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Allineamento catastale e pubblicità immobiliare:
l’art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52
(a cura di Gaetano Petrelli)
1. L’INTERAZIONE TRA REGISTRI IMMOBILIARI E CATASTO NELL’EVOLUZIONE
DEL SISTEMA ED IL RUOLO DEL NOTAIO.
1.1. Premessa. L’attivazione dell’anagrafe immobiliare integrata; rapporti tra pubblicità
immobiliare e catasto.
1.2. L’utilizzo dei dati delle trascrizioni immobiliari per finalità di interesse pubblico.
1.3. La funzione del notaio nel sistema della pubblicità immobiliare.
1.4. L’indicazione dei dati catastali negli atti: disciplina codicistica, legislazione catastale e
giurisprudenza in tema di dispensa dall’obbligo di visure.
1.5. L’individuazione “a fini fiscali” del “soggetto titolare di diritti reali”.
2. L’ÀMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 29, COMMA 1-BIS, DELLA LEGGE N.
52/1985
2.1. Gli atti soggetti alla nuova disciplina.
2.2. Le vicende giuridiche oggetto degli atti.
2.3. Le categorie di immobili.
2.3.1. Premessa. Fabbricati esistenti e fabbricati non ultimati.
2.3.2. I fabbricati urbani in corso di ristrutturazione.
2.3.3. I fabbricati urbani improduttivi di reddito.
2.3.4. Le unità immobiliari urbane di proprietà condominiale e in uso esclusivo.
2.3.5. Le aree di pertinenza dei fabbricati urbani.
2.3.6. I posti auto scoperti.
2.3.7. I fabbricati rurali.
3. LE PRESCRIZIONI
OGGETTIVA”.
NORMATIVE
RIGUARDO
ALLA
“CONFORMITÀ
3.1 L’identificazione catastale dei fabbricati ed il riferimento alle planimetrie depositate in
catasto.
3.2. La conformità delle planimetrie e dei dati catastali con lo stato di fatto.
3.3. La sanzione della nullità.
3.4. Obblighi del notaio in relazione alla conformità oggettiva.
3.5. Conseguenze della dichiarazione falsa od erronea delle parti o del tecnico.
4. LE PRESCRIZIONI RELATIVE ALLA CONFORMITÀ “SOGGETTIVA” DELL’INTESTAZIONE
CATASTALE CON LE RISULTANZE DEI REGISTRI IMMOBILIARI.
4.1. La verifica della conformità soggettiva: ratio e perimetro applicativo del secondo
periodo del comma 1-bis.
4.2. L’individuazione degli intestatari catastali.
4.3. L’identificazione delle “risultanze dei registri immobiliari”; la continuità delle
trascrizioni.
4.4. Gli obblighi del notaio. Attività preliminari ed attività successive alla stipula.
4.5. La mancanza di “atti legali” di provenienza.
4.6. Conseguenze della violazione degli obblighi posti a carico del notaio.
1. L’interazione tra registri immobiliari e catasto nell’evoluzione del sistema ed il ruolo del
notaio.
1.1. Premessa. L’attivazione dell’anagrafe immobiliare integrata; rapporti tra pubblicità
immobiliare e catasto.
Nell’ambito dei provvedimenti dettati dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, contenente “misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, occupa un posto di
spicco la disciplina contenuta nell’art. 19, sotto la rubrica “aggiornamento del catasto”. La
disposizione prevede l’attivazione, a partire dal 2011, dell’«Anagrafe Immobiliare Integrata”,
attuando in tal modo la previsione contenuta nell’art. 64 del d. lgs. 30 luglio 1999, n. 300, nello
Statuto dell’Agenzia del Territorio e nella successiva legislazione tributaria 1[1], e realizzando così
un obiettivo che era da tempo perseguito 2[2]: l’art. 19, comma 1, chiarisce che “l’Anagrafe
Immobiliare Integrata attesta, ai fini fiscali, lo stato di integrazione delle banche dati disponibili
presso l’Agenzia del Territorio per ciascun immobile, individuandone il soggetto titolare di diritti
reali”. In questo contesto, e con queste finalità, il comma 14 dell’art. 19 – come integrato dalla
legge di conversione – ha modificato l’art. 29 della legge 27 febbraio 1985, n. 52, aggiungendovi il
seguente comma 1-bis:
"Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la
costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione
dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità,
oltre all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la
dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e
delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta
dichiarazione può essere sostituita da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico
abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti
atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei
registri immobiliari”.
La portata della disposizione può essere adeguatamente colta solo se inquadrata
sistematicamente nel complesso delle previsioni normative che disciplinano l’utilizzo a fini fiscali
1[1]
A norma dell’art. 64, comma 1, del d. lgs. n. 300/1999, istitutivo delle Agenzie fiscali, “L’agenzia del territorio
è competente a svolgere i servizi relativi al catasto, i servizi geotopocartografici e quelli relativi alle conservatorie dei
registri immobiliari, con il compito di costituire l’anagrafe dei beni immobiliari esistenti sul territorio nazionale
sviluppando, anche ai fini della semplificazione dei rapporti con gli utenti, l’integrazione fra i sistemi informativi
attinenti alla funzione fiscale ed alle trascrizioni ed iscrizioni in materia di diritti sugli immobili”.
Ai sensi dell’art. 2, comma 1, del Provvedimento in data 13 dicembre 2000 (pubblicato nel Suppl. ord. alla G.U. n.
193 del 21 agosto 2000), che approva lo statuto dell’Agenzia del Territorio, quest’ultima “svolge tutte le funzioni ed i
compiti statali ad essa attribuiti dalla legge in materia di catasto, di servizi geotopocartografici e di conservazione dei
registri immobiliari; costituisce l’anagrafe integrata dei beni immobiliari esistenti sul territorio nazionale”. Ai sensi
dell’art. 4, comma 1, lett. a), compete all’Agenzia la “gestione dell’anagrafe integrata dei beni immobiliari”.
L’art. 1, comma 56, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ha successivamente istituito il sistema integrato delle
banche dati in materia tributaria e finanziaria, finalizzato alla condivisione ed alla gestione coordinata delle
informazioni dell’intero settore pubblico per l’analisi ed il monitoraggio della pressione fiscale.
2[2]
Si veda l’art. 9, comma 12, del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito in legge 26 febbraio 1994, n. 133, che
demandava ad un successivo regolamento di stabilire che “il conservatore può rifiutare, ai sensi dell’articolo 2674 del
codice civile, di ricevere note e titoli e di eseguire la trascrizione di atti tra vivi contenenti dati identificativi degli
immobili oggetto di trasferimento o di costituzione di diritti reali, non conformi a quelli acquisiti al sistema alla data di
redazione degli atti stessi”. Parimenti, a norma del successivo comma 13, “Qualora si renda necessario richiedere che
negli atti soggetti a trascrizione od iscrizione vengano dichiarati dati ulteriori relativi agli immobili, nonché alla loro
conformità con le rappresentazioni grafiche in catasto, le relative modalità e tempi sono stabiliti con appositi
regolamenti governativi, nei quali è prevista per i privati anche la facoltà di fornire tali dati mediante
autocertificazione, ai sensi della legge 4 gennaio 1968, n. 15”. I regolamenti, previsti dai surriportati commi 12 e 13,
non sono stati mai emanati, a causa evidentemente dell’insufficiente stato di integrazione delle diverse banche dati,
ipotecaria e catastale.
dei dati risultanti dai registri immobiliari. A tal fine è necessario valutare preliminarmente l’insieme
delle disposizioni codicistiche e delle leggi speciali che disciplinano la materia, premettendo qui
alcuni rilievi metodologici.
La precisazione – aggiunta dalla legge di conversione – che la conformità richiesta dalla legge
deve essere dichiarata “sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale”, rinvia all’intera
normativa, di rango sia primario che secondario, costituente l’ordinamento del catasto italiano 3[3].
Il catasto è l’inventario delle proprietà immobiliari, diretto a formare un “registro di anagrafe
generale degli immobili” 4[4] dai molteplici utilizzi 5[5]: uno di essi è dato dalla funzione civilistica di
identificazione degli immobili, in particolare nel procedimento attuativo della pubblicità
immobiliare 6[6], ed al fine di costituire un “ausilio pratico” nelle ricerche relative ai trapassi ed alla
titolarità della proprietà immobiliare (c.d. pubblicità di fatto) 7[7]. Il catasto ha poi un importante
scopo fiscale 8[8], essendo sua finalità istituzionale quella di consentire l’equa ripartizione delle
imposte fondiarie (art. 1, n. 2, del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1572), e quella di determinare la base
imponibile ai fini di alcune imposte indirette, e dell’imposta comunale sugli immobili 9[9]. Quanto
appena detto riveste un rilievo determinante ai fini dell’interpretazione della novella in commento:
deve ritenersi necessario – sul piano metodologico – fare riferimento, nell’interpretazione del nuovo
art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52/1985, non solo alla normativa catastale ivi espressamente
richiamata (dopo le modifiche apportate con la legge di conversione), ma anche alle norme
tributarie, le quali contribuiscono in vario modo a definire i concetti impiegati nella nuova
disposizione. Primo fra tutti quello di unità immobiliare urbana: in base alla vigente normativa
catastale e tributaria, l’aspetto della “suscettibilità reddituale” costituisce parte integrante della
nozione di “unità immobiliare urbana”, impiegata dall’art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52/1985
3[3]
Cfr. BUCCICO, Il catasto. Profili procedimentali e processuali, Napoli, 2008; CASINI, Il catasto e i registri
immobiliari, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da Cassese, Diritto amministrativo speciale, I, Milano, 2003,
p. 3 ss.; SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, Milano, 2003; D’AMATI, Catasto
(dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, Aggiornamento 2003; GHINASSI, Catasto, in Enc. dir., Aggiornamento,
IV, Milano, 2000, p. 241; PETRUCCI, Catasto, in Digesto discipline privatistiche, sez. comm., III, Torino 1988, p. 31;
MOLTENI–SACCONE, Catasto (diritto amministrativo), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma 1988; PETRUCCI,
Catasto, in Novissimo dig. it., Appendice, I, Torino 1980, p. 1080; RUMBOLDT, Catasto (diritto attuale), in Enc. dir.,
VI, Milano 1960, p. 495; RUMBOLDT, Catasto, in Novissimo dig. it., III, Torino, 1959, p. 3; D’AMATI, Catasto
(diritto tributario), in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988; PETRUCCI, Mappa ed altri documenti catastali, in
Novissimo dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 1122; MARGIOCCHI, Mappa ed altri documenti catastali, in
Novissimo dig. it., X, Torino, 1964, p. 200.
4[4]
SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, cit., p. 5.
5[5]
Ad esempio, nei procedimenti urbanistici, o di espropriazione per pubblica utilità, o a fini statistici:
GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, Padova, 2004, p. 296.
6[6]
PUGLIATTI, La trascrizione, I – La pubblicità in generale, Milano, 1957, p. 275, e nota 240; ID., La
trascrizione, II – L’organizzazione e l’attuazione della pubblicità patrimoniale, Milano, 1989, p. 253 ss.; GALGANO,
Diritto civile e commerciale, IV, cit., p. 296; SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento
catastale, cit., p. 5; GALOPPINI, L’individuazione catastale dei beni immobili: problemi giuridici, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1985, p. 602; TAGLIAPIETRA, L’individuazione giuridica dei beni immobili, in Riv. dir. civ., 1990, II, p.
37.
Fine istituzionale del catasto è, infatti, anche quello di “accertare le proprietà immobiliari, e di tenerne in evidenza
le mutazioni” (art. 1 della legge 1 marzo 1886, n. 3682; art. 1 del r.d. 8 ottobre 1931, n. 1572; artt. 1, n. 1, e 17 del r.d.l.
13 aprile 1939, n. 652).
7[7]
PUGLIATTI, La trascrizione, I – La pubblicità in generale, cit., p. 275 e 277; RESTAINO, La pubblicità
immobiliare fra attualità e prospettive, in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, II – Aspetti
civilistici, Milano, 1986, p. 496; TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2005, p. 233, nota 4.
