n°15, 22 giugno – 5 luglio 2014

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n°15, 22 giugno – 5 luglio 2014
N°15, 22 GIUGNO – 5 LUGLIO 2014
ISSN: 2284-1024
I
www.bloglobal.net
BloGlobal Weekly Report
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI)
© BloGlobal – Lo sguardo sul mondo
Milano, 6 luglio 2014
ISSN: 2284-1024
A cura di:
Davide Borsani
Giuseppe Dentice
Danilo Giordano
Maria Serra
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Weekly Report N°15/2014 (22 giugno – 5 luglio 2014), Osservatorio di Politica Internazionale (BloGlobal – Lo
sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.net
Photo credits: AFP/Leo Ramirez; AFP/Getty Images; Jean-Marc Loos/Reuters, Reuters, Middle East Eye, BBC, Voice of
America, Bloomberg, The Guardian, Times of Israel;
FOCUS
AFRICA CENTRALE ↴
Si è svolto il 2 luglio a Luanda, in Angola, il Vertice ministeriale che ha visto la partecipazione della Comunità degli Stati dell’Africa Australe (SADC) e della Conferenza
Internazionale per la regione dei Grandi Laghi (CIRGL). Al centro dei dibattiti del
Summit il processo d’amnistia e di rimpatrio dei combattenti del gruppo M23,
le relazioni tra Repubblica Democratica del Congo (RDC) e Ruanda e il processo di
disarmo del movimento armato delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda
(FDLR).
Per quanto riguarda i rapporti tra RDC e Ruanda, in seguito agli incidenti verificatisi
al confine tra i due Paesi l’11 e 12 giugno scorsi, è stato concordato di attendere le
valutazioni definitive della CIRGL prima di decidere eventuali responsabilità. In merito, invece, al movimento M23, i Paesi coinvolti (Ruanda, RDC e Uganda) hanno
valutato ottimamente i risultati finora raggiunti nel processo di rimpatrio in corso e
hanno proposto di accelerarne i tempi. La decisione più importante riguarda, però, il
movimento armato delle FDLR. Secondo il comunicato finale dei Ministri di CIRGL
e SADC, la riunione ministeriale ha «preso atto della decisione del movimento FDLR
di arrendersi e deporre volontariamente le armi». Tutti i partecipanti sono stati d’accordo su un punto, ovvero che questa è l’ultima opportunità concessa alle FDLR per
procedere con il disarmo completo.
L’unico contrasto in seno al Vertice, che si è trasformato in una vera e propria battaglia tra schieramenti opposti, si è avuto in merito ai tempi del disarmo: Ruanda e
Angola sostenevano l’opzione breve, ovvero che il disarmo dovesse avvenire entro
tre mesi, mentre la Repubblica Democratica del Congo sosteneva una tempistica più
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ampia, ovvero sei mesi. Alla fine, ha vinto l’opzione lunga anche se con determinate
condizioni da valutare: se il processo di disarmo rispetterà, durante i primi tre mesi,
determinate condizioni allora verrà concessa una proroga per altri tre mesi, altrimenti
saranno prese decisioni drastiche, non ultimo l’intervento armato contro le FDLR. In
pratica, non è facile individuare il bersaglio di un eventuale intervento armato perché
le FDLR sono divise in tre gruppi. Il gruppo principale è costituito dalle FOCA,
braccio armato principale, che tra il 2008 e il 2010 ha dovuto affrontare una scissione
interna, da cui sono nati gli altri due gruppi, le FDLR RUD e SOKI. Sono le FOCA che
hanno annunciato la loro volontà di deporre le armi: questo gruppo è militarmente
strutturato ed è costituito in maggioranza da ruandesi hutu, a cui si aggiungono elementi congolesi, i cui attuali comandanti appartenevano alle armate ruandesi FAR
all’epoca del genocidio del 1994. In base alle stime più diffuse, oggi la ribellione hutu
ruandese presente nell’est del Congo sarebbe costituita da circa 2000 combattenti.
Secondo l’ONU durante l’ultimo decennio almeno 11.000 uomini hanno deposto le
armi.
Lo scorso dicembre i vertici del gruppo si erano già detti pronti a disarmare: da allora
meno di 200 combattenti e 400 famigliari si sono presentati volontariamente nei centri predisposti nelle province del Nord e Sud Kivu, a Kanyabayonga e Walungu. Secondo Francois Mwamba, coordinatore delle delegazione congolese, non si tratta
«semplicemente di dire che i ribelli dovranno deporre le armi, bisognerà raggrupparli
e creare le condizioni giuste per il loro rimpatrio in Ruanda». La debolezza dell’accordo di Luanda sta nel fatto che non è stata prevista alcuna soluzione alternativa
per chi abbia paura di rientrare in Ruanda, come suggerito dal governo congolese che
proponeva di permettere che il rimpatrio potesse avvenire anche verso un altro
Paese.
L’accordo ha previsto delle eccezioni per una decina di uomini delle FDLR, tra
cui anche Sylvestre Mudacumura, uno dei loro principali comandanti, che sono stati
esclusi perché ricercati dalla Corte Penale Internazionale de l’Aja per crimini contro
l’umanità. Nonostante l’accordo raggiunto, il processo di pacificazione risulta complicato: un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha denunciato che le FDLR continuano
a reclutare uomini e ad addestrarli.
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ISRAELE-PALESTINA ↴
L’operazione militare “Brother’s Keeper”, ossia la missione di ricerca dei tre ragazzi
israeliani scomparsi il 12 giugno nei pressi di Hebron, in Cisgiordania (per maggiori
dettagli sull’operazione si veda il BloGlobal Weekly N°14), si è conclusa nel modo più
tragico possibile. Nella serata del 30 giugno, dopo 18 giorni di ricerche forsennate in
tutta la West Bank, le forze di sicurezza israeliane hanno ritrovato i corpi senza
vita dei tre seminaristi vicino il villaggio di Halhul, nei pressi della stessa Hebron.
