzionale e delle norme deontologiche dalla professione giornalistica fissate per legge’’, e ‘’merita la massima sanzione, quella della radiazione, avendo, con la sua condotta, gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo’’. (ANSA) Servizi alle pagine 4, 5, 6 e 7. Il ministro Ortensio Zecchino ha firmato il 28 novembre il decreto che completa la riforma dell’Università Le lauree specialistiche sono 104 (tra le quali quella in giornalismo) Roma, 28 novembre. Dalle biotecnologie agrarie, industriali e mediche alle scienze dell’universo; dalle scienze della nutrizione umana, delle religioni, dello sport alla teoria della comunicazione e al giornalismo. Sono 104 (due in più rispetto a quelle comunicate nei giorni scorsi) le lauree specialistiche definite nel decreto che, con la firma del ministro Ortensio Zecchino, completa oggi la riforma dell’Università italiana. Questo è il decreto n. 2, mentre il decreto n. 1 (sulla determinazione delle 42 classi di laurea) è stato già pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” il 19 ottobre 2000. Ora è atteso il terzo decreto, quello relativo all’esame pubblico per l’abilitazione all’esercizio delle professioni intellettuali. Nel nuovo sistema, dunque, si realizzano due percorsi formativi, quello che conduce fino alla laurea di base e un biennio successivo che porta ad approfondire la specializzazione. Un affinamento della qualità degli studi che si basa, spiega il ministro, sul criterio della “meritocrazia”, visto che le condizioni di accesso sono “rigorose”. “Non si tratta di una prosecuzione automatica degli studi – spiega Zecchino – ma di un itinerario di affinamento delle conoscenze che va riservato a chi ha motivazioni adeguate. Anche se la valorizzazione del merito non va disgiunto dall’impegno a sostenere i più bisognosi”. Per accedere ai corsi di laurea specialistici occorrerà insomma la laurea di base, ma non basterà. Ciascuna università è chiamata a definire i requisiti curricolari (sotto forma di crediti attribuiti per due terzi in base a indicazioni del ministero e per il resto per scelta autonoma dell’ateneo) necessari per il passaggio al percorso specialistico. Inoltre, il ‘candidato’ sosterrà un esame per la valutazione dell’adeguatezza della preparazione, che sarà, sottolinea il ministro, “la vera garanzia di qualità”. L’autonomia delle singole università è uno dei principi della riforma. Cambierà l’esame d’abilitazione Ora è atteso il terzo decreto, quello sugli esami di abilitazione all’esercizio professionale dopo i decreti sulle lauree triennali e quello sulle lauree specialistiche. Il comma 18 dell’articolo 1 della legge n. 4/1999 conferisce al ministero dell’Università, di concerto con quello della Giustizia, il potere di “modificare e integrare”, con regolamento, la disciplina dell’esame statale di abilitazione “con esclusivo riferimento alle attività professionali per il cui esercizio la normativa vigente già prevede ORDINE 10 2000 l'obbligo di superamento di un esame di Stato”. Il regolamento fisserà anche “la disciplina del relativo ordinamento dei connessi albi, ordini o collegi nonché dei requisiti per l'ammissione all'esame di Stato e delle relative prove”. La norma prevede che gli Ordini nazionali “siano sentiti”. Il terzo decreto abolirà, quindi, gli articoli 32, 33 e 34 della legge n. 69/1963, che oggi regolano la prova di idoneità professionale, il registro dei praticanti e la pratica giornalistica. Dopo 72 anni scompare il tirocinio fatto nei giornali come titolo per sostenere l’esame di abilitazione. Scompare anche la pratica alternativa espletata nelle attuali scuole create dagli Ordini professionali. Un vecchio mondo va in pensione: gli editori perdono il diritto di “creare” i giornalisti. Solo metà dei commissari d’esame saranno giornalisti (oggi sono 5 su 7: gli altri due sono magistrati). Nelle commissioni entreranno i professori universitari accanto a magistrati e giornalisti. “Sappiamo che l’autonomia è anche un rischio, ma è necessario scommettere sulla capacità degli atenei di realizzare la riforma, garantendo da parte nostra il necessario sostegno”, dice Zecchino, che sottolinea i fondi inseriti a questo proposito nella finanziaria, pari a 725 miliardi l’anno per il prossimo triennio. Una quota (già ridotta di 25 miliardi l’anno alla Camera, che il governo intende “sostenere con forza” nell’esame del Senato). La laurea biennale specialistica in giornalismo occupa il numero 13/S tra le classi delle lauree specialistiche (editoria, comunicazione multimediale e giornalismo). Una volta pubblicato il decreto n. 2 sulla “Gazzetta Ufficiale”, Ordine dei Giornalisti della Lombardia e Università statale riprenderanno i colloqui per concludere la convenzione sul futuro dell’Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo. Dall’ottobre 2001, in sostanza, il corso di laurea specialistico in giornalismo sostituirà il corso biennale di praticantato alternativo. Iniziato nel 1997, il percorso normativo per definire il quadro dell’autonomia didattica degli atenei è stato così completato. Si tratta di 104 “contenitori” che fissano gli obiettivi e le attività formative per i titoli di secondo livello attraverso i settori scientifico-disciplinari, all’interno dei quali le università – con i regolamenti didattici di ateneo e dei corsi di studio – “sceglieranno” le discipline dei curricula. Con la riforma, a partire dal 2001, “tramonteranno” i percorsi di studio uguali in tutto il territorio nazionale: ufficialmente gli atenei potranno determinare in autonomia il 34% dei crediti (in tutto 180 per la laurea e 300 per la laurea specialistica), in realtà gli spazi di libertà saranno amplificati dal gran numero di discipline appartenenti a ogni settore scientifico-disciplinare. 1 Vice presidente del Gruppo DS-L’Ulivo del Senato L’OPINIONE di Antonio Duva Sentenze penali di condanna e diritto all’appello: tutelare difesa e Giustizia È stata calcolata in circa 3500 miliardi la cifra complessiva alla quale ammontano le richieste di risarcimento avanzate, in occasioni di querele, nei confronti di giornalisti italiani nel corso degli ultimi due anni. È una somma enorme, spesso derivante da iniziative strumentali, che si traduce in una indiretta e indebita pressione sulla libertà di giudizio degli organi di informazione. È un segnale di grande disagio dei rapporti fra stampa, pubblica opinione e giustizia. Non è tuttavia l’unico: la severa, ma rigorosa, decisione recentemente assunta dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia sul caso Feltri ha posto in evidenza il tema, spesso trascurato, della deontologia, mentre altre vicende indicano quanti limiti vi siano nelle norme sulla rettifica o in quelle sulla registrazione delle testate online. Questioni complesse e controverse alle quali spesso molti reagiscono riproponendo, con sbrigativa superficialità, la logora ricetta della soppressione dell’Ordine dei giornalisti. In realtà le vicende recenti dimostrano proprio il contrario: e cioè che solo l’esistenza dell’Ordine - pur con tanti limiti e vincoli rappresenta un estremo presidio a tutela non solo della professionalità dei giornalisti ma anche dei diritti del lettore. Ma indubbiamente problemi di riforma profonda si pongono per l’Ordine professionale, affinché, esso possa esercitare al meglio la sua funzione, così come appaiono necessarie consistenti modifiche delle normative sulla stampa. Fra queste - per le ragioni ricordate all’inizio - presenta un carattere di particolare urgenza quella relativa al diritto di appello contro le sentenze di condanna, per diffamazione, per le quali sia stata prevista la sola pena pecuniaria. “Parlamento contro giornalisti” ha titolato il n. 9 di Tabloid. Le cose non stanno proprio così. L’allarme ha un suo fondamento ed è giustificato non solo per i giornalisti ma per tutti i cittadini. Le ripetute modifiche avvenute nel corso degli ultimi anni della legislazione processuale penale hanno infatti prodotto conseguenze non sempre opportune dal punto di vista della funzionalità del sistema e delle garanzie. Nel caso specifico, tuttavia, la ricerca di una soluzione al problema è già avviata. La Commissione giustizia di Palazzo Madama ha recentemente approvato un disegno di legge (primo firmatario il senatore Giovanni Russo) che propone un rimedio a mio avviso tanto equilibrato quanto valido. Come sottolinea la stessa relazione all’A.S. n. 4771: “La modifica dell’articolo 593 del codice di procedura penale - divenuta operativa con l’entrata in vigore della legge 24 novembre 1999 n. 468 - ha suscitato talune critiche e preoccupazioni, con riferimento a quei delitti (si pensi, ad esempio, alla diffamazione a mezzo stampa o alle lesioni colpose) il cui accertamento si accompagna, se vi è costituzione di parte civile, alla condanna dell’imputato al risarcimento del danno, o comunque fa stato nel giudizio civile o amministrativo di danno o in altri giudizi. In effetti, la ratio della innovazione sta nel modesto “peso” che assume l’inflizione di una pena soltanto pecuniaria, rispetto alla quale non fa sostanziale differenza che essa consista nell’ammenda… o nella multa; ma tale ratio certamente non ricorre nei casi in cui la condanna penale costituisce la base per una contestuale o successiva condanna al risarcimento del danno, poiché in tali casi le conseguenze civilistiche della sentenza di condanna ‘pesano’ assai di più di quanto non peserebbe l’inflizione di una modesta pena detentiva, condizionalmente sospesa”. Di qui la proposta di un intervento correttivo - qual è appunto quello prospettato dal Ddl n. 4771 - che riapra la via dell’appellabilità, come risorsa per l’imputato, in tutti i casi di sentenza di condanna in cui la pena pecuniaria sia accompagnata anche dalla previsione del risarcimento dal danno a favore della parte civile. Si tratta insomma di tutelare meglio i diritti della difesa senza appesantire inutilmente la funzionalità - già così limitata - del sistema processuale come appunto prevede il Ddl n. 4771 che è stato approvato il 14 novembre scorso dalla Commissione giustizia in sede referente. C’è ora da augurarsi che questo provvedimento concluda nel più breve tempo possibile il suo iter a Palazzo Madama e che, subito dopo, possa ricevere il consenso anche dalla Camera dei Deputati. Se così sarà almeno uno dei punti di frizione fra stampa e giustizia sarà stato rimosso in modo appropriato. A questo fine il pur poco tempo disponibile prima della conclusione della legislatura appare sufficiente. Occorre però che sia forte e decisa la sollecitazione di quei cittadini, come i giornalisti, che sono interessati a un simile esito e occorre che sia coerente, in questo senso, l’impegno delle forze politiche: difesa della libera informazione e tutela della giustizia mai come in questo caso coincidono. Santaniello: “La Carta Ue ha non pochi diritti nuovi” Roma, 16 novembre. La carta europea dei diritti è un “documento politico-giuridico che diventa il presupposto di una vera e propria cittadinanza europea”. Lo afferma in un’intervista al “Messaggero” il vicepresidente dell’ufficio del Garante per la privacy, Giuseppe Santaniello, che respinge le critiche mosse contro il documento comunitario. “Basta leggerlo - afferma - per constatare che contiene non pochi diritti nuovi. Quali la protezione dei dati di carattere personale, il riconoscimento del giusto processo, il riconoscimento dei principi e dei valori della bioetica e della biomedicina, della qualità della vita, della multireligiosità e della libertà di coscienza. Della non discriminazione culturale e linguistica, dei diritti del bambino e degli anziani”. In particolare, afferma Santaniello, un principio inserito nella Carta, ma che non è presente nelle Costituzioni degli Stati, è quello del diritto alla protezione dei dati personali, che “è inquadrata nel titolo libertà. Un fatto estremamente importante. Questa è la visione più moderna della privacy, in quanto non è isolamento della persona, ma espressione della sua dignità e, soprattutto, della sua libertà”. (ANSA) A Pino Rea (Ansa) il premio Ghinetti San Miniato (Pisa), 16 novembre. È stato assegnato a Pino Rea, redattore della sede Ansa di Firenze, il premio giornalistico intitolato a Roberto Ghinetti, il giornalista del quotidiano “Il Tirreno” morto a 32 anni nel giugno del 1993. La decisione di assegnare il riconoscimento è stata presa dal Comune di San Miniato che ogni anno organizza il premio. Rea, 56 anni, all’ Ansa dal 1982, ha lavorato in passato per i quotidiani “Il Nuovo” e “Paese Sera” ed è stato per anni il primo corrispondente dalla toscana di “Repubblica”. Presidente dell’Ast dal 1997 è tra i promotori di Isf, Informazione senza frontiere, che si occupa della situazione dei giornalisti in Paesi nei quali il diritto all’informazione viene negato o è considerato “a rischio”. (ANSA) Cartellino rosso dall’Ordine al direttore e a un inviato di “Panorama” Qual è il limite del diritto di cronaca garantito ai giornalisti? Pubblichiamo integralmente l’articolo di Alberto Papuzzi, apparso su “ La Stampa” del 27 luglio, che commenta una deliberazione dell’Ordine di Milano di Alberto Papuzzi Qual è il limite del diritto di cronaca garantito ai giornalisti? Una sentenza dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha riaperto questo problematico interrogativo, che ha alle spalle una storia in cui s’intrecciano il principio costituzionale della libertà di stampa e i diritti delle persone coinvolte nell’universo delle notizie. La sentenza è stata emessa dopo un procedimento disciplinare per un articolo apparso su “Panorama” del 2 marzo: al direttore Roberto Briglia è stata comminata la sanzione della censura, l’inviato Marcella Andreoli è stata sospesa per 2 mesi dalla professione. Entrambi respingono la sentenza, con la solidarietà della redazione: “Decisione inaccettabile” ha scritto Briglia in una nota ai colleghi: “È un precedente pericolosissimo”. Quanto alla Andreoli, si difende ricordando il proprio impegno: “Ho sempre fatto un giornalismo di denuncia. Per me il giornalismo è smascherare i mascalzoni”. Oggetto del caso, che certamente rinfocolerà le polemiche sulla legittimità di un Ordine dei giornalisti, un articolo intitolato Il sacco, la carota e altre storie di “nonni”, in cui si raccontavano le violenze subite da un 2 aviere di leva nella base missilistica di Bagnoli di Sopra in provincia di Padova. Punto cruciale la cruda descrizione di un episodio di sevizie, non portate a termine. L’articolo faceva nome e cognome della vittima di questi atti di nonnismo, indicando anche il luogo di provenienza. Secondo la giornalista, i dati si potevano considerare pubblici essendo pendente un procedimento penale contro un maresciallo e tre avieri, accusati delle violenze, che aveva dato luogo anche a una udienza preliminare. Ma i genitori della vittima si sono appellati alla legge sulla privacy e al codice deontologico dei giornalisti, approvato due anni fa, che vieta di rendere nota l’identità di chi è oggetto di abusi sessuali. Marcella Andreoli è conosciuta come una giornalista di valore. Professionista dal 1973, iniziò la sua carriera all’“Avanti!”, seguendo per anni le piste del terrorismo nero e rosso. Ha fatto parte di una pattuglia di cronisti che negli anni settanta cercarono di mettere a nudo i retroscena dello stragismo italiano. Al telefono ricorda quando un foglio dell’estrema sinistra, il “Quotidiano dei lavoratori”, dedicò il titolo Ecco i quattro giornalisti killer a Marco Nozza del “Giorno”, Giulio Obici di “Paese Sera”, Ibio Paolucci dell’“Unità” e appunto a lei, “perché non scrivevamo che i terroristi erano compagni che lottavano”. Però, dall’altra parte, c’è un giovane poco più che ventenne che ha visto resa pubblica una sua dolorosa storia. Perché pubblicare nome e cognome? Erano fondamentali ai fini dell’informazione? “Perché c’era già un processo, perché c’erano degli atti pubblici risponde Andreoli -. Io non ho trafugato nulla, non ho raccolto indiscrezioni. E anche perché ho pubblicato tutti i nomi degli accusati, che pure si presumono innocenti fino al giorno della condanna”. Aggiunge Briglia: “È vero che la vittima ha subito un danno, ma va tenuto conto che è stato lui a promuovere il processo penale. E l’articolo sosteneva la sua denuncia”. Così il giornalismo si trova di fronte a un antico confronto, che ne ha segnato l’intera storia: la natura della notizia, che è plasmata di dati, di elementi materiali come quelli sintetizzati nelle celebri cinque W (Who, When, Where, What, Why), e le vite, la dignità, i sentimenti, l’immagine delle persone che si trovano ad essere coinvolte nella macchina dell’informazione, trasformate in una merce che si chiama notizia. Negli anni novanta i giornalisti italiani, sotto la pressione anche di vicende come l’inchiesta di Mani pulite, si sono dati una serie di regole, con una Carta dei doveri e un codice deontologi- co, perché la notizia non passi sui diritti delle persone come un rullo compressore. Una di queste regole è il divieto di rendere identificabili le vittime di violenze a carattere sessuale (prevista anche dal codice penale). Nella vicenda di “Panorama”, la violazione è innegabile. Lo stesso Briglia mette in discussione più l’entità della sanzione che il procedimento disciplinare: “Quell’articolo - dice - è cronaca, cronaca, e ancora cronaca. Marcella Andreoli è una professionista di conclamato impegno e rigore. Se l’Ordine dei giornalisti si assume la responsabilità di sospenderla per due mesi, penso che si debba mettere in discussione la capacità di giudizio di questo organismo. Dico che tutti possiamo sbagliare, ma questa sentenza è una mazzata che può pregiudicare un’intera carriera”. Perciò il direttore di “Panorama” ha inviato una lettera ai presidenti di Camera e Senato, per sollevare la questione del diritto di cronaca, collegato anche alle querele ai giornalisti. Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine della Lombardia, sostenitore di una linea severa, si limita a dire che le regole deontologiche sono un grande fatto di civiltà. Ma il confine tra il valore dell’informazione e i danni che può arrecare non è quasi mai facile da tracciare. ORDINE 10 2000 Due giornate di sciopero dopo la rottura del negoziato. La posta in gioco è la dignità di chi lavora nei giornali, nei periodici, nelle emittenti radiotv e in Internet o come freelance Giornalista trasferito: accolto il ricorso di Fabio Morabito Roma, 28 novembre. È illegittimo e “sembra sottendere una finalità ritorsiva”, il trasferimento dalla sede centrale alla redazione di Pescara del giornalista del “Messaggero” Fabio Morabito. Lo ha deciso il giudice del lavoro di Roma, Elisabetta Mariani, che ha sospeso il provvedimento, rilevando che il trasferimento “non appare sorretto da adegua- te ragioni tecnico- produttive”. La vicenda di Morabito, con quella del collega Umberto La Rocca (destinato a Macerata), è al centro di una vertenza. Morabito, assistito dall’avvocato Domenico D’Amati, ha avuto anche il sostegno dell’Associazione stampa romana, il sindacato locale dei giornalisti. Giornalisti uniti contro la Fieg e nella difesa della professione Roma, 28 novembre. Il 29 e 30 novembre i giornalisti della carta stampata hanno incrociato le braccia, seguiti da quelli delle emittenti radiotelevisivi. Il 28 l’incontro Fnsi-Fieg era naufragato. Il colloquio, come aveva annunciato la Fnsi in una nota, era considerato “l’estremo tentativo di dialogo prima di decidere azioni di lotta della categoria”. Si legge nel comunicato stampa diramato dalla Fnsi il 28 novembre: “L’interruzione delle trattative per il rinnovo del contratto dei giornalisti avviene dopo 14 mesi dall’avvio del negoziato ed appare quindi particolarmente grave. La commissione contratto della Fnsi ha già sottolineato con forza i positivi avanzamenti realizzati nel lungo confronto-scontro con gli editori ma ha giudicato improponibili alcune delle più importanti ipotesi di conclusione formulate dalla Fieg, mentre ha confermato i punti irrinunciabili proposti anche nell’incontro di ieri dal Sindacato dei Giornalisti. Siamo consapevoli della rilevanza delle decisioni che abbiamo assunto la cui responsabilità va attribuita alla posizione degli editori che permane intransigente su alcuni aspetti fondamentali per il presente ed il futuro della professione giornalistica. La Federazione della Stampa ha accettato la sfida della modernizzazione e della flessibilità, con l’obiettivo però di far avanzare i confini della tutela e della rappresentanza dei giornalisti nei settori finora privi di regolamentazione contrattuale. E ciò, evidentemente, senza stravolgere il meccanismo del lavoro giorna- listico basato sull’autonomia delle redazioni e dei singoli giornalisti”. Questi i punti sui quali si è determinata l’interruzione del negoziato: On line: la possibile intesa, per la prima volta nel sistema delle relazioni sindacali, per una regolamentazione del lavoro giornalistico nel Web è ostacolata dalla posizione negativa degli editori su alcune questioni economiche e normative di grande rilievo. La Fnsi non può accettare che le redazioni con meno di sei giornalisti, molto diffuse nell’on line, siano lasciate senza rappresentanza sindacale. Occorre che sia garantito il riposo settimanale ed il pagamento dell’eventuale lavoro domenicale, festivo e notturno. Si tratta di conquiste storiche per tutti i lavoratori e non solo per i giornalisti. Non si può insomma accettare una ipotesi di contratto di serie B nel quale, per esempio, sia previsto un diverso regime degli scatti di anzianità rispetto ai colleghi degli altri settori produttivi. Lavoro autonomo: la regolamentazione del lavoro dei giornalisti freelance sarebbe limitata, secondo la posizione Fieg, alle sole collaborazioni coordinate e continuative escludendo così tutte le collaborazioni autonome professionali. Gli editori vogliono escludere regole minime di comportamento per centinaia di giornalisti collaboratori che vivono della professione e contribuiscono in maniera determinante alla realizzazione del prodotto. Gli editori rifiutano inoltre forme di rispetto del lavoro dei freelance come il dirit- I punti irrinunciabili Roma, 22 novembre. La commissione contratto della Fnsi il 22 novembre aveva considerato “improponibili” alcune ipotesi formulate dalla Fieg, ipotesi che nulla hanno a che fare con la flessibilità e con la modernizzazione del lavoro giornalistico, e che puntano a minare alla base la struttura e l’autonomia della professione, nonché la qualità del prodotto. Si legge nel comunicato diramato al termine della riunione della stessa Commissione: “La commissione respinge ogni tentativo di smantellare diritti e garanzie fondamentali, di creare redattori di serie B, di snaturare le esigenze di flessibilità attraverso un uso artatamente squilibrato dei contratti a termine, di indebolire la funzione e l’autonomia dei quadri con un eccessivo ricorso all’impiego temporaneo, di introdurre forme autoritarie nell’esercizio della professione. La commissione ritiene possibile stringere la trattativa, in tempi rapidissimi, a condizione che vengano garantiti in primo luogo i seguenti punti, che sono di primaria importanza anche e specialmente per le nuove generazioni di giornalisti: On line: va garantito il riposo settimanale, la rappresentanza sindacale, il pagamento dell’eventuale lavoro domenicale; freelance: ampliare l’ambito di applicazione dell’accordo nazionale. Flessibilità: estensione dei contratti a termine ma solo per la creazione di nuove redazioni e di nuovi inserti. La quantità va proporzionata al numero dei nuovi addetti. A parte il caso delle nuove iniziative, capiservizio e capiredattori vanno esclusi dai contratti a termine relativi alle qualifiche gerarchiche. Mantenimento dell’indennità di inviato occasionale. Retribuzione per il prodotto multimediale e destinato a più testate della stessa azienda editoriale, fermo restando che questo impegno non può essere sostitutivo rispetto a quello per la testata di appartenenza. No all’annullamento dei permessi sindacali. E no a codici disciplinari che snaturino la professione. Un adeguato aumento retributivo che tenga conto dell’accresciuto impegno professionale dei giornalisti, dell’ottimo andamento del mercato dell’informazione e dell’andamento reale dell’inflazione. La commissione giudica che questi elementi siano pienamente funzionali allo sviluppo del settore e anzi ne favoriscano una crescita sana, come dimostra il fatto che queste soluzioni siano per larga parte già presenti, con piena soddisfazione delle parti e con un buon esito per i bilanci, nei gruppi più importanti e innovativi dell’editoria italiana”. to alla firma e all’integrità degli articoli, né vogliono recepire la normativa europea che prevede il pagamento entro trenta giorni dalla consegna dei pezzi. Flessibilità: la Fieg vuole aumentare la possibilità di stipulare contratti a termine fino al 30% degli organici redazionali oltre che per le nuove iniziative anche nei casi di aumento di foliazione, realizzazione di nuove cronache e di edizioni locali, supplementi settimanali, numeri speciali. Gli editori chiedono anche di avere libertà di utilizzare i contratti a termine per assumere capiservizio e capiredattori, oltre che le qualifiche superiori, nella misura del 20% degli organici redazionali complessivi. In sostanza la Fieg vuole il controllo assoluto delle gerarchie redazionali che sarebbero sottoposte al “ricatto” della contrattazione a termine. Il sistema proposto dagli editori renderebbe inoltre possibile una espansione pressochè senza limiti del precariato sottoposto a forti pressioni aziendali. Infine la Fieg vuole cancellare dal contratto la figura dell’inviato occasionale e utilizzare l’opera del giornalista oltre che per la testata per la quale è stato assunto anche per qualsiasi altra testata dell’azienda comprese quelle multimediali. Grafici: nella utilizzazione dei sistemi editoriali e nel processo di videoimpaginazione, specie nel settore dei periodici, si vuole cancellare la figura del giornalista grafico spostando le sue competenze su professionalità tecniche. Rapporti sindacali: la Fieg insiste nel voler annullare i permessi sindacali retribuiti per gli organismi dirigenti delle istituzioni della categoria e per i componenti della commissione d’esame professionale. Gli editori, inoltre, continuano a perseguire l’obiettivo di un codice disciplinare inserito nel contratto i cui contenuti rischiano di snaturare il ruolo e la funzione del giornalismo. Aumenti retributivi: la Federazione della Stampa ha chiesto aumenti retributivi almeno pari a quelli ottenuti recentemente da altre categorie del pubblico impiego, dei servizi e dell’industria ed ha sottolineato il momento molto favorevole dell’andamento dei conti delle aziende del sistema dell’informazione. Il tentativo della Fieg di spostare gran parte degli aumenti salariali nella contrattazione aziendale rischia di favorire le aziende più forti per penalizzare i giornalisti delle testate medio piccole e rivela il tentativo degli editori di indebolire la contrattazione nazionale di categoria. “Il Sindacato dei Giornalisti sottolinea che i sei elementi di scontro sopra descritti impediscono la conclusione positiva del negoziato. La Fnsi ha già compiuto numerosi sforzi di adeguamento del contratto alle trasformazioni del mondo della comunicazione e ritiene di aver avanzato proposte compatibili con uno sviluppo sano del settore che ponga al centro la qualità dell’informazione. Se gli editori saranno disposti ad ulteriori avanzamenti sui punti sopra descritti la Fnsi sarà pronta a riprendere il confronto contrattuale”. Nuovi scioperi in vista Roma, 1 dicembre. ‘’Dopo 14 mesi di negoziato, cinque interruzioni e altrettante riprese delle trattative - afferma la Fnsi in una nota resta intatta la capacità di mobilitazione e di lotta contro la volontà degli editori di stravolgere le redazioni e il lavoro giornalistico’’. ‘’Ancora una volta, purtroppo, si segnalano i comportamenti scorretti, antisindacali e provocatori di alcuni editori e direttori che, pur in presenza di una consistente astensione dal lavoro dei giornalisti delle loro testate, si sono adoperati per far uscire i loro giornali. Al gruppo Riffeser i direttori, d’accordo con l’editore, hanno scritto lettere fotocopia ai giornalisti per invitarli a devolvere in beneficenza parte del loro salario. Una proposta giustamente respinta dalle redazioni che hanno scioperato con una percentuale di adesione di oltre il 95%. I giornali sono usciti con il lavoro dei gruppi di direzione, di alcuni redattori con contratto a termine e di diversi giovani stagisti. In altre testate si sono ripetuti inviti al crumiraggio e vere e proprie intimidazioni fermamente respinte dai giornalisti. Nel settore dell’on-line la partecipazione allo sciopero è stata elevatissima, ad eccezione di alcune nuove iniziative informative, come ‘Il Nuovo.it’, i cui direttori hanno ricercato ragioni pretestuose e inaccettabili per indurre i colleghi a lavorare’’. “La Fnsi - prosegue la nota - ricorda che la mobilitazione proseguirà nei prossimi giorni in tutti i settori produttivi. Il giornalismo italiano vive una fase difficilissima nella sua storia, sottoposto a continui assalti, a ristrutturazioni e a tagli occupazionali che hanno devastato realtà editoriali storiche del Paese (come l’Unità). La Federazione esprime solidarietà ai giornalisti licenziati e cassaintegrati da giornali ed emittenti radiotelevisive private (come Antenna 1 e Rete 7 di Bologna e le radio locali di RTL-102.5) ed ai colleghi trasferiti con inaccettabili prassi autoritarie (come all’ADNKronos e al ‘Messaggero’)”. “La Giunta della Federazione Nazionale della Stampa - continua la nota - ha deciso di confermare gli scioperi dell’emittenza televisiva nazionale per l’11 e il 12 dicembre, di confermare le astensioni dal lavoro dei periodici, che stanno iniziando in questi giorni, e di attuare altri scioperi dei uotidiani le cui date e modalita’ saranno comunicate dalla Segreteria. La conferenza nazionale dei cdr si riunirà nei prossimi giorni per esaminare la grave situazione che sarà anche discussa dal Consiglio Nazionale convocato per il 20 dicembre”. (ANSA) Beppe Giulietti (ds) chiede la mediazione del Governo MILANO. Il sindacato dei giornalisti andrà avanti negli scioperi per la vertenza del rinnovo del contratto di lavoro, per il quale “gli editori devono mettere in campo soluzioni diverse da quelle prospettate”. Paolo Serventi Longhi, segretario della Fnsi, continua per la sua strada. “Il risultato dello sciopero” ha detto intervenendo al Forum della comunicazione locale a Frascati (Roma) è “stato molto positivo: abbiamo già in previsione le due giornate di sciopero dell’emittenza per l’11 e il 12 dicembre e dobbiamo decidere gli altri scioperi dei quotidiani”. Ragioniamo in una situazione di grande adesione, ma anche di qualche problema che ha riguardato l’informazione che fa riferimento a una parte politica. E non “ha tenuto a precisare” perché la Fnsi faccia riferimento, ORDINE 10 2000 come dice Vittorio Feltri, all’ala bolscevica della società italiana, ma perché qualunque sia la parte politica danneggiata è evidente che le azioni sindacali in qualche modo vanno ad interferire”. Giuseppe Giulietti, responsabile informazione Ds, sollecita il Governo a intervenire. “Dovrebbe verificare almeno in via informale se esistono margini di una possibile mediazione per la vertenza del rinnovo del contratto dei giornalisti”, ha detto a margine del convegno romano. Giulietti non ha nascosto la preoccupazione per la “delicata scadenza elettorale che si avvicina: i black-out dell’informazione diventano sempre più rischiosi per una evidente scelta politica della destra di boicottare gli scioperi dei giornalisti” e di “approfittare degli scioperi per organizzare campagne di stampa coordinate”. Intanto ai sindacati arriva una frecciata: lo sciopero dei giornalisti colpisce pesantemente gli editori della carta stampata mentre non pesa granché su quelli tv. A lanciarla è Ernesto Auci in un convegno a Milano. Un’osservazione, ha precisato lo stesso direttore del “Sole-24 Ore”, che vuole essere spunto di riflessione e in nessun modo un attacco al diritto di sciopero. Gli editori della carta stampata “ci rimettono totalmente in caso di sciopero” ha detto Auci “ma quelli televisivi in realtà ci guadagnano potendo mandare qualche spot in più e forse annoiando meno i telespettatori con i telegiornali”. (da “Il Sole 24 Ore” del 3 novembre 2000) 3 Lettera alle autorità dello Stato, ai parlame DELIBERAZIONE Assolto otto volte Vittorio Feltri radiato dei bambini (usati dai Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nella sua seduta del 20 novembre 2000; sentito il consigliere istruttore, Sergio D’Asnasch (articolo 6 della legge 7 agosto 1990 n. 241); visti gli articoli 2 e 48 della legge 3.2.1963 n. 69 sull’ordinamento della professione giornalistica con riferimento agli articoli 2 e 21 (comma 6) della Costituzione; 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa; lette la sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale secondo la quale l’Ordine «....con i suoi poteri di ente pubblico vigila, nei confronti di tutti e nell’interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla» e la sentenza n. 7543 del 9 luglio 1991 (Mass. 1991) della Cassazione civile secondo la quale «la fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare»; espletate le sommarie informazioni di cui all’articolo 56 della legge 3.2.1963 n. 69; tenuto conto della sentenza 14 dicembre 1995 n. 505 della Corte costituzionale; visti altresì gli atti del procedimento; considerato quanto segue: 1. Fatti e avviso disciplinare In data 29 settembre 2000 il presidente di questo Consiglio ha notificato al giornalista professionista Vittorio Feltri questo avviso disciplinare: «Nell’ambito dei poteri attribuitimi dagli articoli 4, 5 e 6 della legge n. 241/1990, informo che, anche su segnalazione di una iscritta all’Albo, la segreteria del Consiglio ha acquistato una copia di “Libero” di oggi 29 settembre 2000. Nella pagina 3 hai pubblicato sette fotografie, ricavate da un “sito pornografico reso disponibile dai pedofili russi”, e una a pagina 4 (raffigurante “una scena di violenza tratta dal video di pedofilia sequestrati dalla magistratura”) che appaiono contrarie al buon costume e tali, “illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti”, “da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare”. La pubblicazione delle 8 fotografie integra la violazione degli articoli 2 e 48 della legge sull’ordinamento della professione giornalistica. Il tuo comportamento potrebbe essere inquadrato a queste due massime giurisprudenziali: 1) In assenza di tipizzazione dei comportamenti illeciti sul piano disciplinare, la rilevanza deontologica dei comportamenti del giornalista va teleologicamente valutata in rapporto all’obbligo di comportarsi in modo conforme al decoro ed alla dignità professionale e tale da non compromettere la propria reputazione o la dignità dell’Ordine sancito dall’art. 48 1. n. 69 del 1963 nonché al dovere di lealtà e buona fede ed all’obbligo di promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione tra giornalisti ed editori e la fiducia tra la stampa ed i lettori sanciti dall’art. 2 della legge medesima. (App. Milano, 18 luglio 1996; Foro It., 1997, I, 919) 2) Oltre all’obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l’osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa. (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n. Brovelli; Foro It., 1997, I, 938)»; 2. Sommarie informazioni, capo d’incolpazione e comunicazioni alle parti Vittorio Feltri non ha raccolto l’invito di fare pervenire al Consiglio una sua nota difensiva entro 15 giorni dal ricevimento dell’avviso disciplinare. La pubblicazione di fotografie impressionanti e raccapriccianti è espressamente proibita dall’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa e contrasta con i principi fissati negli articoli 2 e 21 (VI comma) della 4 Costituzione e negli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica. Pertanto il Consiglio, nella seduta del 16 ottobre, ha deliberato l’apertura del procedimento disciplinare, con riferimento agli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963 in relazione agli articoli 21 (comma 6) della Costituzione e 15 della legge n. 47/1948, a carico di Vittorio Feltri, direttore di “Libero” (ex articolo 6 del vigente Cnlg e articolo 7 della legge n. 633/1941) con la contestazione del seguente addebito: «Aver disposto, nella sua qualità di direttore di “Libero”, la pubblicazione alla pagina 3 dell’edizione del 29 settembre 2000 del quotidiano di sette fotografie impressionanti e raccapriccianti di bambini ricavate da un “sito pornografico reso disponibile dai pedofili russi”, e di una ottava fotografia a pagina 4 (raffigurante “una scena di violenza tratta dal video di pedofilia sequestrati dalla magistratura”), fotografie che appaiono tutte contrarie al buon costume e tali, “illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti”, “da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare”. La pubblicazione delle 8 fotografie integra la violazione degli articoli 2 e 48 della legge m. