Il libro segreto di Dante

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Il libro segreto di Dante
Trentaduesimo_Dante_DANTE/MOSAICO 17/05/11 12:23 Pagina 1
Francesco Fioretti
Il libro segreto di Dante
Newton Compton editori
Trentaduesimo_Dante_DANTE/MOSAICO 17/05/11 12:23 Pagina 2
Prima edizione: maggio 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-2985-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Stampato nel maggio 2011 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta PamoSuper della Cartiera Arctic Paper Mochenwangen
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I
13 settembre 1321
A metà dei miei giorni me ne andrò alle porte degli inferi.
Chissà perché proprio allora gli vennero in mente così,
mentre appoggiava un piede a terra tastando cautamente
il suolo, quelle parole misteriose che aveva scritto il consigliere di Acaz di Giuda, il più grande tra i profeti dell’era antica... Forse succede a tutti prima o poi, nel bel
mezzo di una vita, a trentacinque anni, quanti ne aveva
anche lui: che si possa essere presi da un inesplicabile
senso di vuoto, come quando si danza sull’orlo dell’abisso. Capita soprattutto se si è smarrita la via, e si arranca irrequieti tra le spire malsane della solitudine, che
tutto all’improvviso paia insulso, vanitas vanitatum, persino il fatto di essere dove si è, se si era partiti con altre
aspirazioni. Se si vuole essere onesti con se stessi occorre
ammettere un mezzo naufragio, altrimenti si rischia di
aggrapparsi a illusioni scadute, di crearsi un alibi per il
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fallimento, di proseguire il viaggio cullandosi tra le menzogne poco rassicuranti di una falsa coscienza...
Magari è solo un attimo quello in cui si percepisce l’inganno e si avverte, sopra di sé, il silenzio insopportabile
dei cieli.
Ebbe la strana sensazione, lì al buio, che davanti ai suoi
piedi dovesse da un momento all’altro spalancarsi il baratro. Il senso della vita degli altri, il senso della sua, lì
dov’era, e le storie di tutti in quell’attimo gli parvero non
più importanti delle generazioni d’erbacce che si avvicendano nei prati. Avesse dovuto chiuderla così, si domandò quale fosse stato il significato di quell’incongrua
sequenza di fatti minimi che era stato il suo viaggio...
Tuttavia non ebbe tempo d’indugiare a lungo su quei
pensieri. Forse perché aveva dovuto smontare dal suo
cavallo, e adesso lo conduceva tirandolo per le briglie. E
perché doveva stare molto attento a come avanzava, a
piedi, molto lentamente e a fatica, nell’oscurità assoluta
della foresta in cui si era perduto. Non aveva idea di
come fosse finito in quella selva inestricabile, groviglio
di sottobosco in cui rimaneva a ogni passo impigliato alle
edere, ai rovi, agli agrifogli, che gli avevano lacerato i calzoni e il mantello. Sanguinava il braccio che aveva libero,
e con cui cercava alla cieca di pararsi dai rami spinosi. A
volte sembrava che gli sterpi, spezzandosi, e i ciottoli,
franando, pronunciassero un crepitio incomprensibile di
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consonanti, come il becero insulto d’un rauco giudice
infernale. «Colpa tua»: gli parve persino di udire queste
parole, in un rimbrotto di sterpaglie calpestate. E certo
era solo la voce d’una coscienza inquieta, che suole torturare il torturato dalla sorte presentandogli le avversità
come una punizione, e la punizione come l’effetto di un
peccato, qual esso sia.
In verità non c’era colpa alcuna nell’esser finito lì come
un ladro braccato, nel seguire vie impervie per non cadere nelle mani di nemici ignoti, forse solo immaginari,
e magari pronti a fargli pagare i presunti debiti di un
altro. La provincia d’Italia è così, una terra molto faticosa, una guerra di tutti contro tutti. Adesso lì, nel
bosco, le fronde dei frassini erano talmente fitte che neanche un raggio di sole penetrava attraverso il fogliame.
Nel buio avvertiva solo il nervosismo del cavallo. L’aria
era calda, immobile, la sua gola secca. Era sporco di terra
e di sangue, e la sua sete era incolmabile.
Cadde ancora una volta – più d’una era già caduto – e
ogni volta rialzarsi era più difficile. Si sforzava di mantenere costante la rotta: se avesse proseguito sempre in una
sola direzione, se non altro ne sarebbe uscito. Anche i
boschi finiscono prima o poi, il peggio sarebbe stato invece girare a vuoto. E tuttavia quella gli parve, se ne fosse
uscito vivo, un’esperienza carica di sovrasensi, così come
capita a volte, vivendo, che si proceda a tentoni, e che ci
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si armi nell’oscurità del cammino di un destino provvisorio; e ci si augura, procedendo senza sapere nulla, di
uscire prima o poi alla luce, di ritrovare la via. Così è la
selva del mondo.