La tragica fine dei giovani israeliani ha immediatamente acceso gli animi delle frange
più radicali nel governo, che in ordine sparso, da Dany Danon (Likud), vice Ministro
della Difesa, a Naftali Bennett (HaBayit HaYehudi), Ministro dell’Economia, passando
per Avigdor Lieberman (Yisrael Beitenu) e Uri Ariel (HaBayit HaYehudi), rispettivamente Ministro degli Esteri e dell’Edilizia, hanno lanciato un ultimatum all’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) chiedendo loro di dissociarsi dai crimini commessi «dagli
assassini (di Hamas)». Allo stesso tempo, i rappresentanti della destra radicale israeliana hanno affermato che è necessario «colpire i terroristi senza pietà» attraverso il
lancio di «un’operazione che dia a Hamas un colpo mortale. Dobbiamo sradicare il
terrorismo [...] demolire le abitazioni degli assassini, distruggere i loro depositi di
armi, bloccare i finanziamenti».
Anche il Premier, Benjamin Netanyahu nel condannare il vile gesto e nel promettere
una giusta punizione per i responsabili di Hamas, ha immediatamente convocato una
riunione straordinaria del governo, il 30 sera stesso, nel tentativo di placare le
anime più risolute del governo.
A gettare nuova benzina sul fuoco si inseriscono anche alcune scelte politiche poco
oculate del governo che potrebbero, al pari delle azioni militari, far precipitare ulteriormente la situazione. Il riferimento è alla costruzione di 10.000 nuove unità
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abitative per i coloni a Gerusalemme Est. Ma il crescente estremismo politico di
alcuni membri dell’esecutivo Netanyahu è anche lo specchio di una società israeliana
sempre più radicalizzata e divisa tra favorevoli al dialogo e cittadini (coloni e haredim)
sempre più estremizzati, a loro volta strumentalizzati dalla stessa classe politica
israeliana. Frutto di questo clima di profonda tensione è quanto accaduto il 3 luglio
a Gerusalemme, dove è stato ucciso per vendetta da parte di estremisti israeliani,
probabilmente ultras della squadra locale di calcio del Beitar Jerusalem, un ragazzo
diciassettenne palestinese. Oltre al grave fatto di cronaca si segnalano anche violenti
scontri, sedati con molta difficoltà dalle forze dell’ordine, tra coloni/haredim contro
arabi-israeliani/Palestinesi.
Tuttavia le uniche voci “stonate” nel governo israeliano sono quelle di Yair Lapid (Yesh
Atid), Ministro delle Finanze, e Tzipi Livni (HaTnuah), Ministro della Giustizia e capo
negoziatore israeliano nel processo di pace – ormai arenatosi – con i Palestinesi. La
leader centrista, oltre a mettere in guardia dai rischi di una nuova azione militare
nella Striscia di Gaza, ha minacciato le proprie dimissioni nel caso in cui il Premier
dovesse cedere alle posizioni più estreme di alcuni suoi rappresentanti nel governo.
I timori della Livni troverebbero un partner poco usuale anche nell’esercito israeliano.
Il rischio di una rappresaglia nei confronti di Hamas, sul modello di Pillar of Defense
del novembre del 2012, potrebbe far precipitare nuovamente la situazione in una
guerra che Tel Aviv vorrebbe scongiurare anche solo per evitare di trovarsi un nuovo
fronte interno da difendere nel già intricato puzzle della sicurezza mediorientale. Ad
ogni modo i vertici dell’IDF hanno mobilitato alcuni battaglioni verso sud, nei
pressi della città di Sderot, a pochi Km dalla Striscia di Gaza, e parallelamente hanno
continuato a condurre i raid aerei, in risposta al lancio dei Qassam, contro gli avamposti militari e strategici del gruppo radicale palestinese a Gaza.
Immediata la replica di Hamas che ha minacciato di «scatenare la guerra» e di «aprire
le porte dell'Inferno» se Israele dovesse dare l’ordine di attaccare la Striscia di Gaza.
A rincarare la dose ci ha pensato il portavoce del gruppo radicale palestinese, Sami
Abu Zouhri che ha affermato che «gli occupanti saranno pienamente responsabili di
qualsiasi futuro aggravamento della situazione».
Rischi che invece non vuole correre l’Egitto, come spesso accaduto nella storia recente. L'intelligence egiziana, secondo fonti interne ad Hamas, si sarebbe proposta di
mediare con Israele una tregua per interrompere il lancio di razzi dalla Striscia –
esattamente come accaduto l’ultima volta con Mohammed Mursi nel 2012 – che da
oltre due mesi non conosce sosta e che continua ad essere, nonostante il dispiegamento del sistema difensivo israeliano Iron Dome su ormai tutto il territorio, un motivo di costante insicurezza per il sud dello Stato ebraico.
Tuttavia il vero grande sconfitto di questa nuova crisi israelo-palestinese è ancora una
volta Abu Mazen e il tentativo della sua ANP di provare ad inserirsi come mediatore.
Se da un lato il leader palestinese difende se stesso e l’operato della sua organizzazione in Cisgiordania dalle accuse di Hamas di aver complottato nei loro confronti e
di aver aiutato all’IDF nella ricerca dei ragazzi scomparsi, dall’altro Abu Mazen deve
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riconoscere che l’idillio palestinese potrebbe essere già parte del passato date
anche alcune dichiarazioni di esponenti del gruppo politico di Gaza che chiedevano il
ritiro dei propri Ministri dall’esecutivo di Ramallah. Una situazione, questa, che rispecchia l’estrema debolezza politica e diplomatica dell’ANP non solo nei confronti di
Israele e degli altri interlocutori regionali, ma soprattutto nei confronti della stessa
popolazione palestinese anch’essa orientata su posizioni radicali e poco disponibile al
dialogo con le vecchie strutture.
In questa lotta di tutti contro tutti anche Hamas, debole e politicamente isolata,
deve fare i conti i suoi nemici interni. Fazioni ancora più estremiste, quali la Jihad
islamica, i salafiti vicini ad al-Qaeda e il Comitato di resistenza popolare, approfittano
della situazione per scatenare i loro attacchi e per raccogliere consensi tra la popolazione di Gaza.