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica in relazione all’articolo 21 (VI comma) della Costituzione e all’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa. Il Consiglio, che ha fatto notificare il provvedimento ai controinteressati, ha sottolineato in quella occasione quanto affermato dai supremi giudici: “Il provvedimento con il quale il Consiglio dell’Ordine deliberi l’apertura del procedimento disciplinare non implica, neppure implicitamente, alcuna pronuncia sulla colpevolezza del professionista, ma costituisce mero atto preliminare della decisione» (Cass. sez. un. 25 ottobre 1979 n. 5573). 3. Audizione dell’incolpato Vittorio Feltri ha rinunciato a comparire, non ha nominato un difensore di fiducia, non ha risposto, come già riferito, all’«avviso» disciplinare del 29 settembre 2000. Appare opportuno, per inquadrare la vicenda, riportare l’articolo di fondo di “Libero” del 29 settembre 2000 con il quale Vittorio Feltri spiega e giustifica le ragioni che lo hanno spinto a pubblicare “quelle” immagini. Ecco il testo dell’articolo che ha questo titolo Scandalo necessario per svegliare le nostre coscienze: “Non hanno capito niente o hanno finto di non aver capito. Da Torre Annunziata arriva una notizia da infarto: migliaia di pedofili scovati in vari siti Internet e sottoposti a indagine, alcuni già finiti in galera e altri in procinto di andarci. Sequestrato materiale da brividi, documenti inequivocabili, fotografie, filmini: bimbi violentati, umiliati, usati come bambole gonfiabili, poi torturati, tagliuzzati, uccisi. Scoperto un commercio laido e miliardario, scambio di indirizzi, compravendita di carne infantile. Gli italiani sentono ma non credono ai propri orecchi, vedono e non credono ai loro occhi. Succede tutto questo e sapete che cosa fanno loro, quelli della sinistra e quelli Polo? Se la pigliano con i direttori del Tg1 Gad Lerner e del Tg3 Rizzo Nervo. Che hanno combinato i giornalisti, sono gli organizzatori della macelleria e dello spaccio? Nossignori. Hanno commesso un reato molto più grave: si sono permessi di raccontare lo schifo della pedofilia con servizi forti, forse troppo, in cui si getta in pasto ai cittadini la realtà. Una realtà cruda, da togliere il sonno a chi la guarda, un pugno nello stomaco, d’accordo, ma che colpa hanno i cronisti se in giro per il Paese accadono cose ripugnanti? Dovevano sfumare. Sfumare è la specialità del giornalismo nostrano, che dinanzi alle notizie brutte si volta, ignora, lascia perdere. Ecco, secondo gli ipocriti (costituiscono la base del conformismo nazionale) anche ora bisognava lasciar perdere. D’accordo, ci sono i pedofili, sono tanti, affollano Internet, si scambiano i bambini come fossero figurine, se il piccolo crepa sulla scena il prezzo naturalmente sale, ovvio, la merce rara costa di più. Però gli italiani sono scemi ed è meglio che scemi rimangano: non diciamogli nulla. Anzi, diciamogli pure qualcosina, senza esagerare altrimenti si turbano; diciamogli che le migliaia di indagati sono sì pedofili, ma appena appena, roba piccola. Date retta: cambiate canale che c’è su la partita. Questo sarebbe piaciuto ai vertici della Rai. Che il Tg3 e il Tg1 fossero stati così gentili da evitare certe informazioni. E siccome gentili non sono stati, giù legnate. Minaccia- ti di sanzioni gli autori materiali dei servizi, e i responsabili sono stati dimessi. Dato che una tantum hanno fatto il loro dovere, vanno cacciati, additati al volgo quali disturbatori della quiete e delle coscienze. È una storia incredibile. Lerner, dopo la trasmissione delle agghiaccianti immagini circolanti su Internet senza freni né ostacoli, è andato personalmente in video e ha chiesto scusa. Scusa di che? Il direttore di un Tg sarebbe obbligato a scusarsi se nascondesse le notizie per opportunità (anzi, opportunismo). Ma quando, vincendo il ribrezzo e la voglia di cestinare registrazioni e documenti, fornisce al pubblico le prove dei fatti, inclusi i più indigesti, è da applaudire. Come si fa a non mostrare il vizio osceno di cinquemila pedofili che hanno agito indisturbati fino a ieri, comunicando tra loro, consigliandosi sulla merce più preziosa da acquistare? Cari lettori, qui non siamo di fronte a ordinarie perversioni, a forme un po’ stravaganti di sessualità, a porcelloni qualunque, ma a gente che adopera e favorisce l’utilizzo dei bambini, bambini trattati come vuoti a perdere, seviziati, ammazzati. Per godere. O si sbatte la faccia contro questa realtà o non la si comprende fino in fondo e si tende a minimizzare. Quante persone ho udito dire: massì, cose sempre esistite, una carezza non ha mai ucciso una ragazzina e poi, va’ là, che certe ragazzine sono più puttane delle adulte. Sicuro, è un’opinione corrente. Ed è questa mentalità il brodo di cultura della pedofilia. Un brodo in cui si sviluppano l’indifferenza e l’omertà, addirittura la complicità della moglie del pedofilo che violenta la figlia: conviene tacere, nascondere per non rovinare la famiglia. Guai adattarsi all’ipocrisia bigotta e codina di quelli che preferiscono fare spallucce e seguitare a vivere nell’ignoranza d’un fenomeno più diffuso di quanto si immagini. Così il fenomeno non si stronca. Bisogna creare, viceversa, allarme e riprovazione sociale. E l’unico mezzo idoneo è lo scandalo: toh, guardate che fanno ai bambini, forse anche ai tuoi. Le coscienze per ribellarsi devono essere offese. E le scene bestiali mandate in onda dai Tg forse hanno raggiunto lo scopo, speriamo. Altro che licenziare i giornalisti, i direttori, accusarli di aver scherzato coi bambini, come ha detto Mario Landolfi, presidente della vigilanza Rai. Non Lerner, non Rizzo Nervo hanno scherzato coi bambini, ma i pedofili. È contro i pedofili che occorre scagliarsi, non contro chi ne ha denunciato e documentato i misfatti. Se la realtà fa orrore, non è colpa dello specchio che la riflette. Lo specchio in questo caso è l’informazione. Tg3 e Tgl hanno ecceduto? È vero. Sarebbe stato più saggio attenuare la violenza di alcune scene. Discutiamone pure. Ma non confondiamo l’involucro con il contenuto. E non dimentichiamo che prima viene la tutela delle vittime e la necessità di bloccare il tritacarne, poi provvederemo al resto, alle pecette sul volto e sui genitali dei ragazzini torturati affinché sorridano per la gioia dei pedofili. Ultima nota. Nell’ambito di un programma di informazione, quale il Tg1, non solo è lecito ma conveniente ricorrere a documenti per incrementare la credibilità delle notizie, e solo un deficiente può sospettare che tali documenti vengano diffusi con compiacimento. Ai dirigenti Rai e ai politici che s’azzuffano disputandosi un paio di poltrone da assegnare agli amici ai fini propagandistici, diciamo una sola parola: vergognatevi. Chi sfrutta i bambini per giochi di potere è peggiore del pedofilo”. 4. Valutazioni conclusive Le accuse sono fondate e va, quindi, affermata la responsabilità disciplinare di Vittorio Feltri. Il direttore di “Libero”, con le sue scelte collegate alla pubblicazione di immagini da lui stesso definite “agghiaccianti” e “bestiali” (che vengono unite in copia a questo provvedimento) nel fondo del 29 settembre sopra riportato, si è messo fuori dalla Costituzione e, quindi, dall’Ordine professionale, che, in linea con il dettato della carta fondamentale della Repubblica, vuole la professione esercitata in conformità ai doveri della correttezza e del rispetto della persona umana nonché del rispetto della reputazione del singolo iscritto all’Albo e della dignità dell’Ordine stesso al quale Feltri appartiene dal 16 dicembre 1971. In via preliminare va osservato che Vittorio Feltri è direttore di “Libero”, mentre direttore responsabile è il pubblicista Franco Garnero, iscritto all’Albo tenuto dall’Ordine di Torino. Feltri svolge non solo le funzioni di direttore (ex articolo 6 del ORDINE 10 2000 ntari e agli altri Ordini professionali Milano, 22 novembre. Franco Abruzzo ha trasmesso alle autorità dello Stato, ai parlamentari e agli altri Ordini professionali la “sentenza Feltri”. Questo il testo della lettera di accompagnamento: «Trasmetto la decisione (di 11 pagine) di questo Consiglio relativa a Vittorio Feltri, direttore di “Libero”, radiato dall’Albo. Il Consiglio dell’Ordine della Lombardia ha assolto in passato Feltri per ben 8 volte: era stato accusato a causa di commenti molto severi. Abbiamo difeso la sua libertà di critica, aiutati in questo (e molto) dalla nostra Costituzione e da alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Da questa circostanza affiora evidente l’ingiustizia di alcune affermazioni rilasciate dal direttore di “Libero”. Confesso che è duro far comprendere (soprattutto ai giornalisti e ai... direttori) che esiste un problema (grave) di legalità deontologica. Molte dichiarazioni, lette ieri sulle agenzie, mi sono apparse stupefacenti per l’ignoranza totale di varie norme contenute nella nostra Costituzione e in diverse leggi. Non esiste nell’ordinamento la libertà di pubblicare tutto e neppure la libertà di pubblicare foto choc di bambini usati dai pedofili oppure nomi dei cittadini violentati. Ho colto nelle dichiarazioni la preoccupazione dei direttori di adeguarsi a comportamenti “virtuosi”. Tanti ignorano che l’Ordine, ente pubblico, è “giudice” di natura amministrativa (articolo 2229 Cc; articoli 1 e 20, punto d, della legge n. 69/1963; sentenza n. 505/1995 della Corte costituzionale). Giorgio Bocca scrive che “per essere un Ordine rispettabile bisognerebbe per cominciare che avesse un codice morale da difendere ma questo codice l’Ordine dei giornalisti non se lo è mai dato”. Giorgio Bocca ignora che le regole deontologiche della professione sono scritte negli articoli 2 e 48 della legge professionale (n. 69/1963) e nel “Codice di deontologia sulla privacy”, emanazione della legge n. 675/1996 (e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 3 agosto 1998). Quel Codice è norma. Giudici delle violazioni di quel Codice sono solo i Consigli dell’Ordine dei Giornalisti. Ho provato amarezza nello scorrere oggi il fondo di Bocca su “Repubblica” e tanta pena per lui. Bocca scrive molto, ma legge poco. Nella stessa seduta in cui abbiamo giudicato Feltri - che non è il direttore responsabile di “Libero” - abbiamo adottato altre due decisioni di una certa gravità: una radiazione e una sospensione per 6 mesi. Vengo accusato da Feltri - giornalista distratto perché non ha controllato quanto ha scritto - che, con questa “sentenza”, ho cercato di uscire dal “grigiore della mia vita professionale”. Sappia Feltri che io sono orgoglioso di aver svolto in passato le funzioni di redattore capo centrale de “Il Sole 24 Ore” (massimo grado “tecnico” raggiungibile da un giornalista) e di occuparmi oggi sullo stesso prestigioso quotidiano di problemi della Giustizia. Non posso esprimermi sulla mia attività di “giudice” dell’Ordine. Ma ho la fierezza di dire che svolgo le mie funzioni pubbliche con passione, con impegno civile e con trasporto verso i problemi, che via via emergono. Qualche volta ho pagato prezzi salati per aver fatto solo il mio dovere». dall’Albo per le immagini pedofili) pubblicate su “Libero” vigente Cnlg e articolo 7 della legge n. 633/1941), ma di fatto anche quelle di direttore responsabile (articolo 5 della legge n. 47/1948 sulla stampa-articolo 46 della legge n. 69/1963 sulla professione giornalistica - articolo 57 Cp). Secondo l’articolo 7 della legge n. 633/1941 “il giornale è opera collettiva dell’ingegno di cui il direttore è autore”. Il ruolo del direttore è fissato, però, dal Contratto nazionale. Dice l’articolo 6 del Contratto nazionale di lavoro giornalistico (Cnlg): “È il direttore che propone le assunzioni e, per motivi tecnico-professionali, i licenziamenti dei giornalisti. Tenute presenti le norme dell’articolo 34 (Comitato di redazione), è competenza specifica ed esclusiva del direttore fissare ed impartire le direttive politiche e tecnico-professionali del lavoro redazionale, stabilire le mansioni di ogni giornalista, adottare le decisioni necessarie per garantire l’autonomia della testata, nei contenuti del giornale e di quanto può essere diffuso con il medesimo, dare le disposizioni necessarie al regolare andamento del servizio e stabilire gli orari (di lavoro)”. L’articolo 7 della legge e l’articolo 34 del Cnlg parlano del “direttore”, ma non di direttore responsabile. Le due figure sono disgiunte, anche se coincidenti nella stragrande maggioranza dei casi. Il direttore responsabile opera nell’ambito dell’articolo 57 del Cp e della legge professionale n. 69/1963 (firmando, ad esempio, le dichiarazioni di cui agli articoli 31, 34 e 35). Il direttore in conclusione attua la linea politica concordata con l’editore, garantisce l’autonomia della testata (e dei redattori) e anche la qualità dell’informazione. Secondo l’articolo 2 della legge n. 69/1963 (sull’ordinamento della professione giornalistica) la stessa libertà di informazione e di critica, diritto insopprimibile, «è limitata dall’osservanza delle norme dettate a tutela della personalità altrui». In base all’articolo 57 del Cp, il direttore risponde di “omesso controllo” quando non impedisce che “con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati”. “La responsabilità del direttore di giornale ex art. 57 Cp presuppone la concreta possibilità di impedire che col mezzo della stampa siano commessi reati, e cioè che siano da lui esigibili particolari comportamenti realizzativi degli obblighi strumentali di diligenza e di vigilanza tali che, attuati, il fatto sarebbe evitato o realizzato in guisa da essere penalmente indifferente” (Trib. Roma, 10 marzo 1989; Parti in causa: Scottoni; Riviste: Foro It., 1990, II, 137). Vittorio Feltri, con la pubblicazioni delle 8 immagini di cui nel capo d’incolpazione, ha sicuramente violato l’articolo 21 della Costituzione, che, al comma 6, vieta “le pubblicazioni a stampa contrarie al buon costume”. È l’unico limite che l’articolo 21 pone alla libertà di manifestazione del pensiero. L’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa recita: “Le disposizioni dell’art. 528 del Cp si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. “Per la sussistenza del reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante previsto e punito dall’art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 deve ritenersi sufficiente, sul piano oggettivo, l’idoneità delle immagini pubblicate ad offendere il comune sentimento della morale, nel cui concetto non può non essere ricompreso il sentimento della pietà verso i defunti, e sul piano soggettivo, il dolo generico, consistente nella cosciente volontà di pubblicare immagini impressionanti e raccapriccianti recanti in astratto detta idoneità, mentre è irrilevante lo scopo perseguito dall’autore di mantenere viva l’esecrazione e la condanna per il fatto cui le immagini si riferiscono” (Trib. Roma, 3 febbraio 1995; Parti in causa Minerbi e altro; Riviste Dir. Informazione e Informatica, 1996, 43; Rif. legislativi L 8 febbraio 1948 n. 47, art. 15). La sentenza citata smonta la tesi, annunciata dal titolo (Scandalo necessario per svegliare le nostre coscienze) sostenuta da Feltri nel fondo del 29 settembre: “Guai adattarsi all’ipocrisia bigotta e codina di quelli che preferiscono fare spallucce e seguitare a vivere nell’ignoranza d’un fenomeno più diffuso di quanto si immagini. Così il fenomeno non si stronca. Bisogna creare, viceversa, allarme e riprovazione sociale. E l’unico mezzo idoneo è lo scandalo: toh, guardate che fanno ai bambini, forse anche ai tuoi. Le coscienze per ribellarsi devono essere offese. E le scene bestiali mandate in onda dai Tg forse hanno raggiunto lo scopo, speriamo. Altro che licenziare i ORDINE 10 2000 giornalisti, i direttori, accusarli di aver scherzato coi bambini, come ha detto Mario Landolfi, presidente della vigilanza Rai. Non Lerner, non Rizzo Nervo hanno scherzato coi bambini, ma i pedofili. È contro i pedofili che occorre scagliarsi, non contro chi ne ha denunciato e documentato i misfatti. Se la realtà fa orrore, non è colpa dello specchio che la riflette. Lo specchio in questo caso è l’informazione. Tg3 e Tg1 hanno ecceduto? È vero. Sarebbe stato più saggio attenuare la violenza di alcune scene. Discutiamone pure. Ma non confondiamo l’involucro con il contenuto. E non dimentichiamo che prima viene la tutela delle vittime e la necessità di bloccare il tritacarne, poi provvederemo al resto, alle pecette sul volto e sui genitali dei ragazzini torturati affinché sorridano per la gioia dei pedofili”. È il caso di sottolineare una sentenza dei supremi giudici amministrativi sul comma 6 (o ultimo) dell’articolo 21 della Costituzione: “Il principio contenuto nell’art. 21, comma ultimo cost. - secondo cui sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume - è applicabile anche alle espressioni artistiche cinematografiche, senza contraddire il principio di libertà dell’arte (art. 33 Cost.), tenuto conto della complementarità degli art. 21 e 33 Cost. Deve escludersi pertanto, che il riconosciuto valore artistico di un’opera cinematografica importi di per sé la sua libera ed incondizionata visione al pubblico” (Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 1996, n. 139; Riviste Vita Notar., 1996, 184; Giur. Costit., 1996, 1249, n. Marchetti). Sul rovescio si può affermare: “Deve escludersi che il riconosciuto valore costituzionale del diritto di cronaca importi di per sé la libera ed incondizionata pubblicazione di immagini contrarie al buon costume”. L’articolo 15 della legge sulla stampa è stato valutato con la sentenza 293/2000 dalla Corte costituzionale. Secondo questa norma le sanzioni previste dall’art. 528 del Codice penale per le pubblicazioni oscene “si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionati o raccapriccianti avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. La difesa di un giornalista ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 15 della legge sulla stampa, sottolineando che, in base all’articolo 25 (II comma) della Costituzione, “nessuno può essere punito se non forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. La norma costituzionale - ha sostenuto la difesa – deve essere interpretata nel senso che la legge penale deve stabilire criteri oggettivi per la determinazione dei fatti punibili, mentre il parametro del “comune sentimento della morale” previsto Infanzia, il diritto alla tutela prevale su quello di cronaca ROMA. Il diritto dei minori può diventare prevalente persino sul diritto di cronaca. Questa, in sostanza, la filosofia dell’articolo 11 del ddl 1138, in via di approvazione alla Commissione Lavori pubblici e Comunicazione del Senato. L’articolo 11 (38 gli emendamenti presentati, 31 quelli già esaminati) riconosce, nel sistema delle comunicazioni, “il diritto prevalente alla tutela dello sviluppo fisico, psichico e morale dei minori” e vieta la diffusione di “produzioni e di programmi che lo possano ledere”. Si vietano nel provvedimento la diffusione e la produzione di programmi che possano ledere i minori perché troppo violenti o pornografici, o contenenti incitamenti all’odio o all’intolleranza basati su differenze di razza, sesso, religione o nazionalità. In più si introducono sanzioni. dall’articolo 15, per la sua genericità, finisce per rimettere a valutazioni soggettive l’individuazione del fatto punibile. La Cassazione ha ritenuto la questione non manifestamente infondata e, con ordinanza del 17 febbraio 1999, ha promosso il giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 15 per contrasto non solo con l’articolo 25, ma anche con gli articoli 21 (libertà manifestazione del pensiero) e 3 (principio di uguaglianza) della Costituzione. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 293 del 17 luglio 2000, ha dichiarato non fondata la questione sollevata dalla Cassazione, in quanto ha ritenuto che le pubblicazioni vietate dall’articolo 15 della legge sulla stampa siano quelle lesive della dignità umana e perciò avvertibili dall’intera collettività. La persona umana – ha precisato la Corte Costituzionale – è tutelata dall’articolo 2 della Costituzione, in base al quale deve essere interpretato l’articolo 15 della legge sulla stampa; la descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza. Quello della dignità della persona umana – ha affermato la Corte - è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale. La violazione del principio fissato nell’articolo 15 della legge sulla stampa costituisce anche violazione deontologica in quanto l’articolo 2 della legge professionale pone come limite al diritto insopprimibile della libertà di informazione e di critica il rispetto della persona umana, cioè il valore-cardine rappresentato dall’articolo 2 della Costituzione. Conseguentemente Vittorio Feltri, avendo operato al di fuori del dettato costituzionale e delle norme deontologiche della professione giornalistica fissate per legge, merita la massima sanzione, quella della radiazione, avendo, “con la sua condotta gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo”; PQM il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ritenuta la sussistenza dei fatti addebitati, delibera 1) di sanzionare con la radiazione (articolo 54 legge n. 69/1963) il giornalista professionista Vittorio Feltri. Dice l’articolo 54: “La radiazione può essere disposta nel caso in cui l’iscritto con la sua condotta abbia gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo, negli elenchi o nel registro”. 2) di trasmettere la presente deliberazione all’Ordine di Torino, perché esamini la posizione del pubblicista Franco Garnero, direttore responsabile del quotidiano “Libero”. Avverso la presente deliberazione (notificata ai controinteressati ex legge n. 241/1990) può essere presentato (dall’interessato e dal Procuratore generale della Repubblica) ricorso al Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (Lungotevere dei Cenci 8, 00186 Roma) ai sensi dell’articolo 60 della legge n. 69/1963 nel termine di 30 giorni dalla notifica del provvedimento stesso e secondo le modalità fissate dagli artt. 59, 60, e 61 del Dpr 4 febbraio 1965 n. 115. La presente deliberazione, “di immediata efficacia in quanto atto di natura amministrativa” (Cass., sez. un. civ., sentenza n. 9288/1994), si intende sospesa in caso di impugnazione con istanza cautelare volta alla “paralisi” della sua esecutività allorché possano derivare al ricorrente danni gravi e irreparabili dall’esecuzione dell’atto medesimo (così il parere 10 novembre 1999 del prof. avv. Franco Gaetano Scoca al Cnog, trasmesso all’OgL in data 13 dicembre 1999, prot, 5998/1999). Il presidente dell’OgL-estensore (dott. Franco Abruzzo) 5 Vittorio Feltri, in nome della vecchia amicizia, mi perdonerà la malignità. Quando ho saputo che era stato radiato dall’Ordine dei giornalisti, ho provato a immaginarmi quale potesse essere stata la sua reazione. La sola che mi è venuta in mente è stata questa: «Peccato che non ci sia la liquidazione». Se non lo è stata, sono certo che si rammaricherà di non averci pensato e che, alla prima occasione, con il solito paradossale realismo, mi ringrazierà di avergliela attribuita. Feltri è un talento naturale. Giornalistico e, diciamo così, affaristico. Riesce a curare giornali malati (“L’Europeo”, “L’Indipendente”, “Il Giornale”, “Il Borghese”), passando dall’uno all’altro con il tempismo e le parcelle di un grande clinico, a dirigerne contemporaneamente tre (“Il Giorno”, “Il Resto del Carlino”, “La Nazione”), abbandonandoli, altrettanto tempestivamente e proficuamente, alle ambizioni direttoriali del loro editore, a fondarne, infine, un ottavo (“Libero”), scommettendoci la reputazione in vista di altri potenziali guadagni. Caro Vittorio, non te la prendere col tuo vecchio direttore che ti aveva (ri)assunto al Corriere una quindicina di anni fa. Ma, al tuo confronto, certi direttori-imprenditori di giornali, attaccati alla professione e allo scoop ai limiti del cinismo e a costo di far perennemente scandalo raccontati dalla cinematografia americana, sembrano dei frati fancescani... Sotto il profilo giornalistico, il talento di Feltri consiste nel fregarsene anche di quello che lui stesso pensa. Probabilmente, della Lega egli ha, più o meno, la stessa opinione che ho io: che è rozza, populista, tendenzialmente xenofoba. La “Corriere della Sera”, 25 novembre Feltri, un anarchico che ama fare scandalo di Piero Ostellino differenza fra me e lui è che io sarei del tutto incapace, prigioniero dei miei pregiudizi culturali e ideali, di fare un giornale che appoggiasse il movimento di Bossi; lui ne ha fatti più di uno. Riuscendo, con ciò, in un’impresa apparentemente disperata: imporre alle forze politiche e far circolare fra la gente comune la rumorosa presenza del solo partito che davvero voleva cambiare qualcosa. Se l’Italia e gli italiani avranno uno straccio di federalismo, che piaccia o no, lo devono a quel rozzo demagogo di Bossi e a chi ha avuto lo stomaco di sostenerne le stralunate ragioni (Feltri). La radiazione dall’Ordine dei giornalisti, per aver pubblicato otto fotografie di bambini ricavate da un sito di pedofili russi e da un video porno, è l’ultimo scoop di questo giornalista che ha trasformato la professione in un continuo scandalo. Nell’ottica anarcoide di Feltri, la vera notizia è, infatti, questa; non la pubblicazione, a suo tempo, delle foto incriminate. Le motivazioni del provvedimento, che lo accusano di aver violato la Costituzione e la legge sulla stampa, sono, in realtà, legalmente fondate. In queste cose, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo, è un maestro. Il guaio è che, in mancanza di un codice, che peraltro non sarebbe neppure facile individuare, redigere e poi applicare senza sollevare un mare di obiezioni, le motivazioni di carattere strettamente deontologico lo sono assai meno. Dove incominciano e dove finiscono, rispettivamente, la violazione del rispetto della persona umana e del comune senso del pudore e la libertà di stampa? E perché la sanzione per Vittorio Feltri e non per Gad Lerner, il direttore dimissionario del Tg1 che trasmise immaigni analoghe, come ha insinuato maliziosamente Giorgio Forattini nella sua quotidiana vignetta sulla “Stampa”? L’imbarazzo col quale, pur solidarizzando con Feltri, ma prendendone al tempo stesso le distanze sull’opportunità della pubblicazione delle foto, la maggioranza della corporazione ha commentato il caso e disapprovato il provvedimento dell’Ordine dei giornalisti è la testimonianza più diretta delle difficoltà di trovare regole del gioco facilmente condivisibili. Stampare e diffondere un giornale pornografico, ha sentenziato la Corte suprema degli Stati Uniti, facendo riferimento al primo emendamento della Costituzione nella causa “Larry Flint”, rientra nella libertà di manifestazione del pensiero. Dal caso fu tratto persino un film, proiettato anche da noi. A quando un film su Vittorio Feltri, cui, manco a dirlo, andrebbero i diritti di immagine? Vittorio Feltri radiato dall’Albo per le immagini dei bambini (usati dai pedofili) pubblicate su “Libero” Foto Corriere della Sera “Il Sole 24 Ore”, 22 novembre - commenti e inchieste Vittorio Feltri radiato dall’Ordine dei giornalisti. La notizia suscita scalpore anche in chi non ama particolarmente i giornalisti e ancor meno l’Ordine dei giornalisti e sarebbe incline a liquidarla come una tipica baruffa in famiglia. Essa tuttavia impone alcune riflessioni meno epidermiche che tengano conto dei diversi punti di vista. In primo luogo quello dell’Ordine che ha emesso il provvedimento. Non mancano certo disposizioni di Costituzione, (l’articolo 2 sui diritti fondamentali della persona), di legge (l’articolo 15 della legge sulla stampa che fa divieto di pubblicare immagini raccapriccianti) e deontologiche (l’articolo 2 della legge professionale e le varie “carte” dei doveri dei giornalisti) che giustificano la decisione di considerare disciplinarmente illecita la pubblicazione di fotografie raffiguranti bambini sottoposti a violenze sessuali. L’articolo 15 della legge sulla stampa è poi uscito rafforzato da una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (il caso era quello della pubblicazione delle foto della “scientifica” su un noto omicidio di una nobildonna in una villa romana) e posto a presidio della dignità essenziale cui ogni persona, anche se defunta, ha diritto. Né può dirsi che la decisione dell’Ordine lombardo sia frutto di una improvvisa alzata d’ingegno: non solo la sua giurisprudenza si connota da circa un ventennio per un maggio- I torti di Feltri e i dubbi sull’Ordine di Vincenzo Zeno-Zencovich re (e sicuramente non disprezzabile) rigore, ma essa trova conforto anche in decisioni di altri ordini regionali e del Consiglio nazionale, in particolare con riguardo alla pubblicazione dell’identità di minori vittime di violenze sessuali. Sorge dunque un primo dubbio: se una pubblicazione così disdicevole fosse stata opera di uno sconosciuto cronista alla ricerca di notorietà (e non di un famoso direttore), ci si interrogherebbe sulla sua eventuale radiazione? Probabilmente no. Ma anche dal punto di vista del “radiato” la decisione lascia perplessi. La legge professionale prevede quattro tipi di sanzioni: l’avvertimento (per mancanze di lieve entità), la censura (per mancanze di grave entità), la sospensione (quando la condotta abbia compromesso la dignità professionale), la radiazione (quando la permanenza dell’iscritto è incompatibile con la dignità dell’Ordine stesso). Si consideri che tale sanzione non ha trovato grande applicazione: direttori di riviste pornografiche, iscritti alla P2, autori di reati comuni. Era proprio solo questo un caso da radiazione? Qui sorge un secondo dubbio: che la gravità della sanzione sia stata commisurata alla (voluta) provocatorietà della decisione di pubblicare le foto dei bambini dei minori violentati. Dubbio per risolvere il quale occorrerebbe addentrarsi nel processo mentale del giornalista e dei suoi (colleghi) giudici. Il punto di vista che però interessa tutti è però ancora un altro: in Italia, per dirigere un giornale occorre essere iscritti all’Ordine dei giornalisti. La radiazione dall’Albo comporta, ovviamente, la impossibilità di esercitare la professione. Ha senso un sistema del genere nell’anno 2000 ed in un mondo nel quale l’informazione costituisce un bene al tempo stesso essenziale e realizzabile da tutti? “la Repubblica”, 22 novembre - prima pagina L’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha espulso Vittorio Feltri, fondatore e direttore di “Libero”, per aver pubblicato delle fotografie di bambini vittime della pedofilia. Accusa e difesa sono note. Dice l’accusa: Feltri ha violato il codice professionale pur di far crescere le vendite del suo giornale che stenta a decollare e in cui ha impegnato la sua fama e il suo denaro. La difesa: il codice professionale è inesistente, il giornalismo d’assalto non può ignorare le notizie anche se scandalose, nell’ informazione contemporanea della carta stampata come di quella informatica, “on line” come la si chiama, le violazioni della morale corrente (ma anche su di esse in questo travolgente libertinismo commerciale non c’è più un criterio comune) sono la normalità, gran parte delle televisioni commerciali, passata l’ora fatale della mezzanotte trasmettono servizi da bordello, negli Stati Uniti ci sono produttori di spettacoli porno che hanno fatto e continuano a fare miliardi servendoli su Internet al prezzo di uno o due milioni. Il voyeurismo dilaga, la grande invenzione tecnica della rete, del Web è frequentatissima da riciclatori di denaro sporco, da mafiosi, da truffatori internazionali. A noi l’avventurismo di Feltri non è mai piaciuto e non solo per ragioni moralistiche; per noi Feltri rientra in quella strana genia di persone che pur provviste di un talento che gli permetterebbe ottime carriere sentono il bisogno dell’az- 6 Falsi censori veri scandali di Giorgio Bocca zardo e delle scorciatoie. Ma sono fatti così e pensare di cambiarli è una pura illusione, è come consigliare a un fanatico della roulette di mettersi a giocare a tombola con i fagioli. Ma di fronte a questo avventurismo che gioca sui giornali come sui cavalli c’è la decisione di un Ordine cui si addice il titolo di Calvino, il cavaliere inesistente. Per essere un Ordine rispettabile bisognerebbe per cominciare che avesse un codice morale da difendere ma questo codice l’Ordi- ne dei giornalisti non se