Ma faceva molta fatica a mantenersi su un percorso rettilineo: percepiva soltanto l’inizio di una salita, la foresta
era in una valle, e dunque forse, procedendo verso la cresta del colle avrebbe ritrovato il sole e la strada che aveva
smarrito, o comunque sarebbe cominciata la discesa
dell’ultimo tratto d’Appennino. Bisognava rimettersi in
piedi, non perdere la speranza della luce. Si rialzò, ma inciampò subito tra polloni freschi di carpini a ceppaia, e
cadde, di nuovo, come corpo morto... Le ciglia allora gli
si bagnarono di disperazione. Perché nella caduta, questa
volta, aveva lasciato andare la briglia e aveva perso il cavallo, che non vedeva più.
Chiuse gli occhi, e tentò di calmare l’agitazione.
Tra le lacrime che inumidivano i suoi occhi gli parve allora di percepire un bagliore, il lembo d’una veste bianca
che strisciava verso l’alto lungo il tronco d’un acero: un
angelo, forse, o un fantasma femminile. Si asciugò gli
occhi, alzò lo sguardo e vide che invece era semplicemente una lama di luce che feriva le chiome impenetrabili della foresta. L’anima gli si dilatò, come un fiume che
diventa lago. Si appoggiò con la mano su un ginocchio e
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si rimise in piedi, fece ancora dei passi. La salita era più
ripida e gli alberi si diradavano. Si disse: «È fatta». Ancora un passo e sbucò oltre il margine del bosco, che finiva su una landa deserta di terra rossa screpolata; il
paesaggio gli parve irreale: un colle brullo dietro la cui
cima si intuiva la luce di un sole nascente.
E in lontananza, su quella terra riarsa vide la lettera elle,
una grande elle maiuscola dal pelo maculato: era la Lynx,
certo, la riconobbe... oppure un leopardo accovacciato
che si leccava una spalla? Si fermò spaventato e si chiese
dove mai fosse finito. La terribile apparizione animalesca
era ancora lì, immobile, e adesso lo fissava. Fu certo che
si trattasse di una visione demoniaca; era una figura cangiante, che mantenendo la posa a elle, stava assumendo
le fattezze del grande Leo: sì, era già il superbo leone
dalla folta criniera, che si alzò imponente sulle quattro
zampe, facendo tremare l’aria intorno. Pensò che la elle
dovesse essere un marchio luciferino, la cifra del re d’Inferno. Spesso il Maligno assume le fattezze di animali che
non sono animali, tant’è che cambiano aspetto come
Proteo l’informe: infatti ora la bestia si stava già tramutando nella Lupa, una lupa famelica, magrissima, vorace,
che un attimo dopo la metamorfosi lo puntò. Una bestia
orribile ed enorme, che cominciava ad avanzare sbavando verso di lui.
Era rimasto immobile, pronto a scappare verso la fore7
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sta. Poi la lupa aveva iniziato a correre nella sua direzione, ma lui era come paralizzato e non riusciva a muoversi. Si accorse del cane da caccia, il Vertragus, un veltro
agilissimo? un levriero?... sbucato da chissà dove. S’era
messo a inseguire la lupa e adesso tutte e due le bestie si
stavano avvicinando di corsa. Ma sembrava che il suo
corpo non gli obbedisse più, che la sua anima se ne fosse
separata, e il pensiero di fuggire non si trasformava in
nessun movimento delle gambe. La lupa gli era già quasi
addosso. In preda al panico, pensò che fosse arrivata la
fine, ma poi vide la terra che si ritirava terrorizzata. Vide
il suolo aprirsi davanti ai suoi piedi in una voragine senza
fondo, la lupa sprofondarvi, con il veltro alle costole: giù
giù, fino al cuore magmatico della terra che la inghiottiva
nell’abisso da cui era stata sputata fuori.
Riaprì gli occhi, sudato, ancora in preda all’agitazione
per la scena terribile appena sognata, tanto che trovò persino rassicurante il fatto di risvegliarsi lì, nel buio ancora
fitto della foresta infestata da veri lupi, nel posto in cui era
caduto l’ultima volta e dove s’era assopito. “Forse gli incubi servono a questo”, si disse, “a ritrovare familiare la
realtà più opprimente del giorno che ci attende”. La stanchezza doveva averlo vinto e gli aveva chiuso gli occhi.
Aveva completamente perso la cognizione del tempo. Lo
tranquillizzò sentire il nitrito, lì vicino, del suo cavallo.
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Che cosa aveva sognato, poi? La scena del primo canto
della Commedia, che aveva riletto prima di partire: la
Lynx, il Leo, la Lupa, i tre simboli della lussuria, della superbia, dell’avidità, che nella selva oscura impediscono
a Dante la via verso la luce. Mai però aveva prestato attenzione a quel che il sogno adesso gli aveva rivelato: i
loro nomi iniziavano tutti per elle, le tre bestie sarebbero
potute essere altrettante manifestazioni dell’invidia
prima, di Lucifero che le ha partorite e a cui il Vertragus,
il veltro, le rispedirà. Giunto a Ravenna, avrebbe raccontato il sogno a Dante Alighieri in persona, e insieme ne
avrebbero riso. Finalmente quello che era diventato il
più grande poeta del tempo gli avrebbe parlato, e lui
avrebbe potuto chiedergli di persona tutto ciò che desiderava sapere e manifestargli tutti i suoi interrogativi sul
magnifico poema che stava scrivendo. Gli avrebbe chiesto a chi alludeva con il misterioso veltro del primo canto
della Commedia, e a chi poi con l’altro vendicatore, il
Cinquecento diece e cinque, il DXV. Forse un dux, un condottiero, gli pareva di capire anagrammando le lettere
latine del numero, l’enigmatico messo divino annunciato
alla fine del Purgatorio.