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STATI UNITI ↴
Quelli trascorsi sono stati giorni molto impegnativi per il Segretario di Stato americano, John Kerry. Il 22 giugno ha effettuato una visita a sorpresa al Cairo per
proseguire la normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti ed Egitto dopo le vicende
convulse relative alla deposizione di Mohammed Mursi. Kerry, che aveva inizialmente
dichiarato «ovviamente, questo è un momento critico della transizione in Egitto, con
enormi sfide. Ci sono motivi di preoccupazione, ma sappiamo come lavorarci, e
aspetto con impazienza di dibatterli», ha discusso e poi promesso al neo Presidente
Abdel Fattah al-Sisi che Washington consegnerà «presto, molto presto» dieci elicotteri Apache e che erogherà parimenti 575 milioni di dollari per sostenere le
disastrate casse egiziane. Il capo della diplomazia statunitense ha poi aggiunto che
Foggy Bottom (alias il Dipartimento di Stato USA), sta lavorando per scongelare gli
aiuti che annualmente gli USA forniscono all'Egitto. Kerry ha poi discusso anche con
l’omologo egiziano, Sameh Shoukry, delle questioni regionali, come le tensioni
israelo-palestinesi, la crisi in Siria e quella in Iraq.
Nelle parole di Shoukry, «l'Egitto è fortemente preoccupato per la crescente violenza
in Medio Oriente e ribadisce la necessità di rafforzare le consultazioni con i paesi
confinanti». Kerry, dopo la visita nel Kurdistan iracheno, si è recato a Parigi, dove
ha discusso con l'omologo francese, Laurent Fabius, della crisi in Ucraina. A margine
dell'incontro, il Segretario di Stato ha affermato che «siamo in pieno accordo che la
Russia deve mostrare nelle prossime ore, letteralmente, che si sta impegnando per
disarmare i separatisti, per incoraggiarli a disarmare, per chiedergli di far tacere le
armi e diventare parte di un processo legittimo». Sulla possibilità di ulteriori sanzioni
a Mosca, ha continuato Kerry, «concordiamo tutti che debbano essere pronte, ma la
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nostra preferenza è di non dover attivare la funzione sanzioni, vorremmo vedere uno
sforzo di cooperazione tra Stati Uniti, Europa, Russia e ucraini».
Successivamente Kerry si è imbarcato in direzione Arabia Saudita, dove il 27 giugno ha incontrato a Jeddah il Re del Paese, Abdullah Bin Abdul-Aziz, e il leader della
Coalizione Nazionale Siriana, Ahmad al-Jarba, ovvero la principale forza di opposizione moderata al governo di Assad. Gli Stati Uniti hanno chiesto alla CNS di intervenire nella crisi in Iraq: «l'opposizione moderata in Siria», ha affermato il Segretario
di Stato, «ha la capacità di essere un attore molto importante per respingere l'ISIS,
non solo in Siria, ma anche in Iraq». Questo poiché «l’ISIS è un'unica entità, indebolirli su un lato del confine, quello iracheno, naturalmente avrà un impatto» generalizzato. Re Abdullah ha dunque chiesto a Kerry di incrementare quanto più possibile
l’aiuto americano elargito ai ribelli moderati siriani, per il momento incluso in un pacchetto quantificato in 1,5 miliardi di dollari da destinare alle forze filo-americane in
Siria, Iraq, Giordania, Libano e Turchia per la stabilizzazione dell’area.
Prima di tornare a Washington, il Segretario di Stato ha fatto tappa a Panama per
l’inaugurazione del mandato del neo Presidente eletto Juan Carlos Varela Rodríguez.
Qui si è discusso principalmente di questioni riguardanti l’immigrazione illegale dai
Paesi latino-americani in direzione degli Stati Uniti.
I vicini emisferici di Washington sono stati al centro del tour del vice-Presidente statunitense, Joe Biden, nella seconda metà di giugno. Biden, dopo aver fatto tappa in
Brasile in occasione della partita dei Mondiali di calcio degli Stati Uniti, si è recato in
Colombia per incontrare il nuovo Presidente Juan Manuel Santos, cui ha manifestato
un forte supporto per la conclusione dei colloqui di pace con le Revolutionary Armed
Forces of Colombia (FARC) per porre fine ad un conflitto ormai cinquantennale.
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UNIONE EUROPEA ↴
Seguendo la Grecia, e aprendo il trittico di presidenze semestrali con Lettonia e Lussemburgo, dal 1° luglio l'Italia è tornata a presiedere il Consiglio dell'Unione
Europea. L'ultima volta era stata nel secondo semestre del 2003, quando il nostro
Paese giocò un ruolo importante nell'allora iter di definizione – poi naufragato – della
cosiddetta Costituzione europea.
Conclusi senza non poche difficoltà negoziali i giochi per le nuove cariche istituzionali a seguito dell'avvio dell'ottava legislatura del Parlamento Europeo (Martin
Schulz ne è stato riconfermato alla guida, mentre Jean-Claude Juncker è in attesa
dell'investitura ufficiale come Presidente della Commissione), e a distanza di 11 anni
dall'impegno di Silvio Berlusconi, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha inaugurato la presidenza di turno rivendicando un ruolo di leadership politica ed economica per l'Italia all'interno dell'UE. Dopo aver ribadito la necessità di un'Europa
più unita, “smart”, che dia maggior spazio ai giovani conservando tuttavia l'eredità
lasciata dai padri, il discorso di Strasburgo è stato incentrato sull'approccio che Stati
membri e complessivamente UE dovranno adottare per rilanciare l'economia europea: «senza crescita l'Europa non ha futuro», ha sostenuto Renzi, che ha tenuto
a specificare che l'Italia non chiede scorciatoie per risanare la situazione economica
ma che «la richiesta di crescita è un elemento fondamentale della politica economica
europea che serve all’Europa e anche all’Italia», puntando dunque sull'urgenza di
rivedere al meglio i margini di flessibilità offerti dal Patto di Stabilità e Crescita. Immediata la reazione dei “rigoristi”: il capogruppo del Partito Popolare Europeo, il tedesco Manfred Weber, ha ricordato che l'Italia ha il 130% del debito pubblico sul
PIL e che concedere più flessibilità non è una strategia vincente, «i debiti non creano
futuro, lo distruggono». Pur successivamente negando l'esistenza di uno strappo proprio con la Germania di Angela Markel, Renzi ha comunque asserito che il nostro
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Paese non accetta lezioni da nessuno e ha ricordato a Weber che la concessione proprio a Berlino di violare i limiti ha fatto sì che oggi la Germania sia un Paese che
cresce. Il discorso dell'ex sindaco di Firenze, sul quale non sono state peraltro risparmiate le polemiche per via della mancata conferenza stampa al termine dell'inaugurazione dei lavori della presidenza, è stato favorevolmente accolto dall'omologo
britannico David Cameron e dal leader euroscettico di UKIP, Nigel Farage, pur dichiarando quest'ultimo che non collaborerà con Renzi.