lo è mai dato perché Ordine e la professione che rappresenta mancano della autonomia necessaria per dare lezioni di comportamento. Questo Ordine è una sorta di fantasma burocratico che si sveglia solo se c’è da fare una difesa corporativa, ma che ha lasciato passare senza risposta tutte le violazioni e i condizionamenti che la economia pubblicitaria, il potere politico, le arroganze e lo strapotere della rivoluzione tecnica gli hanno imposto. Pubblicare delle fotografie indecenti e penose di bambini è certo una violenza inaccettabile ma che sta nella folla di notizie e di propagande che appoggiano le speculazioni più irresponsabili. In questi ultimi anni la politica elettoralistica ha colpito a manca e a destra senza alcun ritegno: ha diffamato tutti i fondamenti del nostro Stato, la democrazia, la Resistenza al nazifascismo, la magistratura, la morale del padre di famiglia, il rispetto delle persone dando via libera a diffamazioni senza ritegno. La diffamazione, fra le altre, che continua nei confronti dei nostri maggiori uomini di cultura e di democrazia come Norberto Bobbio, diffamazioni che rientrano nella anarchia generale voluta, premeditata per creare questo crepuscolo sociale in cui tutti i gatti sono bigi. Di Vittorio Feltri si potrebbe dire: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Gli è arrivato addosso il boomerang di un giornalismo violento e spazzatura a cui ha dato il contributo del suo talento professionale. Che è un’aggravante. ORDINE 10 2000 Con il titolo “Feltri radiato, vittoria dei pedofili” e quattro pagine di servizi e interviste, “Libero” tratta oggi l’espulsione del suo direttore, Vittorio Feltri, dall’Ordine lombardo dei giornalisti per aver pubblicato otto foto di bambini apparse su Internet nei siti dei pedofili, in quanto contrarie alle norme costituzionali sulla libertà di pensiero e alla deontologia professionale. La notizia viene ripresa e commentata in prima pagina da diversi altri giornali, ispirando la satira dei vignettisti a cominciare da Giorgio Forattini sulla “Stampa”. In un coro generale di reazioni negative alla clamorosa decisione dell’Ordine, anche i colleghi meno teneri con Feltri sottolineano il rischio di farne “un martire di una malintesa libertà di stampa”, come avverte per esempio Mario Ajello sul “Messaggero”. “Da quando esiste l’Ordine, e sono quarant’anni - commenta il direttore di “Libero” - mai un direttore era stato espulso. Io vengo radiato per aver denunciato, forse in malo modo, i pedofili e i loro protettori. Per fortuna il mio Tribunale speciale non emette sentenze definitive. L’ultima parola spetta all’Ordine nazionale da cui non mi aspetto benevolenza, ma serenità”. Nel frattempo, il giornale continuerà a uscire regolarmente. Si è offerto di firmarlo, per un mese, l’ex direttore del Tg1, Gad Lerner. Definite “bestiali e agghiac- Rassegna stampa (www.valeoggi.it, 22 novembre) Feltri un po’ meno libero cianti” dallo stesso Feltri, quando furono pubblicate il 29 settembre scorso su “Libero”, quelle foto tendevano nelle sue intenzioni a suscitare tra i lettori sdegno e condanna per la pedofilia. Qualche giorno prima, il 25 settembre, immagini analoghe erano state trasmesse dal Tg3 delle 19 e dal Tg1 delle 20, suscitando un vespaio di polemiche che portarono poi alle dimissioni proprio di Gad Lerner da direttore del Telegiornale, dopo le sue scuse in diretta. Ed è Lerner, in un’ampia intervista pubblicata da “Libero”, a difendere ora Feltri sostenendo che “quelle immagini non hanno mai fatto male a nessuno”. “Pedofili: Feltri radiato, Lerner beato”, titola a tutta pagina il “Giornale”. E il direttore Mario Cervi polemizza indirettamente con l’ex direttore del Telegiornale, rilevando la disparità di trattamento nei rispettivi casi. “Le due situazioni - scrive - non sono paragonabili: la Rai è un servizio pubblico, incassa il canone, ha doveri di comportamento cui altri mezzi d’informazione non devono sottostare. L’impatto del Tg1 è terrificante, quello di “Libero” - sia scritto senza voler offendere - è molto limitato”. Sulla “Stampa”, nel suo quotidiano “Buongiorno”, Massimo Gramellini afferma che “la scelta di Feltri può essere argomento di un convegno, non di una sentenza”. E conclude: “Fino a nuovo Ordine, nei Paesi liberi l’unico tribunale che decide è quello dei lettori, visto che i giornali non piombano nelle case senza filtri come un tg, ma dopo un atto cosciente di acquisto”. Urbano Cairo non sarà azionista di “Libero ROMA, 5 dicembre. Urbano Cairo ha rinunciato all' opzione di ingresso nella Vittorio Feltri Editore e C. spa, editrice del quotidiano Libero. Nel darne notizia, la società aggiunge che l'assemblea straordinaria dei soci, convocata per il 21 dicembre, deciderà ''un aumento di capitale fino a 12 miliardi'' per ''favorire l'ingresso di nuovi soci che hanno manifestato interesse ad entrare nella compagine azionaria della Vittorio Feltri Editore''. La nota del Gruppo Cairo Communication dice in particolare: ''Le condizioni preliminari e sostanziali concordate da Umberto Cairo nell' accordo iniziale e a carico dei soci della Vittorio Feltri Editore da adempiere prima dell'ingresso nella società previsto per il 30 novembre, non hanno trovato integrale e tempestiva attuazione''. (ANSA) lympia Foto O “Corriere della Sera”, 22 novembre “la Repubblica”, 22 novembre “la Repubblica”, 22 novembre Barenghi “Ha speculato. Giusto punirlo” “Così vogliono eliminare un personaggio scomodo” “Nessuna persecuzione le regole si rispettano di Fabrizio Roncone ROMA. Gustavo Selva, capogruppo dei deputati di An, giornalista. Nessun dubbio nel commentare il caso Feltri: “L’Ordine dei giornalisti è politicizzato, orientato a sinistra. Io cancellerei subito l’Ordine, non Feltri”. Onorevole Selva, è un estimatore della campagna sulla pedofilia di “Libero”? “Al contrario, non lo sono mai stato, un estimatore, né dei servizi di “Libero” né di quelli del Tg1. Proprio per questo posso dire senza essere mal interpretato di non essere d’accordo con il provvedimento dell’Ordine. Feltri è stato vittima di un’azione punitiva, è un personaggio scomodo, da eliminare. Conosco il metodo...”. Nel senso? “Per la vicenda P2 fui esonerato dalla direzione del Gr2. E anche quando si fu risolto tutto, e fui scagionato, la Fnsi plaudì al mio allontanamento”. Qui si trattava di decidere se era giusto o no, rispettoso delle norme o no, mettere delle foto di bimbi in prima pagina... “Senta, Feltri usa lo spadone, non il fioretto, è fatto così, coglie gli umori più intimi della gente. Io non condivido questo approccio ma nemmeno la sentenza dell’ Ordine. E se proprio dovevano condannarlo, allora mi chiedo perché hanno graziato Gad Lerner, che ha fatto la stessa cosa sul Tg1, un mezzo decisamente più potente”. Lerner ha ammesso di aver sbagliato, Feltri ha sempre difeso la sua scelta, per dirne una. “Comodo pentirsi mezz’ora dopo aver mandato in onda quei servizi. Evidentemente non aveva salde convinzioni...”. ROMA - Beppe Giulietti, responsabile della Comunicazione per i Ds, giornalista. Si arrabbia se qualcuno gli parla di un “caso Feltri”. “Non esiste nessun caso Feltri - dice esiste piuttosto un caso pedofilia con un ignobile e cinico uso dei bambini sbattuti in prima pagina”. Giulietti, anche da sinistra si è levata qualche voce contraria a provvedimenti censori come questo. Lei non si unisce al coro? “No, io non provo nessuna angoscia per Feltri, e non soffro di nessuna sindrome corporativa. Il direttore di “Libero” sarà appena contento di questa grancassa. Io penso piuttosto ai familiari dei bambini finiti in copertina. Ma voglio anche chiarire una cosa”. Prego. “Pur essendo dall’altra parte del pianeta Feltri, io sono sempre stato contrario agli approcci disciplinari, alle radiazioni, alle censure. Però non posso non rilevare le contraddizioni di chi tuona se il Parlamento decide di mettere mano al diritto di cronaca e poi non risponde a una semplice domanda: l’autodisciplina deve funzionare o no? Sì, perché se si vuole essere liberi da vincoli, bisogna anche pretendere l’integrale rispetto delle regole. L’Ordine, in questo caso, le ha applicate. Se non vanno bene, basta cambiarle”. Da destra dicono che l’Ordine ha usato due pesi e due misure. “Feltri ha deliberatamente cercato la provocazione per più giorni. Feltri ha fatto una scelta e l’ha rivendicata persino con orgoglio. Non è affatto lo stesso atteggiamento di Lerner che, semmai, ha peccato di omesso controllo e si è dimesso”. “Giornalismo spazzatura” L’articolo 15 della legge sulla stampa Caro Presidente, Carlo Rossella, direttore di “Panorama” ha dichiarato al “Corriere della Sera” di oggi 22/11/00 che nelle foto pedofile pubblicate dal suo pari grado Vittorio Feltri “c’era del giornalismo” . Si è dimenticato un aggettivo: “spazzatura”, “giornalismo spazzatura” Dimenticanza da poco, forse per affinità di casta. Cordialmente Giuseppe Dicorato “Le disposizioni dell’art. 528 del codice penale si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. ROMA. Riccardo Barenghi, direttore del quotidiano “il manifesto”, dice che “la radiazione di Vittorio Feltri è un provvedimento giusto e piuttosto inevitabile, per un Ordine dei giornalisti che deve dare un senso alla sua esistenza”. Direttore, prima di parlare dell’Ordine, riparliamo di quelle foto. “Certo, anche perché sono e restano la questione centrale: è sbagliato distrarci, perdere tempo a ragionare su Feltri, sulla gravità della sanzione che ha ricevuto. La verità è che Feltri ha pubblicato delle foto terrificanti, impubblicabili, e non solo...”. C’è altro? “L’Ordine ha fatto finta di non ricordare che, lo stesso Feltri, qualche settimana prima, aveva già compiuto un gesto a dir poco discutibile”. Quale? “La pubblicazione di quell’elenco di pedofili. Un altro atto violento”. Giornalismo, replica chi difende Feltri. “Macché giornalismo. Dietro la pubblicazione di foto raccapriccianti e liste che incitano al peggio, non c’è quello che Feltri vorrebbe farci credere: cioè una provocazione coraggiosa, un giornalismo sfacciato...”. Cosa c’è, Barenghi? “C’è speculazione bassa, meschina, penosa. C’è la voglia di fare pubblicità ad un giornale, c’è il tentativo di farlo comprare di più. A chi, poi, lo possiamo intuire”. La radiazione è comunque un provvedimento pesante, non crede? “Durissimo. Per questo credo che il coro di solidarietà a Feltri in cui si sono uniti molti miei colleghi, sia anche e soprattutto determinato da puro stupore”. Diceva dell’Ordine... “Ci interroghiamo sulla necessità della sua esistenza. È un dibattito aperto. Ma intanto, finché c’è, di fronte a certe situazioni, deve radiare. Per forza”. ORDINE 10 2000 7 Un volume ricorda i trent’anni dalla scomparsa di Angelo Rizzoli di Gino Banterla “Il giorno più bello della mia vita di bambino fu il 10 febbario 1895, quando entrai nell’orfanotrofio maschile dei Martinitt. Mi ricordo che io e le mie sorelle partimmo alla mattina presto alle sette e andammo a piedi fino in corso di Porta Vittoria dove c’era l’istituto. Quando entrai lì finalmente mi sentivo felice perché ero un povero tra i poveri, non più un bambino solo nella scuola dei ricchi, ma uno uguale a tutti gli altri. Se penso a tutta la mia lunga vita, in fondo, posso dire che ho subito delusioni, a volte anche profonde, ma vere umiliazioni mai: tranne quel breve periodo che passai nella scuola dei ricchi, io bambino poverissimo, di una miseria nera che non si può neanche immaginare”. Il vecchio Angelo Rizzoli si commuoveva quando negli ultimi anni di vita si lasciava andare alle confidenze, lui uomo un po’ burbero ma anche capace di improvvise tenerezze, e rievocava la sua straordinaria avventura imprenditoriale e umana. Dall’orfanotrofio, dove frequentò le elementari e apprese le prime nozioni del mestiere di tipografo, alla creazione di uno dei più importanti gruppi editoriali d’Europa, la storia del “Commenda” - come familiarmente e insieme rispettosamente lo chiamavano i suoi dipendenti - fu tutta un susseguirsi di successi. Inventò collane popolari che fecero conoscere a generazioni di giovani i classici della letteratura italiana e straniera; diede vita a periodici autorevoli, palestra di tante firme celebri del giornalismo italiano, e a rotocalchi a larga tiratura che arrivarono in tutte le case; intuì l’importanza del cinema e fece conoscerere a un’Italia aperta alla speranza dopo i lutti della guerra il De Sica di “Umberto D”, il Rossellini di “Francesco giullare di Dio”, il Fellini di “Otto e mezzo” e della “Dolce vita”. In possesso della sola licenza elementare, Rizzoli fu per oltre mezzo secolo un protagonista assoluto della vita culturale italiana. Sono i paradossi della storia. Oggi, in tempi di esasperate concentrazioni editoriali nelle quali conta molto più il mercato che la cultura, sembra decisamente lontana questa figura di imprenditore che seppe coniugare con grande sensibilità le esigenze della cultura con le leggi del mercato, come fece anche il suo amico-antagonista Arnoldo Mondadori. Chi ricorda più questi mitici pionieri dell’industria editoriale, soprattutto tra i giovani cresciuti con Internet? Del resto, immersi in una società dai ritmi sempre più convulsi, noi siamo ormai abituati a dimenticare in fretta. Ma le ricorrenze, di tanto in tanto, diventano un’opportunità di recupero della memoria collettiva. Così, per celebrare i trent’anni dalla morte del “Commenda”, avvenuta a Milano il 24 settembre 1970, la Rcs pubblica un volume che raccoglie bellissime fotografie e le testimonianze di Gaetano Afeltra, Giulio Andreotti, Manuela Berto, Silvio Bertoldi, Enzo Biagi, Oriana Fallaci, Carlotta e Alberto Guareschi, Indro Montanelli, Paolo Occhipinti, Michele Prisco. Il libro ci offre l’occasio- ne per ripercorrere le tappe di una vita che ha il sapore della leggenda. Angelo Rizzoli nacque a Milano il 31 ottobre 1889 da una famiglia poverissima. Il padre, operaio, era morto tre mesi prima e la madre, quando il figlio compì sei anni, dovendo tirar su anche due bambine non poté fare altro che mandarlo all’orfanotrofio. Tra i “Martinitt” Angelo rimase una decina d’anni, e quando uscì andò a fare l’apprendista presso un tipografo nela zona di Porta Vittoria. Qualche anno più tardi si mise in proprio e aprì una piccola tipografia in via Cerva. Con un anticipo di 500 lire aveva comprato da un tedesco macchine tipografiche per seimila lire, impegnandosi a pagare la differenza in cinque anni. Fu un periodo di lavoro duro. “Quando stampavo i cartoncini Manila per le cassette del mercato ortofrutticolo”, si divertiva a raccontare, “qualcuno mi prendeva per il fattorino e alla consegna dei pacchi mi allungava un ventino di mancia. Io naturalmente lo accettavo”. Il potere di carta dell’ex Fabbrica di periodici e di giornalisti Cinema e un fuoco d’artificio di iniziative Partito per la guerra, nel 1915, Rizzoli fu costretto a sospendere l’attività. Negli anni successivi al conflitto riuscì via via a sviluppare l’azienda, a costo di enormi sacrifici e tante cambiali. Finché nel 1927 diventò editore. Acquistato, con l’aiuto di Ugo Ojetti, un gruppo di riviste mensili e quindicinali sconosciute che vivacchiavano con poche migliaia di copie di tiratura, le trasformò nella grafica e nei contenuti. Una di queste si chiamava “Novella”, che di lì a poco, diventata settimanale, si sarebbe rivelata il cavallo di battaglia del giovane editore. Un’altra era “Il Secolo Illustrato”. “Fu quello il momento più importante della mia vita”, ricordava. “Dissi tra me e me: vi faccio vedere io. E portai in Italia la prima macchina a rotocalco che si fosse vista da noi. Perché lo feci? Non lo so: alcuni dicevano che sarebbe stato il sistema di stampa dell’avvenire, ma eravamo negli anni Venti e per uno che avesse guardato soltanto ai quattrini quel tipo di avvenire non era molto allettante”. Invece il futuro premiò quell’intuizione e il rotocalco ebbe un rapido sviluppo. “Novella” raggiunse in poco tempo tirature record. Ormai nessuno poteva più fermare Rizzoli, che nel frattempo, nei primi anni Trenta, aprì la prima ampia sede in piazza Carlo Erba, dove rimase fino al 1961. Ai successi di quelle riviste ne seguirono altri a ruota: “Il Bertoldo” di Giovanni Mosca, “Omnibus” diretto da Leo Longanesi, “Oggi”, poi soppresso per alcuni anni, e infine “Annabella” e “Settegiorni”. Negli stessi anni fu lo stampatore dell’Enciclopedia Treccani. Dopo la guerra, che nell’agosto 1943 gli costò la distruzione dello stabilimento durante un bombardamento aereo, diede vita a “Il Candido” di Giovannino Guareschi e fece rinascere “Oggi”. L’elenco delle pubblicazioni si allungò negli anni successivi con altri settimanali e mensili: “L’Europeo”, “Annabella”, “Sorrisi e Canzoni”, “Sogno” e altri ancora. Tra questi merita di essere ricordato “Concretezza” un quindicinale divulgativo sui problemi della vita pubblica nato da un incontro nel 1954 tra Rizzoli e un giovane Giulio Andreotti, che ne fu poi direttore. La rivista uscì per 22 anni e valse a Rizzoli, ricevuto in Vaticano, i complimenti di Paolo VI che ne era assiduo lettore. Ricorda il senatore a vita: “Non era certo un affare per la casa editrice, abituata alle grandi tirature, ma almeno potei dargli quella occasionale soddisfazione”. Parallela a quella dei periodici si sviluppò nel dopoguerra la pubblicazione di libri, un settore nel quale Rizzoli si impegnò con la stessa passione. L’iniziativa più fortunata fu indubbiamente, a partire dal 1949, quella della Biblioteca Universale Rizzoli, una colossale operazione di divulgazione dei classici attraverso volumi a basso prezzo. “Ho fatto la Bur con l’idea di diffondere la cultura e la conoscenza in un Paese distrutto”, diceva Rizzoli, “ma non avrei mai immaginato di poterne fare anche un affare economico”. Poi arrivarono le monografie d’arte, le grandi opere come l’Enciclopedia Rizzoli-Larousse, le coproduzioni letterarie internazionali. L’attività cinematografica, iniziata a metà anni Trenta con la produzione di pellicole minori, si affermò dopo la guerra sotto il marchio Cineriz con la fortunatissima serie di Peppone e don Camillo e con la “scoperta” di registi quali Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Federico Fellini. Tra le molteplici realizzazioni dell’editore sono da ricordare la costruzione delle cartiere di Marzabotto, la trasformazione di Lacco Ameno a Ischia in un grande centro alberghiero e termale, l’apertura del Centro Rizzoli nella Quinta Strada di New York per la diffusione sul mercato americano di libri, riviste film di produzione italiana. Ma era l’editoria il settore trainante del suo impero costruito giorno per giorno con un lavoro tenace, con una volontà ferrea e anche - su questo sono tutti concordi quanti lavorarono con lui - con il rispetto dei suoi dipendenti, dall’ultimo fattorino al grande direttore. Nelle redazioni dei periodici si formarono centinaia di giornalisti, molti dei quali diventati “grandi firme”. Con loro Rizzoli amava scherzare con un po’ di civetteria: “Voi siete gente intelligente, ma siete anche un po’ carogne, in senso buono, sia chiaro, e non vi fate incantare da un ometto come me...”. Alla morte di quell’ometto, avvenuta il 24 settembre 1970, dal nuovo stabilimento aperto nel 1961 in via Civitavecchia (oggi via Angelo Rizzoli) uscivano ogni mese venti milioni di copie di riviste. Vi trovavano lavoro, tra giornalisti, impiegati e tipografi, quasi cinquemila persone. Nonostante l’enorme ricchezza accumulata Rizzoli non dimenticò mai le sue umili origini. Scrive Silvio Bertoldi nel libro ora pubblicato: “Il successo, la ricchezza, l’ossequio dei potenti a cui aveva dovuto abituarsi erano la scorza; oltre la quale era rimasto con i suoi sentimenti di ex-povero, allevato nel bisogno, abituato al rispetto del lavoro (proprio e altrui) e dunque legato a certi valori dei suoi tempi, l’onestà, il dovere, la solidarietà, la capacità di farsi coinvolgere, l’orgoglio per il proprio Paese. Non era personaggio da frasi storiche, ma ne ricordo una che era il migliore ritratto di sé: i soldi bisogna farseli perdonare”. Questo ritratto spiega la profonda amicizia che lo legò per molti anni a Pietro Nenni, di umili origini e orfanello anche lui, come lui formato alla scuola della vita avendo frequentato soltanto le elementari. L’amicizia tra i due, che negli ultimi anni si materializzava spesso in interminabili partite a bocce e in lunghe chiacchierate, fu molto criticata negli ambienti industriali. Le stesse critiche andarono al leader socialista da parte di esponenti del Pci. Rizzoli con semplicità spiegava: “Per me non esiste un uomo rispettabile come Nenni. È un galantuomo, un vero socialista che ha sempre vissuto in modo coerente con le sue idee. È l’unico politico con cui vada d’accordo”. Come è stata possibile una simile intesa?, chiese Oriana Fallaci a Nenni in lacrime davanti alla bara del “Commenda”. Rispose: “Non è difficile capirlo. Lui vedeva in me la continuazione di Filippo Turati, io vedevo in lui una persona perbene che faceva i suoi interessi senza schiacciare i piedi a nessuno. Non aveva idee politiche, ma aveva una tal comprensione dei grandi problemi umani...”. 8 Angelo Rizzoli apprendista tipografo agli inizi del secolo. Angelo Rizzoli con Federico Fellini durante le riprese di un film. ORDINE Rizzoli con il “rivale” Arnoldo Mondadori. Rizzoli in Vaticano ricevuto da papa Paolo VI. 10 2000 “Tabloid”, rivista di godibile lettura Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera di Saverio Barbati, già presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti: Caro presidente, ho appena finito di leggere l’ultimo numero di “Tabloid” e avverto il bisogno di scriverti - come desideravo da tempo - poche righe di felicitazioni e di ringraziamento. Di felicitazioni, perché il giornale è interessante, contiene informazioni, dati e commenti utili non soltanto per chi fa il nostro mestiere ma per tutti coloro che seguono i problemi della informazione nel nostro paese. Di ringraziamento, perché grazie al tuo appassionato e disinteressato impegno l’Ordine della Lombardia - a mio avviso - è l’unico organismo di categoria a produrre una rivista non fredda, non ufficiale, non burocratica, non “sindacalese”, ma viva, attraente e soprattutto di godibile lettura. Buon lavoro, caro presidente. Continua a darci un foglio, che ci arricchisce tutti. Cordialmente Saverio Barbati 25 volumi, 250 autori, 315 saggi x-martinitt “Oggi”, il quotidiano di domani mai uscito Fra tanti successi nel campo dei periodici, nella storia imprenditoriale di Rizzoli c’è un sogno mai realizzato: il quotidiano. Lavorò a questo progetto per un lungo periodo. “Oggi, il quotidiano di domani”, come già annunciavano i cartelloni pubblicitari agli inizi degli anni Sessanta, doveva esssere il suo fiore all’occhiello. C’erano già direttore e condirettore, rispettivamente Gianni Granzotto e Gaetano Afeltra. C’erano le rotative e le linotype. Doppia redazione a Milano e a Roma. Decine di colloqui per l’assunzione dei redattori. Viaggi a Parigi e a Londra per esplorare i metodi di lavoro dei più importanti giornali di quelle capitali. Prove a non finire. Era stato predisposto un progetto ambizioso e avveniristico. “Tutto era kolossal”, ricorda Afeltra nel volume. “Il piano era ambizioso e per i tempi che correvano addirittura rivoluzionario. Anticipava di almeno un decennio quello che poi nella grande editoria giornalistica sarebbe diventata regola comune: vale a dire le edizioni simultanee teletrasmesse con pagine aggiunte di cronaca locale”. Alla fine non se ne fece nulla: “Noi che avevamo creduto nell’impresa cominciavamo a sentirci come il tenente Giovanni Drogo del ‘Deserto dei tartari’”, scrive amaramente Afeltra. “Eravamo anche noi in una fortezza editoriale, facevamo anche noi turni di guardia rigidi e complicati, ma il nostro avamposto restava inerte. Ogni giorno un menabò, un fondo scritto in fretta, centinaia di titoli vivaci ma, come nel libro di Buzzati, senza fare un passo avanti”. E spiega: “Il Commenda scalpitava, ma in famiglia serpeggiavano i malumori. Il figlio, la figlia, il genero non erano d’accordo. Il momento non sembrava il migliore: la verità è che non credevano all’impresa. Il Commenda non cedeva. Ma intanto si continuava a rimandare. Di fronte a quest’incertezza la nostra resistenza cominciava a vacillare. Dopo un po’ scoppiammo e ce ne andammo, lasciando due lettere molto dure”. Quei malumori erano forse l’avvisaglia di vicende che si sarebbero sviluppate dopo la morte del fondatore. Era certamente fiducioso nel futuro il vecchio Commenda quando, facendo un bilancio della sua vita, disse: “Quello che soprattutto mi interessava si è avverato. Mio figlio ha avuto successo, ha mantenuto in pieno le speranze e oggi comanda lui, come volevo; non solo, ma i figli dei miei figli mostrano le stesse inclinazioni, si sono già inseriti nella casa editrice, promettono bene e mi danno il conforto di vedere assicurata la discendenza”. Le cose come sappiamo andarono assai diversamente. Anche il “rivale” Arnoldo Mondadori non poteva certo immaginare che cosa sarebbe accaduto, dopo la sua scomparsa, al suo impero di carta. Strana la beffa parallela giocata dal destino a questi due grandi dell’editoria. Ma questa è un’altra storia. ORDINE 10 2000 L’editore a New York con Walter Chiari nel 1964 all’inaugurazione della libreria Rizzoli. Rizzoli con Sophia Loren e Carlo Ponti. Storia della società italiana (Teti Editore) di Mario Geymonat Confesso di aver provato perplessità prima di accettare di presentare un’opera così vasta e impegnativa come la “Storia della società italiana” con i suoi 25 volumi, i suoi 315 saggi e i suoi 250 autori, a un pubblico colto come quello dei “colleghi” giornalisti (sono solo pubblicista, ma da oltre 30 anni) di cui moltissimi hanno all’attivo opere storiche di grande pregio e di grandissimo successo. Ma ho superato l’indugio di dover tessere gli elogi di un’opera alla quale sono fiero di aver dato la mia collaborazione (IV volume) sia perché confortato dai giudizi autorevoli di Paolo Mieli (“Continuerà ad essere strumento di approfondimento e consultazione anche per le generazioni future. Per questo si può dire che è un’opera che fa onore alla storiografia italiana”) e da “Il Sole-24 Ore” (“La Storia della società italiana non è né dogmatica né tantomeno “chiusa”, e non potrebbe essere altrimenti visto l’elevato numero di collaboratori provenienti da aree culturali e geografiche - gli stranieri sono oltre 20 - diversissime tra loro. D’altra parte le scelte dei 250 autori sono state guidate dal principio della competenza e non da quello dell’appartenenza ideologica”. Paolo Wilhekm), per restare nell’ambito giornalistico, e sia per dare un contributo al superamento del gap esistente tra i grandi meriti dell’opera e la sua scarsa notorietà. Detto questo, mi limito a ricordare sinteticamente le caratteristiche peculiari della “Storia della società italiana”. Nel momento in cui infuria la polemica sui libri di testo (e del Comitato scientifico Giovanni Cherubini, Franco Della Peruta, Giuliano Procacci e Rosario Villari sono autori di testi largamente diffusi nelle scuole) va detto che l’opera trae ispirazione dall’insegnamento gramsciano (“La storia riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano”); ma - come ha sottolineato “Il Sole-24 Ore” è frutto dei contributi di specialisti di ogni tendenza storiografica. Cito per tutti Franco Cardini. 4.000 anni di storia A differenza di opere analoghe la “Storia della società italiana” prende l’avvio dalla più profonda antichità nella convinzione che l’Italia, sebbene ricomposta a unità politica da 140 anni, presenta sostanziali caratteri di continuità materiali e culturali dei 4.000 anni della sua evoluzione storica. Basterà pensare ad alcuni fenomeni di incredibile continuità: il tracciato della rete stradale, fino alle autostrade moderne, i capoluoghi di provincia che noi abitiamo sono quasi tutti di origine romana (pochissime sono STORIA DELLA SOCIETÀ ITALIANA (dalla preistoria al 1990). Teti Editore. 25 volumi rilegati, 250 autori, 315 saggi, 12.538 pagine £. 1.875.000. Per i lettori di Tabloid £. 1.400.000 quelle che non vantano origini romane: Latina, Venezia, Ferrara, La Spezia, Alessandria); e il territorio conserva evidenti tracce romane della centuratio. Una storia globale I venticinque volumi della “Storia della società italiana” per offrire un’indagine storica a 360 gradi, dilatano la propria ricerca all’ambiente e alle sue trasformazioni a opera dell’uomo; all’appropriazione delle risorse della natura e alle loro utilizzazioni; all’economia e alle strutture produttive; alla circolazione dei beni, ai rapporti sociali di produzione e alle vicende delle classi e dei ceti sociali; alla scienza, alla tecnica e ai modi della produzione materiale; alla demografia, alle epidemie e alle malattie ad andamento più o meno ciclico; al panorama degli insediamenti rurali e urbani; alle infrastrutture e alle basi della vita materiale; agli assetti istituzionali e amministrativi e alle molteplici forme di aggregazione e di organizzazione della vita associata; alle strutture mentali e alle ideologie; ai comportamenti e al costume; alla cultura nelle sue diverse espressioni e al linguaggio artistico e insieme agli aspetti religiosi, diplomatici e militari, alla filosofia, alla letteratura e al teatro, alle arti e al costume, alla tecnologia, all’agricoltura, all’industria, al commercio, ai movimenti sindacale, cooperativo e d’emancipazione della donna, alle condizioni materiali di vita, alle migrazioni, alle organizzazioni del lavoro, alle istituzioni e alla gestione del potere. Una storia organica Tutte le discipline intervengono a ricondurre a unità le varie storie settoriali, fino a fornire un quadro completo dei piccoli e grandi problemi storici. Rifiutando ogni giustapposizione di elementi distinti la “Storia della società italiana” costituisce l’ampia e articolata sintesi dei multiformi aspetti della ricerca storica, accessibile per esemplare chiarezza d’esposizione, globale per tematica, interdisciplinare per metodo. Tutti i settori della ricerca vengono trattati non con saggi giustapposti, non con “storie parallele”, ma nella loro interconnessione, nella loro funzione di componenti dinamiche e dialettiche della nostra società. Da quanto accennato risulta evidente che una simile opera nessuno finora l’aveva realizzata ma per una valutazione più completa e obiettiva invito ad esaminare l’opuscolo illustrativo contenente oltre alla rassegna stampa, gli indici completi di tutti i 25 volumi. Per concludere mi permetto di far presente che la “Storia della società italiana” non può mancare nella biblioteca di ogni persona colta, ma vorrei sottolineare che soprattutto i 12 volumi dedicati all’età contemporanea costituiscono uno strumento di lavoro indispensabile per ogni giornalista. L’ETA’ CONTEMPORANEA della Storia della società italiana (1815-1990). Teti Editore. 12 volumi (gli ultimi - XIV-XXV) ribrossurati 107 autori, 131 saggi, 2 cronologie, 5.490 pagine £. 660.000. Per i lettori di Tabloid £. 