C’erano tante cose da chiedere. Doveva solo proseguire
in quelle tenebre, uscire dalla selva oscura, ritrovare la
strada verso il mare, verso l’alba, verso l’antica capitale
dell’Occidente. Si guardò intorno, vide spuntare tra i
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rami alti degli alberi la luna prossima al tramonto. Le
volse le spalle e proseguì nella direzione opposta, riafferrando le briglie del suo cavallo. In direzione opposta
al tramonto, verso l’Adriatico, il mare da cui sorge il sole:
adesso sapeva dove andare. Fortunatamente dopo pochi
passi intravide un sentiero che fendeva il sottobosco, ancora troppo impervio per percorrerlo a cavallo, ma al termine del quale si trovò su uno sterrato più ampio.
Rimontò sulla sua cavalcatura e corse a briglie sciolte in
una direzione che era a metà tra la stella polare e Venere,
che brillava luminosa all’orizzonte, lì dove presto sarebbe sorto il sole.
Lucifero, la stella del mattino, scòrta del sole nascente.
Arrivò al galoppo sulla cresta dell’ultima collina prima
del litorale, si fermò a far riposare il suo destriero e a curarsi le verruche col lattice d’euforbia. Davanti a lui si
apriva la pianura, con le mura illuminate, di una città sull’Adriatico che adesso si vedeva in lontananza. Il sole cominciò ad affacciarsi proprio allora, un punto rosso sul
limite estremo del mare a sud-est. Non c’era foschia, e
lo vide lentamente salire fino a diventare una palla di
fuoco appoggiata all’orizzonte. Lo aveva ammirato tramontare sul Tirreno, qualche anno prima, ma mai sorgere dal mare. “Alla gente che vive da queste parti”,
pensò, “deve sembrare una cosa consueta, eppure è una
scena che riempie di nuova energia. La natura si sveglia,
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gli uccelli iniziano a cantare tutti insieme, il giorno comincia in pochi attimi: è l’emozione dell’inizio, nella sua
intensità più pura... Chissà se il poeta, negli ultimi anni
ha respirato quest’annuncio di nuova vita, se ancora si
sveglia presto per non perdersi spettacoli come questo,
adesso che vive qui, in riva all’Adriatico, dove il Po discende per trovare pace per sé e i suoi affluenti stanchi
di Lombardia”.
Si stese sotto un pino a riposare, prima di riprendere il
cammino.
Che fosse stata proprio quella la prima alba in cui
Dante non avrebbe più riaperto gli occhi – quegli occhi
che erano stati così sensibili a ogni minima vibrazione
della luce – lo seppe solo quando finalmente arrivò a Ravenna e stava cercando la sua locanda alle vecchie case
dei Traversari, nei pressi di San Vitale. Era entrato dalla
Porta Cesarea infilandosi nella guaita di Sant’Agata Maggiore, aveva attraversato un paio di ponti su ciò che restava dei canali dell’antica laguna, letti limacciosi di fiumi
divenuti secche cloache, da cui esalava aspro lezzo di putrefazione: “il sepolcro a cielo aperto”, aveva pensato,
“dell’Impero antico”. Era poi sbucato nella piazza della
chiesa della Resurrezione e aveva sentito un banditore
comunale fare il nome dell’altissimo poeta. Così aveva
appreso che la salma di Dante Alighieri, cinta d’alloro e
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ornata come s’addice a uomo di tale grandezza, per volere esplicito di messer Guido Novello da Polenta, signore della città, sarebbe stata portata in processione
dalla sua dimora ravignana fino alla chiesa dei Frati Minori, dove l’indomani si sarebbe svolta la cerimonia funebre.
Un tuffo al cuore. Si era ritirato sotto un portico, trascinandosi dietro il cavallo, per nascondere le lacrime. Il
lungo viaggio che aveva fatto per arrivare fin lì, per parlare con lui, l’unico che avrebbe potuto aiutarlo: tutto
inutile. Non avrebbe mai potuto nemmeno raccontargli
di come quella dell’immenso poema stava diventando la
grammatica dei suoi sogni.
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II
Si decise a entrare soltanto poco prima del tramonto,
quando la folla s’era sciolta e l’andirivieni era terminato.
La chiesa che a Ravenna qualcuno chiamava ancora di
San Pier Maggiore, e che adesso era dei frati di San Francesco, era immersa in una quieta penombra irrorata d’incenso. Erano accese solo poche torce alle pareti, tra gli
affreschi ingrigiti di nerofumo.
