icone nuovo - Edizioni Lipa

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icone nuovo - Edizioni Lipa
Immagini
3.
Tomáš Špidlík
Marko Ivan Rupnik
© 2000 Lipa Srl, Roma
nuova edizione di Narrativa dell’immagine (Lipa, Roma 1996), rivisto e ampliato
Lipa Edizioni
via Paolina, 25
00184 Roma
& 06 4747770
fax 06 485876
e-mail: [email protected]
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La fede
secondo le icone
In copertina particolare di Apostoli Pietro e Paolo, metà XI sec.,
Museo storico e dell’architettura di Novgorod
Selezioni e pellicole: Studio Lodoli Sud, Aprilia
Stampato a Roma nell’ottobre 2000
da Tipografia Città Nuova, via san Romano in Garfagnana, 23
“È il tempo quando fiorisce il tiglio”
Proprietà letteraria riservata
codice ISBN 88-86517-54-8
Lipa
Indice generale
Introduzione
5 Introduzione
21 La Trinità
35 La Natività del Signore
41 La Trasfigurazione
45 La Crocifissione
53 La Deposizione dalla Croce
Alcune domande iniziali
57 La Discesa agli Inferi
La diffusione che incontra anche in ambito occidentale un elemento tipico della pietà orientale come l’icona pone degli interrogativi che
spingono a fare alcune considerazioni. Perché l’icona è cosí di moda?
Perché intorno ad essa c’è tanta idealizzazione? Perché accade anche all’icona, come ad ogni stile artistico, che in un certo periodo storico abbia il suo momento di fulgore e poi, inevitabilmente, la decadenza? Come mai oggi si cercano di imitare le icone del periodo “classico” e non
quelle successive, altrettanto oggetto di devozione, avvolte da incenso,
candele e pietà? Perché oggi si dipingono icone quasi formalmente perfette, ma senza le preghiere, i digiuni, le veglie, la purificazione che ne
accompagnavano la pittura nel passato? Non significa forse che si considera l’icona semplicemente una specifica tecnica artistica da imparare con
un po’ di talento, mentre il suo contesto religioso appartiene ad un’epoca ormai superata? Inoltre, mentre le icone hanno come esplicito contesto e ispirazione la fede cristiana, oggi, sempre piú frequentemente, il riferimento ad esse è un riferimento genericamente religioso.
Non è possibile non interrogarsi su che cosa stia a monte del “fenomeno” dell’icona. Ai nostri giorni, anche in Occidente, quando i giovani si raccolgono in preghiera, raramente lo fanno davanti ad una raffigurazione sacra appartenente al periodo compreso tra il rinascimento
e i nostri giorni. Scelgono di preferenza le icone. L’interesse intorno all’icona cresce insieme a quello per l’arte medievale, che nel campo della pittura si specifica nell’attenzione a maestri come Cimabue, Giotto,
Duccio di Buoninsegna... Tuttavia con una differenza: perché si cerca di
imitare un’icona di Rublëv e non, ad esempio, una Maestà di Duccio?
È solo una questione di moda?
61 L’Ascensione del Signore
63 La Pentecoste
67 Il Giudizio Finale
71 San Giorgio
77 Spas Nerukotvornyj
81 Sposalizio di san Gioacchino e di sant’Anna
85 La Natività della Vergine
87 L’Introduzione nel Tempio
91 L’Annunciazione
95 La Festa dell’Incontro
97 I Lamenti su Cristo morto
101 La Dormizione
105 La Vladimirskaja
109 La Madonna del Segno, detta anche l’“Orante”
113 La Regalità di Maria
117 L’Hodighítria, Conduttrice in via
119 Sotto la tua protezione
123 Deisis
125 Roveto incombustibile
129 Sorgente di vita
133 La Divina Sapienza
135 Maria - Paradiso
139 Di te si rallegra
Per le referenze iconografiche si rinvia a pagina 141
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
L’icona e una cultura dell’immagine
Possono esserci tante risposte a questi interrogativi. Soprattutto oggi, nella nostra epoca definita “postmoderna” e caratterizzata dalla nostalgia del passato, entusiasta di “citazioni” prese da tempi lontani e
messe in contesti post-industriali, post-ideologici. Molte di queste risposte possono trovare riscontro nel fatto che siamo in un’epoca di linguaggi semplici, in una cultura dell’immagine, senza con ciò tuttavia
che le persone siano iniziate ad una lettura dell’immagine. Il pensiero—
talvolta anche quello teologico—è cosí tanto ridotto al razionalismo da
non essere piú in grado di fornire strumenti per una comprensione piú
integra della vita. L’esperienza non prende forma per l’uomo senza una
mediazione simbolica del sensibile, senza la capacità di leggere una narrativa dell’immagine, realtà che di per sé esige una struttura di pensiero piú integra. Senza questo suo rimandare oltre, senza questo comunicare
una realtà piú reale e profonda, senza questa capacità di comunicazione, l’immagine diviene ragione a se stessa: colpisce, attira, sottomette,
possiede, seduce, finendo per negare la libertà.
In questa cultura dell’immagine, dove però anche le immagini assumono linguaggi sempre piú soggettivi—dove quindi anche l’immagine, che si penserebbe volta al recupero di una maggiore integrità del
pensiero e dell’espressione, contribuisce ad indebolire la comunicazione—nasce tuttavia l’esigenza di un linguaggio trans-individuale che apra
all’alterità e renda ragione dell’essere nella sua complessità. Qui c’è sicuramente uno dei motivi dell’interesse che suscita l’icona, insieme ad
altri suggeriti dalla sua stessa natura e che cercheremo di percorrere.
Icona: Parola e Immagine
L’icona è un’immagine, ma un’immagine sui generis. È un’ImmagineParola. L’icona ha un percorso storico e teologico che converge nell’unità della Parola-Immagine. Essa infatti coglie la Parola di Dio come Immagine. Talvolta, con riferimento a raffigurazioni sacre occidentali, si
dice che si tratta della biblia pauperum. Non è esatto. L’icona, Parola-Immagine, non può essere confusa con ciò che in Occidente conosciamo
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Introduzione
come biblia pauperum. Ciò è vero solo nella misura in cui non si confonda l’icona con una semplice resa figurativa di episodi biblici. Le raffigurazioni sacre definite biblia pauperum sono quasi di regola un’interpretazione tendenzialmente scenografica di ciò che è contenuto nella
Sacra Scrittura. Solo alcune volte vi si trovano accenni ad un’interpretazione spirituale degli episodi raffigurati. Spesso si tratta di un’elaborazione condizionata da connotazioni culturali, cioè, ad esempio, si arricchisce il racconto biblico collocandolo in un preciso contesto attraverso
la resa figurativa di costumi di un luogo preciso, proprio perché si cerca di illustrare in maniera “realistica” la pagina scritturistica. Le sacre
rappresentazioni medievali erano proprio caratterizzate dal tentativo di
dare figurazione al racconto biblico, benché talvolta presentassero una
maggiore complessità teologico-spirituale e di linguaggio.
La comunicazione
Da quanto detto, sorge spontanea una domanda: qual è il significato dell’arte figurativa nel cristianesimo? Agli inizi dell’arte cristiana, cosí come essa si presenta nelle catacombe, l’elemento essenziale è la comunicazione. Un’immagine, dipinta o scolpita, diventa un elemento di incontro tra i cristiani, una sorta di “simbolo” in cui essi si riconoscono.
Cosí, ad esempio, è per il pesce. Quest’immagine tuttavia non è solo un
riconoscimento, ma si fa comunicazione di un contenuto spirituale, teologico—quasi sempre di tipo kerigmatico—che comunica la memoria di
Cristo risorto. Spesso tale comunicazione della memoria di Cristo attinge
alla memoria dei personaggi che prefiguravano il Signore nell’Antico
Testamento (Isacco, Mosè, Giona...). Con la prima pittura cristiana appare una dimensione “nuova”: quella della comunicazione di Cristo e
di ciò che lui ha compiuto. Si può dire addirittura che l’elemento illustrativo è quasi assente nell’arte paleocristiana e che la vera e propria resa figurativa, illustrativa, della Bibbia la troveremo solo secoli piú tardi.