450.000 A richiesta vengono forniti l’opuscolo illustrativo e il modulo per l’acquisto rateale dei 25 volumi rilegati. Teti Editore, via Rezia 4 - 20135 Milano tel. 02/55015575-84 - fax 02/55015595 - e-mail: [email protected] 9 Cronisti , inviati e legge GIURISPRUDENZA Il segreto professionale de di Sabrina Peron, avvocato in Milano L’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69 statuisce che “giornalisti ed editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”. Tuttavia, prima della riforma del codice di procedura penale, tale obbligo deontologico imposto ai giornalisti dalla legge professionale, non trovava alcun riscontro né, nel codice di procedura penale (nel quale a favore del giornalista non era previsto alcun temperamento dell’obbligo di rivelare al giudice anche la fonte delle notizie) né nell’art. 622 c.p., che nel punire come delitto la rivelazione di quanto appreso “per ragione del proprio stato o ufficio o della propria professione o arte”, non fa alcuna menzione del segreto giornalistico. La Corte Costituzionale chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità di tale mancanza – con sentenza del 28.01.1981, n. 16 – pur escludendo che la mancata previsione del giornalista fra le ipotesi contemplate dall’art. 351 vecchio c.p.p. violasse il principio di uguaglianza, aveva sollecitato un coordinamento legislativo tra l’esercizio del diritto posto dall’art. 21 della Costituzione, a mezzo dell’attività giornalistica, e l’interesse fondamentale della giustizia, auspicando una ragionevole ed equilibrata composizione degli opposti interessi. In particolare secondo la Corte Costituzionale spettava al “legislatore valutare se il segreto giornalistico sia talmente essenziale o di effettiva utilità strumentale alle esigenze dell’informazione al punto da prevalere – e in quali limiti – sugli interessi della giustizia, tanto più che tra questi va considerato, oltre all’interesse all’accertamento della verità, anche quello della difesa da parte dei soggetti attinti dalle notizie divulgate, e che, per altro verso, le esigenze della informazione involgono anche un interesse alla controllabilità delle notizie giornalistiche si da parte dei lettori che degli altri operatori della stampa, la cui possibilità di concorrente accesso alle notizie stesse è condizione di un effettivo pluralismo dell’informazione”. Tale impostazione venne ribadita anche dalla Corte di Cassazione, la quale statuì che il giornalista non può astenersi dal testimoniare circa le fonti della notizia non essendo compreso fra coloro che eccezionalmente la legge processuale esonera dall’obbligo della testimonianza (Cass., 16.10.1981, Fallaci, in Riv. pen., 1982, 579). È solo con l’emanazione del nuovo codice di procedura penale che finalmente vengono accolte le istanze avanzate dalla più attenta e sensibile dottrina in tema di segreto giornalistico, riconoscendo il diritto di astenersi dal deporre anche “ai giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni” (art. 200, 3° comma, c.p.p.). Si è così tentato di realizzare un bilanciamento tra la necessità di riservatezza dell’informatore e le esigenze di giustizia, che deve colpire il reo quando la sua identificazione sia resa possibile dalla rivelazione del nome della fonte. Esigenza di giustizia peraltro: ■ rafforzata dal disposto di cui all’art. 362 c.p.p., il quale dispone applicazione di quanto previsto dall’art. 200 c.p.p. anche alle informazioni assunte dal Pubblico Ministero tramite persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini; ■ ed integrata dal disposto di cui all’art. 256 c.p.p. in forza del quale “le persone indicate nell’art. 200 devono consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria che ne faccia richiesta gli atti ed i documenti anche in originale se così è ordinato e ogni altra cosa esistente presso di esse per ragioni della loro professione tranne che dichiarino per iscritto che si tratti di segreto inerente la loro professione; se la dichiarazione risulta infondata l’autorità giudiziaria dispone il sequestro”. Sin da una prima lettura della norma si può notare che il riconoscimento del segreto giornalistico operato dall’art. 200 c.p.p. incontra i seguenti limiti: a) il segreto riguarda la fonte della notizia e non anche il suo contenuto; b) le notizie devono rivestire carattere fiduciario; c) il soggetto interessato deve essere un giornalista professionista. Inoltre, il giornalista può esercitare il suo diritto di opporre all’autorità giudiziaria il segreto professionale qualora la fondatezza delle notizie pubblicate sia verificabile mentre, in caso contrario, tale segreto non può essere validamente opposto (e, difatti, con le parole della giurisprudenza, “la norma di cui al 3º comma dell’art. 200 c.p.p. deve intendersi riferita all’accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all’esame della sua veridicità che può trovare l’unico strumento nella identificazione della fonte fiduciaria; solo in tale circostanza quindi il giudice, al fine di verificare la rispondenza della notizia indispensabile per la prova di un reato per cui si procede, potrebbe ordinare al giornalista di indicare la sua fonte, purché sia l’unico strumento investigativo a disposizione” così, Pret. Roma, 21.02.1994, Gambino, in Cass. pen., 1994, 1953). Il magistrato può dunque rimuovere il segreto e, se malgrado l’ordine di nominare la fonte della notizia, il giornalista riaffermi il suo rifiuto, quest’ultimo potrà essere imputato del reato di cui all’art. 372 c.p. (falsa testimonianza). Inoltre, l’Autorità Giudiziaria è lasciata libera di sindacare la dichiarazione resa dal giornalista e, qualora ritenga ingiustificato il rifiuto di rivelare la fonte, può, ai sensi dell’art. 256 c.p.p., procedere al sequestro di atti e documenti. In questa prospettiva è stato suggerito che “il giornalista prudente e rispettoso della personalità del suo informatore potrebbe, e forse dovrebbe, prima di diffondere la notizia, procurarsi ulteriori prove della sua rispondenza al vero onde mettersi in condizioni: a) di opporre il segreto al giudice; b) di provare, comunque invitando indirettamente il giudice a completare la sua opera, la verità di quanto pubblicato. In mancanza di ulteriori prove il giornalista se non è disposto a rivelare la sua fonte e neppure a rischiare l’arresto per reticenza dovrà tacere. Ma non sarà un gran danno per la collettività perché una notizia non controllabile oggettivamente è spesso infondata se non addirittura calunniosa” (L. Biagioni, Note sul riconoscimento del segreto professionale ai giornalisti professionisti nel nuovo c.p.p., in Giur. it., 1991, IV, 477). Notevoli perplessità sono, inoltre, state avanzate in ordine alla limitazione del riconoscimento del diritto di astenersi dal deporre a favore dei soli giornalisti professionisti, rimanendo esclusi dal dettato legislativo i giornalisti pubblicisti, anch’essi iscritti all’albo e che, pur essendo giornalisti a tutti gli effetti, si vedono ingiustamente penalizzati rispetto ai colleghi professionisti (al riguardo è stata sottolineata l’irragionevolezza della scelta del legislatore “dal momento che gli episodi di cronaca giudiziaria vedono, per di più in grande numero, come protagonisti, giornalisti pubblicisti i quali, a parte la precarietà del posto di lavoro e l’occasionalità della collaborazione al giornale stampato o radiotelevisivo e, di conseguenza la differenza sotto il profilo retributivo, esercitano la loro professione con modalità identiche ai giornalisti c.d. professionisti”, così, testualmente, M. Di Camillo, segreto giornalistico e diritto di cronaca nel diritto sostanziale e processuale alla luce della riforma del rito penale del 1988, in Giur. merito, 1990, 668). Tale quadro normativo ha indotto alcuni autori ad affermare che il vero principio che permea il segreto professionale del giornalista sia la coercizione diretta ad ottenere la rivelazione della fonte (R. Bianco, Il diritto del giornalismo, Padova, 1997, 140). Ciononostante il segreto professionale del giornalista è stato recentemente riaffermato sia a livello nazionale che europeo. A livello nazionale è stato riaffermato: ■ dall’art. 13, n. 5, L. 675/1996 (legge sulla privacy) che, con riguardo al trattamento di dati personali ha statuito, che “restano ferme le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia”; ■ dal Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il quale, all’art. 2, n. 3, dispone che “gli archivi personali dei giornalisti, comunque funzionali all’esercizio della professione e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità, sono tutelati, per quanto concerne le fonti delle notizie, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 69/1963 e dell’art. 13, comma 5 della legge n. 657/1996”. A livello comunitario tale diritto è stato riaffermato: ■ dalla Risoluzione sulla segretezza delle fonti d’informazione dei giornalisti adottata dal Parlamento europeo in data 18.01.1994; ■ dalla Raccomandazione n° R (2000) 7 adottata dal Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa in data 08.03.2000 ed indirizzata agli Stati membri per determinare una base minima di norme europee comuni concernenti il diritto dei giornalisti di non rivelare le proprie fonti di informazioni. Come si può evincere dall’analisi del contenuto di tali ultimi documenti, la protezione delle fonti d’informazione assume caratteri che vanno ben oltre le problematiche nazionali, posto che “il diritto alla segretezza delle fonti di informazione dei giornalisti” contribuisce “in modo significativo ad una migliore e più completa informazione dei cittadini”, influendo, di fatto, “anche sulla trasparenza del processo decisionale, rafforzando il carattere democratico delle istituzioni comunitarie e delle istanze nazionali degli Stati membri” ed essendo “indissolubilmente connesso con la libertà di informazione e la libertà di stampa in senso lato, in quanto fornisce un contenuto sostanziale al fondamentale diritto alla libertà di espressione quale è definito all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (Risoluzione del Parlamento europeo del 18.01.1994). Al riguardo si tenga presente che l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tutela il diritto dei giornalisti di “comunicare informazioni su questioni di interesse generale quando si esprimono in buona fede, sulla base di fatti veri e forniscono informazioni affidabili e precise nel rispetto dell’etica giornalistica” (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza del 21.01.1999 nel caso Fressoz e Roire c. Francia). Le raccomandazioni del Consiglio d’Europa In questo contesto, il Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la citata Raccomandazione, muovendo dalla petizione di principio che “la protezione delle fonti d’informazione dei giornalisti costituisce una condizione essenziale perché i giornalisti possano lavorare liberamente così come per la libertà dei media”, ha formulato le seguenti raccomandazioni: 1.- l’adozione, da parte degli Stati membri, di una protezione esplicita e chiara del diritto dei giornalisti di non divulgare le informazioni identificanti una fonte, essendo questo diritto parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione, espressamente garantito dall’art. 10 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (Principio 1). Laddove per informazioni identificanti una fonte devono intendersi (lett. d delle Definizioni): a) nome, indirizzo, numero di telefono, fax ed altri dati personali (quali ad esempio voce e fotografie) della fonte; b) le circostanze concrete dell’ottenimento di informazioni (ad esempio, luogo ed ora dell’incontro, mezzo di corrispondenza usato o gli accordi particolari convenuti tra una fonte ed il giornalista); c) la parte non pubblicata dell’informazione fornita da una fonte a un giornalista (ad esempio altri fatti, dati, suoni, immagini che possano indicare l’identità di una fonte e che non siano 10 ancora stati pubblicati); d) i dati personali dei giornalisti o dei loro datori di lavoro legati alla loro professione o al loro lavoro, che potrebbero essere rinvenuti in liste di indirizzi, annotazioni di chiamate telefoniche, di comunicazioni informatiche, di documenti di viaggio o di annotazioni di conti bancari; 2.- l’utilizzo di particolari cautele nel porre limitazioni al diritto di non divulgare le fonti (Principio 3), quali: a) l’ordine di divulgazione potrà rendersi necessario solo in presenza di un imperativo preponderante di interesse pubblico e nel caso in cui le circostanze presentino un carattere sufficientemente grave e vitale; b) la divulgazione di informazioni identificanti una fonte potrà aversi solo qualora non esistano altre misure alternative alla divulgazione stessa. In altre parole solo dopo che altri mezzi o altre fonti siano state in via preliminare esperite senza successo; 3.- il diritto del giornalista a che la pronuncia di una sanzione per non aver divulgato le informazioni identificanti la fonte, sia sottoposta al controllo di un’altra autorità giudiziaria (Principio 5). In particolare ogni decisione di un’autorità nazionale che limiti il diritto dei giornalisti di non divulgare le loro fonti può essere sottoposta anche al controllo esercitato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo; 4.- limitazione dell’applicazione di misure quali intercettazioni, perquisizioni, sequestri o di misure di sorveglianza dei giornalisti o dei loro contatti, tutte le volte in cui tali misure tendano ad aggirare il diritto dei giornalisti a non divulgare le proprie fonti; 5.- l’estensione del diritto di non divulgazione oltre che ai giornalisti (intesi come “tutte le persone fisiche o giuridiche praticanti a titolo continuativo o professionale la raccolta e la diffusione d’informazioni al pubblico attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa”), anche a soggetti terzi che abbiano avuto conoscenza della fonte nel quadro delle loro relazioni professionali con i giornalisti (Principio 2), quali, ad esempio, i colleghi giornalisti, il personale di segreteria, il personale incaricato della stampa, il redattore capo, tutte le volte in cui esse non siano già coperte dalla definizione di giornalista. ORDINE 10 2000 LIBRERIA DI TABLOID el giornalista In definitiva tale Raccomandazione cerca di porre i presupposti per una protezione adeguata del diritto dei giornalisti di non rivelare le proprie fonti al fine di assicurare la libertà del giornalismo ed il correlativo diritto del pubblico ad essere informato dai media. Con riguardo all’importanza ed alla delicatezza dell’esercizio di tale diritto, altresì, si noti che la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte evidenziato come la protezione delle fonti giornalistiche sia una delle pietre angolari della libertà di stampa, poiché “l’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa ad informare il pubblico su questioni di interesse generale”. Conseguentemente la “stampa potrebbe non essere in grado di giocare il suo ruolo indispensabile di «cane da guardia» e la sua idoneità a fornire informazioni precise ed affidabili potrebbe essere ridotta. Tenuto conto dell’importanza che la protezione delle fonti giornalistiche riveste per la libertà di stampa in una società democratica e dell’effetto negativo sull’esercizio di tale libertà che un’ordinanza di divulgazione rischia di produrre, simile provvedimento può conciliarsi con l’art. 10 della Convenzione solo se è giustificato da un preponderante imperativo di interesse pubblico” (così, testualmente, Corte europea Diritti dell’Uomo, sentenza sul caso Goodwin c. Regno Unito, emessa il 27.03.1996). In questa prospettiva, l’obbligo di rivelare la fonte impedisce alla stampa di svolgere la sua funzione di fornire informazioni precise ed affidabili, posto che ogni rivelazione di una fonte può avere un effetto inibente per le future fonti che così saranno meno desiderose di comunicare informazioni ai giornalisti. Per tornare alla legislazione del nostro Paese vediamo come da più parti sia stata sottolineata la limitatezza di una interpretazione strettamente letterale dell’art. 21 Cost., rivendicandone la necessità di “ampliarne e specificarne il contenuto nelle nuove formule: libertà di informazione, diritto all’informazione” (Barile e Grassi, Informazione, in App. nuoviss. dig. it, 200). In particolare, sia da parte della dottrina che da parte della giurisprudenza, è stata effettuata un’operazione di ridefinizione dell’art. 21 Cost., che ha portato ad ipotizzare l’esistenza di un vero e proprio diritto all’informazione, cui fa da corollario la libertà di “dare e divulgare notizie, opinioni, commenti” (C. Cost., 15.06.1972, n. 105, in Giur. cost. 1972, 1196), libertà che trova una sua garanzia fondamentale nel diritto di segretezza delle fonti riconosciuto al giornalista. In ogni caso è bene ricordare che invocando il segreto professionale il giornalista non si ripara da eventuali responsabilità per notizie false o diffamatorie da lui diffuse, potendo ugualmente incorrere nel reato di diffamazione o di divulgazione di segreto processuale. Per saperne di più GRILLI Luigi, La pubblicazione degli atti e il segreto professionale del giornalista, in Giust. pen., 1990, III, 565 BIAGIONI Luca, Note sul riconoscimento del segreto professionale ai giornalisti professionisti nel nuovo c.p.p., in Giur. it., 1991, IV, 477 RAFARACI Tommaso, Segreto del giornalista e processo penale, in Cass. pen., 1991, I, 919 DI CAMILLO Massimo, Segreto giornalistico e diritto di cronaca nel diritto sostanziale e processuale alla luce della riforma del rito penale del 1988, in Giur. merito, 1990, 668 GRILLI Luigi, La pubblicazione degli atti e il segreto professionale del giornalista, in Documenti giustizia, 1990, fasc. 4, 81 LETTA Guido, Il punto sul segreto professionale del giornalista, in Dir. e società, 1986, 759 CALDERONE C. Renato, Segreto del giornalista ed essenzialità della giustizia, in Quaderni giustizia, 1986, fasc. 58, 27 FAVINO Luigi, Segreto giornalistico ed esigenze della giustizia, in Riv. pen., 1985, 1041 FORTUNA Ennio, Segreto dei giornalisti e segreto istruttorio nel processo accusatorio, in Cass. pen., 1985, 1740 GREGORI Giorgio, Informazione e segreto professionale: tutela del giornalista e del cittadino, in Dir. radiodiffusioni, 1984, 505 PIETRONI Nazzareno, Il segreto professionale del giornalista, in Giur. merito, 1985, 495 BARBUTO Mario, Il segreto professionale non è uguale per tutti: i diversi gradi di impenetrabilità del segreto degli avvocati, dei consulenti del lavoro, dei dottori commercialisti, dei giornalisti, in Impresa, 1985, 1565 NEPPI MODONA Guido, Profili contraddittori del rapporto tra giustizia e informazione: il segreto professionale del giornalista e il segreto istruttorio, in Questione giustizia, 1983, 543 FERRATO Dino, Il segreto giornalistico nelle prospettive della riforma, in Riv. pen., 1983, 737 MASTRONE Angela, Il “segreto giornalistico” nel processo penale, in Arch. giur., 1983, 75 PISA Paolo, Il “segreto giornalistico” nel processo penale: spazi stretti per una prospettiva di riforma (Nota a Corte costit., 28 gennaio 1981, n. 1, Massa), in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 291 CONSO Giovanni, Il segreto giornalistico dopo la sentenza della corte costituzionale (Nota a Corte costit., 28 gennaio 1981, n. 1, Massa), in Giur. costit., 1981, I, 8 LONARDO Filippo, Il segreto professionale del giornalista (Nota a Corte costit., 28 gennaio 1981, n. 1, Massa), in Giust. civ., 1981, I, 676 CRESPI Alberto, Il segreto dei giornalisti nel responso della corte costituzionale e nelle prospettive di riforma del processo penale (Nota a Corte costit., 28 gennaio 1981, n. 1, Massa), in Riv. dir. proc., 1981, 351. Ordine/Tabloid ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Mensile / Spedizione in a. p. (45%) Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXI - Numero 10, dicembre 2000 Consiglieri: Bruno Ambrosi, Annibale Carenzo, Letizia Gonzales, Cosma Damiano Nigro, Domenico Tedeschi. Collegio dei revisori dei conti Aldo Borta Schiannini, Davide Colombo, Rino Felappi (presidente); Direttore responsabile FRANCO ABRUZZO Condirettore BRUNO AMBROSI Coordinamento grafico di Ordine - Tabloid Franco Malaguti Direzione, redazione, amministrazione Via Appiani, 2 - 20121 Milano Tel. 02/ 63.61.171 - Telefax 02/ 65.54.307 Stampa Stem Editoriale S.p.A. Via Brescia, 22 20063 Cernusco sul Naviglio (Mi) Segretaria di redazione Teresa Risé Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, presidente; Brunello Tanzi, vicepresidente; Gabriele Moroni, consigliere segretario, Sergio D’Asnasch, consigliere tesoriere Iscritto al n. 983/ 1983 del Registro nazionale della Stampa Comunicazione e Pubblicità Comunicazioni giornalistiche Advercoop Via G.C.Venini, 46 - 20127 Milano Tel. 02/ 261.49.005 - Fax 02/ 289.34.08 La tiratura di questo numero è stata di 20.100 copie Chiuso in redazione il 2 dicembre 2000 Lorenzo Del Boca Il dito dell’anarchico Franco Fucci Novecento. Morte di un Savoia Enzo Magrì I fucilati di Mussolini di Gigi Speroni Il filo rosso dell’anarchismo lega tre libri firmati da colleghi già autori di successo. Anarchico era Gaetano Bresci, che il 29 luglio del 1900 uccise a Monza, con tre colpi di pistola, Umberto I: un’occasione colta da Franco Fucci in “Novecento. Morte di un Savoia”, per raccontare il tragico avvenimento e, soprattutto, tratteggiare la personalità del re inquadrandola nel suo tempo. In Italia la pena di morte era stata abolita da 12 anni e Bresci finirà all’ergastolo, ma soltanto per dieci mesi, sin quando non verrà trovato impiccato in una cella del carcere di Santo Stefano. Suicidio di Stato? Nel 1926 Gino Lucetti, protagonista del libro di Lorenzo Del Boca “Il dito dell’anarchico”, maldestramente attenterà alla vita di Mussolini gettando una bomba verso l’auto su cui viaggiava il Duce, diretto a Palazzo Chigi. È l’undici settembre del 1926: in novembre il regime varerà le “leggi fascistissime” con le quali sarà reintrodotta la pena di morte “per gli attentati al Re, al Reggente, alla Regina, al Principe Ereditario e al Capo del Governo”. Per due mesi Lucetti la scampò: condannato a trent’anni ne sconterà 17, sino alla caduta del fascismo. Liberato nel 1943, verrà ucciso a Ischia da uno shrapnel sparato, forse, dall’ultimo tedesco rimasto sull’isola o, probabilmente, da un incrociatore inglese. Di venerdì 17. Infine Angelo Pellegrino Sbardella, l’anarchico sorpreso a Roma, il 4 giugno 1932, con due bombe destinate al Duce è uno de “I fucilati di Mussolini”, nel libro dove Enzo Magrì narra le storie di quattro tra i 32 condannati alla pena capitale eseguita dal 1926 al 1943 dal “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”. Se, dunque, Bresci, Lucetti, Sbardellotto, sono il filo rosso dell’anarchismo, sin da queste brevi note appare, però, chiaro che le tre opere hanno un taglio metodologico e letterario ben diverso, rispondente alle personalità dei loro autori. Ognuno è godibile di suo, insomma. Per Fucci “Non si può giudicare l’atto di Gaetano Bresci ORDINE 10 2000 se prima non si prende conoscenza degli avvenimenti del quarto di secolo che lo precedette”. Che produssero “«l’atmosfera» nella quale maturò il regicidio”. Fucci scava nei fatti, li analizza nel loro contesto storico, arricchisce il racconto con corpose note a piede di ogni capitolo. Sedici capitoli brevi, (accorta decisione per facilitare la lettura) che già nei titoli tracciano il percorso del volume: “Il re, l’anarchico, la tragedia”; “Un Paese in crisi di crescita”; “Ritratto di un re guerriero”; “Il Re, le donne, la Regina”; “Un destino crudele”; “Un Paese alla svolta”… e poi: “«La protesta dello stomaco», che passa “Dal malcontento al furore”. Comprensibile, in un Paese dove “numerosi erano i disgraziati che dovevano vivere con il salario di una lira al giorno, il che voleva dire la catastrofe se il prezzo del pane aumentava anche di pochi centesimi al chilo. ... Nell’Italia umbertina la gente lavorava dodici e anche quindici ore al giorno; in mansioni umilissime e spesso pericolose erano impiegati i bambini. ... Sovrano e vertice politico respingono ogni ipotesi di compromesso con le nuove forze emerse nel Paese e vedono l’unica soluzione possibile nei «governi della sciabola» che tanto piacciono a Umberto (e ancor più a Margherita)...”. Così a Milano il “furore” sfocerà nei “primi tumulti”, in una “città in stato d’assedio” dove “la repressione trionfa” con i cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris. È il maggio di sangue del 1899 segnato da 80 morti e 450 feriti. “Numeri raccapriccianti se si pensa che le 5 Giornate del 1848 avevano provocato in tutto 350 morti; eppure allora contro gli insorti era schierato un esercito straniero; nel 1898, cinquant’anni dopo, contro coloro che «scioperavano per la fame» c’erano solo poliziotti e soldati italiani”… E via sino all’ultimo capitolo: “Un «processo» un «suicidio»”, entrambi tra virgolette, visto che Bresci venne condannato dopo una giornata di dibattimento, e resta il fondato dubbio che in carcere sia stato suicidato. Fucci, dunque, racconta la Storia con rigore ineccepibile e nello stesso stile coinvolgente già esercitato in “Radetzky a Milano”. Il suo è un classico esempio di divulgazione che mi ha ricordato una lettera a “La Stanza” del “Corriere della Sera”. A un lettore che si rammaricava con Montanelli perché si “sia persa una grande occasione di avere un “testo del giornalista/scrittore adottato nelle nostre scuole”e gli domandava “se le sia mai venuta l’idea di dedicarsi a una opera così socialmente utile e nel caso cosa possa averla dissuaso” Montanelli ha risposto: “Avrebbe potuto dissuadermi il fatto che nessun insegnante ha mai permesso a un mio libro di varcare la porta della sua scuola. Ma conosco parecchi ragazzi che avendo taciuto la grave colpa di averla studiata sui miei libri, hanno brillantemente superato l’esame di Storia. Ed è per questo che continuo a scriverli”. Chiusa la digressione. Umberto I conferirà a Bava Beccaris la Croce di Grande Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia “per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni e alla civiltà e perché Le attesti la riconoscenza mia e della Patria”, e nella lontana America questa decisione rafforzerà in Bresci l’idea di uccidere il sovrano per vendicare i morti di Milano. Il re venne assassinato il 29 luglio 1900. Un mese dopo il 31 agosto nasceva ad Avenza, nel comune di Carrara, terra di cavatori di marmo, “uomini contro”, Gino Lucetti, il protagonista del libro di Lorenzo Del Boca, Il dito dell’anarchico, “l’uomo che sognava di uccidere Mussolini”. Lucetti “brillava di una scintilla perennemente trasgressiva che non poteva confondersi con un potere, qualunque esso fosse. Voleva un’insistita anormalità. Era un ribelle esistenziale… divorato da una malinconia creativa che, con i suoi languori, gli impediva di accettare l’ineluttabile e lo spingeva a partecipare. A indicargli la strada, anzi, a imporgli la scelta, più che i riferimenti teorici, fu la sua natura visceralmente ribelle. La pratica dell’azione diretta lo mantenne anarchico e, in qualche modo, lo condannò”. In queste poche righe c’è il Del Boca dallo stile personalissimo, carico di colore e vis polemica, l’autore del tranciante “Maledetti Savoia”, 11 LIBRERIA DI TABLOID dove già il titolo spiegava il pensiero di uno scrittore che «usa» i fatti e le persone per vestirli da romanzo. Si può capire perché Del Boca abbia scelto un personaggio come Gino Lucetti, un anarchico che non amava “i riferimenti teoretici”, più che un intellettuale era un uomo dalle semplici e radicate convinzioni, un sognatore in politica, “viscerabilmente ribelle”, ma, anche, un sognatore in amore nel timido, puro rapporto con la cugina Nella, una sartina. “La loro storia sentimentale fu un intrecciarsi di sospiri, di attese e di solitarie fantasie che architettavano un futuro impraticabile. Pochi baci e pochissime carezze… Rievocare le estasi e i languori i disinganni e le ambasce è impossibile sulla base di resoconti documentati, ma sarebbe banale trascurarli soltanto perché non se ne trova traccia negli archivi di Stato. Per questo la storia degli storici è una scommessa persa in partenza. Loro non si occupano – non ce la fanno – degli uomini e delle donne come sono, con tutti i loro intrecci e i misteri delle loro sensazioni. Non cercano le stramberie caratteriali, gli umori momentanei e – magari – i capricci istintivi del loro temperamento. Alla fine, gli stati d’animo non contano e si procede per schemi fissi, rincorrendo la certezza delle date, il rigore della carta autografa e la verità dei documenti riproducibili in fotocopie”. Comunque il Del Boca romanziere è anche un accurato ricercatore: lo testimoniano le corpose “Note al testo” e lo scrupolo con cui lo scrittore rivisita Porta Pia, dove l’anarchico gettò sconsideratamente la bomba verso l’auto del Duce senza manco scalfirlo, descrivendo il luogo sin nei minimi particolari: …“è andata distrutta l’edicola di legno con il tetto a punta come se fosse un piccolo minareto ed è stata sostituita da un abitacolo di maniera che assomiglia a un container bislungo. Come disposizione è un po’ più vicina al marciapiede ma i proprietari sono gli stessi: adesso ci lavora il nipote della persona che vendeva i giornali nel 1926”. Al processo “Lucetti abbandonò i suoi pensieri quando il presidente del tribunale Sanna gli chiese che cosa aveva fatto la mattina dell’11 settembre. Che domanda…?! tagliò corto, limitandosi a ciò che – immaginava – era di interesse per i giudici. «Mi recai in via Nomentana, nei pressi di Porta Pia. E lanciai una bomba contro l’automobile del signor Mussolini». Un attentato contro un signore. Non si riferì al capo del Governo perché riteneva che quell’incarico fosse stato usurpato con la violenza”. Condannato a 30 anni, liberato dopo la caduta del fascismo, ucciso nel modo che sappiamo “al momento della traslazione, mentre si stava riesumando la salma, si ruppe la falangetta del dito mignolo della mano sinistra di Lucetti. Nella Menconi, la fidanzata, raccolse quel 12 brandello d’osso e lo tenne per sé. “Il dito dell’anarchico”, per l’appunto, con cui “tentò di fermare il treno in corsa del fascismo”. L’anarchico Angelo Pellegrino Sbardellotto è uno dei quattro protagonisti de I fucilati di Mussolini, che Enzo Magrì ha scelto tra i 32 giustiziati nei 17 anni in cui operò il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, voluto nel 1926 dal Duce dopo aver subito quattro attentati andati a vuoto, anche fortunosamente, e affrontati con freddezza tanto da fargli dire «Le pallottole passano, Mussolini resta» e «Il mio cuore non ha accelerato i suoi battiti». Quattro vicende da realtà romanzesca: “Le storie d’ un operaio comunista disoccupato, d’un anarchico imbranato, d’un industriale dinamitardo per soldi, d’un sottufficiale che vendette la Marina italiana alla Francia, mandati davanti al plotone d’esecuzione fascista tra il ’28 e il ‘33”. Scelte dall’autore perché “drammatiche, alcune così toccanti e avventurose da sembrare inverosimili, ma tutte tragicamente vere, ricavate dalle pagine dei processi”. Raccontate dallo stesso autore del fortunato “Pitigrilli”. Con un Magrì dove l’avvincente scrittura fa da vetrina, da supporto, allo scrupolo del ricercatore. Storie che vanno godute anche negli aneddoti, nei particolari e che rimandiamo al lettore per non incartarci in descrizioni affrettate, troppo sintetiche. Qui ci limitiamo ad accennare a Sbardellotto, minatore esule in Belgio, sconsideratamente inviato a Roma dalla concentrazione antifascista con due bombe nella valigia e l’incarico di uccidere Mussolini. “Sprovvisto di cognizioni circa la città che visita per la prima volta, privo d’una base di informatori e sfornito anche d’un piano per l’attentato, Sbardellotto affida la sua missione all’improvvisazione. Da mezzogiorno alle 16, gironzola con le bombe addosso e la pistola in tasca tra piazza dei Cinquecento e via Nazionale. Per perdere un altro po’ di tempo, sempre imbottito d’esplosivo, si reca a visitare l’Esposizione coloniale”…. Gironzola a vuoto, non riesce ad avvicinarsi al Duce, ritira la sua valigia alla stazione Termini e sconsolato riprende la via del Belgio”. Siamo alla fine d’ottobre del 1931. Depresso, ma determinato, l’anarchico ritorna a Roma nell’aprile del 1932, gli va ancora buca e ritenta due mesi dopo. Ma stavolta qualcosa succede. “Sono le 15.40 del 4 giugno 1932. Una voce gli ordina: «Favorisca i documenti» Sbardellotto ha un passaporto falso intestato a “Gavini Angelo fu Luigi, di Bellinzona, commerciante” ma non il foglio di soggiorno, e “sente che la fiducia nella sua capacità di recitare con naturalezza sta venendo meno e che è sul punto di essere preso dal panico”. Arriva un secondo poliziotto, il “sospetto” viene perquisito, gli agenti scoprono le bombe. “Quando viene fermato il veneto ha solo l’intenzione di uccidere il dittatore. Che dopo otto mesi e tre missioni a Roma non era riuscito neppure a vedere da lontano. Ma per i giornali è come se Mussolini fosse scampato allo scoppio di una bomba”. E anche per i giudici che lo condannano a morte “mediante fucilazione alla schiena” dopo un processo durato 2 ore e 15 minuti. Aveva 26 anni. Il presidente del Tribunale speciale, tramite l’avvocato difensore consiglia al condannato di presentare la domanda di grazia, dichiarandosi pentito. L’anarchico, altero, sconcerta i giudici «Ma che pentito e pentito» replica al legale d’ufficio, «Io rimpiango solo di non averlo ammazzato». Rifiuterà l’assistenza religiosa del cappellano “«Non credo in nulla» gli rispose, respingendolo”. Suo fratello, Olivo, di anni ne contava 17. Cinque mesi dopo la fucilazione di Angelo, per la precisione “un giorno della metà di novembre del 1932 in casa Sbardellotto si presentò un incaricato del federale di Belluno. Rivolgendosi a Olivo l’ospite ordinò: «Preparati. Presto ché dobbiamo fare un viaggetto». Così il giovanotto si ritrova nella sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia, sull’attenti davanti al capo del governo. “«Come stai?» chiese il dittatore. «Bene duce», rispose il ragazzo. «Coraggio», lo esortò Mussolini. E spiegò al giovane che «era stato fatto ciò che doveva essere fatto». Assumendo il tono del padre severo, ma buono, gli parlò per parabole spiegandogli che «a volte è necessario potare dei rami dannosi per fare crescere meglio una pianta e per far sì che essa dia buoni frutti»… Oltre che alla coscienza di Mussolini, quella visita si rivelò utile anche agli Sbardellotto. Meno ingenuo di quanto potesse apparire, il giovane Olivo, ritornato a Mel, diffuse una studiata bugia . A tutti quelli che gli chiedevano che cosa gli avesse detto il duce, egli rispondeva: «Al ma dit, ricordati: se ghe ne qualchedun che te dà fastidio, fame saver a mi, che me interessi mi». Non tutti probabilmente credettero a quelle parole pronunciate dal capo del governo. Ma la frase si rivelò ugualmente un provvidenziale salvacondotto per tutta la famiglia. Gran Paese, l’Italia. Lorenzo Del Boca, “Il dito dell’anarchico”, Piemme, pagg. 229, lire 30.000. Franco Fucci, “Novecento. Morte di un Savoia”, Mursia, pagg. 272, lire 26.000. Enzo Magrì, “I fucilati di Mussolini”, Baldini & Castoldi, pagg. 305, lire 32.000. Mobbing, insidia di Luisella Nicosia, avvocato in Milano Mobbing, il termine è ormai entrato nell’uso comune. E se ne parla diffusamente. Talvolta a sproposito, attribuendo a quella parola (derivante dal verbo inglese to mob, aggredire) un significato non sempre corretto dal punto di vista medico e legale. Di cosa si tratta? La scienza medica definisce mobbing “quella forma di violenza o molestia psicologica, ripetuta in modo iterativo, con modalità polimorfe, con caratteri di intenzionalità, per un tempo determinato, dai sei mesi in su, con ampia variabilità dipendente dalle modalità e dalla struttura di personalità dei soggetti”. In altre parole, una violenza morale, esercitata da superiori (cosiddetto mobbing verticale) o da pari grado (mobbing orizzontale) con sistematica frequenza. E seppure meno praticata, esiste una terza variante, quella esercitata dai subalterni singolarmente o in gruppo, mediante attacchi contro la persona, con la finalità di screditare il suo lavoro, di immiserirne il ruolo e lo status professionale. L’offesa viene prolungata nel tempo e sustanziata con umiliazioni costanti, con continui deprezzamenti e critiche rivolte alla qualità e alla finalità del lavoro svolto, attuata con reiterati sabotaggi, con emarginazioni e svuotamento di mansioni impedendo o vanificando ogni contributo lavorativo, al punto di rendere evidente la sindrome che si definisce “della scrivania vuota”. O, ancora, con continue forme di aggressioni sanzionatorie, con eccessivo ricorso alle visite fiscali, alle contestazioni disciplinari, al trasferimento in sedi lontane, al rifiuto immotivato di concessione di permessi o di ferie, al mancato riconoscimento di legittime gratificazioni, a uno stato di obbligata inedia lavorativa, a costanti e reiterate angherie. A chi non è mai capitato di vedersi criticare o di vedersi negare un sacrosanto riconoscimento di merito conquistato sul campo? Certo non è storia solo dei giorni nostri (anche se l’organizzazione del lavoro, basata oggi sull’eccessiva competitività e sul ricorso massiccio alla tecnologia, esaspera il fenomeno, La scienza classifica il male La giustizia garantisce tutela Nel mirino del “mobber” più numerose le donne “Lo stillicidio quotidiano di offese, umiliazioni, ritorsioni, intimidazioni, vessazioni psicologiche e un generalizzato e costante clima di tensione comportano un’alterazione della sfera neuropsichica – aggiunge il professor Gilioli, che è stato relatore a un convegno recentemente tenutosi a Milano sull’argomento – il soggetto colpito da mobbing, spesso, cade in depressione, talvolta perde il posto di lavoro e in ogni caso intacca il proprio menage familiare”. Quando un soggetto diventa il capro espiatorio all’interno di un’azienda per fronteggiare l’accresciuta concorrenza dei colleghi, il fantasma della disoccupazione reso ancora più preoccupante dalla crisi cronica di posti di lavoro, il montante stress, di lì a breve dovrà far fronte ad insonnia, paura, debolezza generalizzata, si sentirà crollare addosso il mondo, in una forma di isolamento sistematico o di attacchi più o meno diretti alla propria persona. “Nel nostro Centro finora abbiamo esaminato circa mille casi – spiega ancora il professor Gilioli – si tratta di persone provenienti da tutta Italia, di entrambi i sessi, anche se con una lieve prevalenza femminile, con un’età media tra i 