Non c’era quasi più nessuno: soltanto una sorella di
Santo Stefano degli Ulivi a vegliare sulla salma collocata
davanti all’altare. Lui sapeva bene chi fosse quella donna:
Antonia, di sicuro, la figlia di Dante e di Gemma, entrata
in monastero col nome di suor Beatrice. Ormai nessun
altro sostava vicino al letto funebre, qualche fedele ancora a pregare, in ginocchio, in fondo alla chiesa, e quattro armigeri del Polentano a due a due ai lati dell’altare,
i quali, ora che la situazione era tranquilla, si erano seduti
a riposare sui seggi di legno dei Frati Minori. Tra la popolazione c’era anche chi credeva che Dante, all’Inferno,
ci fosse andato davvero in carne e ossa, quand’era vivo,
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e correva la diceria che fosse dotato di poteri soprannaturali: la superstizione avrebbe anche potuto portare ad
atti di profanazione, a prender pezzi di stoffa o persino
brandelli di carne del morto come amuleti, per scongiurare la malasorte, come accadeva coi santi. Quattro militari evidentemente bastavano a tener lontane quelle
crudeli manifestazioni di follia plebea.
Rimase fermo alle spalle della figlia, che pregava inginocchiata ai piedi del padre. Il poeta era lì, mani in croce
sul petto, ferita bianca sul vestito nero. Lo salutò in cuor
suo. «Grazie di tutto, maestro», gli disse. Lo immaginò
camminare un po’ curvo come lo aveva visto tempo addietro, avanzare a passi lenti verso la luce accecante in
cui pian piano lo vedeva dissolversi. Era passato in questo mondo, e il mondo non sarebbe stato più lo stesso.
Sentì proprio in quell’istante la monaca singhiozzare e
dovette mordersi le labbra per non mettersi a piangere
anche lui. Antonia si alzò in lacrime, rimase un attimo
ferma, poi si avviò in fretta, nascondendo il volto, verso
la porta che conduceva alla sagrestia, dietro la quale sparì.
Allora si avvicinò lentamente al morto, e lo osservò. Vide
che aveva il volto sereno, appena un po’ accigliato, come
quando era assorto nei suoi pensieri. Era magro e le
guance, scavate in due solchi ai lati della bocca, facevano
risaltare, più di quanto ricordasse, le larghe mandibole.
La fronte alta, che gli sembrò gigantesca, era coronata
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d’alloro. Notò che aveva le labbra nere, e questa circostanza lo inquietò. Di cosa era morto? In giro si diceva
della malaria delle paludi di Comacchio, mentre si recava
a Venezia per conto del Polenta. Come il suo amico d’un
tempo, Guido Cavalcanti, il destino aveva voluto che fossero accomunati dalla stessa morte: i veleni dell’aria,
quando erano sopravvissuti a quelli della politica.
Da medico, era abituato a vedere volti senza vita, corpi
abbandonati dall’anima, e quasi non ne aveva più paura.
Ma adesso gli si stringeva il cuore, come se si fosse spenta
di colpo una parte importante del suo mondo, oscurata
per sempre una zona ampia dell’universo in cui viveva.
Le labbra nere gli parvero però indizio d’altra sorta di
veleni che quelli dell’aria. Si ricordò d’un tale che era
morto intossicato, di cui a Bologna, col suo maestro averroista, aveva fatto l’autopsia. Gli tornò in mente il clima
da società segreta, da setta iniziatica, che avvolgeva quegli esperimenti ispirati dai trattati arabi, e in odore d’eresia. C’era il gusto del proibito, il fascino insieme della
scoperta e della profanazione. Non riuscì a resistere alla
curiosità, all’impulso di ripetere quell’antica esperienza.
Sbirciò intorno a sé per vedere se qualcuno lo stesse
guardando e gli parve di no. Allora prese una mano del
poeta e ne esaminò attentamente il palmo e le unghie.
Poi, vinta un’iniziale ripugnanza, cominciò ad aprirgli la
bocca, con l’intenzione di osservargli la lingua, quando
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alle sue spalle si levò un urlo: «Cosa fa quello lì? Ehi, uomini di guardia!».
«Blasfemia!», urlò un’altra voce, «blasfemia!». Un armigero gli fu subito addosso allontanandolo dal volto di
Dante. Un altro si precipitò ad afferrarlo per i piedi, e
un terzo gli sferrò un pugno mentre cercava di spiegare.
«Un mago, uno stregone!», diceva qualcuno, e gli si era
già formato intorno un piccolo crocchio di gente, curiosa
e vogliosa di menar le mani. «Al rogo, al rogo!».
Riuscì a dire: «Per carità!», e a malapena a scongiurare:
«Fatemi parlare con Iacopo Alighieri, suo figlio, posso
spiegargli tutto...». L’uomo che aveva di fronte aveva già
preso la rincorsa e la mira per un secondo pugno, meglio
assestato del primo. Fortunatamente, richiamata da quel
vocio, ricomparve Antonia e chiese alle guardie cosa
stesse accadendo.