L’icona, Parola visibile
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
Sulla scia della dimensione comunicativa che attinge alla memoria,
lungo i secoli si sviluppa nell’iconografia una riflessione che potremmo
oggi reinterpretare cosí: il Lógos, in Gesú Cristo, si rivela come l’immagine del Figlio a noi accessibile: «Ciò che era fin da principio, ciò che
noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò
che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita...» (1Gv 1,1). Cristo annuncia, insegna, comunica la parola del Padre (cf Mt 11,27). Di lui viene detto che parla come uno
che ha autorità (cf Mt 7,29; Mc 1,22; Lc 4,32). L’esegesi moderna ci insegna che il “parlare con autorità” aveva nel mondo semitico almeno due
connotazioni. Anzitutto che colui che parla deve essere mandato. Nella
Scrittura ci sono tanti esempi a questo proposito, come Mosè, che può
tornare al popolo dal deserto solo con un mandato. Cristo stesso si richiama spesso al fatto di essere mandato (cf Mt 10,40; Gv 8,42; 12,44; 17,8;
17,23). E a sua volta Lui manda i discepoli (cf Mc 3,14; Lc 9,2; Gv 17,18;
20,21). L’altro elemento indispensabile è che ciò che si dice si fa vedere.
La parola dev’essere visibile, a tal punto che i prodigi e le opere che essa annuncia possano essere testimoniati: «Il Signore operava insieme
con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano»
(Mc 16,20). La parola è infatti operante. Ora, Cristo, poiché è il Lógos, la
Parola incarnata, è un’immagine, il prodigio piú grande che Dio abbia
operato. Per questo è la Parola d’autorità per eccellenza: ciò che Lui dice, in Lui si vede. Cristo parla nei vangeli del perché è venuto nel mondo: dice sia che è venuto per insegnare, sia che è venuto per essere consegnato all’ora della passione, affinché si compia la volontà del Padre.
Da questo si vede chiaramente che il mandato del Padre (la volontà del
Padre) si compie allo stesso tempo nella parola-insegnamento e nell’opera, nel prodigio (l’essere consegnato nelle mani degli uomini nella
passione). Ciò significa che, se Cristo è venuto per dire che Dio è il Padre buono, che è l’Amore, lo fa vedere proprio nel suo corpo consegnato agli uomini.
L’icona, ambiente di riflessione teologica
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Introduzione
La vera arte cristiana, arte che procede sulla scia della comunicazione, è possibile allora solo sulla base della teologia dell’incarnazione.
È quindi su una base cristologica che si sviluppa. Soprattutto dopo il
Concilio di Calcedonia (451), che definisce le principali questioni cristologiche relative all’umanità e alla divinità di Cristo, l’icona si sviluppa come una vera e propria arte della fede cristiana. L’iconografo può
allora dipingere le creature nella loro verità, perché Cristo ha comunicato attraverso la sua umanità la visione che il Padre ha sul creato. E
poiché Cristo, nella sua umanità, ci è accessibile, anche la sua comunicazione del Padre diviene a noi accessibile: «Dio nessuno l’ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato»
(Gv 1,18). L’arte cristiana, soprattutto quella iconografica, cercherà allora
di rappresentare il mondo secondo la visione del Padre che in Cristo ci
viene comunicata. «Ciò che il libro ci ha detto con la Parola, l’icona ce
lo annuncia con il colore e ce lo rende presente», dichiara il VII Concilio ecumenico (869-870).
L’icona avrà sempre un linguaggio complesso, solo apparentemente semplice. Come apparentemente semplice era il destino storico di
Cristo, ucciso come tanti altri uomini, che però con questo evento comunica la realtà che sta a fondamento della storia e dell’esistenza stessa dell’uomo: l’Amore del Padre. Cristo è una immagine che narra senza fine la storia dell’amore divino. L’icona è un linguaggio complesso,
perché è immagine e allo stesso tempo parola, è rivelazione e allo stesso tempo anamnesis, memoria. Forse si potrebbe addirittura dire che il
fascino piú grande dell’icona consiste in questa straordinaria unità della parola-immagine, che comporta, a livello psicologico-comunicativo,
l’unità di concetto e sentimento, di ragionamento ed intuizione.
Ma, come tutti i simboli nella vita cristiana, l’icona rappresenta una
realtà spirituale oggettiva nella quale avviene la comunicazione di ciò
che è significato. Cosí l’icona non è solo un’immagine espressione dello slancio dell’uomo verso Dio, della sua offerta, ma è anche—come dice Leonid Uspenskij—«la discesa di Dio verso di noi, una forma nella
quale avviene l’incontro di Dio con l’uomo, della grazia con la natura,
dell’eternità con il tempo».
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
L’icona rappresenta e comunica una visione spirituale del mondo,
della storia e dell’uomo stesso. Se “spirituale” è tutto ciò che nell’azione dello Spirito Santo ci parla di Dio, ci rende simili a Lui, la realtà assolutamente spirituale, in questo senso, è il Figlio di Dio, Gesú Cristo,
che può dire di sé: «chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Anche
qui abbiamo un’altra conferma di come l’icona sia radicata nel dogma
di Calcedonia: l’icona professa il vero Dio e il vero Uomo nella sola Persona di Cristo. Il Verbo, il Figlio di Dio, si incarna per opera dello Spirito Santo e assume la natura umana. Tutto ciò che è veramente umano è allora assunto in Cristo, il che significa che trova in Lui il suo vero
significato. E tutto ciò che è di Dio si esprime e si comunica alla storia
nell’Uomo Gesú Cristo. L’icona è dunque una realtà nella quale si compenetrano, in una comunicazione reciproca, divino e umano, cogliendo
l’opera della redenzione nella storia nei suoi tratti piú autentici.
L’icona, abitazione del Signore
L’icona è dunque considerata uno spazio inabitato dal Signore stesso. È una presenza teurgica, in quanto continua la presenza della grazia
che salva, che purifica, che divinizza. Questa inabitazione, nella tavola
di legno, nei colori che vi sono stesi, nelle figure che vi sono disegnate,
avviene ad un triplice livello:
—anzitutto, nella creazione stessa. Il creato è inabitato dalla presenza
del Creatore. Tutto è stato fatto per mezzo del Verbo, e quindi non c’è
niente che non abbia il suo seme, il suo tema o il suo fondamento in
Lui;
—ad un secondo livello, l’inabitazione del Signore nell’icona avviene nell’opera artistico-spirituale. Come afferma Evdokimov, «Se nessuno
può dire: Gesú è il Signore! se non per mezzo dello Spirito Santo (1Cor
12,3), nessuno può rappresentare l’immagine del Signore se non per
mezzo dello Spirito Santo. Egli è l’Iconografo divino.» È lo Spirito Santo stesso dunque la fonte principale della creazione dell’iconografo. Questa inabitazione nella tavola, resa possibile grazie ad una “predisposizione” data dalla creazione e dallo Spirito che personalizza la presenza
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Introduzione
del Signore, esplicitando il Volto, e dunque la presenza come Amore
personale di Dio, è una presenza che si lega alla materia sul principio
della libera adesione, perché l’amore è basato su una relazionalità libera, svincolata da ogni necessità, quindi, in questo caso, fuori da ogni magia, idolatria ecc. L’amore ha unito la natura umana e divina in Cristo.
L’amore, che si manifesta nella venerazione di Dio e dei suoi santi, unirà
l’arte umana dell’icona alla visione spirituale e alla comunicazione della grazia. La venerazione sola passa dunque l’ultimo abisso, perché non
si ferma alle forme e nemmeno alle nozioni, ma si rivolge alla persona
che vive;
—ad un terzo livello, la presenza di Dio si realizza nella liturgia di cui
l’icona fa parte. È la preghiera della Chiesa, dei fedeli, la prova della
presenza di Dio nell’icona. Le preghiere stesse del popolo di Dio davanti
all’icona fanno di per sé parte della stessa storia di salvezza che l’icona
comunica.
Non si tratta dunque di una qualche presenza di Dio alla quale l’uomo giunge solo attraverso una riflessione su princípi analogici, ma è una
presenza trasformatrice e redentrice, come la presenza di Cristo celebrata con tutto realismo nella liturgia, dove l’opera della redenzione è
vissuta non solo come memoria del passato, ma come efficacia della trasfigurazione che continua nella storia e che trasforma anche la storia
stessa.
L’icona è quindi sostanzialmente una visione sacramentale del mondo, la visione di come la materia si offre per diventare luogo della salvezza. È dunque una iniziazione ad una comprensione non astratta, ma
integra, della realtà della storia dell’uomo in Dio e di Dio nella storia.
L’icona nasce in ambito liturgico, ecclesiale
Nel linguaggio dell’icona c’è un nucleo biblico, ma è altrettanto fortemente presente la tradizione. In origine le rappresentazioni dell’icona potevano anche presentare, come ogni arte, le caratteristiche di un
luogo o di costumi dati, come pure caratteristiche ecclesiali e spirituali.