35-44 anni e 44-55 anni, con un livello di scolarità medio-alta (diploma superiore oltre ad un’elevata presenza di laureati), che rivestono qualifiche di impiegati, quadri e dirigenti (solo in minima parte operai) sia nel settore privato sia nel pubblico, costrette a subire queste forme di abuso di potere per periodi anche molto lunghi, dai due ai quattro, cinque anni e oltre, talvolta. Queste persone manifestano i primi disagi con sintomi di allarme psicosomatico: si va dalle cefalee ai disturbi dell’equilibrio, dai problemi gastrici ai dolori ostearticolari. Ma non solo. Spesso a questo quadro iniziale si associano nel tempo disturbi di natura emozionale, quali ansia, tensione, attacchi di panico, disturbi del sonno e dell’umore, e di natura comportamentale, quali anoressia, bulimia, farmacodipendenza, fobie. Difficile la diagnosi per l’omertà dei colleghi Non sempre risulta facile la diagnosi delle situazioni lavorative di mobbing e delle malattie correlate proprio per una scarsa collaborazione dell’ambiente di lavoro; perciò diventa importante il ruolo svolto all’interno dell’azienda dai responsabili delle risorse umane e dal medico del lavoro, anche ai sensi di quanto previsto dall’attuale normativa in materia, in primo luogo il D.L. 626/94”. Ma tant’è. I problemi delle persone perseguitate cadono nell’indifferenza e spesso suscitano un diffuso senso di fastidio nell’ambiente di lavoro. È un male, quello dei mobbizzati, che, ancora oggi, l’Inail non riconosce ufficialmente e che spesso anche a livello sindacale richiama scarsa attenzione per la sua stessa natura. Se poi il mobbing è strategicamente mirato in ragione di un preciso disegno di esclusione di un lavoratore (al fine di creare le condizioni ottimali per un licenziamento o per le dimissioni, una sorta di morbido ammortizzatore sociale, come viene visto da molti) o è solo un mobbing cosiddetto emozionale, perché deriva da un’esaltazione dei comuni sentimenti di ciascun individuo, quali gelosia, rivalità, antipatia, ambizione, questo non cambia la sostanza del problema. E dal punto di vista giuridico cosa s’intende per mobbing? Esiste una legge ad hoc? Come si sono orientati finora i giudici? Finalmente qualcosa si muove, occorre dirlo, sia pure a fatica comincia a farsi strada, da qualche anno, una maggiore attenzione alla portata del fenomeno e una più precisa presa di coscienza da parte delle istituzioni. Diversi disegni e progetti di legge sono stati portati all’esame del Parlamento (il primo cronologicamente parlando risale addirittura al 1996), con lo scopo di produrre il varo di leggi specifiche, con linee guida comuni anche se con profonde differenze, aventi finalità preventive e di informazione ma anche repressive (si prevedono infatti sanzioni penali per chi pone in essere atti di violenza psicologica nei confronti di individui “costretti a subire tali atti a causa di uno stato di necessità”). Il mobbing, dunque, comincia ad essere considerato come violenza o persecuzione psicologica, una sorta di vero e proprio terrorismo psicologico contro il quale si rendono necessari provvedimenti di tutela di e difesa dei lavoratori impiegati in tutte le tipologie di lavoro “pubblico e privato, comprese le collaborazioni”, con sanzioni notevolmente aumentate se la condotta illegittima comporta per la persona offesa anche danni psico-fisici o danni materiali ed economici o sanzionando espressamente la condotta di strategia societaria illecita o istituendo uno sportello unico contro gli abusi nei posti di lavoro. ORDINE 10 2000 Le persone colpite, costrette a subire violenze psicologiche, cadono vittime, sovente, di gravi patologie di tipo psichiatrico. Un male insidioso che mette a rischio anche la salute dei congiunti. Si calcola che in Italia siano oltre un milione e mezzo i prestatori d’opera assoggettati ad attacchi sistematici durante l’attività lavorativa. Il fenomeno studiato e classificato dalla scienza medica. Quale tutela legislativa? Sono in atto iniziative parlamentari, ma l’ordinamento è già in grado di sanzionare le responsabilità accertate. Dai tribunali sono recentemente venute significative sentenze. mortale ma occorrono le prove Trasferimenti ingiustificati ma anche pesanti carichi di lavoro rendendo in taluni casi secondaria l’importanza del fattore uomo). Il mobbing è sempre esistito. Ma è solo negli ultimi anni che il fenomeno, che ha assunto pesantissimi costi sociali e sanitari, ha richiamato l’attenzione degli operatori. Tanto da rappresentare una materia di studi interdisciplinari, avviati con sistematicità e con rigore scientifico. È bene, tuttavia, tenere presente che perché si possa parlare, non a sproposito, di mobbing (termine importato dalla Svezia, dove per la prima volta ne è stata individuata la rilevante portata sociale), occorre la ripetitività, la reiterazione per mesi e anni da comportamenti di offesa perpetrati nei confronti dei soggetti interessati. Secondo le definizioni mediche, in pratica, si tratta di un rischio lavorativo cosiddetto “relazionale” o “interpersonale” che va sempre più diffondendosi, al punto che, secondo uno studio condotto e reso noto dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, in Italia interesserebbe attualmente il 4,2% della forza lavoro, vale a dire circa 1.000.000 di persone (dati da riferirsi agli anni dello studio 1996-97, mentre per quest’anno si fanno già proiezioni oltre 1.500.000), con conseguente grave perdita di efficienza per le aziende. Dunque, una vera e propria emergenza. “Il mobbing – afferma il professor Renato Gilioli, responsabile del Centro per il disadattamento Lavorativo, istituito da due anni presso la Clinica del Lavoro di Milano, unico centro pubblico in Italia ad occuparsi in modo specifico del problema – comporta effetti devastanti sulla salute del lavoratore e dei suoi congiunti (che sono vittime secondarie del fenomeno) provocando situazioni patologiche, il più delle volte di tipo psichiatrico, con disturbi post-traumatici da stress e disturbi dell’adattamento. Ciò spesso provoca, nel soggetto colpito, ferite psichiche non più rimarginabili nel tempo, indipendentemente dalla personalità individuale del mobbizzato”. Solo la certificazione medica può dare sostanza all’accusa Vi è da dire però che, a tutt’oggi, già esistono nel nostro ordinamento gli strumenti validi per configurare il mobbing e per tutelare il lavoratore che da esso viene colpito e vi sono state le prime pronunce di merito sul problema, applicando in modo organico la normativa in vigore, con disposizioni sparse nel sistema. Con la particolarità, tuttavia, che nel caso del mobbing viene completamente ribaltato, per il giurista, il piano di studio del fenomeno: normalmente, in ambito giuridico, se un comportamento è giuridicamente rilevante in quanto posto in essere in violazione di una norma, cioè contra legem, se ne studiano gli effetti e le conseguenze di carattere risarcitorio, in questo caso, il punto di partenza è la patologia accertata dal medico e solo in un secondo tempo se ne individuano le cause e i possibili rimedi; in buona sostanza, se lo psichiatra dichiara il lavoratore ammalato, se la causa trova origine nell’ambiente di lavoro, allora si può parlare, dal punto di vista degli operatori del diritto, di mobbing. E, in questa ottica, una definizione giuridica, anche se ancora eccessivamente generica, di mobbing si può già ricavare, dalle due pronunce di merito rese dal Tribunale di Torino (16.11.1999; 30.12.1999), che hanno sanzionato espressamente il fenomeno: “spesso nelle aziende il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore d’opera, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”. Si deve quindi trattare di comportamenti intenzionalmente mirati a una pressione psicologica e morale sul lavoratore, non occasionali e sporadici, ma predeterminati. Nel caso specifico, tuttavia, il Tribunale ha assolutamente dimenticato di esaminare in quante occasioni e per quanto tempo la ricorrente ha subito trattamenti incivili tali da configurare una condotta mobbizzante, trascurando in toto di dare rilievo a quegli elementi di ripetitività e frequenza necessari a dare sostanza al mobbing. Va anche detto che, al momento, la giurisprudenza ancora non si è pronunciata su possibili forme di mobbing perpetrate da colleghi di pari livello o, addirittura, da subalterni. E occorre poi sottolineare come già in passato i giudici in realtà si siano occupati di fattispecie configurabili come mobbing, pur senza che lo si classificasse come tale. Non è episodico, infatti, il caso di reiterate distorsioni createsi nell’ambito lavorativo, con conseguenti negative incidenze sull’individuo colpito, anche non necessariamente da parte di un gruppo, ma semplicemente ad opera di un solo soggetto: si va dalle molestie sessuali (importante sul punto la recentissima sentenza 8.1.2000 nella quale la Corte di Cassazione ribadisce come tali atti “costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l’integrità psico-fisica dei prestatori d’opera subordinati”, facendo sorgere a carico del datore di lavoro “una vera e propria responsabilità contrattuale per l’inadempimento dell’obbligo previsto dall’articolo 2087 codice civile”), esercitate abusando molto spesso di una posizione di potere, fino alla negazione completa della professionalità lavorativa, con relativo ridimensionamento e dequalificazione, oltre che con una mortificazione nelle aspettative professionali e un mancato conseguente riconoscimento della qualificazione professionale, con una palese violazione del dettato legislativo (articolo 2103 codice civile). In tali ipotesi, ovviamente, oltre all’obbligo in capo al datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nelle mansioni spettantigli, sussiste quello del risarcimento del danno alla professionalità globalmente intesa, danno che viene liquidato in via equitativa dal giudice. E tale danno, per la negazione della professionalità di una lavoratrice in seguito a comportamenti distorsivi mirati a un demansionamento, è stato riconosciuto e liquidato anche nella succitata sentenza del Tribunale di Torino 30.12.99. Condanna esemplare dei responsabili oltre a un congruo risarcimento Certo, i problemi, dal punto di vista della tutela dei diritti del lavoratore, si fanno più rilevanti quando la difesa, anziché di fronte a un licenziamento (in presenza del quale può sempre reagire, con l’impugnazione), si trova a dover riparare a una situazione di dimissioni forzose, alle quali il soggetto mobbizzato è stato costretto al culmine di anni di vessazioni e ritorsioni. Cosa fare, come reagire? Se si prova il mobbing e quindi una giusta causa, va ORDINE 10 2000 riconosciuto un risarcimento, oltre al preavviso. E, ancora, si può chiedere la reintegrazione, provando (con un onere probatorio pesante a carico del lavoratore, soprattutto in considerazione delle omertà fisiologiche ed inevitabili dei colleghi di lavoro), che le dimissioni non sono state frutto di una scelta consapevole ma determinate da un comportamento illegittimo, ai sensi dell’articolo 1434 codice civile. Spesso il Giudice, chiamato ad accertare la sussistenza di condotte e comportamenti mobbizzanti, si trova a dover valutare se il datore di lavoro non abbia nel caso di specie inciso con propri atti (trasferimenti, valutazioni, assegnazione di mansioni inferiori a quelle per le quali si è stati assunti, licenziamenti) sulla posizione del lavoratore, mosso da intenti discriminatori, di ritorsione o punitivi o per motivi irragionevoli ed illeciti, anche in considerazione dei principi cardine di buona fede e correttezza. Se da una valutazione complessiva dei comportamenti reiterati emergono connotazioni persecutorie, il giudice ha il dovere di sanzionare tali condotte. Ma anche l’impegno eccessivo richiesto a un prestatore d’opera a causa di una cattiva organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda (ad esempio, dover lavorare ininterrottamente, senza poter godere del riposo settimanale o dover lavorare con eccessivi carichi di lavoro giornalieri), va stigmatizzato, come ha ribadito la Suprema Corte in una sua recente pronuncia: l’eccessivo sovraccarico di lavoro, tale da eccedere la normale tollerabilità secondo le regole di comune esperienza, oppure un carico sproporzionato di lavoro usurante, configura una violazione degli articoli 32 (che tutela il diritto primario ed assoluto alla salute, con una norma immediatamente precettiva) e 41, comma 2 della Costituzione (che pone un limite all’iniziativa economica privata, laddove ne vieta l’esercizio con modalità tali da pregiudicare sicurezza e dignità umana), dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché un inadempimento dell’articolo 2087 codice civile (che contempla la responsabilità contrattuale del datore di lavoro e che in tale ambito va intesa come norma di chiusura dell’ordinamento a protezione del lavoratore), posto che il datore di lavoro ha l’obbligo di organizzare al meglio i carichi di lavoro e di adottare tutte le misure volte a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (Cassazione 5.2.2000 n. 1307). Risulta chiaro, perciò, quale tipo di responsabilità incomba sul datore di lavoro. Per lui non esiste solo un generico obbligo all’adozione di tutte le misure di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità e l’integrità psico-fisica del lavoratore, ma anche un espresso divieto di compiere direttamente qualsiasi azione lesiva dell’integrità del dipendente e un obbligo specifico di prevenire e scoraggiare la realizzazione di condotte potenzial- mente lesive nell’ambito del rapporto di lavoro. In sostanza, se il datore di lavoro viene a conoscenza di condotte illegittime tenute da alcuni suoi collaboratori o dipendenti nei confronti di un altro suo dipendente ha l’espresso obbligo di intervenire a tutela del soggetto vessato, anche con il licenziamento in tronco dei “mobber”, come ha riconosciuto più di una volta la giurisprudenza. Se poi, il mobbing presenta deprecabili connotazioni di maltrattamento verbale e di aggressione ingiuriosa a danno del lavoratore, lo stesso ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità o all’immagine professionale, del danno biologico per i danni alla salute e alla vita di relazione, del danno esistenziale di più recente creazione dottrinale e giurisprudenziale (da intendersi come somma di ripercussioni relazionali di segno negativo, che si concreta nella rinuncia a un facere) e del danno morale, ex articoli 2043 e 2059 codice civile, oltre a sconfinare addirittura nel reato di ingiurie. Tra le più recenti pronunce, in merito, si segnala, tra le altre, la sentenza n. 11727 del 18.10.99 nella quale i giudici hanno riconosciuto un danno esistenziale conseguente a un ipotesi accertata di demansionamento del lavoratore. In questa lettura combinata delle disposizioni del nostro ordinamento, bisogna tenere presenti anche gli articoli 1175 e 1375 codice civile, che prevedono i principi fondamentali della buona fede e correttezza, nonché tutte le norme antidiscriminatorie, in particolare gli articoli 2, 3, 4, 13, 35 ultimo comma, 37, comma 1, 39, 46 della nostra carta costituzionale, gli articoli 8, 15 e 19 dello Statuto dei Lavoratori, le leggi 903/1977, 125/1991, 135/1990 e tutte le norme internazionali e comunitarie in tema di divieto di discriminazione sul luogo di lavoro. In pratica, laddove si accerta un nesso di causalità tra condotta mobbizzante e lesione, il relativo danno psichico (che dal punto di vista medico non è mai effetto di una sola causa, ma di una serie di concause o fattori di rischio), va riconosciuto come malattia professionale. Sul piano penale, d’altra parte, i reati direttamente collegati al mobbing e ravvisabili nei diversi casi, possono ricomprendere molte fattispecie: dalle lesioni personali alle molestie sessuali, dall’abuso di ufficio alla violenza privata, spesso con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di autorità, di relazioni d’ufficio o di prestazione d’opera. Attenti: se manca la prova si rischia il licenziamento È bene, altresì, rilevare, che, accanto a condotte tipiche, configurabili già come comportamenti tenuti in violazione di ben precise disposizioni di legge, e quindi già immediatamente stigmatizzate dal nostro ordinamento (licenziamenti, demansionamenti, mancata osservanza dei comportamenti di reintegra del giudice), esiste ancora una serie numerosissima di condotte cosiddette atipiche, più subdole e striscianti, non immediatamente sanzionate e difficilmente sanzionabili, se non accompagnate da altre condotte tipiche, per la difficoltà stessa per il giudice di accertare il danno effettivamente arrecato al lavoratore (ad esempio, l’eccessivo numero di visite fiscali richieste, il controllo esasperato del tempo trascorso alla macchina del caffè o al telefono etc.); queste ultime, difficilmente connotabili giuridicamente, oltre ad essere certamente espressione dell’autorità del datore di lavoro, possono anche essere tenute da colleghi pari grado o addirittura subalterni e possono comunque causare gravi danni al lavoratore, se trascendono la normale tollerabilità e se vengono protratte con una certa frequenza e un’esasperata ripetitività. Solo in tal modo, un comportamento atipico con connotati persecutori e/o vessatori, espressione fisiologica di ogni aggregazio- ne sociale, può acquisire rilevanza giuridica. Ma, se oggi in tanti rivendicano di essere stati mobbizzati per lungo tempo dal datore di lavoro, la Corte di Cassazione avverte: sono da evitare in ogni caso le esasperazioni e le accuse infondate; infatti, “un’accusa non provata di mobbing giustifica la comminazione di un licenziamento per giusta causa, per violazione dello stesso rapporto di fiducia lavoratore-datore di lavoro” (Cassazione 8.1.2000 n. 143). In breve, muovere un’accusa di mobbing, significa essere in grado “per il lavoratore di provare gli elementi essenziali della fattispecie. Al punto che, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà sempre presenti, o per altre ragioni, non è chi non veda che la mancata acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che hanno determinato la lesione dedotta e gli effetti che si asserisce essere derivati, impedisce al giudice l’accoglimento della domanda” (Cassazione citata). In buona sostanza, attenzione: un’accusa non provata di mobbing costituisce un motivo legittimo di risoluzione del rapporto di lavoro. Luisella Nicosia, avvocato in Milano 13 (21) Il disegno di legge concernente Il provvedimento in pillole “Delega al governo in materia CRITERI GENERALI • Delega a realizzare la riforma delle professioni intellettuali entro diciotto mesi • Accesso libero alle professioni, senza predeterminazione numerica • Garantire un’adeguata tutela del cliente e degli interessi pubblici • Possibilità di attività pubblicitaria • Assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile del professionista o della società professionale di professioni intellettuali” approvato il 10 novembre dal Consiglio dei ministri PROFESSIONI REGOLAMENTATE • Esame di Stato, iscrizioni in Albi o elenchi, vigilanza da parte di Ordini e Collegi • Attività professionali riservate nei soli casi di legge • Nuova disciplina per il tirocinio e per l’esame di Stato in modo da garantire l’uniforme valutazione su base nazionale dei candidati • Previsione di corrispettivi minimi e massimi per la prestazione entro i quali viene fissato il costo effettivo • Ammissione della pubblicità con carattere informativo • Mantenimento dell’organizzazione in Ordini o Collegi connotati come enti pubblici non economici dotati di autonomia patrimoniale • Prevedere che il potere disciplinare sugli iscritti sia esercitato da organi nazionali e locali con competenza distrettuale • Delega per l’emanazione di Testi unici di riordino delle professioni Gli Ordini (compreso il nostro) e i Collegi salvati dal Governo, ma non ne nasceranno di nuovi Per i professionisti ammessa la pubblicità Art. 1 - (Delega al Governo in materia di professioni intellettuali) 1. Il Governo è delegato ad emanare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto la disciplina delle professioni intellettuali e delle rispettive forme organizzative, in coerenza con le direttive comunitarie e nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi della presente legge. 2. Gli schemi di decreti legislativi di cui al comma 1, nonché di regolamenti previsti dalla presente legge, sono emanati sentiti gli ordini e collegi professionali interessati e le associazioni delle professioni non regolamentate rappresentate nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nonché previo parere delle competenti commissioni parlamentari. Gli avvisi ed i pareri sono resi nel termine di trenta giorni dalla ricezione degli schemi stessi, decorso il quale i decreti legislativi ed i regolamenti sono comunque emanati. 3. Entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti di cui al comma 1 possono essere emanati decreti correttivi e integrativi di questi ultimi con le modalità di cui al comma 2, nel rispetto dei medesimi principi e criteri direttivi indicati nella presente legge. 4. Per l’adozione delle disposizioni di attuazione dei decreti legislativi di cui al comma 1, nonché delle disposizioni volte a coordinare con detti decreti la normativa già vigente, il Governo è autorizzato ad emanare regolamenti anche ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con le modalità di cui al comma 2. Art. 2 - (Principi e criteri generali di disciplina delle professioni intellettuali) 1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 il Governo disciplina le modalità generali di esercizio delle professioni intellettuali e di accesso alle medesime, con le diversificazioni necessarie in relazione alla specificità delle singole tipologie professionali, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi e fatti salvi i criteri specifici riguardanti le professioni regolamentate, di cui agli articoli 3 e 4: a) prevedere che l’accesso sia libero, in conformità al diritto comunitario, senza vincoli di predeterminazione numerica se non per le professioni aventi quale oggetto caratterizzante l’esercizio di funzioni pubbliche; b) assicurare, qualunque sia il modo o la forma, anche associativa, di esercizio della professione, un’adeguata tutela del cliente e degli interessi pubblici connessi al corretto e legale esercizio della professione medesima, la correttezza e la qualità delle prestazioni, il rispetto delle regole deontologiche, la salvaguardia dell’autonomia del professionista nelle scelte inerenti lo svolgimento della propria attività, la diretta e personale responsabilità del professionista incaricato per l’adempimento della prestazione professionale nonché per il danno ingiusto derivante dalla prestazione stessa; c) dare attuazione ai principi del pluralismo e della libertà di scelta del cliente, distinguendo la disciplina dell’esercizio della professione da quella dell’attività di impresa, comunque nel rispetto dei principi nazionali e comunitari a tutela della concorrenza, come affermati dagli articoli 81 e seguenti del trattato istitutivo della Comunità europea e successive modificazioni; d) consentire la pubblicità; e) prevedere che il corrispettivo della prestazione professionale sia fissato con determinazione consensuale delle parti, garantendo il diritto del cliente alla preventiva indicazione dei criteri di determinazione; f) prevedere l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile del singolo professionista ovvero della società professionale, conseguente ai danni causati nell’esercizio dell’attività professionale, tale da assicurare l’effettivo risarcimento del danno, anche in caso di attività professionale svolta da dipendenti professionisti; 14 (22) g) introdurre, al fine di assicurare la corretta informazione del cliente e tutelarne la buona fede, l’obbligo per il professionista di specificare la situazione aggiornata del proprio stato con riferimento all’appartenenza ad ordini o collegi ovvero ad associazioni di cui all’articolo 9. Art. 3 - (Principi e criteri generali speciali per l’accesso alle professioni intellettuali regolamentate) 1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il Governo disciplina le specifiche modalità di accesso alle professioni intellettuali attualmente regolamentate, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi e con le diversificazioni necessarie in relazione alla specificità delle singole tipologie professionali: a) prevedere l’esame di Stato per l’abilitazione professionale, l’iscrizione in Albi o elenchi, la vigilanza su questi ultimi di Ordini o collegi professionali di cui all’articolo 6, nei limiti e nella misura in cui tali requisiti sono previsti dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, senza che dalla natura di professione regolamentata derivi una riserva di attività professionale a favore degli iscritti agli Ordini o collegi, se non nei casi di cui alla lettera b); b) nell’ambito delle professioni regolamentate limitare le attività professionali riservate a determinati professionisti ai soli casi in cui tale riserva è prevista dalle disposizioni di legge vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge; c) disciplinare l’esame di Stato per l’abilitazione professionale in modo da garantire l’uniforme valutazione dei candidati su base nazionale e la verifica oggettiva del possesso delle competenze tecniche necessarie, tenendo conto della specificità delle singole professioni; prevedere che le commissioni giudicatrici siano composte secondo canoni di imparzialità e di adeguata qualificazione tecnica, limitando la presenza di membri designati dagli Ordini e collegi professionali a non oltre la metà dei componenti e garantendo, in caso di esami in sede locale, che detti membri, se iscritti allo stesso Ordine o collegio, siano iscritti ad Albi o elenchi territoriali diversi da quelli di riferimento dell’esame di Stato; d) disciplinare il tirocinio professionale, ove previsto, secondo modalità che garantiscano effettività e flessibilità dell’attività formativa, un equo compenso commisurato all’effettivo apporto del tirocinante all’attività dello studio professionale, forme alternative di tirocinio, di carattere pratico o con la frequenza a corsi specialistici riconosciuti dal Ministero competente, assicurandone una durata omogenea; possibilità di effettuare il tirocinio, anche in parte, all’estero e nelle eventuali forme alternative, contemporaneamente agli studi necessari per il conseguimento del titolo professionale, garantendo in ogni caso lo studio dei fondamenti teorici e deontologici della professione. Nei testi unici la nuova mappa degli Ordini Art. 4 - (Principi e criteri speciali relativamente ad alcuni aspetti dell’esercizio di professioni intellettuali regolamentate) 1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 il Governo, con riferimento alle professioni regolamentate di cui all’articolo 3, disciplina la materia dei corrispettivi e della pubblicità, tenendo conto delle disposizioni e delle decisioni comunitarie adottate in materia e del diritto del cliente ad una prestazione professionale qualitativamente adeguata nonché attenendosi ai seguenti principi e criteri specifici rispetto a quanto previsto dall’articolo 2: a) prevedere che il corrispettivo della prestazione professionale sia fissato con determinazione consensuale delle parti, ai sensi del comma 1, lettera e), dell’articolo 2, salvo quanto previsto dalle lettere b) e c) del presente articolo; b) individuare i casi in cui, a tutela del cliente, sono fissati i corrispettivi massimi delle prestazioni professionali, che devono essere rispettati dalle parti; c) individuare i corrispettivi minimi che devono essere rispettati dalle parti per le prestazioni professionali, nonché i corri- spettivi che devono essere applicati dalle parti per le prestazioni imposte, in modo tale che i predetti corrispettivi siano rapportati al costo della prestazione, comprensivo delle spese e del compenso del professionista; d) affidare a decreti del Ministro competente, adottati su proposta di commissioni istituite dal Ministro medesimo, con la partecipazione in percentuale minoritaria di esperti designati dagli Ordini e collegi professionali interessati, la fissazione dei casi e dei corrispettivi di cui alle lettere b) e c); e) prevedere che la pubblicità abbia carattere informativo, con riferimento alle oggettive caratteristiche delle prestazioni offerte ed al percorso formativo e professionale, anche di specializzazione, del professionista. 2. In via transitoria e fino all’adozione dei decreti di cui alla lettera d), restano applicabili le disposizioni, vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge, che prevedono tariffe professionali. Art. 5 - (Principi e criteri in materia di società di professionisti) 1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il Governo prevede che le professioni intellettuali possano essere esercitate individualmente ovvero in associazione ovvero in società, queste ultime costituite come segue: a) relativamente alle professioni non regolamentate, secondo i tipi di cui all’articolo 2249 del codice civile o secondo il tipo di società professionale di cui al comma 3; b) relativamente alle professioni regolamentate, secondo il tipo di società professionale di cui al comma 3. 2. È comunque consentita la costituzione di società ai sensi dell’articolo 2249 del codice civile, anche con soci che conferiscono mero capitale, per l’esercizio di servizi, come definiti dalla direttiva 92/50/CE o da altre disposizioni comunitarie, implicanti prestazioni professionali regolamentate di cui all’articolo 3, salvi i limiti derivanti dalla disciplina delle attività riservate e salvo il disposto del comma 5. 3. La società professionale di cui al comma 1 lettera b) è disciplinata, come tipo autonomo e distinto da quelli previsti dall’articolo 2249 del codice civile, nel rispetto dei principi della presente legge e secondo i seguenti criteri: a) prevedere l’obbligo dell’uso della denominazione “società professionale”, con la precisazione in essa dell’attività professionale esercitata; b) limitare l’oggetto sociale all’esercizio di attività professionale o multiprofessionale, con i limiti derivanti dalle attività riservate, e riservare la partecipazione societaria nonché le cariche sociali a soci professionisti; c) prevedere che il conferimento dei soci professionisti possa consistere nella prestazione professionale ovvero in detta prestazione unitamente a capitale, anche sotto forma di apporto di clientela; d) prevedere che la quota sociale possa essere rappresentata, quando sussistano specifiche esigenze in tal senso, anche da titoli partecipativi; e) prevedere che delle prestazioni contratte dalla società professionale risponda illimitatamente il socio professionista che ha eseguito la prestazione professionale o che ha agito in nome della società nonché, in solido, la società professionale; f) prevedere la sottoposizione della società, nei casi di società aperta a soci esercenti professioni intellettuali diverse, alle disposizioni riguardanti le diverse professioni rilevanti, con modalità tali da coordinare le norme sostanziali e procedimentali che regolano i diversi profili di responsabilità, anche disciplinare; g) prevedere limitazioni alla partecipazione alle società professionali ove detta partecipazione porti a situazioni di conflitto di interessi o di elusione delle incompatibilità fissate dalla legge; h) disciplinare l’iscrizione, con gli opportuni adattamenti e a pena di scioglimento, delle società professionali, in apposite sezioni degli Albi professionali relativi alle professioni intellettuali esercitate e prevedere specifica responsabilità disciplinare delle società stesse per i profili loro ascrivibili, ferme restando l’iscrizione e la responsabilità disciplinare, anche concorrente, dei singoli professionisti; ORDINE 10 2000 ASSOCIAZIONI • Possibilità di costituire libere associazioni di professionisti su base volontaria, di natura privatistica e nel rispetto della libera concorrenza • Possibilità di rilascio di attestati di competenza • Previsione di una registrazione presso il ministero della Giustizia delle associazioni professionali che rilasciano attestati di competenza SOCIETÀ PROFESSIONALI • Costituzione come società professionali o in base all’articolo 2249 del Codice civile per le professioni non regolamentate • Costituzione come società professionali per le professioni regolamentate • “Salvataggio” delle società di ingegneria • La società professionale dovrà: usare la denominazione “società professionale”, riservare partecipazioni e cariche ai soci professionisti, prevedere che delle prestazioni risponda il socio professionista, disciplinare l’iscrizione in apposite sezioni degli Albi professionali relativi alle professioni esercitate (da “Il Sole 24 Ore on-line”) i) prevedere il diritto di prelazione a favore dei soci professionisti e di gradimento da parte di una maggioranza qualificata di questi ultimi nei confronti del nuovo socio in caso di cessione di partecipazioni nella società professionale, nonché del diritto di riscatto a favore degli altri soci della partecipazione societaria del socio escluso o deceduto; l) disciplinare l’attività della società professionale in modo che, in caso di affidamento dell’incarico a quest’ultima, siano garantiti il diritto del cliente di scegliere il professionista incaricato della prestazione professionale e la responsabilità diretta di quest’ultimo; prevedere che, in caso di mancata scelta del professionista, sia comunicato al cliente, prima dell’esecuzione della prestazione, il nominativo del professionista incaricato, con conseguente responsabilità disciplinare della società, in difetto di idonea comunicazione; assicurare comunque l’individuazione certa del professionista autore della prestazione; m) qualificare, ai fini tributari e previdenziali, il reddito dei professionisti, derivante dalla partecipazione all’attività della società professionale, con riguardo alla natura del conferimento nella società; n) individuare le informazioni che il professionista, anche in deroga alla normativa sul segreto professionale, è tenuto a fornire alla società alla quale partecipa sullo svolgimento dei propri incarichi; o) disciplinare in maniera autonoma le situazioni di insolvenza della società professionale con esclusione della sottoposizione a fallimento. 4. Sono fatte salve le disposizioni vigenti in materia di società di ingegneria di cui alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni, e le disposizioni emanate in attuazione delle direttive comunitarie ed in particolare dell’articolo 19 della legge 21 dicembre 1999, n. 526. 