Così la vide in faccia, per quanto in parte coperta dal
velo, e anche nella confusione del momento notò la sua
bellezza. Era ancora molto giovane, gli occhi verdi lucidi
di pianto e lo sguardo profondo, vivace, che lo scrutava,
e dava segno d’aver capito al volo che da lui non c’era
niente da temere: «Chi siete voi, signore, cosa volete?»…
(Continua in libreria…)
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Lars Rambe
Il mosaico di ghiaccio
Newton Compton editori
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Titolo originale: Skuggans spel
Copyright © Lars Rambe 2010
by Agreement with Grand Agency, Sweden,
and Pontas Literary&Film Agency, Spain
Traduzione dallo svedese di Mattias Cocco
Prima edizione: maggio 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3016-6
www.newtoncompton.com
Stampato nel maggio 2011 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta PamoSuper della Cartiera Arctic Paper Mochenwangen
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Prologo
Sabato 1° luglio 2006, ore 08:38
Era tutto come in un sogno: difficile da afferrare, effimero e, in un certo qual modo, assolutamente insostenibile. Era, allo stesso tempo, il migliore e il peggior giorno
della sua vita. Quello che lei aveva atteso tanto a lungo.
I laghi Marvikensjöarna erano incredibilmente belli.
Era affascinata dalle impressionanti pareti di roccia al
di sopra delle loro teste, dal modo in cui i pini spuntavano direttamente in mezzo ai massi per poi svettare
spandendo un’ombra delicata sull’acqua. Ogni volta che
il remo veniva sollevato, lasciava cadere delle gocce sulla
superficie del lago, che scomparivano rapide com’erano
cadute.
Lei non aveva mai vissuto con tale trasporto l’estate svedese. Amava quei luoghi, malgrado tutti i ricordi che le
affioravano alla mente. Åkers Bergslag era un posto
unico, una terra fiabesca che appariva dal nulla e accoglieva il suo ospite. Da tempo, desiderava condividere
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quell’esperienza con l’uomo che le stava seduto di fronte
nel kayak. Un regalo che gli offriva senza condizioni, una
gioia di per sé.
Eppure quasi non scambiarono una parola. Forse si
trattava del silenzio dettato dalla tranquillità, dal senso
di appartenenza reciproca, o forse era qualcosa di completamente diverso: il triste viaggio verso l’ora della verità, quando tutto ciò che temiamo ci sarà rivelato. Lui
l’aveva fatta arrabbiare, l’aveva terribilmente delusa e
resa infelice. Non aveva mai confessato a nessuno quant’era furiosa. Per tanti versi, il suo tradimento l’aveva
obbligata a vivere una vita che detestava, una vita che
non valeva più la pena di essere vissuta. Ma adesso sarebbe finalmente terminata. Sorrideva tra sé pensando
al percorso che li aveva condotti fin lì, agli inverosimili
eventi e alle circostanze che li avevano fatti incontrare.
Ciò che lei aveva fatto era riprovevole, egoistico ma
profondamente appagante. Era stato versato sangue
umano ed erano state sacrificate vite altrui, eppure lei
non aveva intenzione di guardarsi alle spalle. Presto sarebbe finito tutto. Presto sarebbero stati loro due soli,
lontano da lì.
***
Si sorprendeva di quanto godesse nello sforzo fisico.
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L’energia che si propagava nel suo corpo indebolito, dalle
braccia fin dentro l’acqua scura. Era un movimento attutito e vorticoso, sopra abissi spaventosi, su quella barca
fragile. Totalmente esposto, ora sedeva di fronte alla
donna che la vita gli aveva restituito e che aveva riscoperto, ancora sorpreso che ciò fosse accaduto. Riusciva a
sentirla in ogni suo movimento, una vicinanza erotica che
gli procurava un dolore incessante nelle membra.
Avevano fatto l’amore quella notte, senza ragione e
senza pietà.
In ogni caso, non c’era pietà per lui. Sapeva che lei non
avrebbe mai potuto capire i suoi rimorsi, l’adorazione
che nutriva nei suoi confronti, così insostenibilmente
mescolata ai sensi di colpa. Vergogna, colpa e felicità insieme. Si sentiva disorientato.
Sorrise tra sé. Forse avrebbe dovuto insistere per sedere
sul fondo del kayak e posare ancora una volta lo sguardo
su di lei, su quella bella nuca che aveva già baciato mille
volte e sui suoi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo. Ma questo lo avrebbe portato a chiudere i sensi
alla bellezza del mondo esterno. Sarebbe stato un peccato. Le libellule ronzavano e scintillavano, si esibivano
in una danza sullo specchio dell’acqua. Di quando in
quando, un pesce a caccia di insetti affiorava alla superficie, sbattendo la coda per poi tornare a scomparire.
Oltre alle grida dei gabbiani, si udiva solo il rombo di5
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stante di un elicottero, unica prova dell’esistenza di altri
esseri umani sulla Terra.