8[8]
Sulla prioritaria funzione tributaria del catasto, cfr. AURICCHIO, La individuazione dei beni immobili, Napoli,
1960, p. 18; RUMBOLDT, Catasto (diritto attuale), cit., p. 495; GHINASSI, Catasto, cit., p. 241; PUGLIATTI, La
trascrizione, I – La pubblicità in generale, cit., p. 274 ss.; GALGANO, Diritto civile e commerciale, IV, cit., p. 296;
TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, p. 233; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 300;
CASINI, Il catasto e i registri immobiliari, cit., p. 4; BUCCICO, Il catasto. Profili procedimentali e processuali, cit., p.
3.
9[9]
GHINASSI, Catasto, cit., p. 241; SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale,
cit., p. 6.
10[10]
: conseguentemente – lo si vedrà meglio in dettaglio nel prosieguo del lavoro – le norme
tributarie che disciplinano i presupposti per l’esistenza e l’attribuzione del reddito dei fabbricati
assumono rilevanza diretta nel procedimento ermeneutico, diretto a delimitare l’àmbito di
applicazione della novella.
Le norme tributarie e quelle catastali non sono, peraltro, le uniche a venire in considerazione.
Non è senza significato che la novella – in luogo di intervenire su una legge catastale, o su una
legge tributaria – abbia modificato la legge n. 52/1985, che detta disposizioni in materia di
pubblicità immobiliare: l’obiettivo di natura fiscale – che costituisce la ratio immediata della nuova
disciplina – è perseguito non solo mediante l’aggiornamento della banca dati catastale, ma altresì
accrescendo, tramite quest’ultima, il livello di affidabilità e di sicurezza garantito dal sistema di
pubblicità immobiliare. Quest’ultimo a sua volta, istituzionalmente deputato a garantire la sicurezza
giuridica, crea un più solido fondamento dell’azione amministrativa, diretta anche – ma non solo –
all’accertamento ed alla riscossione dei tributi 11[11]. Si tratta, quindi, di una integrazione reciproca
delle due banche dati, ipotecaria e catastale, nella anagrafe immobiliare integrata: con essa il
legislatore – cambiando rotta rispetto al passato – impone oggi un “allineamento” – in senso
bidirezionale – delle risultanze del catasto a quelle dei registri immobiliari, e viceversa.
1.2. L’utilizzo dei dati delle trascrizioni immobiliari per finalità di interesse pubblico.
La disciplina in commento fa seguito ad una importante legislazione che, nel tempo, ha previsto
un utilizzo sempre più intensivo dei registri immobiliari ai fini dell’aggiornamento della banca dati
catastale 12[12], nonché per conseguire obiettivi di natura tributaria 13[13], e svariati scopi di natura
10[10]
Ai sensi dell’art. 5 del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652 (contenente disposizioni sull’accertamento e la
formazione del nuovo catasto edilizio urbano), “Si considera unità immobiliare urbana ogni parte di immobile che, nello
stato in cui si trova, è di per se stessa utile ed atta a produrre un reddito proprio”. A norma dell’art. 40 del D.P.R. 1
dicembre 1949, n. 1142 (regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano), “Si accerta come distinta
unità immobiliare urbana ogni fabbricato, o porzione di fabbricato od insieme di fabbricati che appartenga allo stesso
proprietario e che, nello stato in cui si trova, rappresenta, secondo l’uso locale, un cespite indipendente”. Infine, ai sensi
dell’art. 36, comma 2, del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (testo unico in materia di imposte sui redditi), “Per unità
immobiliari urbane si intendono i fabbricati e le altre costruzioni stabili o le loro porzioni suscettibili di reddito
autonomo”.
11[11]
La finalità “non solo fiscale”della novella emerge chiaramente dal preambolo della Circ. Agenzia Territorio 9
luglio 2010, n. 2/T: “La ratio ad essa sottesa, da inquadrare anche nell’ambito della progressiva realizzazione della
Anagrafe Immobiliare Integrata, appare sostanzialmente diretta a consentire il miglioramento della qualità delle banche
dati catastali e di pubblicità immobiliare, in termini di coerenza sostanziale e non solo formale, con un indubbio
impatto positivo sull’affidabilità delle informazioni che potranno confluire nella predetta Anagrafe Immobiliare, per il
rilascio dei servizi ad essa correlati. Ulteriore finalità, di analogo rilievo, è quella tesa a far emergere possibili
fenomeni di elusione ed evasione fiscale, nel settore impositivo immobiliare, connessi ad un mancato aggiornamento
dei dati oggettivi delle unità immobiliari urbane, ai quali può corrispondere una maggiore redditività, rispetto a quella
risultante in catasto”.
12[12]
Le formalità di trascrizione vengono utilizzate ai fini dell’esecuzione in via automatica delle volture catastali:
cfr. l’art. 2 del D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 1993, n. 75; l’art. 2,
comma 1, del D.M. 19 aprile 1994, n. 701; il Decreto dirigenziale del 15 ottobre 1998 (pubblicato nella G.U. n. 250 del
26 ottobre 1998); l’articolo 3–sexies, comma 2, del d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 463; l’art. 5 del D.P.R. 18 agosto 2000,
n. 308.
13[13]
Svariate sono le modalità di utilizzo “diretto” delle risultanze dei registri immobiliari a fini tributari. Si
considerino, in particolare, oltre al collegamento e integrazione della banca dati ipotecaria con quella catastale:
- il collegamento della banca dati relativa ai registri immobiliari con il sistema informativo dell’anagrafe
tributaria: art. 6, comma 1, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605, come modificato dall’art. 1, comma 65, del
D.L. 30 dicembre 1982, n. 953, convertito in legge 28 febbraio 1983, n. 53; D.M. 7 giugno 1986 (pubblicato nella G.U.
n. 134 del 12 giugno 1986); art. 1 del decreto interdirettoriale 14 giugno 2007 (pubblicato nella G.U. n. 139 del 18
giugno 2007); art. 2659, n. 1, c.c., come modificato dalla legge n. 52/1985, che impone, a pena di rifiuto della
trascrizione, di indicare nelle note di trascrizione il codice fiscale delle parti;
- l’accesso facilitato ai registri immobiliari, consentito ai concessionari della riscossione, ai funzionari e
dipendenti dell’Agenzia delle Entrate, ai consorzi di bonifica e irrigazione, con l’obiettivo di fornire a tali soggetti uno
strumento efficiente ai fini dell’accertamento e della riscossione dei tributi: art. 47, comma 2, e art. 47-bis, comma 1,
del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come introdotti dall’art. 16 del D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, e dall’art. 3,
pubblicistica 14[14]. Alla luce di questa imponente serie di dati normativi, sembrano appartenere
ormai alla preistoria le affermazioni, rinvenibili nei lavori preparatori del codice civile del 1942,
secondo le quali “la trascrizione, quale istituto di diritto civile, deve essere, naturalmente, estranea a
preoccupazioni fiscali, le quali non dovrebbero trovar posto che nella loro particolare sede” 15[15]. Al
contrario, la trascrizione – venutane meno l’esclusiva matrice privatistica – è oggi pacificamente un
istituto di ordine pubblico, informato ai princìpi di verità, tendenziale completezza e sicurezza
giuridica, e finalizzato a fornire un quadro il più possibile veritiero dello stato della proprietà
immobiliare. Sulla base di questi princìpi devono essere interpretate, sistematicamente, le
disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che ne disciplinano l’attuazione, e che regolano
in particolare la formazione dei titoli soggetti a trascrizione, ed i relativi controlli 16[16].
1.3. La funzione del notaio nel sistema della pubblicità immobiliare.
Il codice civile del 1942 attribuisce al notaio un ruolo primario, al fine di rendere possibile
l’efficiente funzionamento della pubblicità immobiliare. Innanzitutto, l’art. 2657 c.c. richiede
l’autenticità del titolo quale presupposto imprescindibile ai fini della trascrizione, in ragione del
filtro così operato mediante i controlli preventivi di legalità, identità, capacità e legittimazione svolti
da parte del notaio 17[17]. In secondo luogo, l’art. 2671 c.c. pone a carico del notaio, o altro pubblico
ufficiale che ha ricevuto o autenticato l’atto “soggetto a trascrizione”, “l’obbligo di curare che
questa venga eseguita”. Autorevole dottrina ha correttamente evidenziato trattarsi di obbligo
pubblicistico, inderogabile e non dispensabile dalle parti 18[18], che non si esaurisce nella “richiesta”
della formalità, ma si concretizza nel compimento di ogni attività utile al fine di ottenere il
“risultato” della trascrizione; ivi compreso, ad esempio, quello di proporre reclamo a fronte di un
rifiuto ingiustificato di trascrivere da parte del conservatore 19[19].
E’, quindi, il notaio – in veste di pubblico ufficiale e “ausiliario” del conservatore 20[20] – a
redigere la nota di trascrizione, inserendo in essa i dati richiesti dalla legge (art. 2659 c.c.). E’
comma 40, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248; art.
17, comma 8, della legge 30 dicembre 1991, n. 413; art. 18 del D. Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, come modificato dall’art.
3, comma 36, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203; art. 8, comma 1, del D.M. 1 settembre 1992, n. 465; art. 32, comma 1,
n. 6, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600; art. 31 della legge 13 maggio 1999, n. 133;
- l’utilizzo diretto delle risultanze dei registri immobiliari ai fini dei controlli in materia di imposte sui redditi, di
imposta sul valore aggiunto ed altre imposte indirette: art. 16, comma 2, lett. b), del D.M. 30 dicembre 1993
(pubblicato nella G.U. n. 306 del 31 dicembre 1993); art. 3, comma 13–quinquies, del D.L. 27 aprile 1990, n. 90,
convertito con modificazioni dalla legge 26 giugno 1990, n. 165 (ora abrogato dall’art. 23 della legge 29 luglio 2003, n.
229);
- l’utilizzo della banca dati ipotecaria da parte dei Comuni e degli altri enti locali, ai fini dell’accertamento
riguardante i tributi di relativa competenza, ovvero per consentire la partecipazione dei Comuni all’attività di
accertamento riguardante le imposte di competenza statale: Decreto Direttoriale in data 18 dicembre 2007 (pubblicato
nella G.U. n. 296 del 21 dicembre 2007); art. 12, comma 3, del Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate
in data 3 dicembre 2007 (pubblicato nella G.U. n. 292 del 17 dicembre 2007); Provvedimento del direttore dell’Agenzia
del Territorio in data 16 giugno 2008 (pubblicato sul sito Internet dell’Agenzia del Territorio in data 19 giugno 2008, ai
sensi dell’art. 1, comma 361, della legge 24 dicembre 2007, n. 244).
14[14]
Cfr. PETRELLI, Pubblicità legale e trascrizione immobiliare tra interessi privati e interessi pubblici, in Rass.
dir. civ., 2009 (anche in http://www.gaetanopetrelli.it/), p. 689 ss., spec. p. 706 ss.
15[15]
Cfr. le Osservazioni e proposte sul progetto del libro secondo, Cose e diritti reali, III, Roma, 1938, p. 221.
16[16]
PETRELLI, Pubblicità legale e trascrizione immobiliare tra interessi privati e interessi pubblici, cit., p. 728
ss.
17[17]
Cfr. PETRELLI, L’autenticità del titolo della trascrizione nell’evoluzione storica e nel diritto comparato, in
Riv. dir. civ., 2007, I (anche in http://www.gaetanopetrelli.it/), p. 585 ss.
18[18]
GABRIELLI, Limiti di ammissibilità di una dispensa del notaio dal dovere di provvedere alla pubblicità
immobiliare, in Rass. dir. civ., 1996, p. 572.
19[19]
GENTILE, La trascrizione immobiliare, Napoli, 1959, p. 583, nota 52; App. Palermo 17 gennaio 1992, in Vita
not., 1992, p. 344.