Nonostante queste sue connotazioni concrete, l’icona è divenuta parte,
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
attraverso i sinodi e i concili, del linguaggio “ortodosso” (cioè secondo
la retta dottrina) ecclesiale universale, fino ad essere accettata dalla Chiesa non tanto per il suo aspetto artistico, neanche a causa della sua interpretazione dogmatica, ma soprattutto per il suo stretto legame con la
preghiera e la liturgia. Le soluzioni artistiche, formali, proprie del disegno, della composizione, non erano mai una questione isolata, “estetica”, nel senso convenzionale di questa parola, ma si giungeva ad esse attraverso tutta la dimensione vitale, liturgica, teologica dentro alla quale lavorava l’iconografo. L’aspetto dogmatico non è stato prima elaborato a tavolino e poi trapiantato nell’arte, ma era l’ambiente stesso nel
quale nascevano le icone a favorire una elaborazione organica di ciò che
in esse era rappresentato. La Chiesa è un organismo vivo e l’icona ha
acquistato la sua importanza come parte di tale organismo. Talvolta, nel
linguaggio iconografico, troviamo anche elementi che di per sé potrebbero essere banali, ma che non vanno valutati oggi in maniera isolata
dal resto; allo stesso modo, sarebbe un impoverimento considerare isolatamente qualsiasi dimensione dell’icona—quella storica, dogmatica,
formale... L’icona acquistava man mano la sua importanza proprio a
causa della sua capacità di esprimere questo ambiente costituito da tante relazioni. Relazioni tra diverse dimensioni ed ambiti della vita ecclesiale e sociale, come pure tra tante persone, monaci, vescovi... E questa
rete di relazioni, con la comunicazione che conteneva tra di loro, poggiava sulla relazione fondante, quella con Dio.
Per queste ragioni, il linguaggio iconografico è complesso, lontano dall’illustrazione, dalla semplice resa figurativa di episodi sacri. Il mistero
dell’icona consiste nel suo essere stata assunta come parte dell’ambito liturgico. L’icona infatti è un evento che riguarda la preghiera e la contemplazione di tanti. Ciò significa che essa partecipa all’Immagine nella quale si riconoscono le preghiere e le devozioni di tante persone delle
diverse generazioni. C’è dunque una dimensione oggettiva del linguaggio dell’icona e d’altro canto una dimensione del tutto personale nella quale si riconosce ogni orante. Quella dimensione che, nonostante esprima
l’oggettività di Dio e del nostro credo, assume tuttavia una carne segnata da un tempo e da una cultura precisi. In ciò consiste il fascino e il mi-
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Introduzione
stero dell’icona. Probabilmente è proprio questa sacralità, l’ambiente liturgico nel senso stretto, la dimensione di rivelazione dell’icona che la
unisce cosí radicalmente a Dio e alla sua presenza a far sí che l’uomo
non osi piú toccarla, neppure in quella dimensione piú personale, temporale, condizionata culturalmente. Cosí l’icona ad un certo punto si è
arrestata nella sua evoluzione, anche se ci si stupisce di constatare poi che
i maggiori influssi da essa subíti siano quelli ottocenteschi “sdolcinati”
di provenienza occidentale. Nonostante ciò, continua ad esercitare un
grande fascino sul mondo contemporaneo.
L’icona, storia della salvezza
L’iconografo era dunque al servizio di questa comunicazione divinoumana che trovava il suo mezzo nell’icona. Si tratta di una comunicazione divinoumana anzitutto perché è una comunicazione della ParolaImmagine, del Lógos-Cristo, vero Dio e vero Uomo, ma anche perché è
una comunicazione, insieme alla dimensione assoluta divina, di tutta la
sapienza spirituale umana, della tradizione teologica, ossia della percezione umana della salvezza. Attraverso l’icona doveva passare anche la
comunicazione del modo in cui l’uomo ha accolto la salvezza. Si tratta
sempre di un processo dinamico, che acquista nel tempo sfumature diverse. Per questo l’icona è anche un sismografo che rileva come l’uomo
ha percepito la salvezza donatagli. L’icona è infatti un’immagine che rappresenta l’accoglienza umana della salvezza, è un’espressione, un’immagine dell’effetto della salvezza sull’uomo. In questo senso appartiene alla
realtà salvata. È una tavola di legno sulla quale sono stesi dei colori e tratteggiati dei disegni. Ma la sua materialità, la sua fisicità diviene immagine di come tali realtà sono assunte nella salvezza proprio tramite il racconto presentato. Sull’icona, i colori e i tratti che compongono la storia
della santità dei personaggi raffigurati vengono spiritualizzati, cominciano cioè a parlare di Dio, a comunicarlo. Con un termine strettamente teologico, si può dire che queste realtà sono ipostatizzate, vengono cioè assunte in una realtà personale. Parlare dell’icona come realtà “ipostatizzata”
non significa solo che essa è ipostatizzata nel Salvatore, nella Persona di-
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
vina, ed è per questo che lo ricorda e lo rende presente. È anche una realtà
ipostatizzata dalla persona umana, tramite l’azione dello Spirito Santo. Perciò l’icona dice sempre qualcosa di specifico e concreto, e nello stesso tempo qualcosa di trans-individuale, di comunitario, di universale. Attraverso la formazione del canone, cioè dell’insieme delle norme e dei requisiti cui l’iconografia deve corrispondere—quindi attraverso la creazione di
un linguaggio comprensibile a coloro che ad esso sono istruiti—, l’icona
acquista una potenzialità di comunicazione aperta a tutti. Il linguaggio
dell’icona, tramite l’ecclesialità (cerkovnost’), anche se conserva un tono convenzionale, nell’esperienza del credente riesce a comunicare un contenuto del tutto personale. Per questo l’iconografo deve percorrere un cammino di ascesi, di “digiuno dei sensi” e di rinuncia a tutto ciò che sarebbe una sua creazione nelle forme, una sua visione individuale. L’iconografo potrebbe cadere nella tentazione di inebriarsi dell’abbondanza di
belle forme che gli offre il simbolo concreto. Prende dunque coscienza
della necessità di un “digiuno degli occhi” grazie al quale diviene capace
di rigettare le forme inutili. Per san Basilio, il digiuno ascetico consiste nel
mangiare secondo il bisogno: niente di piú e niente di meno. Nel paradiso, Adamo digiunava riguardo ad ogni creatura. Fissava il suo sguardo
sulle cose visibili solo per nutrire la sua anima della conoscenza e dell’amore di Dio. È ciò che cerca di fare l’iconografo con le forme della natura visibile. Per questo, nell’icona uno o due alberi sono sufficienti ad indicare una foresta; l’esiguità di uno o due pastori (in paragone ai presepi
barocchi in Occidente) basta a rappresentare l’adorazione di Cristo nell’icona della Natività; il grande dolore della Madre di Dio sotto la croce
si esprime per mezzo di un piccolo gesto discreto e la consolazione che Gesú le indirizza è raffigurata da un semplice sguardo. Il sottostare dell’iconografo alle prescrizioni canoniche, secondo i nostri criteri di “moderni”,
sembrerebbe limitare ogni creatività personale. Ma questo “ascetismo artistico” è ciò che S. L. Frank, un pensatore russo del XX secolo, stabilisce
come condizione di ogni vera arte. L’azione creatrice dell’uomo è una partecipazione, e dunque anche una sua imitazione, all’opera creatrice divina. Dio crea non soltanto per creare, ma per santificare, divinizzare ciò
che ha creato. Di conseguenza, anche l’iconografo dipinge solo quelle for-
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Introduzione
me che possono esprimere la pienezza dello Spirito Santo. Nello stesso
tempo però è profondamente consapevole che, mosso dall’amore della
Parola e della Chiesa—che nella liturgia fa vibrare la sua anima—, dipingendo con il massimo amore possibile, dà un’impronta del tutto sua. E poiché l’amore non è rimpiazzabile, l’icona porta un’impronta profondamente personale. L’amore, piú è forte, piú è personale e universale. È questo anche il ruolo della luce nell’icona. La pittura delle icone vede nella
luce non solo una realtà esterna agli oggetti, ma l’identità essenziale ed intima della loro sostanza. Per la pittura delle icone, la luce sostiene e crea
le cose, è il loro principio creatore che si manifesta in esse, ma che non si
limita ad esse. «Tutto quello che si manifesta è luce» (Ef 5,13). Tornando
all’iconografo, questo tratto personale non va inteso nel senso formale,
ma cercato nella dimensione agapica, in una relazione d’amore che lo unisce alla creazione dell’icona.
Si può copiare l’icona?
Un iconografo moderno cerca spesso di imitare l’icona tenendo conto di tutto il rigore del canone, approfondendo gli studi teologici e tecnici. Nonostante ciò, anche coltivando questi elementi, non può essere
un iconografo nel senso classico. Gli manca infatti un elemento fondamentale: quello del tessuto ecclesiale e dell’inserimento nella tradizione viva. Gli manca la “teologia”, che non è solo una questione razionale di comprensione e che quindi non si acquista soltanto attraverso uno
studio teorico compiuto sui libri. Si tratta di quella teologia simbolica
che l’iconografo vive e assorbe nella comunità liturgica, nella comunità
che prega e vive la carità. È proprio l’esperienza della Chiesa che custodisce l’unità organica di fede, amore e intelletto, un’unità indispensabile all’iconografia.