Oltre che sulla maggiore flessibilità sui conti pubblici e sull'attenzione alle riforme
strutturali che diano un deciso input alla crescita, il documento programmatico
della presidenza italiana prevede un maggior impegno nelle politiche e negli incentivi per l'occupazione – soprattutto quella giovanile –, la definizione di una nuova
agenda digitale e un nuovo piano per il rilancio industriale. Relativamente alla sicurezza energetica, tema di fondamentale importanza alla luce delle tensioni con la
Russia – definito ad ogni modo un partner strategico con cui affrontare questioni
regionali e globali –, l'Italia ha individuato quattro priorità da realizzare entro il
2030: diversificazione delle fonti e delle rotte, completamento del mercato interno
dell’energia, potenziamento della dimensione esterna della politica energetica tenendo conto dell'andamento dei prezzi e della competitività. Spazio inoltre anche per
l'immigrazione, la gestione integrata delle frontiere attraverso l'attivazione di Frontex
Plus, attuazione di un Sistema europeo comune di asilo e un maggior coordinamento
europeo in materia di protezione internazionale dei diritti umani e di solidarietà interstatale. Su tali temi il Parlamento Europeo dovrà approvare il prossimo 16 luglio il
pacchetto programmatico varato dal Consiglio Europeo degli scorsi 26-27 giugno. Sostenendo la candidatura del Ministro degli Esteri Federica Mogherini come
Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Comune, l'obiettivo della presidenza italiana è infine di accrescere il ruolo dell’UE come attore
chiave sulla scena internazionale, aumentando l’influenza ai confini e in particolare
nell’area mediterranea.
Restando nel cortile europeo, il Consiglio Affari Generali svoltosi a Lussemburgo il 24
giugno ha finalmente concesso all'Albania lo status di candidata all'accesso
all'Unione Europea dopo le bocciature intercorse nel 2010 e nel 2013 a seguito
delle tensioni politico-sociali interne a Tirana. Nonostante restino punti di debolezza
nel campo della giustizia, nella lotta alla corruzione e al crimine organizzato e nella
garanzia della tutela delle minoranze, nel Progress Report pubblicato il 4 giugno la
Commissione Europea ha giudicato maturi i tempi per l'avvio dei negoziati di adesione. Il 27 giugno è stata infine una giornata storica anche per Georgia, Moldavia
e Ucraina: i tre Paesi hanno infatti firmato l'Accordo di Associazione e Stabilizzazione con Bruxelles. Per i primi due Paesi, in particolare, potrebbe trattarsi di
un definitivo smarcamento dall'influenza russa, anche se restano ancora numerose
criticità legate ai fattori territoriali interni: Transnistria da un lato, relativamente alla
quale per la metà di luglio è prevista una nuova tornata di negoziati 5+2 sotto la
guida dell'OSCE; Ossezia del Sud e Abkhazia dall'altro.
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BREVI
EGITTO, 3 LUGLIO ↴
Nonostante l’elezione di Abdel Fattah Al-Sisi, l’Egitto
continua a non conoscerre quella tranquillità sociale
che ci si aspettava. Nell’anniversario del golpe militare
che ha destituito Mohammed Mursi, il primo
Presidente eletto democraticamente della storia
egiziana, i membri della Fratellanza Musulmana hanno
indetto una “giornata della collera” per protestare
contro l’attuale governo e per dar voce alla frustrazione di una parte del popolo
egiziano per l’attuale situazione politica. Nonostante il divieto delle autorità, migliaia
di sostenitori di Mursi sono scesi in strada al Cairo e nelle principali località del Paese,
ma ovunque i cortei sono stati bloccati e dispersi con la forza. In tutto 200 persone
sono state arrestate, tra cui alcuni dirigenti dell’Alleanza Nazionale per la Difesa della
Legittimità – piattaforma delle forze islamiste anti al-Sisi – e i leader di piccoli partiti
islamisti alleati dell’Ikhwan. Il bilancio finale è stato di cinque vittime: due
nell’esplosione di una bomba a Kerdasa, cittadina vicino Giza e roccaforte dei Fratelli
Musulmani, e altre tre in scontri tra manifestanti e polizia nei quartieri del Cairo di
Materiya e delle Piramidi, mentre alcuni ordigni sono stati disinnescati a Guizeh,
periferia sud della capitale. Nello stesso anniversario del 3 luglio vi sono da segnalare
alcuni incidenti intercorsi tra forze di sicurezza e gruppi armati nel nord del Sinai, al
confine con Gaza, conclusisi con l’uccisione di 17 insorti. Nel frattempo, il gruppo
jihadista di Ajnad Misr (Soldati dell'Egitto), uno dei gruppi attivi nel Sinai, ha
rivendicato gli attentati dinamitardi al Palazzo presidenziale del Cairo che hanno
causato la morte di due artificieri e il ferimento di 11 loro colleghi.