20[20]
Per la qualificazione del notaio, o altro pubblico ufficiale obbligato ex art. 2671 c.c., come ausiliario del
conservatore dei registri immobiliari, PUGLIATTI, La trascrizione, I – La pubblicità in generale, in Trattato di diritto
civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1957, p. 339.
sempre il notaio a formare il titolo idoneo alla trascrizione, inserendo o verificando che siano
inseriti nello stesso – o nei relativi allegati 21[21] – i dati necessari, che devono corrispondere a quelli
da inserirsi, da parte del medesimo notaio a norma dell’art. 2671 c.c., nelle note di trascrizione
22[22]
. Il notaio quindi, coadiuva il conservatore nell’esecuzione dei controlli preventivi, finalizzati
ad ammettere l’accesso nei pubblici registri ai soli titoli “idonei”, sotto il profilo della legalità sia
formale che sostanziale; soprattutto, per ciò che qui interessa il notaio è giuridicamente “autore” dei
documenti rilevanti a tal fine (titolo e nota), e tali documenti redige – è importante ribadirlo – nella
sua veste di pubblico ufficiale, e non di consulente delle parti. Pubblico ufficiale il cui dovere
primario ed inderogabile – in questo particolare àmbito – è quello di inserire nei pubblici registri
solo dati “veritieri” e “affidabili”. Non a caso la prassi amministrativa richiede che i dati anagrafici
da inserire nelle note di trascrizione siano tratti dai corrispondenti documenti di stato civile, e non
rimessi alla mera dichiarazione delle parti 23[23]. La stessa cosa, evidentemente, vale per quanto
riguarda i dati catastali.
La novella in commento valorizza oggi opportunamente la centralità della funzione notarile,
confidando evidentemente nell’apporto professionalmente qualificato del pubblico ufficiale, che è
in grado di assicurare la conformità, sia soggettiva che oggettiva, dei dati catastali rispetto a quelli
inseriti nei registri immobiliari; con l’obiettivo finale dell’attuazione dell’anagrafe immobiliare
integrata, la quale rappresenta a sua volta il preludio di un sistema di libri fondiari, che
l’informatizzazione e l’evoluzione dei controlli di legalità ha reso obiettivo non più irraggiungibile.
1.4. L’indicazione dei dati catastali negli atti: disciplina codicistica, legislazione catastale e
giurisprudenza in tema di dispensa dall’obbligo di visure.
Ai fini dell’iscrizione dell’ipoteca, l’art. 2826 c.c. richiede, già dal 1942, la necessaria
indicazione nel relativo atto di concessione dei dati di identificazione catastale. Con riferimento
agli atti soggetti a trascrizione, invece, l’art. 2659, n. 4, c.c., richiede l’indicazione dei suddetti dati
unicamente nella nota, e non nel titolo. Una differenza di disciplina difficilmente spiegabile se non
sulla base della diversa tradizione storica degli istituti, e che poteva far dubitare, prima della novella
in esame, della inderogabile necessità – ai fini della trascrizione – di inserire nel titolo i suddetti
dati, ogni qualvolta l’immobile vi fosse stato in altro modo descritto compiutamente. Teoricamente
era, certo, possibile sostenere la non necessità di indicazione dei dati catastali nel titolo, in presenza
di altri elementi di descrizione univoci; praticamente, ciò risultava tuttavia possibile solo in casi
particolari (es., vendita di un intero piano di un edificio 24[24]), essendo il più delle volte
indispensabile il dato catastale proprio ai fini del riscontro di corrispondenza con quanto indicato
nella nota, che il conservatore deve effettuare.
21[21]
E’ pacifico che i vincoli legali, anche di contenuto, riguardino oltre all’atto notarile vero e proprio anche i
relativi allegati, che ne costituiscono parte integrante: cfr. BOERO, Deposito di atti e documenti, in Digesto discipline
privatistiche, sez. civ., V, Torino, 1989, p. 217; FALZONE-ALIBRANDI, Deposito di atti e documenti presso il notaio,
in Dizionario Enciclopedico del Notariato, II, Roma, 1974, p. 75; FALZONE-ALIBRANDI, Plico chiuso, in
Dizionario Enciclopedico del Notariato, III, Roma, 1977, p. 303 ss.; CALÒ, Deposito di software presso un notaio, in
Studi e Materiali, I, Milano, 1986, p. 416 ss. Si ritiene altresì, comunemente, che l'allegato, per il solo fatto di essere
unito all'atto pubblico (e come tale munito delle sottoscrizioni, sia pur marginali, del notaio e delle parti) acquisisca
natura di scrittura privata autenticata: RESCIO, Sulla natura e sulla forma degli statuti societari, in Riv. soc., 2005, p.
788-789. Opinione, quest’ultima, condivisibile in linea generale, mentre diversa è la conclusione valida per lo statuto
societario: cfr. PETRELLI, Ancora su atto costitutivo e statuto: il contenuto dell’atto pubblico e l’essenza della
funzione notarile, in Riv. dir. priv., 2006, p. 377 ss.
22[22]
Quanto detto nel testo vale principalmente per l’atto pubblico, redatto sotto la direzione del notaio a norma
dell’art. 47 della legge n. 89/1913; ma vale anche per la scrittura privata autenticata, anch’essa soggetta al controllo
notarile di legalità (a norma dell’art. 28, n. 1, della stessa legge notarile, come modificato dalla legge n. 246/2005), ed il
cui contenuto deve essere quindi “adeguato” alle norme inderogabili di legge (cfr. PETRELLI, L’indagine della volontà
delle parti e la «sostanza» dell’atto pubblico notarile, in Riv. not., 2006, p. 29 ss.); a pena – per quanto riguarda il
profilo in esame – di esclusione dal novero degli atti “soggetti a trascrizione”, agli effetti dell’art. 2671 c.c.
23[23]
Circ. Min. Fin., Direzione Catasto, 2 maggio 1995, n. 128/E, paragrafo 3.3.
24[24]
Cfr. Cass. 3 giugno 1995, n. 6269, in Giust. civ., 1995, I, p. 2664.
Sopperiva, peraltro, alla lacuna codicistica la legislazione in materia catastale, la quale
imponeva – come regola – l’indicazione dei dati di identificazione catastale nell’atto soggetto a
voltura (artt. 3 e 4 del d.p.r. n. 650/1972). Nessuna disposizione imponeva però il riscontro dei
suddetti dati identificativi con le planimetrie catastali, al fine di riscontrare la corrispondenza tra la
consistenza da esse risultante con quella effettivamente oggetto di trasferimento.
Non vi era, d’altra parte, certezza che i dati catastali inseriti nell’atto fossero, effettivamente,
aggiornati e corrispondenti a quelli risultanti dalla banca dati catastale. L’art. 4, comma 2, del d.p.r.
n. 650/1972 imponeva, è vero, l’inserimento di dati aggiornati, ma il successivo comma 3
consentiva poi di “derogare dalla norma di cui al precedente comma per atti di eccezionale e
dichiarata urgenza” 25[25]. Alla luce di questa disciplina – di chiara impronta pubblicistica – doveva
essere interpretata la giurisprudenza che ammetteva la possibilità per le parti di dispensare il notaio
dall’obbligo di eseguire le visure ipotecarie e catastali nei soli casi di urgenza. La giurisprudenza, in
effetti, non ha mai consentito una dispensa “incondizionata” dall’obbligo di visure, sempre
subordinandola alla ricorrenza di esigenze “oggettive” delle parti 26[26]. Un tale orientamento non
era, peraltro, agevolmente armonizzabile con la giustificazione teorica dell’obbligo notarile di
visure, che dottrina e giurisprudenza collocavano nel contratto d’opera professionale, anziché
ricollegarlo alla funzione pubblica del notaio, in tale ottica ammettendo la disponibilità del
medesimo obbligo ad opera delle parti 27[27]. D’altra parte, l’art. 4, comma 3, del d.p.r. n. 650/1972,
privilegiava – nel bilanciamento tra l’interesse delle parti alla stipula urgente dell’atto, e l’interesse
pubblico alla completa indicazione dei dati catastali nell’atto – il primo dei due, e ciò ha
probabilmente impedito fino ad oggi di trarre le necessarie conseguenze dal tenore, invero
abbastanza chiaro, di detta disposizione.
1.5. L’individuazione “a fini fiscali” del “soggetto titolare di diritti reali”.
Il suddescritto panorama normativo, già fortemente caratterizzato in senso pubblicistico, è ora
modificato dalla nuova disciplina dettata dall’art. 19 del d.l. n. 78/2010. Viene disposta l’attivazione
dell’anagrafe immobiliare integrata, la quale “attesta, ai fini fiscali, lo stato di integrazione delle
banche dati disponibili presso l’Agenzia del Territorio per ciascun immobile, individuandone il
soggetto titolare di diritti reali”. Viene, nel contempo, demandata a successivi decreti la disciplina
della “attestazione integrata ipotecario-catastale”, con le suddescritte finalità 28[28].
Merita attenzione, per ciò che qui interessa, l’obiettivo di “individuazione del soggetto titolare
dei diritti reali”, espressamente posto “ai fini fiscali”. L’anagrafe immobiliare integrata è finalizzata
all’accertamento – ed alla conoscibilità legale – della titolarità civilistica del diritto reale, per la
ragione che quest’ultima costituisce il presupposto impositivo, che consente di individuare il
soggetto passivo delle imposte fondiarie. Per raggiungere questo obiettivo, il legislatore si serve dei
registri immobiliari, i quali sono l’unico strumento oggi esistente, idoneo a consentire – sia pure in
modo approssimativo ed imperfetto, e senza piena efficacia probatoria – l’individuazione dei
25[25]
Dispone sul punto l’art. 4, commi 2 e 3, del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 650, che “Negli atti e nelle denunce di
cui al primo e secondo comma del precedente art. 3, così come nelle domande di volture da essi dipendenti, gli immobili
trasferiti devono essere descritti con gli estremi con i quali sono individuati in catasto da desumersi da certificati
catastali di date non anteriori a tre mesi rispetto a quelle dei medesimi atti o denunce. È però consentito derogare dalla
norma di cui al precedente comma per atti di eccezionale e dichiarata urgenza. In tal caso nelle dipendenti domande di
volture deve essere resa esplicita dichiarazione che gli estremi con i quali sono descritti gli immobili di cui si chiede la
voltura, benché desunti da certificati di data posteriore agli atti, identificano esattamente gli immobili sui quali si
esercitano i diritti trasferiti”.
26[26]
Cfr. da ultima Cass. 1 dicembre 2009, n. 25270, in Giur. it., 2010, p. 1047, ed in Vita not., 2010, p. 363.
27[27]
Cfr. sulla questione PETRELLI, Visure ipotecarie, Milano, 1994, p. 7 ss.
28[28]
L’integrazione delle due banche dati, ipotecaria e catastale, si rivela utile proprio per la loro diversa
impostazione, a base personale la prima, a base reale la seconda; in tal modo si agevola l’attività di accertamento da
parte degli enti impositori, che risulterebbe notevolmente complicata se dovesse farsi riferimento ai soli registri
immobiliari, stante la necessità di risalire indietro nel tempo al fine di verificare la titolarità dei diritti reali. Titolarità
che costituisce il presupposto impositivo, ai fini delle imposte dirette sui redditi fondiari (art. 26 del D.P.R. 22 dicembre
1986, n. 917), e dell’imposta comunale sugli immobili (art. 3 del D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504).
titolari dei diritti reali. La novella non trasforma quindi la trascrizione immobiliare in uno
strumento di “pubblicità di diritti”, ma integra la “pubblicità di atti”, costituita dalle complessive
risultanze dei registri immobiliari, con la banca dati catastale, da sempre impostata su base reale, al
fine di desumere da quest’ultima – con il grado di certezza che il sistema è in grado di assicurare –
la titolarità dei diritti reali.