Al seguito della fioritura in Occidente di tante scuole di iconografia, nasce anche la pratica di “copiare” le icone. Ora, è stato piú volte sottolineato come per una comprensione dell’icona non vadano sottovalutati l’ambito ecclesiale, quello culturale e le tradizioni spirituali ad essa
propri. Senza questo contesto, l’icona è un oggetto esiliato. E una sua even-
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
tuale de-contestualizzazione, un suo sradicamento, possono connotarla
anche di una dimensione esotica o spiritualista che non le sono proprie
e che certo non giocano a suo favore. Tutti i grandi iconografi non hanno copiato le icone, ma hanno lavorato all’interno di una precisa comprensione della tradizione viva. La copia infatti è sempre una realtà anemica e senza forza comunicativa. Chi copia non vive il dinamismo tra
contenuto, memoria, e Chiesa a cui dover comunicare queste realtà, ma
è teso nello sforzo tecnico di riprodurre una realtà formale. Viene dunque meno la dimensione ecclesiale, comunicativa. Negli ultimi anni si
è stati anche testimoni di una inflazione delle icone stampate, che hanno certamente contribuito alla conoscenza dell’icona, che possono contribuire ad una riflessione per una teologia iconica, alla spiritualità, ma
che certamente non possono sostituire l’icona per tutti i motivi sopra
elencati.
Oggi viviamo in un tempo segnato profondamente dal soggettivismo e dall’autoaffermazione a livello della forma. Si cercano di inventare nuove forme espressive, perché ciascuno tenta di esprimere se stesso in modo proprio. Dato che ognuno percepisce se stesso in maniera
assoluta, vorrebbe esprimere questa sua originalità in forme del tutto particolari. Ma esprimere “se stessi” cosí è la negazione di ciò che si vuol
fare, perché la persona è agapica, impensabile senza l’amore degli altri.
Il criterio di questa autoespressione diventa il sentire dell’individuo, inteso in maniera esclusivamente psicologica. Conseguenza di questa impostazione è che in arte oggi ci muoviamo in una marea di stili e linguaggi diversi. Ognuno esprime se stesso, ma in maniera tale che nessuno piú lo capisce. L’arte contemporanea sembra mancare soprattutto
di quella che era la perla iniziale dell’arte cristiana, cioè la comunicazione.
E l’icona, in qualsiasi modo la si consideri, si trova al vertice di questa
visione cristiana dell’immagine. Infatti, è un’arte dove tutto il linguaggio artistico è a servizio della comunicazione, dove anche la bellezza viene intesa come comunicazione. L’icona può essere considerata “arte”
solo allo stesso modo in cui consideriamo arte la liturgia, nella quale
mezzi umani, terreni, divengono, per l’azione dello Spirito Santo, ambito della comunicazione spirituale. E in questo senso va infatti com-
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Introduzione
presa ogni arte che la Chiesa abbia recepito nel tessuto organico della
preghiera e della liturgia. Senza tener conto di questa visione dell’arte,
rischiamo il fraintendimento, perché nel nostro contesto culturale “arte” ha un altro significato.
Rileggere l’icona
Da quanto detto, è evidente come sia facile avere un approccio settoriale, parziale, all’icona. Queste visioni parziali sono molteplici e toccano varie dimensioni. Possono andare dal semplice copiare le icone fino ad una loro spiegazione in termini di razionalismo storico critico.
Occorre invece superare sia gli approcci ideologici che quelli dei gusti
e delle mode, per entrare nell’ottica della conoscenza simbolica. Abbiamo visto infatti che l’icona, nella sua genesi e nel processo del suo divenire, acquista tutte le caratteristiche del simbolo nel senso piú autentico del termine. Se l’icona è un simbolo, va allora conosciuta alla maniera del simbolo. Si tratta di una conoscenza integrale, che si realizza
sulla base del principio del riconoscimento radicale di ciò che si conosce. Occorre riconoscere le icone nella loro oggettività, quella che esse
portano in sé. Si tratta di mettersi davanti all’icona con un atteggiamento
affermativo, capace di riconoscere in essa tutta la sua oggettiva totalità.
Non si tratta di proiettare qualche significato sull’icona, ma di instaurare con essa un dialogo. Quando si sta davanti all’icona con un atteggiamento affermativo, cioè con amore, è l’icona stessa che ci dischiude
i suoi significati e ci coinvolge nella sua narrazione. Come è successo a
Kireevskij, che è stato iniziato al mondo interiore dell’icona quando l’icona stessa gli ha dischiuso lo sguardo sulla moltitudine dei fedeli che
vi hanno pregato davanti. Si tratta dunque di stare davanti all’icona
aspettando che essa si apra, tenendo realmente conto di lei e della Chiesa nella quale è nata. Bisogna avvicinarci all’icona nel contesto liturgico, tra preghiere, candele, incenso e canti. Solo allora si può diventare
un iconografo, cioè chi, con l’intelletto nel cuore, comincia a dipingere
comprendendo quello che l’icona comunica.
L’icona è un ambiente dove si forma il pensiero. Nella nostra epoca,
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
una fra le cose piú difficili sembra un pensiero che riesca a tener conto
dell’altro. È proprio qui che l’icona può darci il suo contributo inconfondibile. Essa rappresenta un’“insiemità” della storia della salvezza e del mondo. Rivela i nessi tra eventi e personaggi diversi. Perciò è
l’esempio di un pensiero che riflette nel cuore, che ha uno sguardo d’insieme capace di cogliere i nessi tra tutto l’esistente, oltre la limitazione
spaziale, temporale, causale degli elementi che ne fanno parte.
L’icona, come ogni simbolo, è un luogo in cui non solo si uniscono
il mondo sensibile e quello sovrasensibile, ma anche dove si accorciano
le distanze e si vive una sorta di contemporaneità. Entrando in quello
spazio, si incontrano le persone che vi hanno abitato, che vi sono passate. L’icona è dunque un organismo vivo, e come tale va conosciuto. Se
ne possono e se ne debbono studiare anche tanti dati formali e piú “esterni”, allo stesso modo di come si studiano i costumi di determinate Chiese, popoli, avvenimenti diversi... Ma tutte queste realtà perdono ogni
aspetto superficiale se conosciute attraverso il principio gnoseologico
giusto, quello a cui si è fatto riferimento. L’icona, come di per sé ogni
opera simbolica, va studiata allo stesso modo della Sacra Scrittura. Si
possono conoscere tanti dati storici, archeologici, filologici, ma fin quando non nasce un rapporto stretto tra lettore e Parola e non si considera
che la Parola è piena dello Spirito Santo, tutti questi dati sono slegati e,
di per sé, forse anche insignificanti. Se invece si ha l’atteggiamento giusto, tutte le analisi, anche le piú specialistiche, assumono il loro proprio,
prezioso ruolo per introdurre alla comprensione. Come siamo iniziati
al significato della Sacra Scrittura solo se è il Verbo stesso, la Parola, che
ce lo apre, cosí nell’icona occorre arrivare alla rivelazione delle persone
che vi sono raffigurate e della loro fede. Qui tuttavia è necessario essere cauti, perché un’icona può parlare all’uomo contemporaneo con tanto fascino senza che egli giunga ad una decodificazione di tale comunicazione, rimanendo quindi completamente alla superficie. Il simbolo
infatti si comunica coinvolgendo, ed esige da parte della persona alla
quale si rivela che essa lo riformuli con una sua espressione. Ciò significa che un messaggio, che all’inizio può comunicare qualcosa di acategoriale, esige poi una nuova categorizzazione da parte di colui a cui si
18
Introduzione
è comunicato e che lo ha accolto. E forse il tempo di oggi non è proprio
favorevole a tale processo, schiacciati come siamo dalla fretta e dall’efficientismo.
Sono dunque possibili tanti approcci all’icona. In genere, gli approcci piú frequenti sono quello storico-critico e quello pietistico, sentimentale, devozionale. Ma si trova anche un approccio dogmatico e filosofico, come pure un approccio artistico, pittorico. Non pochi hanno tentato di unire questi aspetti, tenendo conto un po’ di tutto.
Qui vogliamo considerare l’icona cosí come la tradizione ce l’ha trasmessa, come l’abbiamo ricevuta nella liturgia, nella sua oggettività spirituale. L’icona è un testo-immagine, di cui vogliamo accogliere la comunicazione tramandata, vedendo come nella loro espressione artistica
e figurativa le forme—che talvolta hanno la loro origine anche fuori dall’ambito cristiano—siano diventate comunicazione della fede. L’icona è
una lunga citazione biblico-patristica. È una realtà spirituale, dove “spirituale” è tutto ciò che, nell’azione dello Spirito Santo, ci parla di Dio, ce
lo ricorda, ce lo comunica, ci riporta a lui.