GIAPPONE, 1° LUGLIO ↴
Vi è stata una svolta nella politica estera e di sicurezza
del Giappone. Dopo aver decretato nei mesi scorsi
l’aumento delle spese militari, il governo di Shinzo Abe
ha infatti approvato un’interpretazione “innovativa”
dell’articolo 9 della Costituzione redatta nel 1947 a
seguito della Seconda Guerra Mondiale. L’art. 9, infatti,
ha per lungo tempo vietato a Tokyo di ricorrere «alla
minaccia o all’uso della forza militare» come strumento per la risoluzione delle
controversie internazionali. Il governo Abe si è quindi accordato su una sua modifica
interpretativa (la modifica dell’articolo in sé avrebbe richiesto un iter più difficoltoso
politicamente), per cui alle Forze giapponesi sarà concesso «difendere gli alleati sotto
attacco», oltre ovviamente se stessi. Tuttavia, la strada che ha portato a tale svolta
non è stata semplice per il Primo Ministro. Circa la metà dell’opinione pubblica
giapponese si è infatti chiaramente mostrata riluttante ad abbandonare il tradizionale
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pacifismo costituzionale in favore di una postura meno predeterminata. Vi è stata
anche una manifestazione di fronte alla sede dell’esecutivo, dove circa duemila
persone hanno dichiarato la propria contrarietà alla nuova postura giapponese. Non
sono quindi mancate accuse di militarismo per Abe. Gli Stati Uniti hanno ben accolto
l’iniziativa di Tokyo, che ben si integra con il pivot to Asia annunciato
dall’amministrazione Obama. La Cina, la minaccia principale per il Giappone, si è
invece detta molto «preoccupata del pericoloso nuovo corso» del governo
giapponese. Anche la Corea del Sud, che storicamente guarda con ansia a Tokyo, ha
annunciato che vigilerà “con attenzione” sulle azioni di Abe.
IRAQ, 30 GIUGNO ↴
Gli uomini dello Stato Islamico e del Levante (ISIS)
hanno ufficialmente dichiarato la restaurazione del
Califfato, una nazione islamica che comprende tutti i
territori conquistati dall’ISIS, ossia le aree che si
estendono, a nord, da Mosul (Iraq) ai sobborghi di
Aleppo (Siria) e, a sud, da Rutba (Iraq) alla periferia di
Dayr az Zor (Siria). Il portavoce Abu Mohammad al-Adnani ha anche annunciato che
le parole Iraq e Levante spariscono dalla sigla ISIS, il cui nome ufficiale diventa “Stato
islamico”. Sempre al-Adnani ha dichiarato che Abu Bakr al-Baghdadi, nome di
battaglia di Ibrahim Awwad Ibrahim Ali Muhammad al-Badri Al-Qurashi al-Samarrai,
è stato nominato Califfo, ossia il leader dei musulmani nel mondo. Il Califfo Ibrahim
– questo è il nome scelto dallo stesso al-Baghdadi – ha invitato tutti i musulmani ad
unirsi alla sua grande alleanza per riconquistare tutti i territori che vanno dalla
Spagna al Pakistan. Intanto il 5 luglio il nuovo Califfo, apparso in pubblico in una
moschea non identificata di Mosul nel corso della preghiera del venerdì, ha ordinato
a tutti i musulmani di obbedirgli e, rivolgendosi contro i miscredenti, ha poi esaltato
le «vittorie dei musulmani» a «Occidente e Oriente». Solto qualche giorno prima, il
khalifa iracheno aveva promesso di conquistare Roma, cuore della cristianità
mondiale, e aveva lanciato un nuovo monito agli Stati Uniti, minacciando attacchi
peggiori di quelli dell’11 settembre. Nel frattempo non si arrestano i combattimenti
in tutto il Paese. Le azioni militari e ben organizzate dell’ISIS sembrerebbero dirigersi
con decisione verso Baghdad. Nel tentativo di fermare l’avanzata degli insorti e
procedere con una violenta controffensiva aerea, il Ministero della Difesa iracheno ha
annunciato di aver ricevuto i primi cinque aerei dei 12 caccia russi Sukhoi da
impiegare nell’area di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, di Mosul e nel
governatorato di al-Anbar. In aiuto di Baghdad, inoltre, vi sarebbero, secondo
ricostruzioni del New York Times, le armi e i droni forniti dall’Iran per fronteggiare i
guerriglieri qaedisti. Secondo i media iracheni e arabi, al momento, i maggiori
combattimenti si concentrerebbero nei pressi Fallujah, Babilonia, Samarra, Ramadi,
Haditha e Baqubah, oltre a molti dei valichi di frontiera tra Iraq, Siria e Giordania.
Proprio la possibilità che le frontiere di Giordania e Iraq, direttamente prossime
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all’Arabia Saudita, possano essere varcate dai jihaidsti ha spinto la casa reale ad
impiegare 30mila soldati lungo gli 800 km del confine iracheno. La decisione di Riyadh
sarebbe sorta in risposta a quella di Baghdad di trasferire 2.500 soldati iracheni dal
confine comune verso i territori a nord della capitale. Tuttavia questa ricostruzione
della società di intelligence privata USA Nightwatch è stata smentita dal Generale
Kassim Atta, portavoce dell’esercito iracheno.
IRAN, 3 LUGLIO ↴
Si sono tenuti a Vienna i colloqui sul dossier nucleare
dell’Iran tra questi e il gruppo 5+1 (i cinque Paesi
membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, più la
Germania).
Tali
negoziati
dovrebbero
costituire
l’ultimo round di una lunga serie volta a raggiungere
un accordo definitivo che completi quello provvisorio
siglato nel novembre 2013. Si prevede che le trattative dureranno per due settimane
fino al 20 luglio, ovvero la scadenza indicata dall’accordo temporaneo precedente. Il
nodo gordiano è rappresentato dal numero di centrali nucleari che Teheran potrà
mantenere operative in futuro. Vi sono, in sostanza, tre diverse posizioni. L’Iran
vorrebbe mantenere attive all’incirca cinquantamila centrifughe per non dissipare il
vantaggio tecnologico acquisito negli scorsi anni. Gli Stati Uniti sarebbero disposti ad
accettare non più di qualche migliaio. La Francia, invece, spinge per far scendere il
numero totale al di sotto delle mille centrifughe. Il Ministro degli Esteri iraniano,
Mohamed Javad Zarif, ha affermato alla vigilia della ripresa dei colloqui che «non
porteremo il popolo iraniano a inginocchiarsi in segno di sottomissione. E non lo
faremo ne' ora ne' in futuro». Ciononostante, il governo di Teheran, ha continuato
Zarif, è assolutamente pronto a raggiungere un accordo, a patto che non vi siano
“richieste
esagerate”.