La sensazione del sogno purtroppo non durò a lungo.
Non ci voleva molto tempo per percorrere in kayak
l’estensione di quei laghi stretti e lunghi, neanche per
due principianti senza alcuna fretta. Quella di portare il
kayak in spalla, di lago in lago, era senza dubbio la parte
meno piacevole della gita, ma lui non si lamentava. Lei
era in forma e di dieci anni più giovane, mentre lui amava
definire la propria pancia “un po’ morbida”. “Il luogo
prescelto dalla natura per posarci il suo sassofono”,
come gli aveva detto un giorno un suo collega.
Jazz, tutto alla fine ruotava intorno al jazz.
Lui ovviamente era alla ricerca di qualcosa di diverso,
su questo non c’era alcun dubbio. Magari lei lo capiva,
o forse no. Si rese conto che non la conosceva, in realtà.
Era una chimera, un’illusione che aveva deciso di prendere per vera. “La speranza è l’ultima a morire”, si dice,
ma non era forse una speranza vana quella di immaginare un nuovo inizio con lei, quando la ragione e il buon
senso gli suggerivano invece di lasciarla andare prima
che fosse troppo tardi, prima di rovinare tutto ancora
una volta?
Allo stesso modo, pensava con paura e dolore a sua moglie e ai suoi figli, a suo fratello, che aveva tutti i motivi
per detestarlo; ma anche a ciò che gli era apparso chiaro
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ed evidente meno di due giorni prima. Un’opportunità
incredibile, una domanda urgente che doveva dimostrare
a cosa teneva realmente, e che fornisse una spiegazione.
Ma anche lui celava un oscuro segreto, aveva un passato
da nascondere. Chi era lui per giudicare? Aveva tanto da
guadagnare, e tanto da perdere.
Ora scorgeva la fine della tappa, il punto in cui sarebbero scesi per trasportare il kayak in spalla. All’ultima
sosta, mentre lottavano per farsi strada con la canoa piena
d’acqua in una stradina del bosco fitta di vegetazione, con
un sorriso malizioso lei gli aveva promesso una sorpresa
al loro arrivo. Non aveva voluto dargli nessun indizio e
lui cominciava a essere davvero curioso. In quel punto,
la riva del lago non sembrava molto accogliente. Tra i pini
del bosco si intravedeva un sentiero. Correva lungo la lingua di terra che univa quel lago con il successivo. Si udì
un rombo e passò accanto a loro un’automobile argento
metallizzato, dando prova di quanto fosse vicina la presenza umana e infrangendo quella campana di vetro dentro la quale si sentiva tranquillo.
***
Adesso vedeva lo strettissimo tunnel di cemento. A
quella distanza, non le appariva molto più grande di un
puntino nero dai contorni grigio chiaro. Lui ne sarebbe
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stato sollevato, era evidente che lo sforzo della discesa
con il kayak in spalla gli risultava penoso. Lei era ancora
in tempo per evitarlo. Tremava. Non le erano mai piaciuti gli spazi angusti, i passaggi stretti e la buia umidità.
Lui l’avrebbe trovato eccitante. E perfetto come conclusione.
Gli picchiettò su una spalla, lui si voltò a fatica per riuscire a vederla. Lei sorrise, indicando con il remo verso
la spiaggia e il tunnel strettissimo.
«È lì che stiamo andando. Niente più pesi da portare!».
Lui si rigirò in avanti e lo osservò stupito.
Gott im Himmel!1 Possibile? Dovevano veramente infilarsi in quel coso?
Si udì un colpo ovattato in lontananza. Forse la portiera
di un’automobile, ma poteva anche trattarsi di un albero
che veniva abbattuto nel bosco. Man mano che si avvicinavano, la bocca del tunnel aumentava di dimensioni,
ma sarebbe comunque stato un passaggio terribilmente
angusto. Quanto distava l’estremità opposta? Sentì una
stretta allo stomaco, ma non aveva altra scelta che fidarsi
di lei.
«Metti il remo nel kayak e tieni giù la testa. Io do la
spinta».
Fece come gli era stato detto. Il buio si infittì, avvolgen1
In tedesco nel testo: “Santo Dio!”.
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doli. Provò a guardare avanti, ma insaccò rapidamente la
testa tra le spalle dopo aver sfregato dolorosamente contro
il cemento ruvido.
Poi vennero la luce e l’ombra.
Dapprima la luce, mille raggi scintillanti di sole che si
facevano strada fino all’apertura del tunnel, un piacevole
contrasto con il buio claustrofobico che lo circondava,
seguìto dal calore sul volto quando infine fu in grado di
raddrizzare la schiena, una volta all’esterno. Poi l’ombra,
il profilo di una figura che oscurava il sole. Quando vide
di chi si trattava, sbarrò gli occhi.
I colpi furono assordanti. Lo fecero cadere prima all’indietro e poi di lato. Paralizzato, affondò nell’acqua
fredda, trascinando giù con sé il kayak e la sua amata.