5. Il professionista che a qualunque titolo svolge attività professionale intellettuale per conto delle società di cui al presente articolo è soggetto alla disciplina propria dell’attività professionale medesima. Questa ultima e gli atti in cui essa si estrinseca sono direttamente imputabili al professionista che ne è autore e ne risponde in solido con la società. 6. Eventuali disposizioni, necessarie ai fini del coordinamento tra le norme emanate sulla base del presente articolo e altre normative già vigenti, sono adottate ai sensi del comma 4 dell’articolo 1 della presente legge. g) demandare agli Ordini e collegi nazionali compiti di indirizzo e coordinamento degli Ordini e collegi locali ed in particolare il controllo sulle elezioni di questi ultimi; h) prevedere come compiti degli organi professionali locali, con riferimento agli iscritti: la tenuta aggiornata dell’Albo o dell’elenco; l’esercizio della vigilanza disciplinare; l’adozione di iniziative volte alla formazione e all’aggiornamento professionali; la continua verifica della permanenza dei requisiti per il corretto esercizio dell’attività professionale degli iscritti; la vigilanza sul rispetto delle regole deontologiche. Art. 6 - (Principi e criteri in materia di ordini e collegi professionali) 1. Nell’attuazione della delega di cui all’articolo 1 il Governo provvede a disciplinare l’organizzazione degli Ordini e collegi professionali, sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi: a) mantenere, per le professioni regolamentate di cui all’articolo 3, l’organizzazione in Ordini o collegi professionali cui spetta la tenuta degli Albi o elenchi, la disciplina degli iscritti, nonché la tutela degli interessi pubblici connessi all’esercizio delle professioni stesse; b) connotare gli Ordini e collegi professionali come enti pubblici non economici dotati di autonomia patrimoniale, finanziaria e di autorganizzazione, soggetti alla vigilanza del Ministero competente, nel rispetto dei principi fissati dalla presente legge e dai decreti legislativi di attuazione, nonché dalle altre leggi dello Stato; c) prevedere che l’obbligo di versamento da parte degli iscritti dei contributi determinati dagli Ordini e collegi, nazionali e locali, di appartenenza, sia limitato alla misura necessaria all’espletamento delle funzioni specificamente demandate all’Ordine o al collegio; d) disciplinare, anche con rinvio a regolamenti ministeriali, i meccanismi elettorali per la nomina a cariche degli Ordini e collegi professionali, intesi a garantire la trasparenza delle procedure, la tutela delle minoranze, nonché l’individuazione dei casi di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza, il diritto di voto e l’elettorato attivo e passivo degli iscritti, la durata temporanea delle cariche ed i limiti di rinnovo delle stesse; e) prevedere l’articolazione territoriale degli Ordini e collegi professionali in organi nazionali e locali, secondo criteri tendenzialmente uniformi, tenuto conto delle specifiche necessità delle singole professioni e ferma restando l’estensione dell’abilitazione all’esercizio della professione a tutto il territorio nazionale, salve le limitazioni volte a garantire l’esercizio di funzioni pubbliche; f) prevedere l’attribuzione agli Ordini e collegi professionali nazionali, della vigilanza sugli organi locali, nonché del potere di adottare atti sostitutivi in caso di inerzia di questi ultimi esclusivamente in presenza di rilevante interesse pubblico generale e previa diffida; demandare agli Ordini e collegi nazionali l’adozione del codice deontologico nazionale, nonché l’eventuale competenza di secondo grado sui provvedimenti disciplinari dell’Ordine locale; affidare loro l’adozione di misure idonee ad assicurare la completa informazione del pubblico in materia di prestazioni professionali, anche mediante la diffusione delle relative norme tecniche, per promuovere la formazione professionale, la cultura della qualità nonché il monitoraggio del mercato delle prestazioni e la ricognizione dei contenuti tipici delle prestazioni medesime; ORDINE 10 2000 Art. 7 - (Principi e criteri in materia di codice deontologico e potere disciplinare) 1. Nell’attuazione della delega il Governo di cui all’articolo 1, con specifico riferimento all’emanazione di codici deontologici di categoria e al potere disciplinare degli ordini e collegi nei confronti degli iscritti, si attiene in particolare ai seguenti principi e criteri generali: a) fissare criteri e procedure di adozione, da parte di ciascuno degli organi nazionali, di un codice deontologico professionale, al fine di tutelare gli interessi pubblici del corretto esercizio della professione e comunque coinvolti nell’esercizio della professione stessa, nonché di indirizzare quest’ultima a fini sociali, di tutelare l’affidamento e la libera scelta del cliente, di assicurare la qualità della prestazione professionale, nonché l’adeguata informazione sui contenuti e le modalità di esercizio della prestazione professionale; b) prevedere che il potere disciplinare sugli iscritti agli Ordini e collegi professionali sia esercitato da organi nazionali e locali con competenza distrettuale, che mantengono natura giurisdizionale ove attualmente prevista, distinti dagli organi gestionali degli Ordini e collegi medesimi e composti da professionisti con modalità idonee ad assicurare adeguata rappresentatività, imparzialità ed indipendenza; prevedere in particolare che in sede locale i componenti delle commissioni disciplinari iscritti all’Ordine o collegio professionale non La riforma riguarda 5 milioni di persone ROMA, 11 novembre. Il Consiglio dei ministri ha approvato, ora la parola passa al Parlamento per una corsa contro il tempo: il riordino degli Ordini professionali, messa a punto dal ministro della Giustizia Piero Fassino, potrebbe essere l’ultima grande riforma del centrosinistra. La legge darebbe due anni al governo che verrà per disciplinare le professioni. Si tratta di una riforma necessaria, attesa da molti e per molti anni che prevede una mini rivoluzione per 26 Albi che rappresentano un milione e mezzo di professionisti e che resteranno tutti in vita, mentre non ne nasceranno di altri. Un mondo complesso attorno al quale orbitano anche tre milioni di precari, tirocinanti, giovani e meno giovani in cerca di un futuro spesso blindato. Ieri il disegno di legge proposto da Fassino ha segnato una nuova strada per tutto il mondo della professioni. Si va dalla liberalizzazione dell’accesso, alla “adeguata tutela degli utenti e degli interessi pubblici”. Nel documento si parla poi di “pluralismo professionale e libertà di scelta da parte del cliente; trasparenza nella pubblicità delle caratteristiche delle prestazioni, a tutela del cliente. Sostituzione delle attuali tariffe con un sistema di corrispettivi fondati sull’effettivo costo delle prestazioni”. Tra i punti più controversi della difficile ricerca di un equilibrio, di un accordo con il Cup, il comitato che riuni- sce tutti gli Ordini d’Italia, resta “la possibilità di esercitare la professione sia individualmente, sia con la costituzione di società professionali secondo tre modalità...”. La parte più innovativa, e quella destinata a suscitare le maggiori polemiche, riguarda la possibilità di formare società di capitali anche con soci non professionisti e senza il tetto del 25% come in primo tempo ipotizzato. Lo schema di Fassino prevede tre soluzioni. Prima: società di soli professionisti senza capitale (potranno mettersi insieme commercialisti, avvocati, architetti, etc.) per le attività regolamentate (iscrizione all’Albo previo esame di Stato) con esclusione per le società di ingegneria come previsto dalla legge Merloni che rientrano così nel terzo schema. Seconda: società, anche con partecipazione di capitale, per tutte le attività professionali “non regolamentate” dagli Albi ma dalle associazioni. Terza: società di capitale per l’esercizio di servizi “implicanti prestazioni professionali regolamentate e non, salvo i limiti previsti per le attività riservate come i medici e i notai. Altri aspetti importanti sono la sostituzione delle tariffe minime con un sistema di corrispettivi basati sull’effettivo costo delle prestazioni e stabiliti da un un’autorità terza. (“Corriere della Sera”, “la Repubblica”,“La Stampa”) appartengano allo stesso Ordine o collegio locale cui appartiene l’incolpato, eventualmente con lo spostamento della competenza a conoscere del procedimento disciplinare; c) prevedere regole procedurali per l’efficace esercizio dell’azione disciplinare e per favorire la celere conclusione del procedimento, nonché la coerenza con i principi del contraddittorio e del giusto procedimento; d) consentire l’impugnazione avanti gli organi nazionali dei provvedimenti degli organi locali e l’esperibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti degli Ordini e collegi nazionali; e) prevedere l’intervento nel procedimento disciplinare del pubblico ministero o del Ministro competente alla vigilanza, rispettivamente ove si tratti di procedimento giurisdizionale o meno, nonché l’esercizio, in via sostitutiva, dell’azione disciplinare da parte del predetto Ministero nei casi in cui vi sia inerzia dell’ordine o collegio competente; f) prevedere, in casi di particolare gravità o di reiterata violazione di legge, il potere del Ministro competente di sciogliere, sentiti gli ordini nazionali, i consigli degli Ordini o dei collegi territoriali nonché di proporre al Consiglio dei Ministri lo scioglimento dei consigli degli ordini o dei collegi nazionali; g) prevedere, anche con riferimento all’articolo 6, il rinvio a regolamenti ministeriali, le norme procedurali idonee a garantire il corretto svolgimento delle funzioni attribuite agli Ordini e collegi, nella loro articolazione sia nazionale sia locale. Art. 8 - (Principi e criteri in materia di testi unici di riordino delle professioni regolamentate esistenti) 1. Il Governo è delegato ad emanare, con le modalità previste dall’articolo 1, testi unici di riordino delle disposizioni vigenti in materia di professioni regolamentate, attenendosi ai principi e criteri direttivi della presente legge nonché ai seguenti: a) riordinare le attività delle singole professioni, con eventuali accorpamenti degli Ordini e collegi interessati, tenendo conto in particolare della compatibilità con le esigenze di circolazione dei titoli di studio presupposti all’esercizio delle professioni nell’ambito dell’Unione europea, nonché delle disposizioni comunitarie in materia di libere professioni; b) perseguire una tendenziale uniformità, ove non incompatibile con il rispetto delle specificità delle singole professioni, delle disposizioni applicabili a ciascuna professione a seguito della adozione dei testi unici stessi; c) rinviare a regolamenti da emanare a norma dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, la disciplina degli aspetti organizzativi e procedimentali; d) effettuare la puntuale individuazione del testo vigente delle norme; e) esplicitare le norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni; f) procedere al coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo; g) esplicitare quali disposizioni non inserite nel testo unico restano comunque in vigore; h) dichiarare l’abrogazione delle rimanenti disposizioni, non richiamate, che regolano la materia oggetto di delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico. 2. Dalla data di entrata in vigore del testo unico sono comunque abrogate le norme che regolano la materia oggetto di delegificazione, non richiamate ai sensi della lettera g) del comma 1; 3. Al fine di consentire una contestuale compilazione delle disposizioni legislative e regolamentari riguardanti una medesima professione, il Governo è autorizzato, nell’adozione dei testi unici di cui al comma 1, ad inserire nel medesimo testo unico, con adeguata evidenziazione, le norme sia legislative sia regolamentari vigenti per ciascuna professione. Art. 9 - (Principi e criteri in materia di associazioni professionali) 1. Nell’attuazione della delega di cui all’articolo 1 il Governo provvede inoltre a disciplinare, ferme restando le competenze di legge degli ordini e collegi professionali, le associazioni di esercenti professioni intellettuali sulla base dei seguenti principi e criteri direttivi: a) garantire la libertà di costituire libere associazioni di professionisti, di natura privatistica, fondate su base volontaria, senza vincolo di esclusiva e nel rispetto della libera concorrenza; b) prevedere la registrazione presso il Ministero della giustizia, sentito il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, delle associazioni professionali che svolgono l’attività di cui alla lettera c), richiedendo che gli statuti e le clausole associative delle medesime associazioni garantiscano la trasparenza delle attività e degli assetti associativi, la dialettica democratica tra gli associati, l’osservanza di principi deontologici, una struttura organizzativa e tecnico-scientifica adeguata all’effettivo ed oggettivo raggiungimento delle finalità dell’associazione; c) prevedere, relativamente alle professioni intellettuali non regolamentate, anche in riferimento alle direttive 89/48/UE e 92/51/UE, che le associazioni di cui alla lettera b) possano rilasciare attestati di competenza riguardanti la qualificazione professionale, tecnico-scientifica e deontologica, in ogni caso assicurando che le eventuali certificazioni richieste dalle predette associazioni per tutti o parte degli associati abbiano carattere oggettivo e provengano da soggetti terzi professionalmente qualificati; d) prevedere, nel disciplinare le associazioni di cui alla lettera b), modalità idonee ad escludere incertezze in ordine alle funzioni rispettivamente attribuite dalla legge agli ordini e collegi professionali ed alle associazioni di professionisti; e) prevedere anche per le associazioni di professioni intellettuali regolamentate, i cui statuti e le cui clausole associative rispondono ai requisiti di cui alla lettera b), la facoltà di richiedere la registrazione presso il Ministero della giustizia al fine dell’identificazione tecnico-professionale dei propri associati, comunque senza pregiudizio per la concorrenza e senza effetti restrittivi sull’esercizio della professione. 15 (23) A Bologna, confronto internazionale su presente e futuro d Il giornalista naufrago nella babele di Gino Banterla Quali sono le prospettive dei media alle prese con l’accelarazione del progresso tecnologico e con la globalizzazione economico-culturale? In un momento di smarrimento collettivo i giornalisti, epigoni di quello che fu il Quarto Potere, non riescono a trovare risposta. Tantopiù se discutono di “Informazione, conoscenza, verità”, tema altisonante e seducente sul quale peraltro già dibattevano gli storici e i filosofi dell’antichità greca e romana, ma che dopo duemila anni (e nonostante si siano affacciati nel frattempo sul palcoscenico della storia Gutenberg, radio, televisione e Internet) lascia aperti gli stessi interrogativi. Sull’argomento si sono confrontati all’Università di Bologna, il 29 e 30 ottobre scorsi, semiologi, premi Nobel, direttori di quotidiani e telegiornali, star varie del giornalismo. Umberto Eco, il padrone di casa, ha provato a tirar le fila dei numerosi inteventi. Ma alla fine una risposta esaustiva alle domande non c’è stata. Anzi, dal convegno organizzato dall’Académie universelle des cultures, dalla Scuola superiore di studi umanistici e da Bologna 2000, è venuta la conferma che siamo immersi in una babele informativa nella quale è sempre più difficile orientarsi. Il rischio di abdicazione da parte degli “operatori” di un servizio fondamentale per le democrazie moderne si fa sempre più concreto, proprio ora che il progresso mette a loro disposizione mezzi di comunicazione rivoluzionari. Proprio ora che possiamo sapere in un istante, atraverso il suono, l’immagine, la parola, quanto accade negli angoli più remoti del pianeta. Elie Wiesel, Nobel per la pace 1986 e presidente dell’Académie, ha detto: “Oggi siamo in grado di sapere tutto e subito. Con l’affermarsi di Internet l’individuo è esposto a una valanga d’informazioni così diverse, così numerose, che è praticamente impossibile assorbirle e soprattutto gestirle. Improvvisamente l’informazione non è più una carta vincente. Essere troppo informati significa essere male informati”. Ecco il nocciolo del problema. L’informazione non deve essere fine a se stessa, come sta accadendo ora, bensì va considerata nel complesso dei bisogni insopprimibili dell’individuo. Essa infatti è la base della conoscenza, è un mezzo, non un fine. “L’informazione tratta nomi, fatti, date, numeri, mentre la conoscenza è legata al senso che ne deriva”, ha continuato Wiesel. “L’informazione usa i criteri della comunicazione, la conoscenza quelli della metafisica. In altre parole: io mi servo dell’informazione, ma aspiro alla conoscenza. E qual è il fine di quest’ultima? Lo sappiamo tutti: è la verità”. Elie Wiesel Lucia Annunziata Eugenio Scalfari Gad Lerner Furio Colombo Umberto Eco Eugenio Scalfari: la verità non esiste Il rapporto perverso quotidiani-televisione Si scivola inevitabilmente nel campo filosofico. Dovere del giornalista è dare un’informazione il più possibile obiettiva di un avvenimento, in modo da fornire al lettore o al telespettatore tutti gli elementi che gli consentano perlomeno, per il tramite della conoscenza, di avvicinarsi alla verità. Anche se è vero, come ha detto Roger de Weck, direttore di “Die Zeit”, che il giornalista oggi “cerca la verità, mentre i media mettono in scena la verità. E ad averla vinta sono i media”. Provocatorio l’intervento di Eugenio Scalfari: “Questo è un problema che ci ponevano anche dieci o vent’anni fa, prima di Internet. La verità però, va detto subito, non esiste. Mi spiego. In cinquant’anni di carriera sono sempre stato portatore di una verità, la mia. In questo ero fondamentalista perché, credendo di essere io nel vero, ritenevo che chi non la pensava come me non lo fosse. Ho tentato per tutta la vita di convertire gli altri alla mia verità. In realtà esiste il verosimile, non il vero. Ciascuno di noi guarda dal suo punto di vista: se io osservo un volto di profilo lo vedo diversamente da chi lo guarda di faccia, se osservo dal basso o da sinistra non vedo la stessa cosa di chi guarda dall’alto o da destra”. Secondo il fondatore di “Repubblica” chi guida un giornale ha l’obbligo morale di dire in maniera continuativa ai suoi lettori, e non soltanto quando firma il primo editoriale, da quale punto di vista egli osservi la realtà. Sarà poi il lettore a trarre le conclusioni e a costruirsi una sua opinione. “Purtroppo ciò non accade”, ha aggiunto Scalfari. “I maggiori giornali, non soltanto italiani, si vantano di non avere pregiudiziali. Il che equivale ad esibire una patente di onnipotenza e di onnipresenza. Cioè: io ti vedo da tutti i punti di vista, quindi sono imparziale. Questo è non solo falso, ma materialmente impossibile. Naturalmente, una volta scelto il punto di vista, cioè la linea del giornale, io giornalista devo raccontare tutto ciò che vedo e capisco. Perché se, oltre ad essere già in un certo senso parziale, pratico su ciò che vedo censure oppure agginte, beh, allora cado nella sfera della scorrettezza”. Oggi nel campo dell’informazione assistiamo a una sorta di mercato delle verità nel quale, secondo il poeta estone Jaan Kaplinski, ci sono più risposte che domande, con la conseguenza che la libertà d’opinione si riduce “a libertà di scelta, come quando si compila un questionario”. In questo stesso Prendiamo per esempio il perverso rapporto tra i quotidiani e la televisione. Umberto Eco ha così analizzato il problema: “In Italia se un uomo politico vuole che una sua dichiarazione appaia e sia vastamente commentata sulla stampa, deve creare una provocazione televisiva. Il mondo politico fissa l’agenda delle priorità giornalistiche affermando qualcosa alla tv (addirittura facendo sapere che lo affermerà), e la stampa il giorno dopo non parla di quel che è accaduto nel paese ma di quel che ne è stato detto o sarebbe potuto essere stato detto in tv. La stampa, per attirare il pubblico della televisione, ha imposto la tv come spazio politico privilegiato, pubblicizzando oltre misura il proprio concorrente naturale. La stampa che parla della televisione è come un’automobile Fiat che porti costantemente impresso sul cofano: acquistate Renault”. E che dire della vecchia intervista, cara a generazioni di giornalisti? “Intervistare vuol dire regalare il proprio spazio a qualcuno per fargli dire quello che vuole lui”, è il pensiero di Eco. “Pensate solo a quel che accade quando un autore pubblica un libro. Il lettore si attende dalla stampa un giudizio e un orientamento, e si fida dell’opinione di un critico noto o della serietà della testata. Ma oggi un giornale si ritiene battuto se non riesce ad avere prima di tutto, con quell’autore, un’intervista. Che cos’è un’intervista con l’autore? Fatalmente, autopubblicità. Rarissimo che l’autore affermi di aver scritto un libro ignobile. È consueto un ricatto implicito all’autore. Se non concedi l’intervista, non faremo neppure la recensione; ma spesso il giornale, pago dell’intervista, dimentica la recensione. In ogni caso il lettore è stato defraudato; la pubblicità ha preceduto o sostituito il giudizio critico e spesso il critico, quando finalmente scrive, non discute più il libro, ma quello che l’autore ne ha detto nel corso delle varie interviste”. Altra contraddizione della stampa italiana: la ricerca dello scoop ad ogni costo. “Si dice che un cane che morde un uomo non è una notizia, mentre lo è un uomo che morde un cane”, ha detto ancora Umberto Eco. “Non è del tutto vero, perché se improvvisamente, in una certa zona, troppi cani mordono gli uomini, siamo di fronte a un fenomeno di cui si dovrebbe parlare. Ma anche la notizia dell’uomo che morde il cane diventa uno scoop se è inconsueta. Troppi scoop si annullano l’un l’altro in un rumore di fondo”. Il perché di questa situazione è stato così 16 (24) mercato ci sono spesso grandi verità che contraddicono piccole verità, come ha spiegato Furio Colombo: “No alla clonazione umana, dice la grande verità. Neppure a quella che potrebbe salvare i grandi ustionati?, ribatte la piccola verità”. Sulle problematiche che investono il giornalista nella scelta delle tante verità messe in circolazione si è soffermato anche Gad Lerner: “Noi abbiamo a che fare con grandi verità che non sono affatto verificabili. Siamo di fronte a una sorta di verità rivelate che ripropongono confini e conflitti di civiltà. Si pensi per esempio a quanto è accaduto in Italia con il fenomeno di rigetto dell’Islam, che ha visto schierati insieme esponenti religiosi e politici. Dobbiamo fare i conti con queste verità, comprenderne i valori, se vogliamo arrivare a una possibile convergenza”. Quando poi ci si trova a rappresentare le verità del male, soprattutto nella cronaca nera ma anche nella politica, secondo Lerner peccano d’ingenuità coloro che pensano di poter assolvere a una funzione di controllo e di neutralizzazione. “Il male non ha bisogno dei media per diffondersi nella società, anzi, spesso il censurarlo dalla nostra rappresentazione lo rende più potente”. Tra le altre incertezze in cui si trova ad operare il giornalista oggi, in un’epoca di affermazione delle appartenenze, l’ex direttore del Tg1 individua quella del rapporto tra il lavoro quotidiano e la verità che ciascuno sente dentro di sé. “Occorre la consapevolezza della propria identità e della propria personalità”, ha sottolineato Lerner. “Il giornalismo dei polli d’allevamento, ridotto a pura scuola, senza esperienze di vita partecipate e rielaborate al suo interno diventa soltanto marketing”. Vera o verosimile che sia, la rappresentazione della realtà fatica sempre più ad emergere dalle nebbie della omologazione planetaria. Su questo sono tutti concordi, ottimisti e pessimisti. Assistiamo all’affermaizone crescente di un’informazione drogata di sensazionalismo e di spettacolarizzazione estrema. Nel Bel Paese, in questo senso, abbiamo saputo distinguerci. In negativo, ovviamente, anche se il direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio de Bortoli non ha mancato di mettere in evidenza i pregi della stampa italiana, che sa dare prova, a suo dire, di essere libera e indipendente. illustrato da Eco: “Per far fronte alla concorrenza televisiva i quotidiani hanno aumentato le pagine, per aumentarle hanno lottato per acquisire pubblicità, per avere più pubblicità hanno aumentato ulteriormente le pagine e hanno inventato i supplementi, per occupare tutte quelle pagine dovevano pur raccontare qualcosa, per raccontarlo sono stati obbligati ad andare al di là della notizia secca (già data dalla televisione) e quindi sono diventati sempre più simili ai settimanali. Il giornale ha dovuto occuparsi sempre più di eventi sociali e di costume, di varietà, di gossip e soprattutto, se non c’erano notizie, è stato costretto a inventarle”. “Inventare una notizia”, ha concluso Eco, “non vuol dire informare su un evento che non è avvenuto, bensì fare diventare notizia quello che prima non lo era: la frase sfuggita a un uomo politioc in vacanza, gli eventi del mondo dello spettacolo, gli amori fra due personaggi noti, persino trasformando nella notizia di un divorzio o di un adulterio il fatto che due persone erano state casualmente viste insieme una sera al ristorante”. Nello Ajello, saggista e giornalista già condirettore dell’“Espresso”, non vede via di scampo: “Commuoversi, scandalizzarsi, indignarsi: è il motivo conduttore del giornalismo di questi anni. I giornali mimano il linguaggio televisivo, quasi la tv fosse la fonte stessa della verità. Ormai la stampa ha dato partita vinta all’imperialismo della televisione”. Un altro vizio della stampa italiana, ma in questo caso anche dell’informazione televisiva, è stato messo in evidenza da Furio Colombo, che ha citato come esempio l’inchiesta di Torre Annunziata sulla pedofilia: “I magistrati hanno detto: ci potrebbero essere quattro bambini scomparsi, non identificati né identificabili perché si tratta di un’ipotesi. I giornalisti hanno riferito: ci sono quattro bambini italiani scomparsi. La differenza è sostanziale. Dobbiamo saper distinguere tra vero, falso e verosimile. Non è compito del giornalista concludere le inchieste giudiziarie”. La lunga lista dell’“colpe” dei giornalisti potrebbe continuare. Si prenda un altro esempio: l’abitudine a riferire senza verifica voci incontrollate. “Alcune voci spacciate per informazioni nascondono o negano la verità”, è la denuncia di Laure Adler, saggista e direttrice del canale televisivo France Culture. “Le voci si rivelano come attentati ai valori più sacri della società. Mi chiedo se i giornalisti non siano i diretti responsabili di una nuova incultura”. ORDINE 10 2000 dei media nell’era di Internet LIBRERIA DI TABLOID dell’informazione La “via figiana” di Umberto Eco A questa incultura appartengono anche le cosiddette leggende metropolitane, ossia narrazioni particolareggiate di fatti a cui manca sia una fonte sia una verifica. Hanno come protagonisti preferiti i bambini (rapimenti, traffici di organi, uccisioni rituali e chi più ne ha più ne metta). È stato questo il tema della relazione di Furio Colombo: “Il giornalismo scritto e televisivo è responsabile delle leggende metropolitane perché ne favorisce la diffusione, dato il carattere drammatico; le rende più solide e credibili, dato il mezzo di diffusione. E poi le abbandona perché il nulla che c’è dietro non fa notizia. E accade che tali leggende, trasformate nuovamente in notizie, entrino nel contesto di uomini di Stato inserite fra preoccupazioni fondate che, di nuovo, attribuiscono forza alla leggenda e la rilanciano. Ciò può avvenire a causa del doppio comportamento giornalistico: grande rilievo all’annuncio, senza seguito, senza inchiesta, senza verifica, senza controlli, senza ricerca di esiti di storie precedenti”. In questo poco edificante quadro si fanno strada, per quanto riguarda la carta stampata, due proposte di Umberto Eco. La prima potrebbe intitolarsi “la via figiana”. Ricordando un suo soggiorno nelle isole Figi, una decina d’anni fa, il celebre semiologo ha portato ad esempio quei giornali locali, ottododici pagine perlopiù contenenti notizie d’agenzia e cronache locali e con poca pubblicità. Per ricondurre i quotidiani al loro ruolo sarebbe dunque necessaria una massiccia cura dimagrante. Ma siffatti giornali sarebbero destinati a una élite, perché per comprendere il peso di una notizia data in modo essenziale occorre un occhio esperto. L’altra possibile soluzione potrebbe essere quella della cosiddetta “attenzione allargata”. Il quotidiano cioè rinuncia alla settimanalizzazione per diventare attendibile miniera di notizie, inchieste, commenti su tutto quello che accade nel mondo. Ma anche questo tipo di giornale si rivolgerebbe ad un pubblico d’élite e per di più sarebbe molto costoso. E allora? Dobbiamo arrenderci all’imperversare di un giornalismo becero svolto in barba alle elementari regole professionali e alle leggi? La Rete tra incognite e certezze A complicare le cose, in Italia come nel resto del mondo, si è aggiunto Internet, strumento che sta rivoluzionando i nostri modi di vita e che ha spaccato le redazioni in due, da una parte gli entusiasti del villaggio globale, dall’altra gli apocalittici. “Internet ha una grande potenzialità, quella di far saltare la cupola informativa oggi imperante”, ha detto Lucia Annunziata, attuale direttore dell’Agenzia d’informazione internazionale Ap-e.Biscom. “Esiste infatti un establishment informativo che ha un potere tremendo: decide di che cosa parlare, di che cosa non parlare, e soprattutto di come parlarne”. “Internet nella carta stampata aggiunge mali ai mali”, è il parere espresso da Enrico Mentana, direttore del Tg5, che vede una possibilità di superare l’attuale crisi attraverso l’azzeramento del prezzo dei giornali. Ossia, quotidiani gratis sostenuti soltanto dalla pubblicità, come già accade in alcune metropoli europee, anche a Roma e a Milano. “Ma i giornali gratuiti non saranno mai liberi”, gli ha risposto Andrés Ortega del “Paìs”. “La Rete obbligherà la carta stampata a cambiare alcune tecniche”, ha puntualizzato Eugenio Scalfari. “Ma il giornale è fatto anche di grafica, di impaginazione, di immagini icastiche dei titoli, di fraseggio dei grandi reporter. Tutto questo su Internet non ci sarà mai”. E Umberto Eco: “Il quotidiano on line ha alcuni vantaggi: permette di avere subito le notizie più importanti; siccome però non può completamente sostituire il rito mattuti- no della lettura di molte pagine, mentre si beve il caffè, non elimina l’acquisto del quotidiano cartaceo, bensì l’incoraggia. E poi è utilissimo come archivio, perché permette di consultare i numeri precedenti”. Ci sono poi altri aspetti fondamentali messi in luce nel corso dei numerosi interventi. Questo il punto di vista del filosofo Pierre Lévy: “Internet mette indiscussione le situazioni del monopolio del ‘potere di dire’ nelle vecchie democrazie dell’Europa occidentale e nel Nord America. Esso dà una boccata d’ossigeno e, tra breve, una capacità di gridare e di esprimersi ai popoli ancora soggiogati dalle dittature”. (Tragica parentesi: nei Paesi privati delle libertà fondamentali i giornalisti continuano a morire. Secondo i dati di 2 reporters sans frontieéres resi noti da Roberto Grandi, docente di teorie e tecniche delle comunicazioni di massa all’università di Bologna, nel 1999 sono stati uccisi nel mondo 36 giornalisti durante l’esercizio della loro attività o a causa delle opinioni espresse; 85 sono finiti in carcere per gli stessi motivi; 34 sono stati sequestrati, 446 fermati dalla polizia, 653 aggrediti o minacciati). Diversa l’interpretazione del fenomeno Internet data da Vittorio Zambardino, responsabile giornalistico del sito Repubblica.it: “Il suo specifico non è tanto quello di aver prodotto informazioni e portali, ma la straordinaria capacità di aggregare individui e grupppi e di favorire lo sviluppo delle culture”. Globalizzazione e concentrazioni editoriali Con Internet però si è accentuato il processo di globalizzazione informativa avviato dalla televisione. Franz-Olivier Giesbert, saggista francese già direttore di autorevoli quotidiani e periodici, si è scagliato duramente contro l’uniformità dell’informazione, premessa di quello che lui chiama pensiero unico: “Il giornalista si appasiona all’argomento del momento, lo sbuccia freneticamente e ne ricava la polpa essenziale, prima di passare a quello successivo. Generalmente dimentica ciò che è stato detto la sera prima e non gli importa per nulla di contraddirsi. Potremmo dire che la contraddizione è il suo mestiere. Contrariamente a ciò che si sarebbe potuto pensare, la globalizzazione non fa che aggravare l’istinto gregario dei mass-media. Essa non ha favorito la diversificazione dei commenti e delle informazioni. Al contrario, ha contribuito a unificare tutto”, ha insistito Giesbert. “Le notizie sono diventate planetarie e le proteste internazionali. Anche la verità e l’errore sono stati globalizzati: è lo stesso pensiero che guida tutti gli agenti della circolazione dell’informazione. Si assiste pertanto a questo paradosso spaventoso: quanto più i modi della comunicazione si diversificano, tanto più l’informazione diventa uniforme”. Accuse e mea culpa si sono succeduti a raffica nel convegno di Bologna. Qual’è il messaggio finale che si può trarre da questo ORDINE 10 2000 confronto, mentre i media sono ridotti sempre più a contenitori pubblicitari e i giornalisti rinunciano alla loro identità e al loro ruolo? Più di altre, forse, valgono le parole di Jean-Marie Colombani, direttore di “Le Monde”, che ha lanciato un messaggio forte alla numerosa platea convenuta nell’aula magna dell’ateneo bolognese: “Mi meraviglia che qui non si sia parlato dell’unico uomo al mondo che, se sarà di nuovo capo del governo, sarà di fatto in grado di controllare, proprio nel vostro Paese, la quasi totalità dell’informazione televisiva, pubblica e privata. La chiave di lettura per quanto sta accadendo nei media è pensare di più alle condizioni economiche in cui si svolge il lavoro del giornalista. Di fronte all’estendersi delle concentrazioni di testate nelle mani delle holding editoriali i giornalisti devono reagire certamente con la ricerca inesorabile della verità. Ma devono anche far sì che i giornali appartengano sempre di più ai giornalisti. Dobbiamo essere in un certo senso una istituzione sovversiva”. La parola d’ordine è dunque il recupero dal punto di vista etico, politico e professionale della figura del giornalista. Forse è ancora possibile evitare la disfatta della categoria. Prima che il Grande Fratello imponga il suo invisibile e “democratico” bavaglio a tutti noi. Gino Banterla Marco Innocenti I cannoni di settembre. La tragica