Mosca
si
è
mostrata
possibilista
sul
raggiungimento
dell’accordo entro la scadenza prefissata. Washington, per bocca del Segretario di
Stato John Kerry, è stata più prudente, dichiarando che «nonostante i molti mesi di
discussione, non sappiamo ancora cosa farà l’Iran: sappiamo che esistono ancora
divergenze sostanziali tra quanto i negoziatori iraniani dicono di voler fare e quanto
devono fare per arrivare a un accordo globale. Sappiamo anche che il loro ottimismo
dichiarato pubblicamente circa il potenziale esito di questi negoziati non ha
combaciato, finora, con le posizioni presentate a porte chiuse».
KENYA, 22 GIUGNO ↴
Non si è fatta attendere la reazione del governo di Nairobi dopo il duplice massacro
nei villaggi di Mpeketoni e Poromoko, rispettivamente lo scorso 15 e 17 giugno. In
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un’operazione congiunta con le forze dell’AMISOM, la
missione dell’Unione Africana in Somalia approvata
dalle Nazioni Unite per assicurare la protezione dei
membri del congresso per la riconciliazione nazionale
somalo e la messa in sicurezza delle infrastrutture
chiave, il 22 giugno è stata sferrata un’offensiva contro
i villaggi di Anole e Kuday, nella regione del Basso
Juba, notoriamente sotto il controllo delle milizie islamiche, dove si ritiene siano
presenti elementi di spicco della catena di comando di al-Shabaab. Le forze aeree di
Nairobi hanno ripetutamente colpito i due villaggi in una serie di incursioni operate
con cacciabombardieri decollati dal territorio kenyano, mentre una componente
terrestre dell’AMISOM ha cinturato l’area impedendo accessi e fughe in direzioni dei
due villaggi: l’offensiva è riuscita a sottrarre più di dieci città chiave nelle mani dei
miliziani islamici di al-Shabaab. Il Kenya si trova ad affrontare una difficile minaccia
interna alla sicurezza, portata innanzi dal gruppo islamico di Al-Shabaab che contesta
al governo kenyota la sua partecipazione all’operazione per riportare la stabilità in
Somalia. I recenti attacchi terroristici hanno complicato ulteriormente la sicurezza
interna e messo in luce le difficoltà del governo kenyano e del suo apparato di
sicurezza nel saper rispondere con forza alle crescenti minacce del fondamentalismo
islamico. A conferma di ciò, il Presidente Uhuru Kenyatta, in contrasto con i suoi
apparati di sicurezza, subito dopo gli attacchi di Mpeketoni e Poromoko, ne ha
attribuito la responsabilità a gruppi ribelli interni al Kenya, scagionando, di fatto, alShabaab.
UCRAINA, 1° LUGLIO ↴
È scaduto il 1° luglio il cessate il fuoco proclamato dal
Presidente ucraino Petro Poroshenko lo scorso 20 giugno e che alla fine, pur se solo parzialmente, i separatisti filo-russi delle aree orientali del Paese avevano accettato. In realtà, infatti, negli ultimi giorni di giugno
sono continuati gli scontri tra il governo centrale e i
gruppi ribelli come riferito dal portavoce dell'esercito
ucraino Oleksiy Dmytrashkivskiy che ha denunciato un attacco ai danni dell'aviazione ucraina in cui sarebbero morti almeno 5 soldati di Kiev. Mentre i Ministri degli
Esteri di Francia, Germania, Russia e Ucraina sono tornati il 2 luglio a riunirsi a Berlino
per discutere di una nuova tregua, e nonostante il primo vice Premier dell'autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, Andreyi Purgin, avesse dichiarato di essere
pronto ad una nuova tornata di negoziati di pace, le forze armate di Kiev – ora sotto
il comando del Capo di Stato Maggiore, Viktor Muienko, e del neo Ministro della Difesa, il Colonnello Generale Valeriy Heletey – hanno dunque lanciato una nuova of-
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fensiva ad est, annunciando tra il 5 e il 6 luglio di aver ripreso il controllo delle roccaforti dei gruppi secessionisti, Sloviansk e Kramatorsk. Lo stesso Heletey nel suo
discorso al Parlamento non ha fatto mistero di puntare anche ad una riconquista della
Crimea. Ad infiacchire il fronte separatista avrebbe concorso d'altra parte anche la
decisione all'unanimità da parte del Consiglio della Federazione Russa (il Senato) di
revocare l'autorizzazione a un eventuale intervento delle forze armate di Mosca in
Ucraina sulla base di una proposta avanzata dallo stesso Putin. Il 4 luglio sono intanto
iniziate nel Mar Nero, nel porto bulgaro di Burgas, le esercitazioni militari congiunte
(Sea Breeze 2014) tra Bulgaria, Grecia, Romania, Turchia e Stati Uniti sotto il cappello
NATO, che dureranno fino al 13 del mese e che hanno lo scopo di migliorare la compatibilità tattica e la collaborazione tra le forze navali dei Paesi dell'Alleanza Atlantica.
Tra le quattro navi da guerra della forza d'intervento rapido della NATO figurano anche la fregata Aviere e il dragamine Rimini della Marina Militare italiana. Mentre da
un lato il Ministro degli Esteri russo Lavrov sta tentando di tessere una via politica con
il rinnovato asse franco-tedesco sulla questione (la stessa Merkel ha incontrato il
Segretario della NATO Rasmussen per rassicurarlo degli sforzi diplomatici), il Primo
Ministro russo Medvedev è tornato ad accusare l'Ucraina e Poroshenko sulle responsabilità del conflitto, avvertendo su una crisi "totale" sul fronte del gas entro il prossimo autunno, dopo che il mese scorso Gazprom ha tagliato le forniture della Russia
a Kiev. Un avvertimento che potrebbe preludere ad una nuova serie di misure protezionistiche da parte del Cremlino su Kiev dopo la decisione di quest'ultima di procedere il 27 giugno con la firma anche della parte economica dell'Accordo di Associazione e Stabilizzazione con Bruxelles.