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Lunedì 12 giugno 2006, ore 02:52
Hampus strillava, ma Fredrik a malapena lo udiva. Si
sentiva uno zombie o un fantasma e non desiderava altro
che sdraiarsi e infilare la testa sotto le coperte.
Teneva il bebè sulla spalla e camminava avanti e indietro. Si vide riflesso nella finestra della cucina: la barba
incolta che cominciava a ingrigire e le zampe di gallina
intorno agli occhi. Ulrika era, se possibile, ancora più
stanca di lui, ma sicuramente era sveglia. Fredrik sapeva
che ogni strillo del piccolo riecheggiava dentro di lei allontanando qualsiasi disperato tentativo di dormire.
Ulrika allattava ogni due ore. Sembrava che il bambino
le stesse incollato al seno praticamente senza mai fare
una pausa. I capezzoli della donna erano pieni di ragadi
e le facevano male. A questo, andavano aggiunti il continuo timore che le venisse la mastite, il dolore per i punti
del parto e Klara, la loro bambina di tre anni, che diventava sempre più piagnucolosa. Fredrik provava a fare del
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suo meglio, ma si sentiva sempre più frustrato. Benché
cambiasse i pannolini a entrambi i figli e si alzasse di
notte appena la moglie gliene dava la possibilità, lei non
riusciva comunque a dormire quasi per niente. Era diventata tutt’uno con Hampus: un gran bel quadretto, a
un occhio esterno. Eppure per Fredrik era difficile sentirsi a proprio agio nel ruolo di comparsa, quasi quanto
lo era per Klara. Erano trascorse meno di due settimane
da quando la moglie e il figlio erano tornati a casa dal reparto maternità, esausti ma felici.
Dopo un inizio drammatico, però, alla fine era andato
tutto bene. Fredrik non avrebbe mai dimenticato com’era
cominciata. Quando le doglie erano iniziate alle cinque
del mattino, qualche giorno prima della data prevista, lui
e la moglie erano stati colti completamente alla sprovvista.
Klara invece era nata allo scadere del tempo, e così, per
qualche motivo idiota, avevano creduto che anche stavolta
sarebbe andata allo stesso modo. I suoceri non sarebbero
arrivati da Axvall prima del giorno successivo, e Fredrik
aveva dovuto precipitarsi a telefonare al pronto soccorso
e implorare di farsi mandare un’ambulanza da Askersund.
I suoi genitori lo rassicurarono che si sarebbero subito
messi in macchina. Fredrik, in pigiama, aveva svegliato la
famiglia Sjödin, che viveva dall’altra parte della strada, ed
estorto loro la promessa di badare a Klara se i nonni paterni non fossero arrivati in tempo. Mentre Ulrika lottava
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con il dolore in camera da letto, la loro bambina correva
in giro per la casa e raccoglieva i suoi giocattoli, inquieta
ed eccitata allo stesso tempo. Sapeva che non doveva disturbare la mamma, ma non riusciva proprio a starsene
buona. Fredrik aveva telefonato all’ospedale Mälarsjukhuset per annunciare il loro arrivo imminente, avvisando che
avrebbero provato ad aspettare ancora per un po’. Le cose
tuttavia sarebbero andate diversamente. Con la cornetta
ancora in mano, aveva sentito Ulrika che urlava. Le contrazioni aumentavano rapidamente d’intensità e le si erano
rotte le acque.
In qualche modo, era riuscito a preparare una borsettina con le cose di Klara e a portarla dai vicini dopo aver
strillato a Ulrika che certamente sarebbero usciti tra pochissimo. L’aveva pregata di resistere e in risposta aveva
ricevuto un ruggito e la minaccia che avrebbe partorito
nell’ingresso, se non si fosse sbrigato.
Uscendo di casa, non avevano neanche fatto in tempo
a richiudersi la porta alle spalle. Quando Fredrik svoltò
sulla E20 in direzione di Eskilstuna cominciò a piovere.
Gocce pesanti che picchiavano contro la carrozzeria e
rendevano quasi impossibile vedere. Nonostante le contrazioni di Ulrika diventassero sempre più frequenti, fu
costretto a guidare ben al di sotto dei limiti di velocità.
Contava in silenzio i secondi che separavano ogni contrazione, maledicendo la pioggia e ripensando a tutti gli spa12
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ventosi racconti di parti avvenuti sul sedile posteriore di
un’automobile. All’arrivo in ospedale, furono fatti accomodare in una sala d’attesa stracolma di gente, e quell’onda di energia che in qualche modo lo aveva sostenuto
e accompagnato fin lì, lo abbandonò in un istante. Almeno venti paia di occhi li stavano fissando, ed erano tutti
altrettanto ansiosi di entrare per primi. Alcune di loro
erano facce note, tra cui Jennifer e P.O. Ahlgren.