19
T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
La Trinità
Dio scrive la sua icona
della Trinità
Dipingere la Santissima Trinità è impossibile.
Sarebbe un peccato di
blasfemia e di orgoglio (cf
Es 20,4). Ma si può dipingere l’icona della Santissima Trinità. Ciò significa che è
possibile dipingere l’immagine nella quale la Santissima Trinità si rivela e si comunica agli uomini. La
tradizione giudeo-cristiana ha sempre avuto una profonda coscienza
della inaccessibilità della sostanza
di Dio. L’apofaticità, ossia il silenzio
sulla realtà interna della Santissima Trinità, non riguardava soltanto l’incapacità del linguaggio umano di esprimerla, ma soprattutto
l’immensità imperscrutabile della
Trinità stessa (cf 1Tm 6,16). Dio ha
impedito all’umanità di farsi immagini di lui, ha voluto preservarla dall’angosciante inganno delle
idolatrie e ha scelto l’uomo come
immagine della rivelazione del suo
Figlio. Il Figlio di Dio si è però rivelato in una lunga serie di imma-
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gini, a partire da quella
di Adamo. Ma solo Gesú
Cristo, nato dalla Vergine Maria nella potenza
dello Spirito Santo, morto e risorto, è la pienezza
assoluta che racchiude
in sé e rende corporalmente presente tutta la pienezza del
Figlio di Dio (cf Col 2,9). Ma Gesú
Cristo non è “accanto” alle immagini che lo preparavano, non è separato da loro. Egli racchiude in sé
e compie tutte le rivelazioni che lo
precedono (cf 2Cor 4,4, Eb 1,1-2). Le
immagini prefigurative dell’Antico
Testamento non sono immagini
vuote, allusioni ideali, ma reale presenza e comunicazione del Figlio
stesso. Tutte queste immagini trovano in Cristo la loro comprensione, la loro piena compiutezza e creano con il Figlio un tutt’uno, come infatti un tutt’uno sono i due testamenti della Sacra Scrittura (2Cor
1,20, Lc 24,27).
Noi cristiani siamo monoteisti,
ma in una maniera del tutto eccezionale. Quando diciamo che cre-
21
La Trinità
diamo in un solo Dio, affermiamo
allo stesso tempo di credere nelle
Tre Persone divine. Perciò la storia
della fede giudeo-cristiana è la storia della pedagogia di Dio per prepararci ad accogliere questo suo imperscrutabile mistero (cf Ml 3,1, Is
40,3, Is 57,14). La storia, da Adamo
fino all’Apocalisse, è una pedagogia della tenerezza che Dio ha con
noi. Egli ci lascia provare questo gusto inconfondibile della letizia che
il cuore assapora quando scopre
uno scorcio nuovo del suo Amato
(cf Ct 1,3-4). Per questo Dio si comunica, si rivela, su due costanti
che sono i due poli della storia e del
senso ultimo che l’uomo può trovare sul suo orizzonte. Per introdurci alla conoscenza di sé come
Dio Trino, il Signore, nella sua rivelazione, sottolinea il dato della comunità (cf 1Mac 1,41, Gc 20,11, At
4,32, Rm 12,4s) e quello dell’unicità
(cf Dn 3,45, Mc 12,29). Sin dall’Antico Testamento, Dio educa e forma alla comunità il popolo eletto e
allo stesso tempo rafforza la coscienza dell’Uno, dell’Unico. L’immagine del popolo nella quale realmente è già presente l’amore della
comunione divina si rivela in pienezza nella comunità pentecostale
radunata intorno al Signore risorto.
Tutte le immagini della comunione dell’amore interpersonale trovano la loro piena affermazione e
la loro giusta interpretazione nella
comunità ecclesiale. Questa è l’immagine piú completa del mistero
trinitario. Per l’umanità, l’ingresso
in questa pienezza dell’immagine
di Dio è il battesimo, segnato dalla
formula trinitaria: nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (cf
Mt 28,19).
L’immagine preferita nel cristianesimo per la rivelazione di
questo mistero divino è la visita dei
tre messaggeri ad Abramo e Sara
alla quercia di Mamre (cf Gen
18,1ss). L’icona presa a modello da
Rublëv (†1430) per dipingere la
sua, era infatti spesso dipinta anche con la presenza di Abramo e
Sara. Con la raffigurazione della
visita dei tre angeli ai due di Mamre si ha un’apertura nella quale, attraverso il mondo sensibile, si dischiude il mondo divino e avviene
con esso una reale comunicazione.
Il nostro Dio si fa ospite presso
l’uomo
La prima cosa, la piú evidente
che traspare da questa venerata icona è che Dio è la comunione, è l’a-
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
more (1Gv 4,8.16), un amore che accorcia le distanze (Lc 15,4-10), anche le piú abissali (Sal 139,7-10; Gv
3,16) e che nell’umiltà si rende ospite (Mc 2,15-17, Fil 2,6-8). I tre sono
la vita, i due la sterilità. L’impotenza umana di dare la vita è, presso
Abramo e Sara, arrivata al punto
in cui ogni speranza è irreale (Gen
18,12). Dio, resosi ospite, fa uscire
Abramo dal guscio in cui si trovava rinchiuso con Sara. Abramo esce
dalla tenda, accoglie gli ospiti, e proprio la loro presenza suscita in lui
tutta una generosa ospitalità. I due
troveranno la loro vera relazione solo quando essa sprofonda in quella
dei tre che sono venuti. Come dice
il poeta Ivanov: «purché il Terzo sia
presente, e quel Terzo sia l’Amore».
L’amore di lassú è l’amore di
quaggiú
Dipingere la Santissima Trinità
significherebbe dipingere l’amore
assoluto, che è l’essenza della natura divina. Significherebbe dipingere le Tre Persone in quell’amore che le caratterizza, formando l’unità totale di un Dio Uno (Gv
10,30). Ma questo è impossibile.
La visita a Mamre coinvolge
Abramo, tirandolo fuori dalla ten-
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La Trinità
da, e lo mette al servizio fino ai gesti concreti, quotidiani, del prendere l’acqua, del lavare i piedi, dell’ammazzare il vitello, del versare
il latte, del sedersi e parlare. Questa scena è un’immagine, un’icona
nella quale ci raggiunge quell’amore imperscrutabile, inaccessibile, che hanno tra di loro le Santissime Persone. Questo amore,
che ha la sua ultima sorgente in un
abisso sprofondato nel cuore del
Padre, si rende palpabile, umano,
segnato dalla storia, dalla cultura,
nell’icona di Mamre. L’amore è
quell’eccezionale realtà che unisce
in una maniera indissolubile il
Creatore con la creazione, l’icona
con Colui che in essa si comunica.
La sterilità e la mortalità di Abramo e Sara, attraverso l’amore dell’ospite accolto, si trasfigurano nella fecondità e nella vitalità di una
generazione che non ha fine. Si
passa infatti dalla morte alla vita
per mezzo dell’amore (1Gv 3,14).
L’amore divino raggiunge l’altro sempre là dove l’altro sta morendo (2Cor 5,21, Lc 7,11-17). L’uomo, dopo il peccato originale—cioè
anche oggi—è tentato di rinchiudersi nella sua natura decaduta e
di non vedere la possibilità di superarla. Anzi, tutta la sua creatività
si riduce ad occuparsi costantemente del suo fallimento, dandogli
magari diverse interpretazioni per
consolarsi o per convincersi che occorre trovare, dentro a tali orizzonti,
i significati e le ragioni della sua esistenza. Abramo è l’immagine perfetta di questa prigionia umana, di
questo ridursi ad un costante ruminare la propria sterilità. I tre che
gli fanno visita toccano immediatamente il suo problema vitale.
Abramo è precisamente l’icona dell’uomo come essere visitato, a cui
questa visita apre un nuovo, piú
profondo exodus fuori dalla prigionia
della propria natura decaduta. In
un linguaggio piú teologico, potremmo dire che Dio, nel suo amore, raggiunge l’uomo nel suo punto piú basso, dove il segno del peccato è piú grande. Lí Dio, rendendosi ospite, fa uscire l’uomo dalla
propria chiusura, lo attira, come nel
Cantico dei Cantici, in un rapporto
amoroso grazie al quale gli apre la
possibilità della trasfigurazione di
tale caducità.
Infatti, nel gesto dell’ospitalità
di Abramo dell’icona di Mamre,
la tradizione della Chiesa vede il
nesso con l’agnello dell’esodo di
Mosè, simbolo della liberazione.
E la tavola di Abramo diventa nel-
l’icona anche la tavola eucaristica.