VENEZUELA, 22 GIUGNO ↴
Dopo i vani tentativi di invito alle dimissioni delle
scorse settimane, il Presidente Nicolás Maduro ha ufficialmente licenziato il Ministro della Pianificazione economica Jorge Giordani, un civile definito dalle opposizioni come il cosiddetto ideologo della politica economica del regime. Giordani è un economista di scuola
marxista, da sempre molto discusso nel Paese perché
nei suoi 14 anni in sella allo stesso Ministero prima con Hugo Chávez e poi con Maduro
si è fatto portavoce di misure di pianificazione economica statale molto criticate come
il sistema bloccato dei prezzi di prima necessità e il ferreo controllo valutario da parte
dello Stato. Il posto di Giordani verrà assunto dal Ministro dell'Istruzione e dell’Università Ricardo José Menéndez Prieto, anche se gran parte del processo decisionale
economico rimarrà nelle mani del vice Presidente con delega alle Finanze e Ministro
del Petrolio, Rafael Ramírez, vero e unico deus ex machina del regime. Se da un lato
le dimissioni di Giordani potrebbero essere viste come un segno di pragmatismo da
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parte del governo di Caracas, esposto da tempo ad un rischio default tecnico, dall’altro la rinuncia ad un uomo fidato di Maduro ma estraneo ai gangli della casta chavista
dell’esercito sembra porre sempre più in essere il rischio di una militarizzazione del
regime, un pericolo messo in luce dallo stesso Giordani con un lunga lettera di denuncia nei confronti del Presidente in carica e dei suoi più stretti collaboratori. Nel
frattempo anche nelle fila dell’esercito si fa sempre più forte l’insofferenza nei confronti dell’assenza di decisioni da parte di Maduro. Yoel Acosta Chirinos e Carlos
Guyón, due ex ufficiali dell’esercito e fondatori al pari di Chávez della loggia militare
al potere, hanno chiesto al Presidente e al governo intero le dimissioni nel tentativo
di dare una scossa al Paese «per salvaguardare la democrazia ed evitare infiltrazioni
politiche esterne».
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ALTRE DAL MONDO
COREA DEL NORD, 3 LUGLIO ↴
In occasione della visita del Presidente cinese Xi Jinping a Seul, il regime di Pyongyang è tornato ad effettuare test missilistici: 2 razzi a corto raggio sono stati lanciati
dalle coste orientali del Paese, dalla zona di Wonsan, nella provincia di Gangwon, nelle acque del Mar del Giappone. Intanto, a seguito di un vertice svoltosi a
Pechino il 1° luglio, il Premier giapponese Shinzo Abe ha deciso di rimuovere parzialmente le restrizioni sul regime di Kim Jong-un, pur continuando a sostenere quelle
imposte dalle Nazioni Unite.
FRANCIA, 1° LUGLIO ↴
Con l'accusa di concussione e di violazione del segreto istruttorio, l'ex Presidente della
Repubblica Nicolas Sarkozy è stato posto in stato di fermo dalla polizia giudiziaria di
Nanterre nell’ambito di un'inchiesta sulle presunte pressioni che l'ex inquilino dell'Eliseo avrebbe esercitato su Liliane Bettencourt, azionista principale della L'Oréal, per
ottenere finanziamenti alla campagna presidenziale del 2007. Una campagna su cui
peserebbero altri illeciti tra cui finanziamenti da parte della Libia e un possibile intervento a favore del finanziere Bernard Tapie nel contenzioso con lo Stato sul fallimento
del Crédit Lyonnais.
MALI,
30 GIUGNO ↴
Un attentato ad un convoglio delle Nazioni Unite nella città di Goundam, nella regione
di Timbuctu, a nord del Paese, ha provocato la morte di un peacekeeper appartenente
al contingente del Burkina Faso e almeno il ferimento di altri sei. L'attacco è avvenuto
in concomitanza della visita nel Paese da parte del Presidente burkinabè Blaise Campaore nell'ambito del dialogo con i ribelli del nord rilanciato ad Algeri i primi giorni di
giugno. Il Ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, ha chiesto all'ONU l'urgente
dispiegamento dei 12mila soldati previsti per il rafforzamento delle strutture di sicurezza dell'Azawad.
PAKISTAN, 5 LUGLIO ↴
Il Parlamento di Islamabad ha approvato il Protection of Pakistan Bill 2014, una nuova
legge anti-terrorismo che conferisce maggiori poteri alle forze di sicurezza nazionali
nella lotta contro i talebani, tra cui la possibilità di fare retate senza un ordine di
perquisizione e di trattenere le persone sospette fino a 60 giorni in centri di detenzione segreti.
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SOMALIA, 5 LUGLIO ↴
È di 5 vittime, tra cui due membri della sicurezza somala, e di 13 feriti il bilancio di
un'esplosione avvenuta nei pressi del Parlamento di Mogadiscio. L'attentato è stato
rivendicato dal gruppo terroristico al-Shabaab che lo scorso 26 giugno aveva preso
di mira l’hotel Amalow a Buulobarde (150 chilometri a nord della capitale) che ospitava i caschi verdi dell'AMISOM inviati da Gibuti. Sempre il Parlamento di Mogadiscio
era stato oggetto di attacco alla fine di maggio, quando l'assalto provocò una decina
di morti.