Lei e Ulrika si vedevano di tanto in tanto al club Ladies’ Circle. Viveva con il marito in un piccolo casale del
Settecento poco fuori Mariefred. Fredrik sapeva che
P.O. lavorava in banca, mentre Jennifer si occupava del
casale, dei bambini, dei cani e dei cavalli. Ulrika gli aveva
raccontato di non aver mai incontrato una donna con
una tale carica di energia. Dal canto suo, Fredrik pensava
che P.O. fosse un tipo gioviale, talvolta anche abbastanza
divertente, ma piuttosto riservato. Dava anche l’impressione di essere leggermente ansioso. Sapeva condurre la
conversazione nella maniera a lui più congeniale, evitando di toccare argomenti di carattere privato.
Anche nella sala d’attesa, sebbene fossero nervosi
come tutti gli altri, i due dimostravano un certo distacco.
Avevano escluso il mondo circostante e sembravano
avere occhi solo l’uno per l’altra. Rapiti da un inequivocabile trasporto. Erano in attesa del loro terzo figlio, che
stava arrivando a una certa distanza dai primi due.
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Adesso che, in quella notte d’estate, Fredrik se ne stava
lì con il suo inconsolabile Hampus tra le braccia, il solo
pensiero di un altro figlio gli parve assurdo: forse era
vero che c’era un tempo per ogni cosa.
In ogni caso, gli sguardi che si scambiavano P.O. e sua
moglie avrebbero reso invidioso chiunque. Di certo, né
lui, né Ulrika sarebbero mai stati contrari a un ritorno di
fiamma di quell’intensità. Ma l’esperienza aveva insegnato a Fredrik che i figli piccoli mettono a dura prova
l’idea stessa di una vita amorosa intensa.
Lui e Ulrika non avevano dovuto attendere a lungo al
reparto maternità, l’urgenza della situazione era risultata
evidente al personale medico. In meno di quindici minuti,
erano arrivati in sala parto. Ulrika, con una dilatazione di
nove centimetri, aveva chiesto che le facessero subito l’anestesia. Il compito di Fredrik era quello di impedirle di iperventilare nella mascherina. Più facile a dirsi che a farsi.
«Ancora! Ancora!», urlava non appena lui provava a
toglierle la mascherina. Ogni tanto la donna piombava
in uno stato di semincoscienza, dimenticandosi di respirare. Alla fine, la situazione era precipitata al punto che
non avevano neanche fatto in tempo a farle l’epidurale
che Ulrika aveva chiesto disperatamente.
Quanto si era sentito sollevato Fredrik, quando l’aveva
lasciata alle cure del personale medico. Il bambino era
venuto alla luce con un braccio in avanti e l’ostetrica era
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dovuta intervenire per aiutarlo nell’ultimo tratto. Lui
non avrebbe mai dimenticato il primo sguardo che gli
aveva rivolto suo figlio, quando era finalmente tutto finito e il piccolo se ne stava disteso sul seno di Ulrika, avvolto in un asciugamano.
Adesso erano in quattro, una vera famiglia tradizionale.
Lui e Ulrika avevano parlato dei loro timori su Klara e
sulle sue reazioni verso il nuovo arrivato. Era ancora presto per dirlo, soprattutto a causa di quell’unione intensa
che si era creata tra Ulrika e Hampus. In ogni caso, Klara
era senza dubbio orgogliosa di suo fratello. Cercava di
dare una mano, per quel che poteva, il che si risolveva
spesso in piccoli incidenti: rovesciava del latte artificiale,
rompeva qualche piatto sul pavimento. Ma si trattava di
cose con cui bisognava convivere. In questo momento,
comunque, Fredrik era felice che stesse dormendo. La
cosa peggiore era quando si svegliava anche lei. Più di
una volta, gli era capitato di non riuscire a farla riaddormentare, mentre Hampus strillava sempre più forte.
Fredrik si lasciò cadere sul divano con un sospiro.
Anche lui aveva il diritto di dormire, almeno un po’. Proprio quel giorno avrebbe iniziato a lavorare in redazione
una ragazza che sostituiva un suo collega per l’estate, e
la faccenda ricadeva sotto la sua responsabilità. Lui aveva
ancora quattro giorni di paternità di cui usufruire, ma
avrebbe potuto usarli in seguito.
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Non gli piaceva tanto l’idea di avere una persona alle
costole a osservare tutto quel che faceva, ma sarebbe
stato difficile dirle di no. Dopotutto, era stato lui a convincere Gege ad accoglierla in redazione. Al momento
gli era sembrata una buona idea, ma ora dubitava che
fosse così. Un’ulteriore prova del fatto che non aveva capito quale differenza passasse tra l’avere due figli rispetto
a uno soltanto.
Quando i primi raggi di sole della giornata iniziarono
a penetrare tra le persiane, si rese conto di quanto fosse
illusorio sperare in un po’ di sonno. Si diresse rassegnato
verso il bollitore, con una mano sola lo riempì di acqua
e caffè mentre cullava senza sosta Hampus dandogli dei
colpetti ritmici sul pannolino.
Due tazze di caffè più tardi, suo figlio si addormentò,
giusto prima che Klara arrivasse saltellando ad accendere
la tv.
(Continua in libreria…)
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