Ciò significa che l’amore è uno
scambio di doni, dove l’uomo offre
a Dio ciò che trova nella creazione e, in questa offerta, Dio ridona
all’uomo la stessa creazione rivelata nella sua verità. L’uomo offre
cioè il pane e in cambio riceve il
pane vero, quello che chi ne mangia non muore (Gv 6,48-49). Sull’icona, l’agnello offerto da Abramo
diventa, in questa visita, l’agnello
dell’esodo, l’agnello della liberazione, assume quindi tutta la simbologia privilegiata che nella tradizione ebraica riveste tale animale. E anche questa immagine
viene assorbita e portata alla sua
pienezza nel vero Agnello pasquale
(Gv 1,29)—Gesú Cristo (1Cor 5,7)—
che libera l’uomo dalla schiavitú
del peccato stesso (Col 1,14, 1Gv
2,12).
La conoscenza di un Dio
immaginario
Abramo e Sara, come immagine dell’uomo racchiuso nel proprio
mondo, nel quale non è possibile
generare la vita, sono una realtà presente quasi in ogni religione. Tutte
le religioni cercano infatti di proporre all’uomo qualcosa per farlo
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
uscire da questo tunnel buio, qualche modalità per trascendersi. E per
questo l’uomo corre dietro a tante
promesse. Tutta la storia dell’umanità è un avvicendarsi di entusiasmi e di delusioni, di costruzioni e
di abbattimenti, perché non si è raggiunto ciò che si voleva. L’inganno
piú raffinato è probabilmente quello dell’uomo chiuso in se stesso, che
pensa che il mondo della sua mente sia un mondo reale all’interno
del quale si può muovere. Ci sono
infatti tante elaborazioni che in
realtà sono solo costruzioni mentali. Perciò si cerca di renderle piú
reali e accattivanti con una partecipazione emotiva, sentimentale. In
questo senso l’idolatria piú demoniaca non si nasconde in sculture,
totem, immaginette o amuleti collocati nei piú svariati angoli della
propria cultura, ma consiste nello
scambiare il Dio realmente esistente
con un Dio solo pensato. Si pensa
di conoscere Dio, si parla di lui, lo
si celebra, ma tutto è artefatto. Queste cose esistono semplicemente per
la necessità umana di coltivare un
mondo almeno pseudo-religioso. Simili strutture, costruite in maniera
altrettanto arbitraria, possono essere anche quelle elaborate in opposizione alla religione. Ma è sol-
26
La Trinità
tanto il rovescio della stessa medaglia...
Si conosce Dio per mezzo
dell’amore trinitario
Davanti a questa icona, vediamo che cosa fa Dio per svegliare
l’uomo curvato su di sé, ingannato
da una sua illusione e perennemente sconfessato dalla vita stessa.
Che cosa fa Dio per venire incontro all’uomo, cosí concentrato sul
suo fallimento? Si fa ospite, per condurlo fuori da questo tunnel oscuro (Es 13,21). Dio fa quel passo che
l’uomo non sa e non osa fare: riconosce l’uomo e gli si affida (Mc
10,32). L’uomo non riesce piú a vedere Dio, perciò Dio vede l’uomo,
lo trova e lo visita. Dio fa proprio
ciò che vuole suscitare nell’uomo,
cioè una relazione nella quale si riconosce l’altro. L’amore del Dio
Trino che lo visita ridà all’uomo la
sua verità, quella cioè di essere religioso. Infatti il primo gesto religioso è precisamente il gesto compiuto da Abramo: accogliere gli
ospiti e offrire loro da mangiare,
cioè riconoscerli (Mc 1,29-31). La vera fede è una dimensione relazionale nella quale si converte tutto
l’essere umano all’amore. Proprio
tutto l’uomo, come Abramo, il quale cambia il suo modo di pensare
sul problema della sua vita, ma anche il suo corpo, nel gesto concreto dell’ospitalità, del darsi da fare
per l’altro.
Si conosce Dio nell’ambito relazionale, comunitario, in gesti concreti e in una mentalità che si ricorda di come l’Amore pensa (Is
55,9, 1Cor 2,16, Mt 16,23). Il nostro
Dio è Trinità, e perciò lo si può conoscere nella carità e nella comunione (Sap 6,12). È questo lo scenario dell’icona, uno scenario che
è il contesto della conoscenza di
Dio. La persona si conosce tramite l’unione relazionale. La conoscenza della persona consiste soprattutto nell’accogliere la sua rivelazione. L’amore è quella giusta
relazione che fa sí che la persona
si riveli, cioè che la si sappia accogliere. È dunque un’intelligenza
ospitale, un’intelligenza che ama
quella dimensione privilegiata del
cuore umano che può accostarsi a
Dio, ma che è anche in grado di
preparare l’ambiente per una tale
conoscenza.
Nella Sacra Scrittura si vede
come l’ospitalità sia davvero una
dimensione indispensabile alla conoscenza. Dio infatti si fa ospite
per farsi conoscere, e Cristo stesso raccomanda ai suoi discepoli di
farsi ospiti (Lc 10,7-9, Mt 10,12).
Cristo, questo Dio ospite che mangia con l’uomo rendendo cosí l’uomo suo commensale, esorta i suoi
discepoli ad entrare nelle case, a
mangiare con la gente ciò che verrà
loro offerto. L’uomo è un essere
che non può rinunciare all’ospite,
perché, se non è piú visitato, perde di vista la sua stessa identità. È
l’ospite che richiama alla memoria tutta l’icona di ciò che l’uomo
è.
Una piccola esitazione
Facciamo adesso scivolare il nostro sguardo sull’icona, per raccogliere qualche sua parola come immagine che sveglia in noi l’amore
di Dio. Ci sono tante discussioni
su chi siano questi tre personaggi.
Icone di tal genere portavano anche il titolo di Spasitel’ (Salvatore), e
spesso veniva scritto il monogramma di Cristo alla destra e alla sinistra della figura centrale. Per
questo possiamo affermare con una
certa sicurezza che il personaggio
al centro è il Salvatore, Gesú Cristo.
Leggendo diverse interpretazioni,
appare chiaro che tutte hanno in
27
T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
comune il messaggio principale:
quello dell’amore di Dio, perfetto
in Dio e verso di noi. Le diverse interpretazioni sono solo i vari sentieri dell’icona che portano però
tutti al dischiudersi di quest’unico
contenuto. Andrebbero escluse soltanto le interpretazioni molto idealistiche, fantasiose, che non hanno
nesso né con la tradizione iconografica, né con la Sacra Scrittura,
né con i Padri, quelle che si basano su idee prefabbricate di cui poi
si cercano conferme nella raffigurazione. E poiché quest’icona nasce nell’ambito monastico-liturgico del cristianesimo russo, occorre intraprendere quei sentieri che
l’icona stessa evidenzia di piú.
La quercia di Mamre
La quercia è un albero pieno di
significato nella Sacra Scrittura.
Non sappiamo quale fosse l’albero
dell’Eden su cui Eva ha posato lo
sguardo. Sappiamo tuttavia che il
serpente le ha suggerito qualcosa
di grande e che l’albero le avrebbe
offerto questa promessa. Tale promessa era quella della divinità: rendersi simili a Dio, diventare come
Lui (cf Gen 3,5). L’albero, con il suo
fascino del bene, del bello e del ve-
28
La Trinità
ro—era infatti «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen
3,6)—si presenta ad Eva con assolutezza divina. Ma voler diventare
simili a Dio è una contrapposizione
assurda con la realtà dell’uomo, già
creato a somiglianza di Dio (Gen
1,27). È dunque un inganno che, invece di portare a vivere in pienezza
il frutto della creazione, cioè la somiglianza con Dio, fa raccogliere
un altro frutto sotto l’albero, la morte. Eva ha mangiato questo frutto,
ma non ha ottenuto la somiglianza
con Dio, piuttosto il suo opposto:
ha scoperto di essere vulnerabile,
fragile e radicalmente segnata dalla morte. L’albero dell’Eden ha provocato la morte (1Cor 15,21, Rm
5,15.17, Rm 7,11). Infatti, il nuovo albero della vita, la croce, si innalza
proprio dalla tomba di Adamo, come vedremo nell’icona della crocifissione. Ci sono diverse testimonianze nell’Antico Testamento del
fatto che in Israele si seppellisse sotto le querce (Gen 35,8; 1Cr 10,12).
In Gen 35,4 e in Ez 6,13 si parla della sepoltura degli idoli sotto la quercia. Questo aiuta ad intuire che il
frutto desiderato dall’albero—quello della divinità—si pervertiva sempre in un idolo ingannevole. Inve-
ce di diventare immagini divine,
mangiando del frutto si veniva trasformati nell’immagine dell’idolo,
che ha bocca e non parla, che ha occhi e non vede, che ha orecchi e non
ode (cf Sal 115,4-8).