D’altra parte, al fine di conseguire il suddetto obiettivo di accertamento della titolarità del diritto
reale, il legislatore – con il nuovo comma 1-bis dell’art. 29 della legge n. 52/1985 – ha individuato
nel notaio, incaricato di formare il titolo autentico, richiesto ai fini della trascrizione dall’art. 2657
c.c., e quindi di richiedere la trascrizione e la voltura catastale, il soggetto più idoneo – per la sua
competenza tecnica ed in considerazione del suo ruolo istituzionale – al fine di ottenere
l’allineamento, anche sul piano “soggettivo”, tra le risultanze dei registri immobiliari, e quelle del
catasto.
2. L’àmbito di applicazione dell’art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52/1985.
2.1. Gli atti soggetti alla nuova disciplina.
Le nuove disposizioni si applicano agli atti pubblici ed alle scritture private autenticate tra vivi.
Ne sono quindi esclusi gli atti relativi a trasferimenti a causa di morte: l’esclusione vale non solo
per i testamenti, ma anche per gli atti riguardanti la vicenda successoria (accettazioni di eredità, e
simili), il cui oggetto non è, specificamente, il trasferimento di diritti reali.
La norma si differenzia quindi da altre previsioni, che impongono prescrizioni formali e
contenutistiche per tutti gli “atti tra vivi, sia in forma pubblica sia in forma privata”, quindi anche
per le scritture private non autenticate (cfr., ad es., gli artt. 17, 18 e 40 della legge 28 febbraio 1985,
n. 47; e gli artt. 30 e 46 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380). La differenza si giustifica evidentemente
in ragione della rilevanza in subiecta materia del principio di autenticità, ossia dell’imposizione
della forma pubblica o autenticata per i titoli destinati alla pubblicità immobiliare (artt. 2657, 2821,
2835 c.c.): essendo esclusa in radice la trascrizione e la voltura catastale in base a scrittura privata
non autenticata, il legislatore non si è posto evidentemente il problema di determinarne, a pena di
nullità, il contenuto.
A formare il suddetto titolo è innanzitutto il notaio. Non vi è dubbio, peraltro, che anche nei casi
eccezionali in cui la legge consente la formazione o autenticazione del titolo con l’intervento di
altro pubblico ufficiale autorizzato, diverso dal notaio (artt. 2699, 2703 c.c.), la norma trovi
integrale applicazione, essendosi in presenza anche in quel caso di un atto pubblico o di una
scrittura privata autenticata, a cui le leggi speciali estendono le prescrizioni dettate per gli atti
notarili, in quanto compatibili (cfr., in particolare, l’art. 19 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, e
l’art. 96 del R.D. 23 maggio 1924, n. 827).
Occorre, tuttavia, considerare che – ai fini della produzione degli effetti previsti dal comma 1bis dell’art. 29 (il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su
fabbricati) – è sufficiente ad validitatem la forma scritta dell’atto (art. 1350 c.c.), essendo poi
facoltà delle parti rendere il titolo successivamente idoneo alla trascrizione mediante accertamento
giudiziale delle sottoscrizioni (artt. 2657 e 2652, n. 3, c.c.). La nuova disciplina – se interpretata
letteralmente – si presterebbe però a facile elusione: il differente trattamento delle due categorie di
documenti (autentici, e non autentici) appare irragionevole, in considerazione degli interessi
pubblici coinvolti, a tal punto da sollevare il dubbio di legittimità costituzionale della norma
ricavata da un’interpretazione strettamente letterale. Al problema non può, d’altronde, ovviarsi
ritenendo applicabile la novella anche alle scritture non autenticate, stante l’inequivoco dettato
normativo che limita la nullità ai soli documenti autentici. Il giudice è però obbligato, per pacifica
giurisprudenza costituzionale e di legittimità, all’interpretazione “adeguatrice”, la quale impone –
nella possibile alternativa tra diverse opzioni ermeneutiche – di dare la preferenza a quella lettura
del testo normativo che conduce alla conservazione della relativa validità, e costituzionalità.
Occorre, allora, esplorare un percorso alternativo: sulla base della qualificazione della nullità
prevista dal comma 1-bis come documentale, suscettibile come tale di conversione a norma dell’art.
2701 c.c., il contenuto effettivo della norma potrebbe consistere nel sancire l’inidoneità del titolo ai
fini della pubblicità immobiliare, in quanto sprovvisto dei requisiti di autenticità di cui all’art. 2657
c.c., ed in quanto tale non trascrivibile (a norma dell’art. 2674, comma 1, c.c. che richiama il
suddetto art. 2657, ovvero – forse più plausibilmente – dell’art. 2674-bis c.c. 29[29]). Né sembra
plausibile impedire la trascrizione dei soli titoli di formazione notarile, per l’evidente
irragionevolezza della disparità di trattamento che verrebbe così a crearsi rispetto agli atti giudiziari
ed amministrativi. Può allora ipotizzarsi l’interpretazione estensiva, in chiave adeguatrice, della
disposizione in esame: ritenendo che qualsiasi titolo rientrante tra quelli “soggetti a trascrizione”
debba avere i contenuti prescritti dalla novella per essere trascrivibile, e che in mancanza dei
riferimenti e dichiarazioni riguardo alla conformità oggettiva, prescritti dal primo periodo del
comma 1-bis dell’art. 29, nella scrittura privata o in alternativa nella sentenza di accertamento delle
sottoscrizioni, il conservatore possa e debba rifiutare la trascrizione, anche se si tratta di scrittura
privata non autenticata con firme giudizialmente riconosciute 30[30].
Alla medesima conclusione, e con il medesimo procedimento interpretativo, deve giungersi con
riferimento ai provvedimenti giudiziari, non contemplati dalla disposizione in esame. Si pensi alle
sentenze costitutive, emanate a norma dell’art. 2932 c.c.: è vero che le eventuali nullità della
sentenza sono coperte dalla preclusione del giudicato (che copre sia il dedotto che il deducibile), ma
la oggettiva inidoneità del titolo giudiziario ai fini della trascrizione – argomentabile come sopra –
permane nonostante qualunque sanatoria. Per di più, l’inapplicabilità delle prescrizioni del comma
1-bis potrebbe consentire l’elusione della relativa disciplina, nei casi in cui le parti stipulassero
appositamente un contratto preliminare di immobile catastalmente non regolare, ed operassero
quindi in modo da ottenere una sentenza, sostitutiva del contratto definitivo non concluso. Lo stesso
dicasi per i decreti di trasferimento, emessi nella procedura di espropriazione forzata immobiliare
(art. 586 c.p.c.); nonché, a maggior ragione, per la vendita fallimentare la quale – pur essendo
sottoposta al regime delle vendite forzate (e quindi, tra l’altro, alla disciplina dell’art. 2929 c.c., che
assicura la stabilità di qualsiasi alienazione forzata) – può aver luogo anche mediante atto di natura
“negoziale” (cfr. gli artt. 107 ss. l. fall.).
Un caso particolare è poi quello dei trasferimenti immobiliari realizzati, in sede di separazione
personale dei coniugi o di divorzio, mediante verbale di udienza redatto nell’àmbito del relativo
procedimento, del quale secondo un orientamento dottrinale e giurisprudenziale sarebbe ammessa la
trascrizione 31[31], la quale è invece negata – con maggior fondamento – da altra dottrina e
giurisprudenza 32[32]. Sul punto – a parte la necessità di “restringere” interpretativamente la nozione
di “atto pubblico” ex art. 2657 c.c., limitandola ai soli atti redatti da un pubblico ufficiale obbligato
29[29]
Alla conclusione indicata nel testo può giungersi all’esito di una lettura “evolutiva” e “funzionale” dell’art.
2674-bis c.c., che consideri come “non trascrivibile” il titolo privo di requisiti formali e contenutistici, espressamente
prescritti dalla legge ai fini del perseguimento di importanti interessi pubblici; a differenza del precedente art. 2674,
informato ad un principio di tassatività espressamente sancìto dal secondo comma, l’art. 2674-bis c.c. consente al
richiedente la possibilità – tramite la richiesta di trascrizione con riserva – di mantenere il “beneficio del grado”, a
fronte di problematiche di più difficile accertamento e come tali rimesse al giudice a norma dell’art. 113-ter disp. att.
c.c.
30[30]
Non può essere quindi assolutamente condivisa, per le ragioni indicate nel testo, l’affermazione contenuta
nella Circ. Agenzia Territorio 9 luglio 2010, n. 2/T, secondo cui “Gli elementi innovativi introdotti dal comma 1-bis
non assumono diretta rilevanza in ordine alla trascrivibilità o meno degli atti immobiliari a cui la norma fa riferimento.
E ciò anche nell’ipotesi, peraltro espressamente prevista, di nullità dell’atto per mancato inserimento dei predetti dati.
La norma, infatti, non affianca alla previsione della nullità dell’atto, quella della intrascrivibilità. D’altra parte, come è
noto, la trascrizione non ha, di norma, efficacia sanante rispetto ad eventuali profili di invalidità degli atti trascritti,
profili che possono essere fatti valere dalle parti o dai terzi interessati indipendentemente dall’avvenuta trascrizione”.
31[31]
Cfr. per tutte Cass. 15 maggio 1997, n. 4306, in Vita not., 1997, 842, ed in Famiglia e dir., 1997, p. 417, con
nota di CARAVAGLIOS, Trasferimenti immobiliari nella separazione consensuale tra coniugi.
32[32]
Cfr. Cass. 8 marzo 1995, n. 2700, in Foro it., Rep. 1995, voce Separazione di coniugi, n. 57.
al controllo di legalità di cui all’art. 28, n. 1, della legge n. 89/1913 33[33], la molteplicità dei
controlli ed adempimenti oggi necessari per assicurare la validità e regolarità del trasferimento
immobiliare (regolarità urbanistica, certificazione energetica), che ha significativamente indotto
diversi uffici giudiziari a non formalizzare più trasferimenti immobiliari nei suddetti verbali di
udienza 34[34], si arricchisce ora delle verifiche di conformità catastale. Essendo pacifico che quelli
documentati nel verbale di udienza sono veri e propri negozi giuridici, essi rientrano appieno nella
categoria degli atti tra vivi, menzionata dall’art. 29, comma 1-bis, in esame: con la conseguente
applicabilità del regime di nullità, assoluta e insanabile, ivi sancìta. Lo stesso vale per gli atti
traslativi o costitutivi di diritti reali contenuti nei verbali di conciliazione giudiziale, in quanto
trascrivibili 35[35], nonché nel verbale di divisione giudiziale realizzata a norma dell’art. 789 c.p.c.
36[36]
.
Infine, e per le medesime ragioni suesposte, alle stesse conclusioni sembra doversi giungersi –
limitatamente alle prescrizioni di conformità “oggettiva” – per quanto attiene ai provvedimenti,
giudiziari od amministrativi, che determinano o accertano un acquisto a titolo originario (si pensi
all’usucapione, ed all’espropriazione per pubblica utilità): se la legge ha voluto in definitiva
subordinare la trascrivibilità degli atti riguardanti l’acquisto di diritti reali su fabbricati alla relativa
regolarità catastale, non sembra sussistere alcuna ragione per trattare in modo diverso gli acquisti a
titolo originario da quelli a titolo derivativo. Se è vero, d’altra parte, che l’accertamento
dell’acquisto a titolo originario può aver luogo mediante atto negoziale 37[37], e che parimenti in
luogo di espropriazione può addivenirsi alla relativa cessione volontaria 38[38], non avrebbe senso
che all’assoggettamento alla disciplina in commento questi ultimi negozi (che appare certa,
rientrando essi certamente tra gli atti tra vivi), facesse riscontro una diversa soluzione per i
corrispondenti atti giudiziari e amministrativi.
In tutti i suddetti casi, quindi, la conclusione dell’intrascrivibilità in difetto dei contenuti di
legge – imposta dall’interpretazione sistematica ed adeguatrice – non può che essere estesa a tutti i
titoli soggetti a trascrizione, aventi l’oggetto previsto dalla legge; e non può che condurre alla
intrascrivibilità di tali titoli, in difetto dei contenuti e della conformità oggettiva richiesti dalla
novella in commento.