estate del 1939 di Gigi Speroni “I cannoni di settembre” sono quelli che iniziarono a tuonare il primo settembre 1939, quando Hitler aggredì la Polonia dando il via alla seconda guerra mondiale. Marco Innocenti, al suo decimo libro dedicato a raccontare il come eravamo, dagli anni Trenta al 1960, stavolta si concentra sul periodo che immediatamente precedette l’entrata in campo dell’Italia a fianco della Germania nazista: l’ultima estate “scandita da feste e voglia di vivere”, seguita da 10 mesi di “non belligeranza” (perché, come confessò Mussolini a Ciano: «Non possiamo fare la guerra, le nostre condizioni non ce lo permettono») sino al fatale 10 giugno 1940, quando il Duce ruppe gli indugi convinto di poter sedere, in cambio di «un pugno di morti», al tavolo della pace a fianco dei tedeschi che avevano messo in ginocchio la Francia. La “guerra lampo” diventerà un immane conflitto mondiale costato 50 milioni di vittime e conoscerà una pubblicistica sterminata, a cui lo stesso Innocenti ha contribuito con tre volumi dedicati all’Italia del 1940, del 1943 e del 1945. Sempre col suo stile particolare: incorniciando politicamente i fatti in un quadro dove tratteggia il vivere quotidiano della gente comune. Tratteggia, perché alle notizie trovate con puntigliose, non facili, ricerche, unisce le pennellate d’autore. Per descriverle, meglio ricorrere a qualche corposo stralcio tratto da questa sua ultima fatica. Il giorno in cui nazisti invadono la Polonia “in alta Italia piove, nel resto del Paese al sole si alternano le nuvole, ma il Lido di Venezia fa ancora pubblicità per la fine stagione e la lotteria di Merano («La fata dei nostri giorni») è un sogno alla portata di tutti per 12 lire al biglietto… Sembra carnevale, la gente prova le maschere antigas; le Pc 38 sono in vendita a dieci comode rate di 4 lire l’una. La pubblicità mostra una signorina sorridente che infila la maschera a un malcapitato barboncino. C’è chi la porta a tracolla, chi appesa al collo, ma le ragazze più spregiudicate la portano alla cintola, come un trofeo, «come uno scalpo» direbbe uno dei tanti personaggi dei feuilleton d’avventura… Un commerciante che sa il fatto suo offre carte speciali per oscurare i vetri, e i bimbi, in cambio di un soldino da infilare nel salvadanaio di terracotta, aiutano i nonni a incollarle alle finestre”… Per ora niente guerra. E gli italiani respirano. È la lieve ebbrezza del malato quando si sente risanato e riprende timidamente l’esistenza di prima. La non belligeranza, presso la gente, è una brillante trovata del Duce. La vita ricomincia, è una liberazione, la paura è passata… Luci riaccese, negozi aperti, cinema e teatri pieni, aria di festa dopo il grande incubo. File di biciclette di studenti nel mite autunno italiano. Sul piatto del grammofono, nelle feste private, Polvere di stelle e Tornerai. … I treni popolari viaggiano per l’ultima volta a fine settembre, l’orario ferroviario d’autunno è drasticamente sfoltito. È l’ultima avventura che travolge la domenica italiana, su quei vagoni di terza classe, l’elastico a tenere su le maniche delle camicie, un fiasco di vino a fare buon sangue”. Dieci mesi ancora, poi anche gli italiani vivranno una ben altra avventura: tragica, sette giorni su sette. Per ora la guerra la leggono sui giornali che “sparano le foto dei biondi eroi tedeschi sorridenti che avanzano vittoriosi verso Varsavia”. Hitler “si illude che tutto possa risolversi con una passeggiata nella pianura polacca”, ma la Francia “tirata per i capelli” e l’Inghilterra, hanno dichiarato guerra alla Germania. “Parigi ha un aspetto leggermente trasandato, come una donna sorpresa senza trucco… Il Paese è fiacco, senz’anima. Disorientato, disarmato, trascinato dagli avvenimenti, sta preparando, senza saperlo, la propria disfatta. L’opinione pubblica è divisa, non c’è entusiasmo, non c’è voglia di rischiare. C’è una calma rassegnata, forse la speranza segreta che sia ancora possibile far tornare indietro gli orologi e gli eserciti”. A Londra “centinaia di migliaia di vecchi e di bambini vengono sfollati su treni, ambulanze, auto, e battelli lungo il Tamigi. Gli inglesi, anche nell’emergenza, non si smentiscono. Viene messo in salvo anche il prezioso zoo, ma, annuncia costernato il direttore, «abbiamo dovuto uccidere 40 serpenti che non potevano essere trasportati, due ragni e uno scorpione». Dappertutto volontari riempiono sacchetti di sabbia per rinforzare le difese degli edifici”. Queste pennellate ci spiegano perché la Francia subirà una disfatta e la Gran Bretagna terrà duro sino alla vittoria finale. Per l’inglese Lloyd George «di fronte a un atto di brigantaggio il Governo non poteva fare che quello che ha fatto», per il generalissimo francese Gamelin «ci si può battere solo con uomini che vogliono battersi». Nel quadro di Innocenti appaiono anche tutti i protagonisti dell’epoca (ed è un peccato che al libro manchi un indice dei nomi). “Gli «uomini del ’39» sono pro- fondamente diversi come estrazione, come percorso di vita, come background umano e professionale… Ci sono artisti mancati e graduati di truppa come Hitler, venditori di champagne che si fregiano di un «von» cui non hanno diritto come Ribbentrop, assi dell’aviazione e seduttori di belle donne come Goering, avvocati di provincia come Chamberlain, discendenti di una vecchia famiglia nobiliare come lord Halifax, autodidatti, giornalisti d’assalto e comizianti come Mussolini, figli di papà, amanti del golf e sottanieri di classe come Ciano, spie come Beck, insegnanti di scuola media nella Francia profonda come Daladier, cospiratori e rivoluzionari come Stalin e Molotov. Quando si incontrano – cosa che avviene spesso nel concitato ’39 – non rappresentano soltanto interessi nazionali divergenti, ma diverse ideologie e filosofie, diverse concezioni del mondo, diversi retroterra culturali e morali”. Ciò non toglie che Hitler e Stalin non trovino un punto d’incontro, in linea con lo stesso freddo, feroce, pragmatismo che li ha portati al potere. Il primo vuol garantirsi da un intervento sovietico alla vigilia d’invadere la Polonia, il secondo vuole approfittare dell’occasione per ritagliarsi una fetta di territorio polacco. Così il 23 agosto 1939, “a notte fonda, in una sala del Cremlino, il patto di non aggressione e i protocolli per la spartizione dell’Est sono cosa fatta. «Brindo alla salute del Fuehrer» dice un euforico Stalin alzando l’ennesimo calice di champagne e definendo Hitler «un uomo per cui ha sempre avuto una straordinaria venerazione». Molotov e Ribbentrop prendono una grossa carta geografica e tracciano i nuovi confini dell’Europa centrale”. È la fine delle vacanze, la fine dell’estate. Copertosi a Est il Fuehrer è pronto a colpire”. Poi sappiamo com’è andata. L’opera di Marco Innocenti qui è doppiamente meritoria: oltre a donarci, come nel passato, uno spaccato originale di un mondo e di un’epoca ben determinata, ora ha scelto di approfondire la conoscenza di un periodo normalmente sorvolato dagli storici, concentrati sugli anni della guerra. Come venne vissuto l’anno fatale in cui il conflitto maturò è un prezioso tassello che mancava al mosaico di questo appassionato e originale autore. E ai lettori. Marco Innocenti, “I cannoni di Settembre. La tragica estate del 1939”, Mursia, pagg. 147, lire 24.000. 17 (25) La manifestazione sponsorizzata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia Milano, 24 novembre. Il prestigioso premio che ricorda una delle figure storiche del giornalismo italiano è stato assegnato all’inviata di “Repubblica” per il servizio sulle donne sfregiate del Bangladesh. Comitato permanente Linda David Locatelli Lucio Lami Massimiliano David Presidenza Sergio Zavoli (pres. onorario) Franco Abruzzo (vice pres. onorario) La giuria Bruno Ambrosi Lucia Annunziata Piero Benetazzo Mimmo Càndito Giuseppe Chisari Renzo Cianfanelli Vittorio Dell’Uva Lucio Lami Ettore Mo Valerio Pellizzari Giorgio Torchia I vincitori delle passate edizioni Lucio Lami Ettore Mo Piero Accolti Bernardo Valli Franco Ferrari Piero Benetazzo Frane Barbieri Vittorio Zucconi Mimmo Càndito Egisto Corradi Lucia Annunziata Vittorio Dell’Uva Paolo Rumiz Vittorio Ferrari Valerio Pellizzari Alberto Pasolini Zanelli Carmen Lasorella Renzo Cianfanelli Renata Pisu A sinistra, Linda David Locatelli con Renata Pisu A Renata Pisu il “Premio Max David” Renata Pisu la “cinese” inviata nel mondo di Angelo Crespi Venti anni. Non sono pochi per un premio, specie in un Paese come il nostro che scoppia di manifestazioni di questo tipo, e nel quale una medaglia o una medaglietta non si nega a nessuno. Il “Max David” il premio nazionale per l’inviato speciale, ormai da tre anni sponsorizzato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ha saputo invece ritagliarsi uno spazio importante. Ed è diventato edizione dopo edizione una sorta di Pulitzer italiano: sarà per l’importanza dei vincitori, o per la serietà della giuria che evita con tenacia ogni tipo di pressione, fatto sta che la figura di uno dei più celebri reporter del nostro giornalismo, come Max David, rimane tutt’oggi a monito ed esempio per le nuove generazioni. E a conferma di questo, l’edizione del ventennale è andata a Renata Pisu della “Repubblica”, come ha sottolineato la giuria, “per le corrispondenze dal Bangladesh che hanno rivelato al grande pubblico, prima italiano e poi occidentale, la tragedia delle donne sfigurate e ustionate per vendetta. Per i magistrali servizi dall’Indonesia e per quelli successiva dalla Cina, dedicati al Tibet, che testimoniano uno studio autentico e approfondito, iniziato dieci anni fa, unico nel panorama del giornalismo italiano”. La premiazione si è svolta venerdì 24 novembre nelle sale dell’Excelsior Hotel Gallia alla presenza di numerose personalità del mondo del giornalismo, della cultura e dell’arte ed è stata l’occasione per una sentita commemorazione di tutti gli inviati scomparsi mentre svolgevano il loro lavoro. Lucio Lami, primo vincitore e oggi membro del comitato permanente, ha ricordato gli alti valori che innervano la professione e i pericoli alla quale sta andando incontro: “Agli inizi degli anni Ottanta, nessuno di noi immaginava che il Premio avrebbe indirettamente offerto anche una difesa a una categoria, quella degli inviati speciali, destinata a essere ostinatamente colpita, fino alla minaccia di estinzione, dai nuovi nocchieri; quelli secondo i quali “l’estero non interessa nessuno”, “la cultura è un soporifero”, “con Internet e la Tv non c’è bisogno di buttare soldi mandando qualcuno sul posto”, “non c’è bisogno di controllare la notizia: se è falsa la si smentisce il giorno dopo”. Ed è singolare che il “Max David” festeggi i suoi quattro lustri mentre da più parti si chiede ufficialmente l’abolizione della figura dell’inviato speciale. Per venti anni questo Premio ha riconosciuto l’alta professionalità dei testimoni di qualità scelti tra i pochi giornalisti che ancora viaggiano. Indipendentemente dalle loro convinzioni politiche e resistendo al rullo compressore del grande fratello (quello orwelliano, naturalmente), essi hanno descritto con onestà le realtà più difficili e inquietanti della nostra epoca, dopo averle viste con i proprio occhi e avendo come interlocutore solo il lettore. Realtà che altrimenti sarebbero state ignorate, sommerse dall’inesauribile affabulazione dei mass media”. Allo stesso modo, il Presidente onorario, Sergio Zavoli ha voluto, attraverso la figura di David, puntare l’attenzione sul ruolo dell’inviato. “È giusto in questo momento 18 (26) Sergio Zavoli ricordare il numero crescente di nostri colleghi morti sul campo. Altrimenti passano le generazioni e scompare le memoria di coloro che giorno dopo giorno hanno fatto la storia del giornalismo. Tutto scorre velocemente e non siamo più interessati a capire cosa succede intorno a noi. L’inviato al contrario induce il sistema dell’informazione a fermarsi. E sono convinto che dopo la buriana di un giornalismo prêt-à-porter, della coriandolizzazione dell’informazione, verrà di nuovo il tempo di un giornalismo meno futile, più preciso, che costi fatica, che ci induca a rallentare”. Pur assente per motivi di lavoro, la testimonianza del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, è riportata nella pubblicazione per i vent’anni del Max David, che ripercorre la storia del premio e dei vincitori delle passate edizioni: “Avendo sede a Milano – ha scritto Abruzzo – ed essendo diventato uno dei premi giornalistici più importanti e seri d’Italia, il “Max David” ha assunto un ruolo di tale rilievo che non poteva non interessare l’Ordine della Lombardia. È stato dunque per me un piacere favorire la vita del premio, anche in termini economici, sapendo che l’Ordine in questo modo assicurava il futuro a una manifestazione che riconosceva giornalisti inviati il merito, il talento, le capacità professionali. Sapevano anche che una giuria indipendente, formata da inviati o ex inviati, quasi tutti già vincitori del Premio, avrebbe garantito scelte meditate e puramente meritocratiche. Per questo il “Max David” ci consente, non solo di premiare i migliori testimoni di eventi, ma anche di additare modelli esclusivi di professionalità, cultura e deontologia dei quali c’è forte bisogno. I giornali senza inviati, sarebbero pressoché tutti uguali. Gli inviati, quindi, assicurano l’identità e la peculiarità delle testate”. Ma torniamo a Renata Pisu, che ha voluto ringraziare “il mondo intero” e tutti i colleghi per il riconoscimento. Ha poi narrato, con la partecipazione scherzosa degli amici in sala, le vicende più stravaganti o tragiche della sua carriera, soffermandosi in special modo sul servizio delle donne sfigurate con l’acido del Bangladesh, apparso nella pagine di “D” di “Repubblica”: “È la prima volta, almeno per quanto mi riguarda – ha sottolineato Renata Pisu – che la denuncia di un’atrocità pubblicata sulle pagine di un giornale, è servita a qualcosa, ha fatto nascere qualcosa. Tre mesi fa, infatti, tramite un’organizzazione umanitaria, la Coopi, è stato fondato a Dhaka il primo centro grandi ustionati di tutto il Bangladesh, grazie soprattutto ai fondi raccolti in Italia con la campagna “Un volto per la vita” che ho seguito personalmente”. Ma la carriera della Pisu, è ricca di altri avvenimenti e successi. Romana di nascita, Renata ha lasciato la città natale nel 1958, a soli venti anni, per studiare all’Università di Pechino e diventare “cinese” d’adozione. Dal 1964, anno del suo rientro in Italia, ha optato in modo deciso per il giornalismo, agli inizi come è naturale, con una particolare attenzione ai problemi dell’Asia orientale. Così da 1982 al 1987 ha vissuto a Tokyo come corrispondente del quotidiano “La Stampa”, scoprendo e raccontando i mille volti del Giappone. Dalla stessa città, ha seguito anche le vicende cinesi, e quelle di paesi come le Filippine, la Corea, Taiwan, Singapore, recandosi spesso in missione durante gli avvenimenti più importanti. Nello stesso periodo, si è recata numerose volte a Pechino per seguire i contrasti del “nuovo corso” della politica cinese imposto da Deng Xiaoping. Nel giugno del 1989 è poi tornata in Cina per i tragici fatti di piazza Tian An Men, ultimo e appassionato reportage per il giornale torinese. Nel 1990 passa infatti a “Repubblica”, quotidiano per il quale continua a girare il mondo, su tutti i fronti delle guerre, non dichiarate ma combattute, di tutte le insurrezioni popolari, di tutte le catastrofi: dal Kuwait al Ruanda, dalla Bosnia all’Indonesia, dalla Cambogia al Sud Africa, dall’India al Tibet, senza mai trascurare la Cina e il Giappone dove si reca spesso per raccontare le “crisi” e le “riprese” di un’economia che ha visto scoppiare la sua “bolla” ma che è ancora salda e battagliera. E arriviamo ai giorni nostri. Renata Pisu continua percorrere il pianeta per confermare il valore della testimonianza dell’inviato, come è accaduto ancora di recente nel caso della tragedia dei marinai del Kursk, il sottomarino nucleare russo, la cui agonia ha raccontato questa estate con bravura e intelligenza. Ma non dobbiamo dimenticare nemmeno le sue prove letterarie: “La via della Cina”, il libro che racconta i suoi anni di studentessa a Pechino, ha vinto il Premio Rapallo ed è stato finalista allo Strega. Ora è in libreria, “Alle radici del sole”, sugli anni giapponesi. Max David, l’esempio da seguire Il premio Max David, fondato nel 1980 per iniziativa del poeta e pittore Vittorio Grotti, e in collaborazione con Linda David Locatelli, vedova di Max David, celebra una delle figure storiche del giornalismo italiano. Nato a Cervia il 25 dicembre del 1908, Max David seguendo un istinto di avventura che lo accompagnerà in tutta la carriera, si imbarcò giovanissimo su una nave da carico, con rotta per i mari del nord. E da allora fu instancabile viaggiatore attraverso i continenti e le vicende che hanno fatto la storia del ’900. Dalla guerra in Etiopia, la prima che seguì come giornalista, passando per la Spagna, il Biafra, la Corea, la Tanganika, quindi la Russia, l’Iran, il Pakistan, l’India. In quarant’anni di servizio, di cui venticinque al “Corriere della Sera”, David interpretò in tipico stile hemingwaiano il lavoro dell’inviato speciale. Innamorato della Spagna, come lo scrittore americano, arrivò perfino a cimentarsi nella corrida e per questo venne soprannominato Mazarino II in onore di un famoso matador di origine italiana. Come ricordava Leonardo Vergani, in un articolo del “Corriere della Sera”, in Max David “c’era una vocazione all’avventura, ma sempre un’avventura fatta per poi essere raccontata. Fu uno dei pochissimi giornalisti per esempio a seguire la ritirata di Ciang-Kai-shek dalle posizioni sulla riva sinistra dello Yang-tze-kiang verso Nanchino, giù giù fino all’ultimo bastione di Canton. ‘Un giornalista deve fiutare il vento – diceva spesso – deve chiu- dere la macchina da scrivere nel suo astuccio e mettersi in cammino lungo la direttrice contraria a quella del nemico, per raggiungere le proprie personali posizioni, da dove telefonare o telegrafare il servizio. Se viene bloccato, il suo è un lavoro inutile’. Per questo, dopo essersi salvato per miracolo tra le fiamme del Cairo, era furibondo. ‘Era la prima volta che mi capitava di bucare un servizio’”. Definito come un uomo dallo spirito garibaldino, tra una corrispondenza e l’altra riuscì a dedicarsi alla letteratura e alla saggistica, affiancando a migliaia di articoli alcuni romanzi e saggi, come “Volapié” che gli valse il premio Bagutta. Morì il 22 marzo 1980 mentre stava scrivendo una biografia su Lawrence d’Arabia. ORDINE 10 2000 LIBRERIA DI TABLOID Dante Ferrari Il grande trading italiano Storie di operatori con l’estero di Alberto Mazzuca Linda David Locatelli, Sergio Zavoli e Lucio Lami La morte del fotoreportage Ma il Premio è anche l’occasione per un approfondimento sui grandi temi legati all’informazione nell’era di Internet e delle nuove tecnologie, tanto utili quanto pericolose per un’informazione corretta. Ogni anno, infatti, viene organizzato a completamento del Premio un convegno in collaborazione con la professoressa Anna Lisa Carlotti, dell’Università Cattolica di Milano, al quale nelle scorse edizioni hanno partecipato scrittori, giornalisti, fotografi di tutto il mondo. Quest’anno il dibattito, che si è svolto nell’aula magna della Cattolica nel pomeriggio di venerdì 24 novembre, dal titolo “Fotoreportage? Ieri, oggi, domani” ha aperto la discussione su un altro problema molto sentito dalla categoria: quello dell’inviato fotografico, un tempo vero occhio del giornale e oggi relegato ai margini della redazione, soppiantato da strumenti più moderni e dalle agenzie. Uliano Lucas, fotografo e studioso, ha voluto esaminare la storia di un genere giornalistico, il fotoreportage, oggi quasi in disuso. “In realtà – ha spiegato Lucas – il fotoreportage in Italia non è mai esistito. Solo due testate come “Epoca” e “l’Europeo” hanno dedicato spazio ai grandi servizi fotografici. Oggi non produciamo più nulla e dipendiamo al 75% da materiale straniero, e anche la scuola è in ritardo nel propugnare una cultura visiva che possa in qualche modo fare capire ai giovani l’importanza della fotografia. La causa di questa desolante situazione ORDINE 10 2000 è facile da intendere: l’immagine è un fatto in sé politico, per questo motivo, si teme il reporter in quanto uomo libero, avulso dalle logiche redazionali e spesso figura scomoda”. Un’analisi critica che però ha trovato d’accordo anche tre miti del giornalismo fotografico italiano, come Gianni Berengo Gardin, Giorgio Lotti e Gianfranco Moroldo. Berengo Gardin ha stigmatizzato l’uso che i giornali fanno della fotografia: “Testine di politici, attrici e attricette, calendari di nudi, santini scontornati, questo è quanto si chiede oggi al fotografo”. Giorgio Lotti ha invece raccontato i favolosi anni, quando “Epoca” era invidiata persino da “Life” per i suoi servizi fotografici: “Un tempo avevamo tempo, potevano fermarci, capire, poi fotografare. L’altra mattina invece sono stato costretto a scattare un ritratto in 2 minuti. Una volta facevamo ‘buone’ fotografie, oggi al massimo ‘orribili belle fotografie’”. E gli ha fatto eco, il collega e “nemico” dell’Europeo, Moroldo: “Per avere grandi servizi è necessario che si ricostruisca la fertile simbiosi tra giornalista e fotografo, come per esempio è accaduto a me in Vietnam con Oriana Fallaci”. Infine la parola è andata al giovane Francesco Zizola, che si è soffermato sulla dura professione del freelance: “Oggi non ci sono più i servizi di un tempo, perché i giornali hanno perso il loro scopo, quello di informare. Da molti anni non esistono più gli editori puri, le pubblicazioni sono in mano a gruppi politici o industriali, che usano i loro fogli per altri fini. Quindi non ha senso parlare di crisi del fotogiornalismo, bensì di crisi del giornalismo in generale. E ora, l’innovazione digitale porta con sé altri e più gravi dilemmi etici. Il pericolo di manipolazione non solo esiste in prospettiva, ma già è entrato stabilmente nelle redazioni. Talora solo per ‘piegare’ l’immagine di cronaca alle esigenze glamour e patinate dei giornali, ma talora anche per motivi meno ‘nobili’”. Angelo Crespi Ieri si diceva mercante, oggi si dice trader a causa della prevalenza dell’inglese nel lessico economico. Ma in ogni caso si tratta sempre di spiriti avventurosi che, con la stessa intraprendenza, la stessa fantasia, la stessa voglia di fare di quello che è l’esempio più eclatante, Marco Polo, hanno fatto delle qualità mercantili italiane una ricchezza conosciuta nei secoli. “Il commercio, comunque lo si chiami – scrive Sergio Romano nell’introduzione al libro di Dante Ferrari, “Il grande trading italiano” – appartiene alla cultura degli italiani ed è una delle cause del prestigio di cui hanno goduto in alcuni momenti della storia d’Europa”. Con effetti vistosi proprio negli ultimi due secoli, noti come la culla del trading internazionale. Non per niente l’abbattimento delle barriere tariffarie è del 1997, appena l’altro giorno quindi. Ferrari, milanese doc, è un giornalista con una lunghis- sima esperienza nei quotidiani economici. Prima “Il Globo”, quindi “Il Sole”, infine “Il Sole-24 Ore”. Ed al libro ha dato questo illuminante sottotitolo: “Storie di operatori con l’estero”. Storie che si inseriscono nel XX secolo, vale a dire in un periodo molto fecondo per il trading nonostante gli ostacoli e le difficoltà che sembravano a prima vista insormontabili. Perché commerciare con l’Unione Sovietica in un periodo in cui la Nato e il Patto di Varsavia si puntavano addosso le armi più micidiali partorite dalla tecnologia militare, significa avere doti, voglia di rischiare, entrature, fuori dal comune. Ed in effetti molti di questi trader sono fuori dal comune, sono davvero miti. Ed ognuno con una propria storia, sempre affascinante, spesso persino incredibile. E tutte storie godibilissime. Come quella di Dino Gentili, uomo di cultura, socialista impegnato con un’esperienza anche nel Partito d’Azione, intimo amico di Nenni: è lui ad aprire le porte del commercio con la Cina nel 1954 fondando prima la Comet e poi la Cogis ed è lui ad incontrare Fidel Castro per importare zucchero cubano in un momento di difficoltà della produzione interna italiana. Finendo per diventare l’emblema della diplomazia difficile. Come quella di Piero Savoretti, l’uomo che partito nel ’48 per Londra con una 500, s’insedia nel 1956 a Mosca dove organizza per la Fiat l’affare colossale di Togliattigrad che ha dato all’Italia le chiavi per entrare nel mercato sovietico. Come quella di Serafino Ferruzzi, il romagnolo che diventa il re della Borsa di Chicago. Grande conoscitore dei mercati dell’Urss è Alberto Levi, fratello del giornalista Arrigo: comincia in Sud Africa, quindi si sposta in Argentina operando nel campo tessile e meccanico. Poi eccolo proiettato nell’Est europeo dove fa vendere alla Snia Viscosa sessanta impianti chiavi in mano. È legato in parte all’Urss anche il nome di Giulio Tamaro il quale – tra le tante cose – importa anche cotone uzbeko di ottima qualità, fino a quel momento ancora sconosciuto in Italia. Jack Clerici, corridore automobilista, diventa uno dei trader più potenti nel campo delle commodities, battendo ogni primato nell’import di carbone e nell’armamento. Luigi Deserti, un ravennate trapiantato a Bologna, fa conoscere ai consumatori italiani i più raffinati marchi mondiali di tè, champagne, vini, marmellate e cento altri prodotti. Aldo Bonapace, nipote del fondatore della famosa Magnesia San Pellegrino, diventa il più affermato trader di specialità medicinali. E poi Giulio Pugliese, i Cauvin, Tito Trinca, i Noberasco, Gino Pesenti. Insomma, il top dei trader. E tutto raccontato come un romanzo in cui abbondano le testimonianze vere e in cui sapientemente sono mescolati il rischio e la fantasia, le due grandi risorse del commercio. Dante Ferrari, “Il grande trading italiano (Storie di operatori con l’estero)”, Libri Scheiwiller , pagg. 348, s.p. Camillo Albanese Le più belle del reame di Gianni de Felice Conosco Napoli, perché vi sono nato, e penso di conoscere i napoletani, anche se vivendo a Milano da una quarantina d’anni li ho forse un po’ persi di vista. Ma li ho subito ritrovati, e riconosciuti, fin dalle prime pagine di questo nuovo libro di Camillo Albanese. Delizioso narratore di figure, fatti e fatterelli storici, che editori e librai avevano sbadatamente prestato per troppi anni a dirigenze e management di associazioni ed enti; e che ora si sono tardivamente ripreso, obbligandolo a recuperare – per fortuna dei suoi lettori – con la fornitura di una chicca l’anno. “Le più belle del reame” – così si intitola l’ultima chicca – non sono le donne, ma le storie che Camillo Albanese è andato a scavare negli archivi più antichi e polverosi di Napoli; e che confermano anche l’altro senso del titolo, avendo quasi sempre a protagoniste donne di straordinaria bellezza e di non meno strabiliante disponibilità. Avventuriere, regine ninfomani o lesbiche, amanti vergini e “incontaminate”, suore assatanate e perfino una pasticciera dell’800, che ha tentato – fortunatamente invano – di impedire al mari- to, don Pasquale Pintauro, d’inventare la “sfogliatella” e la “zeppola di San Giuseppe”. La sciagurata. Intorno a queste damazze si muovono principi e popolani, pittori e re, frati e bellimbusti, giovani scaltri, donzelle intraprendenti, padri severi e, su tutti e tutte, scorre la storia fatta di battaglie e dinastie, assedi e rese, impiccagioni e feste a corte. Lo scenario è la Napoli angioina che si lustra e rinnova, la Napoli aragonese che si fortifica e potenzia, la Napoli stracciona, disperata e schiava del becero vice-reame spagnolo, la Napoli borbonica che rifiorisce all’inizio e si fossilizza – dopo la sanguinosa repressione della Repubblica del 1799 e la parentesi francese – nella pavida grettezza degli ultimi decenni. Se studiassero la storia per aneddoti – come predicava Mérimée e pratica Albanese – invece che per date, i giovani ne capirebbero forse meglio il senso e dunque l’utilità. In questa raccolta di aneddoti, apparentemente slegati, in realtà c’è una trama, un filo conduttore. È la “napoletanità”: un concetto vago, impalpabile, affiorante ora in senso picaresco, ora in chiave drammatica, ora in tono epico, ora in forma munifica, ora in versione semplicemente cialtrona e carogna. Ma sempre riconoscibile, eguale a se stessa, immutabile, sia che i padroni del momento parlino in francese o in castigliano, in catalano o in tedesco, o in dialetto napoletano come usavano gli ultimi re borbonici. In certe nobildonne, ho riconosciuto ammiratissime signore della borghesia di oggi. Lo sfarzo delle corti, lo rivedo nella pomposità di certi circoli o nella ricchezza un po’ barocca di appartamentoni e ville, molto esclusive, di Posilllipo. L’atmosfera un po’ sbracata delle feste all’aperto nei “casini” di campagna, la si ritrova le sere di giugno nella piazzetta a Capri. Che sul trono sieda Federico II o il comandante Lauro, Roberto d’Angiò o Bassolino, Napoli non cambia: è la sua forza, la sua debolezza. E Camillo Albanese ce lo dimostra con l’aria lieve di chi sta raccontando robetta di poco conto. Tuttavia, fra tante storie, ce n’è una che non può trovare riscontro ai giorni nostri: quella del San Carlo. L’appalto viene firmato il 14 marzo 1737 e il 4 novembre dello stesso anno – giorno di San Carlo, meno di otto mesi dopo – Carlo di Borbone inaugura il teatro. Il re si complimenta col costruttore Carasale, ma lamenta la mancanza di un passaggio interno con l’adiacente reggia: alla fine della rappresentazione il passaggio è pronto e tappezzato, fatto in tre ore. Denunciato da concorrenti invidiosi, Carasale viene poco tempo dopo condannato per irregolarità amministrative nell’impresa; si protesta innocente davanti al sovrano, ricordandogli gli elogi per la bellezza del teatro e la rapidità di costruzione; ma il re non fa una piega, permette che venga messo in prigione nella fortezza di Sant’Elmo e lì sia lasciato fino a morte. Nell’Italia di oggi, che non riesce a ricostruire la Fenice, anche a Napoli sarebbe impossibile erigere un teatro in otto mesi, perforare un corridoio regale in tre ore e, soprattutto, vedere un costruttore imbroglione in galera. Camillo Albanese, “Le più belle del reame”, Esi 2000, pagg. 187, lire 28.000 19 (27) I NOSTRI LUTTI Guido Nozzoli, un grande inviato che veniva dalla Resistenza di Vittorio Emiliani “Adesso mi prendo un bel caffè, faccio due o tre testa-coda in Melchiorre Gioia e vado a casa a dormire”. Erano in genere le 2 di notte, e anche di più, quando Guido Nozzoli, ex ufficiale degli autieri, leggendario pilota di moto e auto, lasciava cadere questa frase paradossale sui colleghi del turno di notte al “Giorno”, nel complesso alzato fra le brume della Martesana, vicino alla “Cassina di pòmm”. Guido era un classico “animale notturno”, come tanti inviati della sua generazione (che di inviati straordinari ne aveva sfornati parecchi, nel dopoguerra), ed era uno dei più godibili, inventivi, teatrali affabulatori che noi giovani di quei primi anni Sessanta avessimo avuto la fortuna di incontrare. Lui e, in modo diverso, il marchigiano Manlio Mariani erano senza dubbio i più estrosi e folgoranti. Da romagnolo, potevo poi apprezzare in modo tutto speciale anche le sfumature di quei racconti inesauribili sugli anni Trenta e Quaranta, sull’epos della nostra comune regione d’origine (guai a chi gli avesse chiesto se era “emiliano”), sulla storia degli anarchici. Non per caso la sezione italiana della Prima Internazionale era nata sotto il segno di Bakunin nella sua città, Rimini, con Andreino Costa segretario a vent’anni e Carlo 20 (28) Cafiero presidente. L’eroe delle affabulazioni notturne di Guido era soprattutto il concittadino Amilcare Cipriani, eroe di suo per davvero, volontario a sedici anni nel 1859, poi coi Mille in Sicilia, bello, alto, intrepido, combattente e disertore sull’Aspromonte, colonnello della Comune parigina, deportato fra inumane sofferenze in Nuova Caledonia, poi tornato trionfalmente in Italia, candidato-protesta amatissimo ma di nuovo gettato in una cella, a Portolongone, per anni. Di lui Nozzoli raccontava che dalla Nuova Caledonia l’avevano dovuto rimpatriare perché “messo a spaccare le pietre, riduceva con un colpo di maglio la roccia in polvere: insomma, ne faceva del talco, inservibile.” Guido era giunto al giornalismo dopo la stagione, tanto dura quanto appassionante, della Resistenza vissuta insieme a “Quelli di Bulow” (il titolo del suo primo bel libro, uno dei pochissimi purtroppo), cioè con l’esercito partigiano di pianura costituito da Arrigo Boldrini nel Ravennate. Gli episodi feroci della repressione nazifascista si mescolavano ad altri con un lieto fine, come quando era scampato alla fucilazione apostrofando il capomanipolo repubblichino con una frase del tipo: “Sei così vigliacco che non hai neanche il coraggio di sparare a me che sono disarmato”. O quando si era salvato per un pelo in bicicletta nella nebbia incombente anche se Guido Nozzoli (al centro) tra i colleghi de “Il Giorno” gli si era rotto di colpo un pedale e aveva dovuto filare via azionando freneticamente un solo piede, e qui entrava in scena il mimo Nozzoli, non meno bravo del raccontatore. A Rimini, nel primissimo dopoguerra, l’irrompere della libertà aveva eccitato in lui e in altri, nel futuro psicologo Gino Pagliarani per esempio, il gusto per gli scherzi più clamorosi. Una notte cambiarono quasi tutta la segnaletica stradale cittadina e quando il compagno Spartaco li convocò in federazione per una irata reprimenda, con facce serissime risposero che avevano voluto in quel frangente “disorientare la borghesia”. Venendo cacciati all’istante dal furibondo segretario del Pci riminese, mentre loro ridevano come matti. Federico Fellini, di due anni più giovane, era già sceso a Roma prima della guerra e però in quei racconti di Guido c’erano già tanti temi e personaggi dei “Vitelloni” e, ancor più, in fondo, di “Amarcord”. Quando questo film uscì nelle sale, alcune figure e altrettante storie ci erano già familiari. A cominciare dal motociclista che all’inizio attraversa la scena saltando sulle “focarine” della Segavecchia di mezza Quaresima, Scurèza, che Tonino Guerra aveva collocato lì pensando ad un altro romagnolo del “Giorno” e cioè ad Enzino Lucchi, cesenate, lui pure motociclista epico, protagonista proprio con Guido Nozzoli di una gara motoristica rimasta storica. I due, uno comunista (Nozzoli), l’altro repubblicano (Lucchi), si misero un giorno a discutere furibondamente su quale fosse la strada più breve fra Rimini e Cesena. E decisero di sfidarsi. Partirono rombando dalla periferia nord dirigendosi verso la città di Renato Serra. Traguardo finale la casa della maestra Lucchi, madre di Enzo. Dove questi arrivò primo