L’angelo centrale
Qui l’icona di Mamre presenta il vero frutto dell’albero della vita: sotto l’albero troviamo infatti il
Signore. Ha il braccio destro grande e potente, perché è il braccio del
Padre, il braccio creatore per mezzo del quale sono state create tutte
le cose (cf Gv 1,3). È il braccio teso
con il quale il Signore ha operato
la liberazione dalla schiavitú (Es
6,6), la destra con cui annienta il
nemico (Es 15,6), soprattutto quel
nemico che è la morte (1Cor 15,26).
È un braccio forte la destra di Cristo, che «afferra» (Sal 139,10) lo
smarrito, il perduto, e—come si vede nell’icona della discesa agli inferi—Adamo che giace nell’Ade.
Cristo è quel frutto dell’albero che,
mangiandolo, dà la vita eterna (Gv
6,51). Chi mangia questo frutto non
avrà piú fame (Gv 6,35). Ciò significa che l’uomo non correrà piú dietro alle passioni e ai desideri per
saziare le proprie insoddisfazioni.
Anzi, Cristo è un frutto dolce e
squisito al palato dell’uomo (Ct 2,3).
La salvezza che Cristo opera è per
l’uomo morto come la coppa della
vita. L’uomo riconosce in questa
salvezza un gusto, un sapore che
ha una dolcezza piú squisita del
miele (Sal 119,109). Il braccio potente del Salvatore riporta l’uomo
ai sapori della vita divina già gustati un tempo. L’uomo riscopre il
gusto della Parola di Dio, quella Parola con la quale fu creato, che da
sempre gli è rivolta. Si tratta di quella parola che è la via della conoscenza (Sal 119,130). Sotto l’albero
della vita si trova dunque anche
quel frutto della conoscenza che invano l’uomo ha cercato mangiando dell’albero dell’Eden.
Al centro dell’icona c’è dunque
Cristo, vestito in rosso e blu, il rosso intenso della divinità e il blu altrettanto intenso dell’umanità.
L’angelo centrale (Cristo) è completamente rivolto all’angelo alla
sua destra (il Padre), perché «in
principio era il Verbo, e il Verbo
era presso Dio» (Gv 1,1). In realtà, la
preposizione greca “prós”, tradotta usualmente con “presso”, indica piuttosto il movimento. Sempre
nel vangelo di Giovanni, ad esempio, quando Gesú si manifesta alla
29
T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
Maddalena, dice: «Vado al (prós) Padre mio e Padre vostro, Dio mio e
Dio vostro» (Gv 20,17). La frase con
cui inizia il vangelo di Giovanni va
quindi intesa cosí: «In principio era
il Verbo, e il Verbo era rivolto verso
Dio».
Il Lógos, la Parola, è eternamente il Figlio pronunciato e generato dal Padre. Ma “Figlio” è
una “figura”, un’immagine. Perciò
la Parola è un’immagine, cioè quella del Figlio. Quando la Parola
verrà ad abitare tra di noi, verrà
come Figlio. Questo Verbo Figlio,
della stessa sostanza del Padre, Dio
come lui, dunque anch’egli rivestito di rosso, assume la natura
umana, si ricopre di blu, e anche
in questa abitazione terrestre, fatta con le mani dell’uomo, è ugualmente l’immagine del Figlio, vive
da Figlio, quindi completamente
rivolto al Padre. È questo il frutto
dell’albero: l’uomo trova se stesso
salvato e assunto nel Figlio di Dio.
Ha mangiato del frutto dell’albero
perché voleva diventare Dio come
egli stesso s’immaginava la divinità; ora si trova figlio di Dio. Adesso l’uomo è figlio adottivo del vero Dio e non di un Dio immaginario. Adesso è figlio di Dio nel
30
La Trinità
modo in cui Dio ha voluto, che è
l’unico modo vero e possibile. Essere figli di Dio oltrepassa tutte le
aspettative, tutte le attese dell’uomo. Nei vangeli, soprattutto in
quello di Giovanni, vediamo che
la coscienza che Cristo ha di sé è
proprio quella di “Figlio del Padre”. Ciò significa che egli è il Figlio che riconosce il Padre. Riconoscere il padre significa avere un
orientamento, un senso, quindi anche trovare il significato, l’interpretazione di ciò che si vive, di ciò
che accade. La rottura nella storia
dei viventi inizia quando il padre
e il figlio non si riconoscono piú a
vicenda.
Il Padre
Alla sinistra dell’icona c’è l’angelo che raffigura il Padre, avvolto
nell’oro. L’oro è la luce senza tramonto, la fedeltà di Dio. Dio è santo proprio perché assolutamente fedele, perché la sua relazione non si
tronca mai. Il Padre è dunque “il
Santo”. Attraverso la santità di Dio
traspare il colore blu, che Egli porta sul petto. È ciò che sta a cuore al
Padre: l’umanità. L’antichità cristiana, come anche la tradizione
ebraica, univa cuore (kardía) e in-
telletto (noûs). L’immagine del Padre fa trasparire il mistero nascosto da secoli nella mente—cioè nel
cuore—del Padre (cf Ef 3,9-12): quello di salvare l’uomo, di stringerlo
al cuore. Dietro il Padre si intravede la casa, «la casa del Padre», dove Egli ci attende. Il Figlio, che è
tutto proteso a lui, ci vuole portare
a quella casa, dove ci sono molti posti. È proprio là che il Figlio va a
preparare un posto per noi (Gv 14,23). È questa la casa dove finisce l’esilio di Adamo, ricondotto da Cristo al Padre. Troviamo tante immagini nella Sacra Scrittura che
rappresentano la dimora dell’uomo. Sono descritti tanti momenti
in cui l’uomo vuole radicarsi in
qualche luogo, trovare una dimora
fissa, ma tutte queste immagini trovano il loro vero significato nella
casa del Padre, nella quale l’uomo
può tornare solo quando riconosce
realmente Dio come proprio Padre.
L’uomo non può tornare a casa alla maniera in cui voleva il figlio prodigo, come servo, che aveva dunque un’immagine del padre come
padrone. Il padre aspettava che tornasse un figlio, non un servo. È tanto difficile per l’uomo riconoscere
Dio come Padre che ama e fa festa
per ognuno che torna. È difficile riconoscere Dio come Padre che ama
cosí tanto da dare il proprio Figlio
nelle mani dei servi, affinché loro
diventino figli. Sembra proprio che
l’umanità voglia anteporre tante
sue vedute, giustificazioni, tentativi di rifarsi la propria immagine davanti ad un Dio che a stento riconosce come Padre. Per questo si torna alla casa del Padre solo grazie
al Figlio di Dio.
E mentre si è in cammino, magari nei momenti di piú grande
umiliazione, quando l’uomo prova
la polvere della terra, il Padre ci benedice dal cielo con ogni benedizione spirituale (Ef 1,3). Questa benedizione ci raggiunge anche nelle bassezze piú oscure, là dove fu
anche il Figlio che, nella sera dell’angoscia e della paura, ha comunque riconosciuto Dio come Padre, Abbà (cf Mc 14,36). Infatti la destra del Padre è nell’atto di benedire, cioè di mandare lo Spirito
Santo, che è l’angelo alla destra dell’icona, il luogo a cui rimanda la
mano del Padre.
Lo Spirito Santo
Questo angelo è il piú curvo
verso terra, è avvolto nel blu e ri-
31
T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
vestito di un verde dorato. È lo Spirito di Dio che aleggiava sopra le
acque nell’ora della creazione e che
muove dal di dentro tutto il creato (il colore verde) verso il Creatore. Che lo Spirito Santo sia rivestito di blu significa che esso viene
donato all’uomo e inabita il suo
cuore. Dunque è quell’ospite interiore che fa l’uomo tale, versando
nel suo cuore l’amore del Padre
che rende l’uomo un essere ad immagine del Dio Amore (cf Rm 5,5).
Lo Spirito Santo ricorda quindi costantemente all’uomo la sua verità,
che è quella di essere figlio. Perciò
grida in lui: Abbà (Gal 6,4). Lo Spirito Santo ci ricorda che quella parola con la quale l’uomo fu creato
è stata pronunciata dal Padre e che
esige in noi una risposta da figli. È
lo Spirito Santo che rende l’uomo
cristoforme, cioè ad immagine del
Figlio di Dio. Infatti è rivestito di
blu e verde ed è inclinato verso il
Figlio. Ciò significa che la creazione e l’uomo stesso, nell’amore
dello Spirito Santo e nella sua azione, assumono sempre di piú la
realtà di Colui che grida Abbà, dunque del Figlio che torna alla casa
del Padre, dove tutte le cose ricordano il Padre. Cosí dice una preghiera eucaristica: «Hai mandato
32
La Trinità
lo Spirito Santo per compiere l’opera della santificazione». In questo consiste la festa spirituale, dato che “spirituale” è tutto ciò che
nell’azione dello Spirito Santo diventa memoria di Dio, ricordo del
Padre, comunicazione del Figlio,
orientamento a lui. “Spirituale” è
ciò che, nell’azione dello Spirito
Santo, rivela la propria, profonda
verità, segnata dal marchio dell’appartenenza al Dio vivente.