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ANALISI E COMMENTI
LA PROIEZIONE ESTERNA SPAGNOLA A QUARANT’ANNI DALLA TRANSIZIONE
DAVIDE VITTORI ↴
Analisi disponibile anche come Research Paper: SCARICA
La transizione da un regime autoritario ad uno democratico è una fase delicata per
gli equilibri interni ed esterni di ogni Stato. Nell’analisi della politica estera spagnola
il riflesso del processo di democratizzazione si è accompagnato agli interrogativi sulla
strada che il Paese iberico avrebbe percorso una volta che un governo legittimato
attraverso il voto fosse entrato in carica. Pollack, a dieci anni circa dalla morte di
Francisco Franco, ritenne che l’impatto della democratizzazione non aveva rivoluzionato le direttrici dell’azione esterna di Madrid. Di qui il “paradosso” per il quale, scomparso il dittatore nel 1975, la sua ombra ancora riusciva a proiettarsi nel policy-making delle élites al potere durante la fase di consolidamento della democrazia. Tali
direttrici possono essere sommariamente identificate nell’area mediterranea, nell’Europa, nel rapporto con gli Stati Uniti e con le ex-colonie in Centro e Sud America. Tale
visione, tuttavia, risulta parziale. Se geograficamente le zone di azione della Spagna
democratica non cambieranno negli anni a venire, la sostanza dei rapporti con i Paesi
terzi e le istituzioni sovranazionali cambierà radicalmente; per questo è lecito parlare
di una vera e propria Transición Exterior, che ha permesso di strutturare il passaggio
dalla politica estera franchista ad una democratica e occidentalizzata (…) SEGUE >>>
IL RUOLO DELLA TANZANIA NEL COMPLESSO SCENARIO DELL’AFRICA ORIENTALE
CHIARA CIGLIO ↴
«Non esiteremo a dare un contributo ancora maggiore, laddove possibile, per assicurare che altre persone godano di una pace simile alla nostra». È questo il nucleo
della dichiarazione rilasciata lo scorso 29 maggio da Hussein Mwinyi, Ministro della
Difesa della Tanzania, in occasione della Giornata Internazionale dei peacekeeper
delle Nazioni Unite. L’affermazione ufficiale va a confermare quello che è in realtà un
impegno concreto di lungo corso da parte di Dar es Salaam alle missioni di peacekeeping internazionale: stando alle parole del Ministro della difesa, si stima un contributo tanzaniano pari a 2259 peacekeeper tra Darfur (UNAMID), Libano (UNFIL),
Abyei (UNISFA), Sud Sudan (UNMISS) e, soprattutto, Repubblica Democratica del
Congo (MONUSCO). In virtù del suo recente attivismo, la Tanzania, Paese generalmente distante dalle cronache internazionali, sembra oggi guadagnare nuovo peso e
influenza sullo scenario africano, forte soprattutto di una stabilità politica interna
pressoché senza precedenti nel continente nero. (…) SEGUE >>>
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IL RUOLO STRATEGICO DELLA GIORDANIA IN MEDIO ORIENTE
SARA BRZUSKIEWICZ ↴
Analisi disponibile anche come Research Paper: SCARICA
Negli ultimi travagliati anni mediorientali la Giordania sembra aver attraversato indenne gli sconvolgimenti delle cosiddette “Primavere Arabe” e le crisi propagatesi in
molti dei Paesi limitrofi. Con una magistrale cautela e una pragmatica abilità nel
mantenere o stabilire relazioni diplomatiche improntate alla cooperazione ed alla concordia, il Regno hashemita è stato finora in grado di conservare il proprio ruolo di
baluardo della stabilità regionale, aspetto fondamentale tanto per gli interlocutori
dell’area quanto per quelli d’oltremare, Stati Uniti in primis. Nonostante l’indubbia
solidità del contesto giordano, prova della quale è il fatto che spesso il Paese tende
ad essere trascurato dall’analisi geopolitica, le incognite per il futuro dettate da molteplici criticità interne non vanno sottovalutate, così come la delicatezza della sua
posizione nella congiuntura regionale (…) SEGUE >>>
GEOECONOMIA: UN’IDIOSINCRASIA TUTTA EUROPEA
MASSIMO PRIVITERA ↴
Che le materie prime, e la corsa all’accaparramento di queste, siano causa di conflitti
non è elemento caratterizzante solo la storia degli ultimi decenni. Basti ricordare
come l’appetibilità dei bacini della Ruhr sia stata fattore determinante per lo scatenarsi della guerre franco-prussiane e dei due conflitti mondiali, e di come la creazione
di un mercato di scambio per carbone e acciaio sia stata uno dei prodromi di Europa
unita. Tuttavia, il focus strategico delle attuali potenze mondiali, nella configurazione
multipolare che le relazioni internazionali hanno sviluppato dopo il crollo dell’Unione
Sovietica, si è spostato in maniera decisa dalla geopolitica alla geoeconomia, di pari
passo con lo spostamento dei centri di potere dalle istituzioni politiche a quelle economico-aziendali. Se prima le relazioni estere di un Paese erano guidate da un movente nazionalista che affondava le sue radici in concetti quali identità e territorio, e
che trovava la sua massima espressione nella loro strenua difesa, oggi sempre più,
nel mondo iperconcorrenziale del consumismo globale, si è fatto strada il mantra
della competitività economica a tutti costi. (…) SEGUE >>>
L’ASCESA DEI SECURITY CONTRACTOR NELLA POLITICA MEDIORIENTALE DEGLI USA:
VERSO UN NUOVO PARADIGMA DI INTERVENTO?
ALESSANDRO TINIT ↴
Analisi disponibile anche come Research Paper: SCARICA
Le estenuanti e rovinose campagne statunitensi nei teatri mediorientali hanno segnalato il progressivo affidamento del Dipartimento della Difesa ai servizi offerti da imprese private. Malgrado i tagli apportati alla componente discrezionale del bilancio
per la Difesa, l’esternalizzazione delle funzioni di sicurezza a “contractor” assunti
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all’occorrenza dalle agenzie governative è infatti divenuta un elemento essenziale per
la piena operatività ed efficienza sia delle attività di combattimento che di stabilizzazione e ricostruzione condotte dalle Forze Armate, secondo una tendenza che dalle
guerre nei Balcani ad oggi ha assunto una rilevanza critica per la protezione degli
interessi strategici degli Stati Uniti negli scenari di conflitto. In altri termini, la supremazia militare della prima potenza mondiale richiede l’integrazione di capacità
esterne nella struttura bellica (…) SEGUE >>>
A cura di
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
Ente di ricerca di
“BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale
C.F. 98099880787
www.bloglobal.net
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