2.2. Le vicende giuridiche oggetto degli atti.
Il comma 1-bis dell’art. 29 si applica agli atti tra vivi “aventi ad oggetto il trasferimento, la
costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti”. La formula
riprende quella contenuta nelle norme urbanistiche che impongono allegazioni, dichiarazioni e
menzioni negli atti aventi ad oggetto fabbricati (artt. 17 e 40 della legge n. 47/1985; art. 46 del d.p.r.
n. 380/2001): ciò consente di rifarsi alla casistica elaborata in sede di interpretazione di tali
disposizioni: a titolo esemplificativo, mentre sono inclusi nella previsione gli atti di trasferimento
della proprietà o di costituzione di diritti reali su fabbricati, ne sono esclusi i contratti preliminari.
Quanto alle vicende giuridiche sopra contemplate, la norma non menziona espressamente né la
modificazione dei diritti reali, né la relativa estinzione (per effetto di rinunzia o vicende analoghe).
33[33]
PETRELLI, L’autenticità del titolo della trascrizione nell’evoluzione storica e nel diritto comparato, cit., p.
585 ss., 632 ss., spec. p. 638, nota 190.
34[34]
Trib. Milano 6 marzo 2009 – Separazioni tra coniugi ed immobili: dall’avvocato al notaio, in Notariato, 2010,
p. 475; Trib. Torino – Rapporti patrimoniali tra i coniugi – Trasferimenti immobiliari in sede di separazioni
consensuali e divorzi, in Riv. not., 1995, p. 1101.
35[35]
Sui quali v. TONDO, Idoneità dei verbali di conciliazione ai fini della esecuzione delle formalità di pubblicità
immobiliare, in Studi su argomenti di interesse notarile, a cura del Consiglio nazionale del notariato, I, Roma, 1969, p.
68.
36[36]
Cfr. SANTUCCI, Osservazioni sull'applicabilità dell'art. 40 legge 47/1985 nell'ambito del giudizio divisorio,
in Studi e materiali, 2008, 4, p. 1678; FABIANI, Divisione giudiziale e normativa sul condono edilizio, in Studi e
materiali, 2006, 2, p. 1939.
37[37]
Cfr. sul punto PETRELLI, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, Napoli,
2009, p. 348 ss.
38[38]
Cfr. gli artt. 20 e 45 del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 327.
Si potrebbe, per un verso, far leva sulla natura eccezionale della norma, escludendone
l’applicazione per analogia alle suddette vicende. Sembra, tuttavia, che debba prevalere una diversa
lettura, considerando l’omessa menzione di esse non quale lacuna legis, bensì in termini di mera
imperfezione della lettera della legge, suscettibile di interpretazione estensiva. In questo senso
depone – oltre al principio di simmetria tra vicende costitutive, modificative ed estintive – il
parallelismo con la normativa urbanistica, sopra richiamata: se si considera, tra gli altri, l’art. 46 del
d.p.r. n. 380/2001, anch’esso menziona unicamente gli atti tra vivi “aventi per oggetto trasferimento
o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali”, ma poi, nell’eccettuare gli “atti
costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”, presuppone chiaramente la
ricomprensione delle vicende modificative ed estintive degli altri diritti reali nell’àmbito della
disciplina.
A differenza delle previsioni urbanistiche, invece, il generale riferimento agli atti aventi ad
oggetto lo scioglimento della comunione di diritti reali comporta l’inclusione, nel perimetro della
nuova normativa, delle divisioni ereditarie, che non sono escluse dalla norma in esame.
A seguito delle modifiche apportate dalla legge di conversione, sono stati espressamente esclusi
dall’àmbito di applicazione della norma i “diritti reali di garanzia”, allineando in tal modo la
disciplina in commento a quella della normativa urbanistica. Alla previsione deve attribuirsi natura
innovativa e non interpretativa, considerata l’eccezionalità di quest’ultimo tipo di disposizioni 39[39],
e gli argomenti che conducevano – nel vigore del testo originario del decreto legge n. 78/2010 – a
ritenere ricomprese le ipoteche nella relativa disciplina 40[40].
Costituiscono, invece, oggetto della norma la proprietà e tutti i diritti reali di godimento. Tra di
essi, in particolare, non sono esclusi dal comma 1-bis – a differenza di quanto fa la normativa
urbanistica – i diritti reali di servitù: ancorché si tratti di diritti irrilevanti agli effetti catastali, e non
soggetti a voltura né ad evidenza alcuna in catasto, essi sono certamente compresi nel novero dei
diritti reali, ai quali la disposizione in esame fa generale riferimento. Da ciò alcune questioni
interpretative, che è opportuno affrontare sinteticamente.
La norma deve ritenersi applicabile agli atti che costituiscono servitù prediali, escluso per ovvie
ragioni il relativo “trasferimento”, che è effetto automatico del trasferimento dei fondi servente e
39[39]
Cfr. in particolare l’art. 1, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212. In giurisprudenza, più in generale, v.
tra le altre Cass. 17 gennaio 2003, n. 654, in Foro it., Rep. 2003, voce Fideiussione e mandato di credito, n. 34; Cass. 2
febbraio 1996, in Foro it., Rep. 1996, voce Legge, n. 49;
40[40]
Secondo una prima, possibile interpretazione si sarebbe potuto ritenere che l’irrilevanza ai fini catastali degli
atti di concessione di ipoteca ne giustificasse l’esclusione; inoltre la costituzione del diritto reale di garanzia ha luogo
per effetto della pubblicità costitutiva rappresentata dall’iscrizione, anziché a seguito del solo atto di concessione. Si
trattava però, a ben vedere, di argomentazioni destituite di fondamento. Quanto all’argomento dell’irrilevanza catastale,
esso da solo non era probante: nulla escludeva che il legislatore avesse inteso incentivare la regolarizzazione e
l’allineamento catastale dei fabbricati, imponendola anche in occasione di atti non soggetti a voltura catastale (come è
avvenuto, mutatis mutandis, con la normativa urbanistica che ha vietato la commerciabilità degli immobili
urbanisticamente irregolari). Per quanto concerne, invece, la natura costitutiva della pubblicità ipotecaria, essa non
esclude il concorso, ai medesimi fini costitutivi, dell’atto di concessione dell’ipoteca (la cui invalidità determina,
pacificamente, invalidità della stessa ipoteca, come si desume inequivocabilmente da diverse disposizioni codicistiche:
tra le altre, gli artt. 2821, 2824, 2841 c.c.): in altri termini, la costituzione dell’ipoteca non è effetto della sola iscrizione,
ma di una fattispecie complessa che comprende anche l’atto di concessione. Del resto, l’obiezione avrebbe avuto
qualche senso se la norma avesse richiamato gli atti che hanno “per effetto” la costituzione del diritto reale; essa,
invece, richiede solamente che l’atto abbia “ad oggetto” tale costituzione, e non sembra dubbio che la costituzione
dell’ipoteca è “oggetto” del relativo atto di concessione. E’ vero, piuttosto, che la norma non distingue tra diverse
tipologie di diritti reali, di godimento o di garanzia, a differenza di altri casi (ubi lex voluit, dixit); ciò significa che
anche gli atti, aventi ad oggetto la concessione di ipoteca, erano soggetti alla disciplina del d.l. 78/2010, e che a tale
stregua deve essere apprezzata la validità degli atti stipulati dal 1° luglio 2010 fino all’entrata in vigore della legge di
conversione. Non erano invece da ritenersi assoggettati alla suddetta norma gli atti di mutuo con consenso a
surrogazione, ex art. 1202 c.c., non avendo essi “ad oggetto” il trasferimento del diritto reale di ipoteca, bensì la
surrogazione (legale) del mutuante in tutti i diritti del creditore, su consenso non del proprietario del bene ipotecato
bensì del debitore.
dominante 41[41]. Di conseguenza, non sussiste alcun dubbio che la semplice “menzione” dell’effetto
legale del trasferimento della servitù, in sede di alienazione del fondo servente o di quello
dominante, non dà certamente luogo ad applicazione dell’art. 29, comma 1-bis. Tale disciplina si
applica invece estensivamente – giusta quanto sopra chiarito riguardo a tutti i diritti reali – alla
modificazione ed alla estinzione delle servitù 42[42].
Quanto all’oggetto del diritto di servitù, sorge il problema della estensione o meno della
disciplina in commento, oltre che al fondo servente, al fondo dominante, quando quest’ultimo sia
costituito da un fabbricato urbano ultimato. Non vi è dubbio che entrambi i fondi, servente e
dominante, costituiscano oggetto del contratto che costituisce, modifica o estingue la servitù, e che
quindi per entrambi debbano ricorrere i requisiti prescritti dall’art. 1346 c.c. (possibilità, liceità,
determinatezza o determinabilità) 43[43]. Nessun dubbio, altresì, che per entrambi i fondi, servente e
dominante, debbano applicarsi, ai fini della trascrizione, le prescrizioni dell’art. 2659, n. 4, e
dell’art. 2826 c.c., dal primo richiamato, quanto alla individuazione di entrambi, con gli estremi di
identificazione catastale, nella nota di trascrizione. Non vi è neanche dubbio che la previsione del
comma 1 dell’art. 29, a norma della quale “Negli atti con cui si concede l'ipoteca o di cui si chiede
la trascrizione, l'immobile deve essere designato anche con l'indicazione di almeno tre dei suoi
confini”, sia applicabile sia al fondo servente che al fondo dominante. L’applicabilità anche a
quest’ultimo delle suddette norme in tema di trascrizione, e l’inclusione del comma 1-bis in
commento proprio nell’art. 29 – il cui primo comma certamente si riferisce a tutti gli immobili
oggetto di pubblicità – sembrerebbe deporre per l’interpretazione estensiva. Senonché, questi
argomenti non appaiono decisivi, se solo si considera che certamente il comma 1-bis non si applica
a numerosi atti soggetti a trascrizione (quelli aventi ad oggetto terreni, fabbricati non ultimati,
fabbricati non urbani): la speciale ratio del comma 1-bis ne impedisce l’interpretazione alla luce
delle disposizioni generali in tema di trascrizione.
Non è decisivo – al fine di escludere il rilievo del fondo dominante – il fatto che la qualifica
soggettiva di “alienante” sussista in capo al solo proprietario del fondo servente che costituisce la
servitù, per la circolarità dell’argomento: il comma 1-bis parla di “intestatario”, e l’individuazione
del soggetto passivo dell’obbligo di dichiarazione è il thema demonstrandum, cosicché non appare
metodologicamente corretto utilizzarne il risultato al fine di risolvere altri aspetti dubbi della
discipilna. Neanche può farsi leva su alcune particolari servitù caratterizzate dall’assenza di fondo
dominante (servitù di elettrodotto, servitù di uso pubblico, ecc.), trattandosi di casi particolari nei
quali, evidentemente, un fondo dominante manca e non è possibile riferirsi ad esso, impregiudicata
la soluzione nei casi “normali” nei quali il fondo dominante, invece, esiste. Infine, non può farsi
riferimento ai casi particolari nei quali il titolare del fondo dominante non interviene all’atto (es.,
contratto a favore del terzo), trattandosi unicamente di “adattare” la disciplina ritenuta applicabile
alle peculiarità soggettive della fattispecie: nell’esempio citato, dovrebbe essere lo stipulante a
rendere le dichiarazioni corrispondenti, come pure tutte le dichiarazioni “normalmente” rese in atto
dall’acquirente. Per contro, far leva genericamente sulla ratio della disciplina in commento al fine
di estendere la stessa al fondo dominante non conduce a risultati migliori: l’aggiornamento delle
banche dati ipotecaria e catastale, e il contrasto all’evasione ed elusione fiscale, sono in astratto
risultati auspicabili sia per il fondo servente che per il fondo dominante, ma ciò da solo non è
sufficiente a dimostrare che il legislatore abbia normativamente esteso la disciplina in esame al
fondo dominante.