Dietro all’angelo dello Spirito
Santo è raffigurata una roccia. La
montagna è infatti il luogo della rivelazione di Dio. È lí che scendeva
la nube nella quale Dio ha parlato,
è sul monte che si posava l’ombra
della nube della rivelazione di Dio,
che è l’ombra a cui accenna Luca
nell’annunciazione (Lc 1,35). Lo
Spirito Santo è il comunicatore di
Dio, colui che rende presente Dio,
che lo indica. Allo stesso tempo, la
roccia è la roccia del deserto dell’esodo, la pietra dalla quale scaturisce l’acqua. Sono tutte immagini
che trovano il loro pieno significato nello Spirito Santo, la Persona
divina che appare nella Sacra Scrittura sempre al servizio dell’altro.
Lo Spirito Santo è infatti sempre
proteso all’altro, “in funzione” dell’altro.
La mensa intorno alla quale sono seduti, che è allo stesso tempo
anche un trono, è la mensa eucaristica, cioè l’altare del sacrificio.
In questo si dischiude il significato della conoscenza spirituale, che
consiste nel vedere una realtà presente nell’altra, fino al Padre.
Questo “rimandare” lo possiamo vedere nella raffigurazione del
calice. Sulla mensa c’è un calice
che contiene la testa dell’agnello.
È il calice della Pasqua ebraica, la
festa della liberazione dalla schiavitú dell’Egitto. Da quale schiavitú
l’uomo si doveva realmente liberare? Dalla falsa immagine di Dio.
Questa è la vera schiavitú: pensando che Dio sia cattivo, si fugge
davanti a lui e si confida solo in
noi stessi. È in questo modo che
l’uomo diviene egoista, preoccupato di sé, capace di fare di tutto
per salvarsi, impossibilitato a riconoscere l’altro e ad amarlo. Per
questa liberazione ci voleva un’altra Pasqua, realizzata dal Figlio
proprio sulla scia della Pasqua
ebraica. Al posto del primo Mosè,
viene il secondo Mosè. Al posto
dell’agnello immolato di Israele,
viene Cristo, Agnello e Pasqua.
Sull’icona c’è infatti un altro calice, disegnato dalle due figure ester-
ne (il Padre e lo Spirito), in mezzo
al quale si trova il vero Agnello, il
Figlio di Dio, Gesú Cristo. Egli,
l’innocente, l’Agnello immacolato,
si è addossato tutte le nostre iniquità. Le piaghe da noi incise sul
suo corpo rivelano la bontà e l’amore di Dio. Come l’acqua del
mar Rosso ha lavato via la schiavitú dell’Egitto, cosí il calice, cioè
il sacrificio di Cristo, lava via la falsa immagine di Dio posseduta dall’uomo. Nei tempi antichi, proprio
per una resa simbolica piú efficace di questa realtà, c’erano dei battisteri a forma di calice. Il catecumeno era immerso nel calice, nel
sacrificio di Cristo—che nel suo sacrificio distrugge la falsa immagine di Dio—e usciva dal calice-battistero rivestito della veste bianca,
resa candida nel sangue dell’Agnello (Ap 7,14). Cosí il battesimo
riportava l’uomo come figlio nel
cuore di Dio. Per questo nel cuore
del nostro Dio c’è il sacrificio amoroso. L’icona ci comunica che il nostro Dio è Amore. Dio non poteva
solo dire: «Io sono l’Amore». Doveva farsi ospite affinché l’uomo si
aprisse, e, una volta aperto, potesse veramente sperimentare che nel
cuore del nostro Dio c’è il sacrificio amoroso, un sacrificio concre-
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T. S̆ pidlík e M.I. Rupnik - La fede secondo le icone
La Natività del Signore
to, non ideale.
Scrive san Massimo
il Confessore che Cristo
incarnato è il fulcro in
cui convergono tutte le linee del cosmo. Per questo, le piú antiche immagini della Natività mettevano in evidenza, al
centro, la culla di Gesú. Ma dal VI
secolo si realizza progressivamente
un mutamento nella composizione del quadro. L’icona diviene decisamente mariana e la Theotókos
occupa il posto principale, il contenuto dell’immagine si fa piú ampio e vi è in breve riassunta tutta
la storia della salvezza.
Nella loro cavalcata dall’Oriente verso l’alto, verso le stelle, i
Magi sono il simbolo dell’umanità
alla ricerca del Paradiso perduto,
dell’ascesa della mente verso Dio.
I Magi salgono, immagine dello
sforzo umano che cerca di penetrare i misteri di Dio. Dio è in alto,
perché due angeli guardano in su—
l’angelo è testimone della presenza
di Dio—, ma ce n’è anche un altro
che ha lo sguardo rivolto verso i pa-
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stori e comunica loro che
è inutile sforzarsi per salire sul monte. È giunta
l’ora infatti in cui Dio
stesso scende dall’alto.
Bisogna semplicemente
essere puri di cuore per
vederlo (cf Mt 5,8).
Nella parte destra dell’icona, il
pastore che ascolta l’annuncio dell’angelo è il rappresentante del popolo eletto, quel popolo cercato da
Dio stesso che ora scende come
buon Pastore a raccogliere il suo
gregge a cui già da secoli aveva parlato molte volte e in diversi modi (cf
Eb 1,1). Nel centro è collocata la
grotta di Betlemme nella quale è
apparsa, nella pienezza dei tempi,
la grazia del Salvatore (cf Tt 2,11)
per riconciliare tutti, sia i lontani
che i vicini (cf Ef 2,17).
La grazia, dice sant’Agostino,
si chiama grazia perché è gratis. I
Padri latini avevano serie ragioni
per insistere su questo aspetto del
dogma cristiano contro i pelagiani. I greci, dal canto loro, si sentivano obbligati, contro le tendenze
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La Natività del Signore
dualistiche, ad insistere su un altro
aspetto della medesima fede: la
collaborazione di tutte le forze create con la grazia. Fa eco al loro atteggiamento il kontákion della liturgia bizantina nel giorno di Natale. Il testo è servito indubbiamente come ispirazione per l’icona: «Che cosa ti offriremo, o Cristo, perché per noi tu nasci sulla
terra come uomo? Ciascuna delle
creature che sono opera tua ti reca, infatti, la sua testimonianza di
gratitudine: gli angeli il loro canto,
i cieli la stella, i magi i loro doni, i
pastori la loro ammirazione, la terra la grotta, il deserto la mangiatoia; noi uomini ti offriamo una
Madre Vergine».
Maria, offerta a Dio per l’opera dell’incarnazione affinché egli
potesse scendere, fu prefigurata
dalla scala di Giacobbe (cf Gen 28),
che è il contrario della Torre di Babele (cf Gen 11): il tragico sforzo
umano per conquistare il cielo con
le proprie forze. Nel Paradiso, il
serpente ha offerto ad Eva la falsa
possibilità di diventare Dio (cf Gen
3,5); la nuova Eva si è offerta perché Dio potesse diventare uomo.
I dubbi di san Giuseppe, tentato dal diavolo sotto le spoglie del
pastore, sono raffigurati nell’an-
golo sinistro della scena e rappresentano le eterne esitazioni di tutti noi. Non riusciamo a comprendere né la potenza di Dio, né la
grandezza dell’uomo. La verità di
Gesú Cristo, Dio vero da Dio vero,
doveva essere rivelata a Giuseppe
dall’angelo.
Al contrario, le due sagge donne che nell’altra parte dell’icona
lavano il neonato sono pronte, secondo le narrazioni apocrife, a rendere testimonianza alla nascita verginale di Cristo, venuto al mondo
come uomo. Esse inoltre, lavando
il bambino—dato che ogni uomo
appena nato viene lavato—testimoniano che Gesú è vero uomo.
Se per i greci il Salvatore è la
vita del cosmo, per gli ebrei è il culmine della loro storia. L’albero della radice di Iesse, in basso, simboleggia l’adempimento delle promesse fatte ad Abramo ed alla sua
discendenza. Sopra la grotta è raffigurata la stella venuta a Betlemme. I Padri dovevano rispondere a
tante credenze deterministiche dell’antichità e scrivevano a questo
proposito grandi trattati. Se ogni
uomo nasce sotto un astro, uno dei
tanti che costituiscono la volta delle stelle fisse, ed è quindi la storia
e la vita dell’uomo in essa a muo-
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