sollevando una nuvola di polvere. Si mise ad aspettare il rivale seduto sugli scalini dell’ingresso. “Vuoi vedere che quel pataca di un riminese mi ha fatto uno scherzo ed è tornato indietro”. Stava pensando questo quando passò una donna che faceva l’infermiera all’ospedale civile. “Ti vedo un po’ giù, Enzino. Ti è successo qualcosa di brutto?” Lui le raccontò la storia. E lei, un po’ esitante: “Guarda che all’ospedale stanno medicando uno, uno robusto, moro...” “È lui, è lui, embé ?” “No, niente di grave, solo che gli è andata la catena della moto nei raggi della ruota di dietro, è partito a volo d’angelo finendo in un campo di canapa secca e gli stanno levando uno per uno tanti pezzetti di canapoli conficcati dappertutto”. Gli anni passati all’“Unità”, a Bologna e poi a Milano, avevano maturato un fior di giornalista, dalla scrittura serrata ed espressiva, bravo a sbozzare caratteri, a raccontare fatti, di nera, di bianca, di politica internazionale, a rendere come un affresco i grandi processi dell’epoca. Naturalmente teneva i colleghi alzati fino a notte fonda raccontando storie su storie e presentandosi l’indomani in aula pronto a ricominciare: a prendere appunti, ad annotare, a scrivere. Col Pci e quindi con l’“Unità” i rapporti si erano fatti sempre più difficili finché non era approdato al “Giorno” diretto allora da Italo Pietra, anche lui uomo della Resistenza, anche lui temperamento forte, anche lui con una vasta esperienza internazionale. Credo che si fossero conosciuti nel modo più singolare: Guido entrò nella sede del comando del Fronte di Liberazione algerino, sui monti della Kabilia, e vi scorse Pietra che era già lì, intento a spiegare come in guerriglia si dovessero scordare quello che avevano imparato alla scuola di guerra facendo anzi il contrario. Proprio lui che, dopo la scuola di guerra di Pinerolo, si era fatto dodici anni in grigioverde prima del biennio, quasi, da partigiano, nel natio Oltrepò. I rapporti fra i due, va detto, non furono dei più facili e tuttavia Nozzoli poté dare sulle pagine del “Giorno” molte delle sue prove migliori. Ricordo benissimo i servizi, ricchi di fatti e di pathos, che realizzò, con Franco Nasi, subito dopo il terribile disastro del Vajont. Rammento anche che, quando a tavola l’inviato di un grande quotidiano si ostinò a parlare di “calamità naturale”, Guido, che fisicamente era fortissimo, lo sollevò praticamente di peso dalla sedia in preda ad una indignazione incontenibile. Molto bella fu anche la serie di servizi dedicati alla guerra nel Vietnam, realizzati calandosi ben dentro quel dramma collettivo. Ad onor del vero, e per non farne un santino, comprese di meno quanto stava per succedere all’Est, durante i fatti di Praga e poco prima della repressione sovietica che ne seguì, nell’agosto del 1968. Quella sulla quale il Pci, segretario Luigi Longo, espresse il primo “grave dissenso” dando inizio al processo di dissociazione che sfociò più avanti nello “strappo” berlingueriano da Mosca. Guido Nozzoli fu, ovviamente, in prima fila – come lo fu il giornale – dopo le bombe di piazza Fontana, avvio di quella strategia della tensione seminata di stragi, sfociata nella catena sanguinosa di atti terroristici durante gli anni di piombo. Che colpirono anzitutto Milano seminando paura e mettendo a dura prova la resistenza di un tessuto democratico ancora forte fondato sull’antifascismo e sulle fabbriche. Guido partecipò attivamente, come altri colleghi, al Movimento Giornalisti Democratici e poi alla controinformazione, ormai vicino ai gruppi extraparlamentari di sinistra. Dal giornalismo attivo volle però uscire il giorno stesso in cui compiva i 55 anni, senza sentir ragioni. La sua pensione era bassa? Era abituato a vivere con grande sobrietà. Con le sue note-spese “francescane” aveva messo in difficoltà più di un collega versato nella spesa facile. Alla direzione del “Giorno” era arrivato da poco più di un anno (eravamo nel dicembre del 1973) Gaetano Afeltra e il nostro quotidiano era oggetto di una cura “normalizzatrice” decisa e pesante. Che poteva ben sintetizzarsi nel titolone del luglio 1972 “La Polizia espugna la Statale”. Figuriamoci se uno come Guido, allora criticamente vicino al Movimento Studentesco, poteva continuare a lungo a lavorare in un giornale del genere. Ero nel Comitato di redazione, cercai di convincerlo a restare ancora, a darci una ORDINE 10 2000 Vecchio Guido, te ne sei andato anche tu. Io, ingenuo e folle, nonn vedendoti, dopo che ti eri rintanato a Rimini, pensavo saresti vissuto in eterno. Tu c’eri sempre, eri a Rimini. E proprio l’altra notte, tra sabato 11 e domenica 12 ti ho sognato assieme a diversi altri vecchi colleghi del grande “Giorno” (Giulio, Cisco, Marco Nozza, Pier Maria Paoletti e altri vivi che non nomino). E alzandomi sorridevo, mentre mi chinavo sullo zerbino della porta di casa per raccogliere il “Corriere”. La macchinetta del caffè ha cominciato a gorgogliare e io a sfogliare il giornale distrattamente, fino ai necrologi che mia moglie milanese mi ha abituato a guardare. Un sobbalzo: “Gaetano Tumiati piange la morte di Guido Nozzoli”. So che se ti avessi raccontato di questa coincidenza, mai accadutami prima (e su episodi così ho sempre irriso le mie vecchie sorelle del Sud) tu avresti sorriso e poi magari mi avresti spiegato perché accadono. Ma tu, Guido, non ci sei più ed io non riesco a crederci. Passavi, di notte, finché eri a Milano, a trovarmi alla redazione esteri, dove ero di turno. “Fuma, se permetti prendo un po’ di carta”. “Guido, quella risma è tutta tua”. Ti avrei dato tutto Le sue cronache ricordavano Brecht perché sapevo che avresti subito cominciato a deliziarmi, affabulatore unico, sugli ultimi episodi della commedia politica italiana. Non ho mai dimenticato i tuoi strepitosi reportages. Come quello, per dirne uno solo, quando, primo inviato italiano in Vietnam, dopo aver descritto da maestro quel terribile inferno di fuoco, spiegasti: “Per capirci, gli americani combattono i piccoli vietcong come un fabbro che per uccidere un moscerino adopera un martello”. O le tue cronache da antologia sulla tragedia e poi sul processo del Vajont. A me sembrava dopo aver “passato” il testo in tipografia, di aver letto Brecht, con il sottofondo musicale di Weill, tanto era ben riprodotta anche la mimica dell’entrata in scena di imputati, giudici, testimoni e avvocati. Ora, Guido, non ci sei più. Chissà dove è finito quel cinturone con cui stringevi il tuo stomaco un po’ debordante. Quando, scherzando, te lo facevo notare, mi rispondevi: “Cosa vuoi, mi sono... imborghesito”. I ricordi galoppano. Una volta, eri da poco arrivato al mano nella difesa sempre più ardua di quel “patrimonio di famiglia” rappresentato da un giornale avanzato, aperto e progressista. Non ci fu niente da fare. Aveva esaurito la riserva di pazienza. Mi elencò i progetti di libri che avrebbe scritto da pensionato, sui “birri” riminesi, sull’amatissimo Cipriani, su altro ancora. Purtroppo non ne ha pubblicato nemmeno uno. Probabilmente ci sono appunti e prove di stesura, e però del tutto inedite. Qualcosa si era rotto dentro di lui – che pure era un narratore dalla prosa ricca, intensa, aguzza – prima con la grave malattia della figlia Serena, impegnata nel movimento femminista, già giovane scrittrice, e poi con la sua precoce scomparsa. Una ferita profonda che in Guido non si rimarginò mai. Così, la sua bibliografia è rimasta purtroppo assai più scarna di quanto il Nozzoli scrittore non meritasse. Se non vado errato, gli unici libri di Guido sono il volume dedicato alla Resistenza nel Ravennate, “Quelli di Bulow. Cronaca della 28 Brigata Garibaldi” (Editori Riuniti), e l’altro realizzato su “I ras del regime. Gli uomini che disfecero gli italiani” (Bompiani). Il primo, finito di scrivere nel 1955 e pubblicato quasi due anni dopo, gli procurò grandi amarezze e i primi seri screzi col partito: Nozzoli si era buttato a scriverlo con un impegno totale, come sapeva lui, ed ambiva ad un premio che invece venne assegnato al libretto subito dimenticato di un funzionario di partito il quale presso la nomenklatura contava molto più di lui sempre insofferente e in odore di eresia. A rileggerne oggi la prefazione, si coglie per intero il personaggio: “Spesso, scrivendo queste pagine e rievocando il sacrificio di questi compagni, la commozione mi ha fatto groppo in gola. La commozione non è un sentimento da storico; ma io non sono uno storico, sono un giornalista, cioè un cronista. E sono un romagnolo che ama la sua terra, la sua gente, la sua idea. Ovunque io vada ne porto il ricordo chiuso in me come la cosa più cara della mia vita. Non v’è viaggio che possa cancellare in me quel paesaggio che riposa fra i dolcissimi colli dell’Appennino e la riva dell’Adriatico, fra il Sillaro e il Marecchia”. Il secondo libro, uscito nel 1972, porta una dedica significativa: “Ai miei figli Serena e Daniele e a tutti i giovani come loro che vogliono essere liberi”. In esso erano stati raccolti e integrati gli articoli rievocativi, ampi e ben costruiti, che Guido aveva pubblicato sul rotocalco domenicale del “Giorno”, col corredo di fotografie del ventennio decisamente rare. Nella prima puntata campeggiava una immagine di grandi dimensioni con Mussolini che in auto lasciava il Quirinale dove Vittorio Emanuele III gli aveva appena assegnato l’incarico di formare il governo, dopo la Marcia su Roma. Sul predellino della macchina era salito un giovanotto elegante, che sfoggiava una spiritosa paglietta ed un sorriso soddisfatto: era, ben identificabile, Francesco Malgeri che poi doveva dirigere il “Messaggero” dal 1932 al 1941 e che, al tempo della rievocazione di Nozzoli, era diretORDINE 10 2000 “Giorno” dall’“Unità”, mi dicesti: “Per Dio, Fuma, guarda la mia busta”. Uscivamo insieme il giorno di “sanpaganino” dall’ufficio di Rovetti, l’ufficiale pagatore. Guardai e rimasi sconvolto. Io, peone, guadagnavo più di te, anche se per via degli scatti di anzianità. Ma tu mi desti subito la spiegazione. Con un ticchio del naso che incrinava il tuo stupendo accento romagnolo, mi dicesti: “Sai, Italo Pietra mi dà il minimo sindacale, perché dice che ha già fatto il miracolo di fare entrare un comunista al Giorno”. A proposito, Guido, apprendo adesso dai necrologi che tu eri un massone. Non lo sapevo. Voglio solo dirti che a me, credente, non me ne frega niente. Mi ha unito a te la stima altissima che concepii man mano che leggevo i tuoi servizi e che aumentò quando mi confidasti il dolore che ti attanagliava per la malattia di tua figlia, quell’angelo che io avevo conosciuto alle Acli di Milano e che poi se ne andò giovanissima. Di te fui sempre amico e ammiratore e ti considerai assieme ai Nasi, ai Paoletti, ai Nozza e pochi altri un autentico giornalista. Non posso ancora credere che a Rimini non c’è più Guido Nozzoli. Ciao Guido! Tuo Peppino Fumarola tore generale al “Giorno”, incaricato dai dorotei di far fuori, con mano pesante e tuttavia senza riuscirvi, il direttore, Italo Pietra. Le risate e i sarcasmi al giornale si sprecarono. Malgeri, che aveva un sorriso lampeggiante, precisò a denti stretti: “Ero un giovane cronista e Mussolini mi aveva invitato a salire in auto con lui per darmi il programma di governo”. “Sì, però da quell’auto non è più sceso, per vent’anni”, commentò tagliente lo stesso Pietra. Alla galleria dei gerarchi (da Arpinati a Farinacci, a Bottai, a Grandi, a Balbo, dieci complessivamente) mancava però il ravennate Ettore Muti, “Gim dagli occhi verdi”, come l’aveva battezzato a Fiume Gabriele D’Annunzio, bello e forte, tanto coraggio e poca testa (“Muti d’accento e di pensier”, si ironizzava nel ventennio), fatto ammazzare, con ogni probabilità, dal maresciallo Badoglio che ne temeva la popolarità, dopo l’8 settembre 1943. Fui io a convincere Guido a scriverne un ritrattone per il libro su Ravenna che stavo realizzando insieme a Tino Dalla Valle. Così la sua seconda e, credo, ultima opera poteva dirsi completa. Le altre sono rimaste, a quel che se ne sa, un progetto, anche se Nozzoli scrisse contributi cospicui su Romagna & Romagnoli in libri antologici dedicati alla terra di origine e al concittadino Fellini, che erano già idee di base da tradurre in volume. Quand’ero direttore del “Messaggero” gli telefonai insistentemente per chiedergli se lui, così bravo nella rievocazione storica, non avrebbe voluto scrivermi una serie di pezzi sui cinquant’anni dalla guerra d’Africa. Mi ringraziò amichevolmente e però fu fermissimo nel sottrarsi. Non so perché. Si schermiva dicendo che, in pensione, nella sua Rimini, preferiva dedicare il tempo libero al lavoro di “stipettaio” – come puntigliosamente si autodefiniva – fabbricando mobili o modellini di mobili (che non avemmo mai modo di vedere). Mi raccontarono che aveva finito per occupare col suo laboratorio gran parte della casa fino a quando la moglie Anna, con lui pazientissima, non gli aveva intimato l’alt. Guido amava la vita, la compagnia, la convivialità, anche se il temperamento romagnolo (di una volta) lo portava spesso a dure spigolosità e anche a rotture taglienti. Lo vidi però apertamente, dichiaratamente commosso al Teatro Novelli di Rimini allorché per pochissimi voti alla fine di una interminabile seduta notturna i giornalisti italiani riuniti a congresso elessero loro presidente Paolo Murialdi, un altro della banda del “Giorno”, un coetaneo, il primo presidente della Federstampa che venisse dalla Resistenza. Corse a casa e ne tornò con un paio di bottiglie di Sangiovese che stappò in quell’alba di settembre del 1974 costringendo affettuosamente tutti noi, morti di sonno e di fatica, ad alzare il bicchiere per salutare felici il singolare evento (compreso l’astemio Antonio Airò), davanti al mitico Grand Hotel di Rimini biancheggiante al primo sole mentre partivano per la gita a San Marino e a Urbino i pullman dei turisti tedeschi. I NOSTRI LUTTI Franco Belli, rigore e senso del dovere di Emilio Pozzi Il rigore di Franco Belli si è manifestato ancora una volta, quando ha avuto la sensazione, per inquietanti segnali premonitori, di non farcela più: prima di uscire di casa per andare in clinica, si è seduto alla scrivania e ha preparato, scrivendolo a mano, un asciutto necrologio: “Silvana Belli annuncia con profondo dolore la morte di….” E questo per togliere alla moglie una dolorosa incombenza. Condensato in un aggettivo, “profondo”, c’era il senso di un’unione, quarantadue anni di vita in comune, sottolineata dalla scoperta, negli ultimi anni, di aver riimparato a ridere insieme. Quel gesto, il necrologio scritto da sé prima di lasciare l’appartamento di via Bigli (“in questa casa non ci tornerò più”, dirà, prima di salire sul taxi) ha stupito e sconcertato molti. Non certo gli amici, che in quell’atto, freddo e lucido, hanno ritrovato un altro segno di coerenza, di coraggio e di immenso rispetto per gli altri. A salutare Franco, nell’area della clinica “La Madonnina”, destinata agli ultimi adempimenti mortuari (il cliente non abita più qui), ci siamo ritrovati, in un pomeriggio dell’inizio di ottobre, in molti, venuti da tante parti, ciascuno testimone di una frazione della sua vita di lavoro: chi lo ricordava alla “Notte” di Nutrizio, con i suoi esordi di fotografo, chi al “Giorno”, chi al “Corriere”, chi al “Tempo”, chi a “Repubblica” dove ha guidato la pattuglia della prima redazione milanese. Guido Vergani rammentava il suo contributo al recentissimo “Dizionario della Moda”. Nella vita di lavoro era severo. Nessuno, dei tanti giovani che aveva contribuito a crescere (si era guadagnato il titolo di “zio”) può dire di aver mai ricevuto una pacca sulla spalla (però a casa parlava di ciascuno con affetto). Nel suo dolore era serena Silvana. A chi le stava vicino, mentre la burocrazia perdeva tempo in imbarazzanti lungaggini, raccontava sommessamente di Franco: delle sue ultime giornate in clinica, di una telefonata, alle tre di notte, per dirle che si era rivestito per andarle a comprare un libro, delle raccomandazioni minuziose da dare a Piero, per la potatura degli alberi, a Missano di Bettole. Franco amava la campagna e il mare (l’isola d’Elba gli era nel cuore), la musica, tutta, e i suoi due gatti, Biondo Romeo e Minouche. Un risvolto di vita, questo, che è giusto ricordare, lontano dalla quotidianità di giorni e notti, anni, trascorsi a obbedire alla legge della chiarezza e della precisione, a insegnare a non tirar mai via. Le ceneri di Franco (era nato a Varese nel 1927) sono ora in quella terra dei colli piacentini, tra vigne e boschi, vicino ai contadini che lo vedevano arrivare il sabato e sapevano del suo amore per le piante, il rosmarino soprattutto, i fiori , la natura. Per loro non era il burbero “zio” e, in suo onore, hanno mangiato buone e semplici torte, ricordandolo com’era. Franco Belli non avrebbe voluto sopravvivere a menomazioni fisiche o mentali che certe malattie portano con sé, spesso causa degli stress del nostro lavoro. Non sarebbero tornati i conti con la sua pagella umana e professionale. Di rigore e di umiltà: quella consapevole umiltà, ecco ancora una volta il rigore, che non ci fa trovare, nel suo curriculum, un libro di ricordi, di saggistica o di narrativa. Mi rendo conto di non essere certamente io il collega più meritevole di ricordarlo in queste nostre pagine. Lo considero, però, un privilegio perché mi viene data la possibilità di testimoniare, - per un breve tempo di lavoro trascorso insieme, quand’era responsabile delle pagine degli spettacoli al “Giorno”, un periodo non facile nei rapporti personali la sua integrità, la sua onestà e un senso assoluto del dovere nei confronti del nostro unico vero padrone: il lettore. Massimo Miggiano, un grafico moderno Milano, martedì 28 novembre. Sabato notte, come di consueto, si era fermato in redazione sino alla chiusura della seconda edizione. Domenica pomeriggio, ad appena 53 anni, Massimo Miggiano ci aveva già lasciati, tradito da un cuore che mai gli aveva inviato messaggi di cui preoccuparsi. Una morte tanto improvvisa quanto discreta, fotocopia dei tanti anni trascorsi a far quadrare i conti di una grafica con la quale giocava a rimpiattino per la sua invidiata bravura. Massimo era arrivato al “Sole-24 Ore” il 2 maggio 1975. Il giornale, a quei tempi, contava soltanto su una manciata di redattori. E lui si era messo subito in evidenza per la voglia di fare, di distinguersi. A cominciare dal settore normativo, che iniziava allora a muovere i primi passi e che lo aveva visto per un certo periodo attivo protagonista. Non a caso ben presto sarebbe stato nominato caposervizio e successivamente, con la responsabilità dell’intero settore grafico, vicecaporedattore. In parallelo sarebbe arrivato anche il colpo di fulmine, che l’avrebbe portato a sposarsi con una “compagna di banco”, del giornale, Rosalba Luparia e ad avere un bambino, Carlo, che ora ha vent’anni. E a loro va tutto l’affetto dei colleghi, che in tutti questi anni hanno avuto Massimo (il Max appassionato, veloce di computer, sempre disponibile) a loro fianco. Impossibile non volergli bene. (da “Il Sole 24 Ore” del 28 novembre 2000) L’ECO DELLA STAMPA ECO STAMPA MEDIA MONITOR S.R.L. Via Compagnoni 28, 20129 Milano Tel. 02 74 81 131 Fax. 02 76 11 03 46 21 (29) 22 (30) ORDINE 10 2000 Ai funerali di Valentina un inviato di 11 anni Cronaca e lavoro: giurisprudenza della Cassazione Pollena Trocchia (Napoli), 16 novembre. Dall’alto dei suoi 140 centimetri d’altezza Alessio, undici anni, è un inviato... molto speciale ai funerali della piccola Valentina, la bambina di due anni uccisa domenica mattina davanti al negozio di fiori dello zio, nella cui sparatoria sono rimasti feriti anche il padre e la mamma, Raffaele Terracciano e Maria Civita, entrambi di 28 anni. Il piccolo, “armato” di carta e penna, raccoglie appunti e commenta il funerale dal “suo mondo dell’infanzia”. “Da grande - dice il ragazzino - voglio fare il giornalista. È la mia passione principale, già da un anno scrivo e commento i fatti che accadono nel mio paese. A fine anno pubblico le mie notizie in un giornalino, con l’aiuto di mamma e papà”. Ha dato anche un nome alla testata: “Daily Planet”, il giornale di Superman, il personaggio dei fumetti che preferisce. Alessio, frequenta il primo anno della scuola media di Pollena, “Raffaele Viviani”. Il piccolo si avvicina ai numerosi inviati delle televisioni e dei giornali, presenti davanti alla chiesa di Pollena. Chiede loro per quali giornali scrivono, come si diventa giornalista, come ”nasce“ la notizia. (ANSA) La critica e la satira non devono degenerare nell’insulto gratuito – Va rispettato il limite della continenza nella forma espositiva (Sezione Terza Civile n. 14485 del 7 novembre 2000, Pres. Iannotta, Rel. Lupo). L’azione per ottenere il risarcimento del danno causato da diffamazione internazionale a mezzo stampa deve essere promossa nello Stato in cui si è verificato l’evento dannoso – Ossia dove il periodico è stato edito o distribuito (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1141 del 27 ottobre 2000, Pres. Vela, Rel. Olla). Il settimanale l’Espresso ha pubblicato nel dicembre del 1990 un articolo di Giampaolo Pansa che conteneva la frase: «Quando Forlani spedì Bruno Vespa a dirigere il TG1, qualcuno mi disse: “Preparati a vederne d’ogni colore. Quello lì ha lo sguardo del sicario, bovino umidoso, ma con lampi di sadismo che promettono sfracelli”». Bruno Vespa ha chiesto al Tribunale di Roma di condannare il direttore del periodico, l’autore dell’articolo e l’editore al risarcimento del danno. L’azienda si è difesa sostenendo di avere correttamente esercitato il diritto di critica e di satira. Il Tribunale, con sentenza del febbraio del 1993, ha respinto la domanda. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Roma che, con sentenza del dicembre del 1996, ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno non patrimoniale, liquidato in via equitativa in misura di 50 milioni nonché alla riparazione pecuniaria prevista dall’articolo 12 della legge n. 47 del 1948 in misura di 10 milioni. La Corte ha rilevato che la frase oggetto del contendere, valutata sia da sola che nel contesto dell’articolo, non si collegava direttamente ad altri argomenti usati dall’articolista e sconfinava in uno sprezzante dileggio, travalicando i limiti del diritto di critica e di satira. La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 14485 del 7 novembre 2000, Pres. Iannotta, Rel. Lupo) ha rigettato il ricorso proposto dai giornalisti e dal direttore dell’“Espresso”. Il requisito della correttezza della forma espositiva (cosiddetta continenza) – ha affermato la Corte – sussiste non solo per l’informazione di cronaca ma anche per i commenti di natura critica e per la satira. La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui il diritto di critica, anche politica, pur consentendo toni aspri, non può mai sconfinare nella pura contumelia e non consente l’uso di affermazioni gratuitamente denigratorie e di mero disprezzo. Anche il diritto di satira, quale particolare forma del diritto di critica – ha precisato la Corte – non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva; l’esigenza della continenza è stata affermata dalla Cassazione penale anche nel caso in cui si adoperino vignette e caricature e quindi a maggior ragione non può essere negata quando, come nel caso di specie, la satira si esprima in forma esclusivamente verbale. La sentenza della Corte d’Appello di Roma – ha affermato la Cassazione – deve perciò ritenersi giuridicamente corretta nella parte in cui ha affermato che il diritto di critica non può essere inteso come “diritto del libero insulto”. L’attrice A. P. ha promosso davanti il Tribunale di Bologna un’azione giudiziaria nei confronti della società svizzera Can Publishing, editrice della rivista Union edita in Svizzera e stampata in Francia, chiedendone la condanna la risarcimento del danno per avere pubblicato, al fine di promuovere una “hot line” telefonica, una sua fotografia con didascalia di contenuto estremamente offensivo. L’attrice ha sostenuto che, pur non essendo la rivista Union distribuita in Italia, la sua reputazione era stata danneggiata anche in questa nazione, in quanto la notizia della pubblicazione era stata ampiamente ripresa da giornali italiani. La società svizzera ha proposto, davanti alla Suprema Corte, regolamento preventivo di giurisdizione sostenendo che in base all’art. 5 della Convenzione di Lugano del 16.9.1988 l’azione giudiziaria avrebbe dovuto essere promossa in Svizzera e non in Italia. La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 1141 del 27 ottobre 2000, Pres. Vela, Rel. Olla) ha accolto il ricorso, dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice italiano. La Corte ha rilevato che in base all’articolo 5 della Convenzione di Lugano “il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato, in materia di delitti o quasi delitti, davanti al giudice del luogo in cui l’evento dannoso si è verificato”. Nel caso di diffamazione internazionale a mezzo stampa – ha precisato la Corte – questa norma deve essere interpretata nel senso che la competenza giurisdizionale appartiene, oltreché al giudice dello Stato del convenuto, al giudice: a ) del luogo dell’evento–generatore, ossia del luogo dove è stabilito l’editore della pubblicazione controversa; b) dei luoghi ove la pubblicazione diffamatoria è stata diffusa e quindi ove si è manifestato il danno direttamente riconducibile all’azione dell’editore. Non è rilevante ai fini della giurisdizione – ha aggiunto la Corte – il luogo in cui è stato distribuito un mezzo di stampa che abbia “ripreso” il fatto diffamatorio, ossia si sia limitato a dare notizia che un altro giornale non collegato editorialmente è stato pubblicato un fatto idoneo a ledere la reputazione di una persona fisica o giuridica. Le Sezioni Unite hanno richiamato i principi affermati dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sentenza 7.3.1995 resa nella causa C-68/93, Fiona Shevill c. Presse Alliance S.A., che ha interpretato l’articolo 5 della Convenzione di Bruxelles del 27.9.1968, identico nella formulazione all’articolo 5 della Convenzione di Lugano. Definire un disc jockey “sballato” può costituire diffamazione – La critica non deve trascendere nel dileggio e nella contumelia personale (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 10119 del 25 settembre 2000, Pres. Lacanna, Rel. Amato) e pertanto ha condannato P.E. alla pena della multa e al risarcimento del danno in favore della parte civile. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano, che ha ravvisato nelle espressioni usate da P.E. una violazione del limite della continenza. La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 10119 del 25 settembre 2000, Pres. Lacanna, Rel. Amato) ha rigettato il ricorso dell’imputato, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui la critica, se anche può assumere toni vibrati, non deve trascendere nel dileggio e nella contumelia personale: sicché possono ritenersi giustificate solo le espressioni strettamente correlate alla critica e ad esse strettamente funzionali, mentre non lo sono quelle ultronee allo scopo e gratuitamente offensive della persona. Poiché il tema dell’intervista era costituito dal possibile uso di droga da parte di appassionati della techno music – ha osservato la Corte – l’epiteto “sballato” assumeva una connotazione diffamatoria, evidenziata anche dal termine “pseudo-redenzione”. (www.legge-e-giustizia.it). Il disc jockey E.P. ha rilasciato nel 1993 al quotidiano “Il Giornale”, un’intervista sul genere musicale denominato “techno music” sostenendone la pericolosità per i suoi possibili effetti di induzione al consumo di droga. Riferendosi ai suoi colleghi P.G. e F.E. egli ha espresso stupore “per la pseudo-redenzione dei due deejay più sballati d’Italia”. I due lo hanno querelato per diffamazione. E.P. si è difeso sostenendo di avere esercitato il diritto di critica e di non aver fatto ricorso a termini ingiuriosi, in quanto il termine “sballato”, diffuso nel gergo giovanile, non ha efficacia lesiva, poiché designa una persona euforica ovvero dotata di caratteristiche straordinarie. Il Tribunale di Monza ha ritenuto sussistente la diffamazione Antisindacale il comportamento di un’emittente televisiva che utilizza come dipendenti i soci di una cooperativa appaltatrice dei servizi giornalistici - Per mancato rispetto degli obblighi di informazione previsti dalla legge n. 223 del 1991 in occasione di una riduzione del personale e per l’eliminazione di lavoratori rimasti fedeli al sindacato (Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, ordinanza del 20 ottobre 2000, Est. Arbore). La Telenorba S.p.A. è titolare di due emittenti televisive operanti in Puglia, che diffondono, tra l’altro, informazioni giornalistiche mediante telegiornali, notiziari e rubriche. Sino al 1982 i servizi giornalistici sono stati realizzati da dipendenti diretti di Telenorba, ai quali veniva corrisposto un trattamento inferiore a quello previsto dal contratto nazionale di lavoro giornalistico. Successivamente, in seguito alla conciliazione di vertenza da loro promossa per ottenere l’applicazione del CNLG, i dipendenti della Telenorba addetti all’informazione hanno costituito la cooperativa “Comunicazione & Immagine”, alla quale Telenorba ha affidato, in appalto, la realizzazione di tutti i suoi servizi giornalistici; della cooperativa sono entrati a far parte anche alcuni tecnici, in precedenza legati all’emittente da contratti di collaborazione autonoma. Telenorba ha mantenuto alle sue dipendenze un solo giornalista, con mansioni direttive. Direttore responsabile della testata è stato nominato, su designazione di Telenorba, il presidente della cooperativa, che per un certo periodo è stato inquadrato alle dipendenze dell’emittente al fine di conseguire l’iscrizione nell’Albo dei Giornalisti, elenco professionisti. Nel 1996 Telenorba ha deciso di por termine al rapporto con la cooperativa al fine di auto produrre i servizi giornalistici e di ottenere in tal modo le provvidenze previste dalla legge n. 422/95 a favore delle emittenti locali. Ne è seguita una vertenza sindacale, nel corso della quale il presidente della cooperativa ha ottenuto da parte di un gruppo di soci la sottoscrizione di un documento di condanna dell’operato del sindacato. Poiché Telenorba ha mantenuto ferma la decisione di non utilizzare più la cooperativa, questa ha licenziato tutti i soci giornalisti e tecnici, una parte dei quali è passata alle dipendenze di Telenorba; sono rimasti privi di lavoro coloro che non avevano firmato il documento di condanna del sindacato. In seguito a ciò l’Associazione Regionale della Stampa di Puglia e il Sindacato dei Lavoratori della Comunicazione–CGIL hanno promosso davanti al Giudice del Lavoro di Bari un procedimento per repressione di comportamento antisindacale, in base all’art. 28 St. Lav., nei confronti di Telenorba S.p.A. sostenendo che essa era l’effettiva datrice di lavoro dei soci della cooperativa Comunicazione ed Immagine e che pertanto, in occasione del licenziamento dei 60 giornalisti e tecnici, avrebbe dovuto rispettare la procedura prevista dalla legge n. 223/91 in materia di riduzione del personale, informando previamente il sindacato della sua decisione; le ricorrenti hanno anche affermato che Telenorba aveva tenuto un comportamento illecitamente discriminatorio assumendo, dopo il licenziamento, alle sue dipendenze, solo i lavoratori che si erano allontanati dal sindacato. Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Bari, dott.ssa Angela Arbore, dopo aver sentito testimoni e acquisito documenti, con provvedimento del 20 ottobre 2000 ha dichiarato l’antisindacalità del comportamento tenuto da Telenorba S.p.A. e la nullità dei licenziamenti, ordinando all’azienda di reintegrare tutti i lavoratori e di pagare loro la retribuzione maturata dalla data del licenziamento. Il Giudice ha applicato la legge n. 1369 del 1960, che vieta l’interposizione nei rapporti di lavoro, in quanto ha accertato che i soci della cooperativa sono stati inseriti nell’organizzazione aziendale di Telenorba S.p.A., e vi hanno operato in condizioni di subordinazione, utilizzando impianti e attrezzature dell’emittente e ricevendo disposizioni da dipendenti della medesima. Il Giudice ha ravvisato l’antisindacalità del comportamento di Telenorba nel mancato rispetto delle procedure previste dalla legge n. 223/91 e nell’avere utilizzato, quale criterio di scelta del personale da eliminare, quello di punire chi non aveva sottoscritto il documento di condanna del sindacato. Garante della privacy: “Il tribunale di Trento non può dare i nomi degli emofilici” Trento, 15 novembre. Non si possono diffondere su Internet i nomi degli emofilici parti lese nel processo per il sangue infetto, che sta per aprirsi a Trento, neppure se la scelta del tribunale è stata dettata da esigenze organizzative basate sul costo delle procedure o sull’ onerosità degli accertamenti. Lo sostiene il Garante per la privacy, Rodotà. Sollecitato dalla Lila (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids) e dalla Federazione delle Associazioni Emofilici, Stefano Rodotà ha inviato una nota al ministro di Giustizia in merito alla pubblicazione sul sito Internet del tribunale di Trento delle generalità di più di 1.000 persone costituitesi parte civile per aver subito la somministrazione di emoderivati infetti. La Lila di Trento ha diffuso il testo del Garante, in cui si afferma che “la tutela di dati delicati, come quelli relativi allo stato di salute, non può essere affievolita per accordare preferenza a esigenze organizzative basate sul costo delle procedure o sull’ onerosità degli accertamenti” e si “esprime viva preoccupazione per l’inadeguata sensibilità prestata nei confronti ORDINE 10 2000 della riservatezza e della dignità delle persone offese, che sono state rese riconoscibili ad un pubblico indeterminato di persone e all’ intera opinione pubblica la cui attenzione è stata richiamata dalla cronaca”. Il Garante “ribadisce il divieto della diffusione indiscriminata di dati idonei a rivelare lo stato di salute (art. 23, legge n.675/97) e le elevate garanzie di anonimato riconosciute in particolare alle persone affette da Hiv/Aids (legge n.135/90)e deplora il fatto che ulteriori danni, derivanti dalla diffusione di dati personali e sensibili, possano derivare a persone già offese da gravi fatti-reato”. Infine Rodotà “sottolinea la necessità di integrare con urgenza le norme processuali vigenti al fine di tutelare con idonee misure organizzative la riservatezza e la dignità delle persone, ciò anche al fine di salvaguardare il diritto di difesa delle vittime di reato, che possono essere indotte a non difendersi proprio per evitare ulteriori danni legati ad un’ampia conoscenza del proprio stato di salute”. (ANSA) 23 (31)