Nell’assenza di diversi elementi interpretativi occorre allora basarsi sulla lettera del comma 1bis dell’art. 29, che parla degli atti “aventi ad oggetto … la costituzione … di diritti reali su
41[41]
Il “trasferimento” della servitù non è, coerentemente, menzionato neanche negli artt. 1350, n. 3, e 2643, n. 4,
c.c., per le ragioni indicate nel testo.
42[42]
Significativo, per ciò che concerne modificazione ed estinzione delle servitù, il parallelo da un lato con la
disciplina urbanistica, dall’altro con le previsioni degli artt. 1350, nn. 3 e 5, e 2643, nn. 4 e 5, c.c., ove sono menzionate
anche dette vicende unitamente a quelle costitutive del diritto reale.
43[43]
Cfr. per tutte Cass. 5 settembre 2000, n. 11674, in Foro it., Rep. 2000, voce Servitù, n. 31.
fabbricati già esistenti”. Tale dato testuale deve essere interpretato alla luce della lettera delle
disposizioni codicistiche, che individuano inequivocabilmente nel fondo servente l’oggetto del
diritto reale di servitù 44[44], con le espressioni “sopra” ed “a carico”, paragonabili all’espressione
“su” qui utilizzata. Invece, laddove il legislatore si è riferito al fondo dominante, ha utilizzato
l’espressione “a favore”, la quale – non a caso – è invece assente nel comma 1-bis dell’art. 29.
Un’ulteriore, espressa conferma di quanto sopra si ricava ancora dall’art. 15, comma 1, c.p.c., che
nel dettare i criteri per la determinazione del valore delle cause relative a beni immobili, trattandosi
di cause relative a servitù prende in considerazione unicamente il fondo servente (considerando
evidentemente che esso solo costituisce oggetto della servitù) 45[45]. Sembra quindi, da tutte le
suddette disposizioni, che il legislatore consideri quale “oggetto” della servitù unicamente il fondo
servente.
Nel senso di individuare l’“oggetto” del diritto reale di godimento nel solo fondo servente
appare orientata anche la dogmatica in materia di servitù. Ferma la “duplice inerenza reale” del
diritto di servitù al fondo servente ed a quello dominante 46[46], gli autori appaiono sufficientemente
concordi nell’individuare nel fondo servente l’oggetto del diritto reale (quale ius in re aliena): si è
giustamente detto che il fondo dominante entra nel “rapporto di servitù” solo a parte subiecti, nel
senso che la servitù non spetta certamente al fondo dominante, bensì “alla persona che abbia il
godimento di un fondo”, mentre “oggetto della servitù e dell’esercizio della servitù è il fondo
servente, solo il fondo servente” 47[47]. Altrettanto incisivamente si è detto – sull’ovvio presupposto
che un rapporto giuridico non può intercorrere tra due fondi, e che questi ultimi non hanno
soggettività giuridica – che “l’utilità ricade sempre sulla persona, ma nel caso della servitù si ricava
in base ad una relazione col fondo” 48[48]; e che in quanto diritto reale di godimento su beni altrui,
tale godimento si esercita, in vario modo, sul fondo servente 49[49]; la servitù svolge nen contempo la
funzione di “accessorio” del fondo dominante 50[50], e più precisamente la titolarità della servitù è
accessoria alla titolarità del fondo dominante 51[51].
Le superiori conclusioni appaiono confermate dalla disciplina tributaria del diritto reale di
servitù, analizzata in collegamento con quella contenuta nel comma 1-bis dell’art. 29 52[52]. E’ vero
44[44]
A norma dell’art. 1027 c.c., “la servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un
altro fondo appartenente a diverso proprietario”: disposizione, quest’ultima, che chiaramente circoscrive l’oggetto del
diritto reale al fondo servente, mentre il fondo dominante rileva solo in funzione della utilità ad esso arrecata. Sempre
sul piano letterale, anche l’art. 1062, comma 2, c.c., parla di servitù “stabilita attivamente e passivamente a favore e
sopra ciascuno dei fondi separati”; l’art. 1029, comma 2, c.c., parla di servitù “a favore o a carico di un edificio da
costruire o di un fondo da acquistare”; in modo corrispondente si esprime l’art. 1071 c.c. Gli artt. 1064 e 1065 c.c. si
riferiscono a colui che “ha un diritto di servitù”, riferendosi evidentemente al proprietario del fondo dominante, che ha
tale diritto sul fondo servente.
45[45]
Cfr. Cass. 4 maggio 1982, n. 2760, in Foro it., Rep. 1982, voce Competenza civile, n. 69.
46[46]
Cfr. TRIOLA, Le servitù, Milano, 2008, p. 7 ss.; COMPORTI, Le servitù prediali, in Trattato di diritto
privato, diretto da Rescigno, 8, Torino, 2002, p. 190 ss.; TAMBURRINO-GRATTAGLIANO, Le servitù, Torino, 2002,
p. 18 ss.; BIANCA, Diritto civile, 6. La proprietà, Milano, 1999, p. 644; QUARANTA-PREDEN, Delle servitù
prediali, Roma-Novara, 1976, p. 10.
47[47]
BRANCA, Servitù prediali, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1987, p. 5.
48[48]
BIONDI, Le servitù, Milano, 1967, p. 61 ss. Nel medesimo senso GROSSO-DEIANA, Le servitù prediali, I,
Torino, 1963, p. 13 ss., 79 ss.
49[49]
BIONDI, Le servitù, cit., p. 65 ss.; BURDESE, Le servitù prediali, Padova, 2007, p. 14 ss.; QUARANTAPREDEN, Delle servitù prediali, cit., p. 10.
50[50]
GROSSO-DEIANA, Le servitù prediali, I, cit., p. 79 ss.; QUARANTA-PREDEN, Delle servitù prediali, cit.,
p. 10,
51[51]
BURDESE, Le servitù prediali, cit., p. 57 ss.
52[52]
Il comma 1-bis dell’art. 29, come già chiarito, ha principalmente uno scopo fiscale, strumentalmente al quale
viene disposto l’aggiornamento bidirezionale delle banche dati ipotecaria e catastale: in quest’ottica deve essere intesa
la limitazione della portata della norma – in luogo che a tutti gli atti trascrivibili, tra i quali sono compresi atti relativi a
diritti personali di godimento, diritti di credito come quelli nascenti dal contratto preliminare vincoli di destinazione,
domande giudiziali, ecc. – solamente a quelli aventi ad oggetto “diritti reali”. Infatti soltanto il “possesso” di un diritto
reale costituisce presupposto per l’applicazione delle imposte reddituali e patrimoniali.
che la rilevanza tributaria del diritto di servitù è circoscritta 53[53], come dimostra il fatto che detto
diritto non deve essere evidenziato in catasto. E’ però anche vero che in determinati casi il reddito
tratto dal diritto di servitù costituisce oggetto di imposizione 54[54]: in tali casi, non sembra dubbio
che i tributi debbano essere parametrati alla “consistenza” oggettiva del fondo servente, non certo
alla consistenza del fondo dominante. D’altra parte, se è vero che la titolarità della servitù dipende
dalla titolarità del fondo dominante, il relativo accertamento – sulla base delle risultanze dei registri
immobiliari – non può che riguardare la proprietà del fondo dominante.
Il riferimento – da parte del comma 1-bis dell’art. 29 – alla categoria dei “diritti reali”, che è
categoria dogmatica prima che legislativa, comporta la necessità di fare riferimento al concetto di
ius in re aliena, ove la res aliena, che costituisce oggetto del diritto reale di servitù, non è altro che
il fondo servente. Il fondo dominante rileva, invece, solo al fine di individuare, per relationem,
colui che è titolare tempo per tempo del diritto reale. D’altra parte, quando la legge parla di diritti
reali “su” fabbricati, non può che riferirsi al fondo servente, al quale soltanto devono quindi
limitarsi i riferimenti, le dichiarazioni e le verifiche previsti dal suddetto comma 1-bis. Perciò,
concludendo, le disposizioni in tema di conformità oggettiva, dettate dal primo periodo del comma
1-bis, devono intendersi riferite unicamente al fondo servente. Quanto al problema della verifica
della conformità soggettiva, l’ampio tenore della disposizione (“Prima della stipula dei predetti atti
il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri
immobiliari”) non sembrerebbe consentire una differenziazione tra proprietario del fondo servente e
del fondo dominante; la regolarità dell’intestazione catastale del fondo dominante potrebbe d’altra
parte assumere rilievo “indiretto”, al fine di individuare il titolare del diritto di servitù, anche ai fini
tributari, ma di ciò non vi è dimostrazione nel sistema della legge, che d’altra parte assegna rilievo
esclusivamente al catasto dei fabbricati (mentre il fondo dominante potrebbe essere un terreno).
Plausibilmente, quindi, il compito del notaio deve limitarsi al solo accertamento, mediante le
risultanze dei registri immobiliari, della titolarità del fondo dominante.
Un caso particolare è quello delle servitù (limitazioni al godimento delle proprietà esclusive)
contenute nel regolamento di condominio c.d. contrattuale, allegato al primo atto di vendita di unità
immobiliari, per effetto del quale si costituisce il condominio, una volta venuta ad esistenza la
dualità soggettiva indispensabile a tal fine 55[55]. Il regolamento, in quanto allegato all’atto notarile
(in forma pubblica o autenticata) 56[56], forma parte integrante di quest’ultimo in quanto recepito –
anche mediante relatio all’allegato – dalla volontà negoziale delle parti dell’atto documentata
nell’atto stesso 57[57]; né può porsi in dubbio che anche detto allegato partecipi della natura di atto
autentico agli effetti dell’art. 2657 c.c., essendo lo stesso perfezionato, a mezzo della sottoscrizione
delle parti dinanzi al notaio (art. 51, terzultimo comma, l. not.), e quindi contestualmente alla
sottoscrizione dell’atto notarile; ed essendo estesa allo stesso l’efficacia probatoria ex art. 2703 c.c.,
nonché la disciplina dei controlli notarili di legalità. La giurisprudenza parte proprio da questi
presupposti quando, pacificamente, ammette la trascrizione del regolamento di condominio 58[58].
53[53]
A norma dell’art. 3, comma 1, del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, soggetti passivi dell'imposta comunale
sugli immobili sono “il proprietario di immobili di cui al comma 2 dell'articolo 1, ovvero il titolare di diritto reale di
usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi”. Non è quindi menzionata la servitù.
54[54]
L’art. 26, comma 1, del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, dispone che “I redditi fondiari concorrono,
indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo
di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale”. Parimenti, ai sensi dell’art. 9, comma 5, riguarda anche le servitù,
quando dispone che “ai fini delle imposte sui redditi le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche
per gli atti a titolo oneroso che importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento”.
55[55]
Cass. 14 dicembre 1992, n. 13179, in Vita not., 1993, p. 765.
56[56]
Sull’equiparazione del regime degli allegati a quello dell’atto notarile, ai fini del regime dell’autenticità, cfr.
supra, la nota 21.
57[57]
Cass. 26 ottobre 1992, n. 11626, in Arch. locazioni, 1993, p. 296; Cass. 3 dicembre 1994, n. 10397, in Foro it.,
Rep. 1994, voce Comunione e condominio, n. 179.
58[58]
Cfr., tra le tante, Cass. 3 luglio 2003, n. 10523, in Contratti, 2004, p. 31; Cass. 25 ottobre 2001, n. 13164, in
Arch. locazioni, 2002, p. 292; Cass. 5 settembre 2000, n. 11684, in Arch. locazioni, 2000, p. 885.
Il momento del perfezionamento del regolamento contrattuale di condominio è individuato dalla
giurisprudenza assolutamente prevalente nel momento della sua sottoscrizione ad opera dei primi
due condomini 59[59], mentre una giurisprudenza minoritaria lo colloca nel momento della sua
accettazione da parte dell’ultimo acquirente di unità in condominio 60[60]. L’orientamento dominante
appare decisamente condivisibile, in quanto è al momento del primo atto di vendita che si
costituisce il condominio, mentre i successivi atti di alienazione sono solo eventuali: teoricamente,
il costruttore potrebbe rimanere proprietario, per tempo indefinito, di tutte le altre unità immobiliari.
Non è quindi accettabile la teorica del regolamento contrattuale di condominio come contratto
aperto all’adesione a norma dell’art. 1332 c.c. 61[61]: essa, a parte la relativa inconsistenza sul piano
dogmatico, esigerebbe che l’accettazione di ciascun acquirente sia comunicata a tutti i condomini
già esistenti, cosa che non avviene in alcun modo nella prassi 62[62]; d’altra parte, nella disciplina del
regolamento della comunione e del condominio vi è un’espressa disposizione, l’art. 1107, comma 2,
c.c. (richiamato dagli artt. 1138 e 1139 c.c.), che dichiara senz’altro efficace il regolamento nei
confronti degli aventi causa dei condomini, senza necessità di espressa accettazione da parte di
questi ultimi 63[63].
Quanto al rapporto tra servitù e contenuto proprio del regolamento di condominio, le limitazioni
alle proprietà esclusive dei condomini, pattuite nella prassi – ed ascrivibili, a seconda del loro
contenuto, alla categoria delle servitù o a quella delle obbligazioni propter rem – rientrano nella
quasi totalità dei casi nell’àmbito delle “norme circa l’uso delle cose comuni”, ovvero tra le “norme
per la tutela del decoro dell’edificio”, che a norma dell’art. 1138 c.c. giustificano l’imposizione dei
suddetti vincoli proprio nel regolamento di condominio. Le servitù in tal modo e con tali finalità
costituite riguardano, pertanto, le singole unità immobiliari in condominio, ma riguardano anche le
parti comuni, in quanto è a beneficio dell’intero condominio e del relativo decoro che esse sono
previste (si pensi al divieto di adibire i locali ad attività rumorose, di modificare l’aspetto esteriore
delle unità immobiliari, di tenere animali, ecc.). Per tale ragione, anche questi vincoli producono
effetto – a norma degli artt. 1107, comma 2, e 1138 c.c. – anche nei confronti degli aventi causa dai
condomini. Ciò induce a ritenere che le servitù suddette si costituiscano sin dal momento in cui si
perfeziona il primo atto del condominio, e solamente con esso 64[64]: il che giustifica sia la pacifica
59[59]
Cass. 14 novembre 1991, n. 12173, in Giust. civ., 1992, I, p. 2771; Cass. 4 giugno 1992, n. 6892, in Arch.
locazioni, 1992, p. 761; Cass. 7 gennaio 1992, n. 49, in Vita not., 1992, p. 542; Cass. 17 marzo 1994, n. 2546, in Giust.
civ., 1994, I, p. 1481; Cass. 25 ottobre 2001, n. 13164, in Arch. locazioni, 2002, p. 292; Cass. 11 novembre 2002, n.
15794, in Riv. giur. edilizia, 2003, I, p. 917.
60[60]
In questo senso Cass. 15 aprile 1999, n. 3749, in Vita not., 1999, p. 778.
61[61]
Sulla quale v., oltre alla citata Cass. 15 aprile 1999, n. 3749, CORONA, Regolamento contrattuale di
condominio, Torino, 2009, p. 169 ss.; ID., I regolamenti di condominio, Torino, 2004, p. 131 ss.
62[62]
Per condivisibili critiche alla teoria del contratto aperto, cfr. TRIOLA, Il regolamento di condominio, Milano,
1992, p. 84 ss. (ed ivi ulteriori riferimenti).
63[63]
La giurisprudenza – in linea con l’orientamento maturato in relazione all’opponibilità delle servitù non
trascritte – subordina la vincolatività delle servitù reciproche contenute nel regolamento condominiale, in via
alternativa, alla trascrizione del regolamento ovvero all’accettazione dello stesso nei singoli atti di vendita (con la
conseguenza che tale opponibilità sussiste senz’altro quando il regolamento è trascritto, senza che sia necessaria una
specifica accettazione da parte dei successivi acquirenti): cfr. Cass. 3 luglio 2003, n. 10523, in Contratti, 2004, p. 31;
Cass. 11 novembre 2002, n. 15794, in Riv. giur. edilizia, 2003, I, p. 917; Cass. 25 ottobre 2001, n. 13164, in Arch.
locazioni, 2002, p. 292; Cass. 17 marzo 1994, n. 2546, in Giust. civ., 1994, I, p. 1481; Cass. 1 giugno 1993, n. 6100, in
Foro it., Rep. 1993, voce Comunione e condominio, n. 63; App. Napoli 30 luglio 1993, in Arch. locazioni, 1994, p. 817;
Cass. 7 gennaio 1992, n. 49, in Vita not., 1992, p. 542; Cass. 14 novembre 1991, n. 12173, in Giust. civ., 1992, I, p.
2771. D’altra parte, è stata esclusa la rilevanza dell’accettazione da parte degli acquirenti “per fatti concludenti”, quali il
richiamo del regolamento già trascritto o la presa di cognizione dello stesso: cfr. Cass. 13 settembre 1991, n. 9591, in
Giur. it., 1992, I, 1, c. 1530.
64[64]
Per le ragioni indicate nel testo, l’effetto della costituzione delle servitù reciproche in condominio non è
impedito dal principio nemini res sua servit, del resto escluso in materia condominiale per pacifica giurisprudenza: cfr.
per tutte Cass. 29 novembre 2004, n. 22408, in Foro it., Rep. 2005, voce Comunione e condominio, n. 172; Cass. 3
ottobre 2000, n. 13106, in Foro it., Rep. 2000, voce Servitù, n. 14; Cass. 17 luglio 1998, n. 6994, in Nuova giur. civ.,
1999, I, p. 440; Cass. 6 febbraio 1986, n. 734, in Foro it., Rep. 1986, voce Servitù, n. 8; Cass. 22 novembre 1985, n.
5770, in Foro it., Rep. 1985, voce Servitù, n. 6.
prassi di trascrivere immediatamente il regolamento di condominio 65[65], sia quella di escludere la
necessità di un’accettazione espressa del regolamento, e dei vincoli in esso contenuti, da parte dei
successivi acquirenti, ai fini dell’efficacia nei loro confronti.
Agli effetti dell’art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52/1985, i riferimenti e le dichiarazioni
previsti riguardo alla conformità oggettiva, e gli obblighi di verifica ed allineamento riguardo alla
conformità soggettiva, trovano quindi applicazione unicamente con riferimento all’atto con il quale
è approvato inizialmente il regolamento di condominio, ed a tutte le unità immobiliari a cui esso si
riferisce, esclusa invece qualsiasi applicabilità dello stesso agli atti di vendita successivi.
Nessun dubbio, invece, che non rientrino tra i diritti reali, oggetto della disciplina in esame, le
obbligazioni propter rem, gli oneri reali ed i vincoli “reali” di destinazione (ancorché contenuti nei
regolamenti di condominio suddetti): si tratta di situazioni giuridiche che possiedono unicamente
una delle caratteristiche del diritto reale (il c.d. diritto di seguito, o ambulatorietà), con esclusione
degli altri (in particolare, dei requisiti della immediatezza ed assolutezza del diritto).
Per finire, occorre precisare che oggetto delle prescrizioni di legge è unicamente il diritto
oggetto dell'atto. Ciò significa, ad esempio, che se questo riguarda una quota di comproprietà, non è
richiesta al notaio la verifica della titolarità e dell'intestazione catastale riguardo alle altre quote.
Parimenti, se l'atto ha ad oggetto un diritto di nuda proprietà, il notaio non deve verificare la
titolarità e l'intestazione del diritto di usufrutto.
2.3. Le categorie di immobili.
Il comma 1-bis definisce, quanto all’àmbito oggettivo, la portata della nuova disciplina con
riferimento ai “fabbricati già esistenti”; subito dopo peraltro – occupandosi delle dichiarazioni
relative alla “conformità oggettiva” tra dati catastali, planimetrie e stato di fatto – circoscrive il
riferimento alle sole “unità immobiliari urbane”. Si tratta di concetti disomogenei. Il primo
(“fabbricati già esistenti”), che ha valenza generale (rilevante, quindi, ai fini sia della conformità
oggettiva che di quella soggettiva), descrive lo “stato di fatto” del fabbricato (esistente, con
esclusione quindi delle costruzioni che non possono “ancora” definirsi come fabbricati), ed è
compatibile con qualsiasi destinazione (sia urbana che rurale). Il secondo (“unità immobiliari
urbane”) – posto ai soli fini della disciplina della conformità oggettiva – identifica invece una
determinata “destinazione” dei fabbricati o loro porzioni (urbana, in contrapposizione a quella
rurale) 66[66].
E’ certa, d’altra parte, l’esclusione dall’àmbito applicativo della disciplina dei terreni (fatto
salvo il più articolato discorso relativo alle aree urbane, come si dirà nel prosieguo). Tenuto conto di
ciò, e della finalità fiscale della disciplina, non vi è dubbio che l’intero comma 1-bis dell’art. 29
presupponga l’iscrizione nel catasto dei fabbricati, nel quale – a differenza che nel catasto terreni –
i fabbricati sono iscritti con attribuzione di rendita, e assumono quindi rilevanza ai fini fiscali.
Poste queste basi, occorre esaminare alcune questioni interpretative, sollevate dalla formulazione
della disposizione.
65[65]
Cfr. TRIOLA, Il regolamento di condominio, cit., p. 93, ove si evidenzia come in base all’art. 1071 c.c., la
trascrizione non deve essere ripetuta in occasione delle singole vendite di appartamenti, successive alla prima.
66[66]
La distinzione, indicata nel testo, si desume chiaramente dalla lettera della legge. Nella prima parte del primo
periodo, il comma 1-bis si riferisce agli atti tra vivi “aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento
di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti”; a questa espressione fa rinvio il secondo periodo, secondo cui
“prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le
risultanze dei registri immobiliari”. Invece, nella parte intermedia dedicata al profilo della conformità oggettiva, la
norma dispone che i suddetti atti “devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre
all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli
intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie”. E’ chiaro, quindi, che la sanzione di
nullità si riferisce ai soli atti riguardanti le unità immobiliari urbane, mentre invece gli obblighi del notaio riguardo alla
conformità soggettiva (tra intestazione catastale e risultanze dei registri immobiliari) riguardano tutti gli atti relativi a
“fabbricati già esistenti”, compresi quelli che non sono unità immobiliari urbane.
2.3.1. Premessa. Fabbricati esistenti e fabbricati non ultimati.
Va chiarito, in primo luogo, il riferimento ai “fabbricati già esistenti”. Esso non era contenuto
nell’originaria bozza del comma 1-bis, quale risultante dal primo testo pubblicato dagli organi di
stampa 67[67], ed è stato aggiunto solo in una fase successiva del drafting normativo, dando luogo ad
un risultato particolarmente infelice, che rende ardua l’opera dell’interprete. Si tratta, allora, di
comprendere innanzitutto qual è stata la ragione del suo inserimento.
La legge non parla qui di “fabbricati esistenti”, ma di “fabbricati già esistenti”, e la
formulazione normativa sembra avere un significato preciso, di segno negativo anziché positivo: ciò
che, con tutta evidenza, il legislatore ha voluto escludere è l’applicabilità della disciplina ai
fabbricati “non ancora” esistenti, quindi l’errata conclusione che non fosse più possibile
commerciare i fabbricati “non ancora esistenti”, se non accatastandoli in corso di costruzione, e
sottoponendoli preventivamente alle verifiche di conformità richieste dalla legge. Con la nuova
formulazione della norma, invece, non appare dubbio che i fabbricati in corso di costruzione
possano senz’altro costituire valido oggetto di atti traslativi, pur in assenza di accatastamento e di
presentazione di planimetrie.
Un dubbio si pone, tuttavia, relativamente ai fabbricati “esistenti ma non ultimati”, essendo
utilizzata la nozione di “fabbricato esistente” in alcune fonti normative con significato diverso da
quella di fabbricato “ultimato”: l’art. 2645-bis, comma 6, c.c. – norma di riferimento in materia –
qualifica come esistente “l’edificio nel quale sia stato eseguito il rustico, comprensivo delle mura
perimetrali delle singole unità, e sia stata completata la copertura”: a tale definizione è stato dato
rilievo, in più occasioni, anche ai fini tributari 68[68]. Si potrebbe, allora, porre il dubbio che i
fabbricati già esistenti – quelli cioè completati al rustico e con la copertura – debbano essere
necessariamente accatastati per poter formare oggetto degli atti indicati nel comma 1-bis dell’art.
29. A ben vedere, tuttavia, un tale dubbio si rivela infondato.
Innanzitutto, va posta in dubbio la stessa precisione della formula normativa: il legislatore non
ha voluto, con essa, contrapporre i fabbricati ultimati a quelli non ultimati ma “esistenti”, ma ha
inteso unicamente escludere l’applicazione della nuova disciplina ai fabbricati ancora da costruire
o in corso di costruzione, e ciò perché questi fabbricati sono irrilevanti ai fini tributari 69[69]. Nel
contempo, l’espressione “fabbricati già esistenti”, in contrapposizione all’altra “unità immobiliari
urbane”, costituisce oggetto di richiamo da parte del secondo periodo del comma 1-bis che
disciplina la c.d. conformità soggettiva, rendendo applicabile quest’ultima anche ai fabbricati rurali
che siano censiti nel catasto dei fabbricati.
Soprattutto, però, occorre rammentare che l’obbligo di denuncia al catasto dei fabbricati sorge
soltanto decorsi trenta giorni dal momento in cui il fabbricato è ultimato ed abitabile 70[70]. Colui
che non ha ancora denunciato al catasto dei fabbricati un fabbricato “esistente”, ma non ancora
“ultimato”, non ha violato alcuna disposizione di legge, e non si vede ragione per impedirgli di
commerciare il medesimo fabbricato pur se non ancora accatastato. Se il legislatore avesse voluto
67[67]
Cfr. Il Sole 24 Ore del 29 maggio 2010, p. 28. Il testo originario del comma 1-bis, aggiunto all’art. 29 della
legge n. 52/1985, era del seguente tenore: “Gli atti di cui al comma 1 devono contenere, per le unità immobiliari
urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la
dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie”.
68[68]
Cfr., tra l’altro, la Ris. Agenzia Entrate 28 gennaio 2009, n. 23/E; la Circ. Agenzia Entrate 13 giugno 2006, n.
18/E, e la Circ. Agenzia Entrate 31 gennaio 2002, n. 11/E.
69[69]
A norma dell’art. 40 del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, “il reddito dei fabbricati di nuova costruzione
concorre a formare il reddito complessivo dalla data in cui il fabbricato è divenuto atto all'uso cui è destinato o è stato
comunque utilizzato dal possessore”.
A norma dell’art. 2, comma 1, lett. a), del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, “il fabbricato di nuova costruzione è
soggetto all'imposta a partire dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione ovvero, se antecedente, dalla data in
cui è comunque utilizzato”.
70[70]
Art. 28, comma 1, del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, come modificato dall’art. 34-quinquies del D.L. 10
gennaio 2006, n. 4, convertito in legge 9 marzo 2006, n. 80, “I fabbricati nuovi ed ogni altra stabile costruzione nuova
che debbono considerarsi immobili urbani, a norma dell’art. 4, devono essere dichiarati all’Ufficio tecnico erariale
entro trenta giorni dal momento in cui sono divenuti abitabili o servibili all’uso cui sono destinati”.
anticipare l’obbligo di accatastamento, avrebbe dovuto modificare la normativa catastale di
riferimento; non avrebbe senso invece escludere la commerciabilità dei fabbricati non ancora
ultimati e non accatastati, perché non si soddisferebbe in tal modo alcun interesse meritevole di
tutela. Si consideri, inoltre, che la novella non ha abrogato l’ultimo inciso dell’art. 2826 c.c.
(richiamato dall’art. 2659, n. 4, c.c.), nella parte in cui dispone che “per i fabbricati in corso di
costruzione devono essere indicati i dati di identificazione catastale del terreno su cui insistono”.
Questa disposizione dimostra molto chiaramente che non è necessaria la denuncia al catasto dei
fabbricati al fine di assoggettare i relativi atti a trascrizione. Vale, allora, anche qui la medesima
osservazione effettuata con riguardo alla disciplina catastale: se il legislatore avesse voluto
escludere la commerciabilità dei fabbricati non ultimati, in quanto non accatastati, avrebbe dovuto
modificare l’art. 2659, n. 4, c.c., ed il rinvio ivi contenuto all’art. 2826. La circostanza che, invece,
questa norma sia rimasta in vigore non può essere, d’altra parte, giustificata limitandone
l’applicazione ai fabbricati in corso di costruzione ma per i quali non siano ultimati rustico e
copertura: si privilegerebbero in tal modo i fabbricati nello stadio iniziale della costruzione, in
modo del tutto irragionevole.
La denuncia dei fabbricati in corso di costruzione è, nella vigente normativa, facoltativa 71[71],
e viene corredata dal solo elaborato planimetrico, senza presentazione di planimetria 72[72]. Il
presunto onere di accatastamento ai fini della commerciabilità dei fabbricati non ultimati avrebbe
allora l’unica funzione di consentirne la “identificazione catastale” nel catasto dei fabbricati; in
considerazione dello scopo fiscale del comma 1-bis in esame, non sembra peraltro che questa
finalità possa essere considerata sufficiente, al fine di escludere la commerciabilità dei fabbricati
non accatastati. D’altra parte, la prescrizione di identificazione catastale nel comma 1-bis non è fine
a se stessa: essa è utile unicamente in raffronto con le planimetrie, come meglio si dirà nel
prosieguo. Sul piano civilistico, infine, le esigenze di identificazione dei fabbricati in oggetto
possono ben essere soddisfatte mediante le indicazioni prescritte dagli artt. 2659 n. 4, 2826, ultima
parte, e 2645-bis, comma 4, c.c.
In conclusione, i fabbricati per i quali non sia ancora sorto l’obbligo di denuncia al catasto dei
fabbricati possono formare oggetto degli atti, indicati nel comma 1-bis dell’art. 29, anche se non
accatastati, e tali atti devono indubbiamente ritenersi validi.
Giunti a questo punto, occorre chiarire quale sia la disciplina applicabile nell’ipotesi in cui –
pur non avendone l’obbligo – il titolare del diritto reale abbia proceduto ad accatastare il
fabbricato esistente, ma non ancora ultimato. L’iscrizione in catasto avviene in queste ipotesi senza
attribuzione di rendita, corredata da solo elaborato planimetrico e senza presentazione di
planimetria (che sarebbe superflua, considerato lo stato del fabbricato). Nessun dubbio che – in base
alla disciplina generale del codice civile – debbano essere indicati nella nota di trascrizione i nuovi
dati di identificazione catastale nel catasto dei fabbricati; tenuto conto, però, della differente
funzione a cui detti dati assolvono nella fattispecie descritta al comma 1-bis, e stante l’assenza di
planimetrie a cui far riferimento, deve ritenersi che in questo caso l’eventuale mancanza di dati di
identificazione catastale non dia luogo a nullità dell’atto.
Per quanto riguarda la disciplina della “conformità soggettiva” (secondo periodo del comma 1bis), la circostanza che il fabbricato non sia ancora ultimato non incide sulla necessità che
l’intestazione catastale dello stesso sia corretta, e quindi che vi sia allineamento tra la stessa e le
risultanze dei registri immobiliari, in vista della sua futura ultimazione e, quindi, produttività di
reddito. E’ anche vero che è compito del notaio – già in base alle regole generali – assicurarsi della
conformità oggettiva di cui trattasi, ponendo in essere le attività necessarie. Si è già detto, tuttavia,
che la nuova disciplina trova applicazione unicamente ai fabbricati per i quali sia sorto l’obbligo di
71[71]
A norma dell’art. 3, comma 2, lett. a), del D.M. 2 gennaio 1998, n. 28, i “fabbricati o loro porzioni in corso di
costruzione o di definizione”, ai soli fini della identificazione, ai sensi dell’articolo 4, “possono formare oggetto di
iscrizione in catasto, senza attribuzione di rendita catastale, ma con descrizione dei caratteri specifici e della
destinazione d’uso”.
72[72]
Cfr. la successiva nota 76.
accatastamento, cioè quelli ultimati; sulla base del dettato normativo, deve quindi comunque
escludersi l’applicazione dell’intero comma 1-bis, compreso il secondo periodo, ai casi di
accatastamento in corso di costruzione.
2.3.2. I fabbricati urbani in corso di ristrutturazione.
Simile a quella dei fabbricati non ultimati è la situazione dei fabbricati in corso di
ristrutturazione, i quali sono espressamente dichiarati improduttivi di reddito – ai fini delle imposte
sui redditi fondiari e dell’imposta comunale sugli immobili – fino al momento dell’ultimazione dei
lavori o della relativa utilizzazione, nel periodo di validità del titolo abilitativo edilizio, sul
presupposto evidentemente del previo rilascio di quest’ultimo e dell’effettivo inizio dei lavori di
ristrutturazione 73[73]. Coerentemente, la giurisprudenza ha escluso che la precedente attribuzione di
rendita assuma rilievo ai fini tributari 74[74].
Il fabbricato in corso di ristrutturazione, in definitiva, è da equipararsi a quello in corso di
costruzione: improduttivo di reddito, e facoltativamente censibile in una categoria speciale ai soli
fini di identificazione, senza obbligo di presentazione di planimetria e senza attribuzione di rendita,
non rilevando quella preesistente, fino alla ultimazione dei lavori di ristrutturazione. Si aggiunga –
considerazione questa che appare di grande importanza – che la conformità richiesta dalla legge a
pena di nullità, è quella tra stato di fatto, dati catastali e planimetrie “sulla base delle disposizioni
vigenti in materia catastale”: ma queste ultime non richiedono alcuna conformità tra stato di fatto e
planimetrie durante il periodo della ristrutturazione, e fino a quando i lavori non sono ultimati o il
fabbricato è utilizzato: è infatti fisiologico che lo stato di fatto si evolva continuamente durante i
lavori, e proprio per questo le norme catastali impongono la presentazione della denuncia solo a
lavori ultimati.
Del resto, se è vero che il comma 1-bis dell’art. 29 si applica alle sole “unità immobiliari
urbane”, e che queste ultime sono unicamente quelle produttive di reddito (art. 5 del R.D.L. 13
aprile 1939, n. 652; art. 36, comma 2, del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917), il fabbricato in corso di
ristrutturazione ha perso tale caratteristica, e quindi – al pari di tutte le altre costruzioni non
suscettibili di produrre reddito – non è unità immobiliare urbana.
Agli effetti dell’art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52/1985, pertanto, il fabbricato in corso di
ristrutturazione deve essere equiparato al fabbricato “non ancora esistente”: con la conseguenza
che non trova applicazione né la disciplina della conformità oggettiva, né quella della conformità
soggettiva 75[75].
73[73]
A norma dell’art. 36, comma 3, del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, come modificato dall’art. 4 del d.l. n.
330/1994, non si considerano “produttive di reddito le unità immobiliari per le quali sono state rilasciate licenze,
concessioni o autorizzazioni per restauro, risanamento conservativo o ristrutturazione edilizia, limitatamente al periodo
di validità del provvedimento durante il quale l'unità immobiliare non è comunque utilizzata”. A norma dell’art. 5,
comma 6, del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, “In caso di utilizzazione edificatoria dell'area, di demolizione di
fabbricato, di interventi di recupero a norma dell'articolo 31, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge 5 agosto 1978, n.
457, la base imponibile è costituita dal valore dell'area, la quale è considerata fabbricabile anche in deroga a quanto
stabilito nell'articolo 2, senza computare il valore del fabbricato in corso d'opera, fino alla data di ultimazione dei lavori
di costruzione, ricostruzione o ristrutturazione ovvero, se antecedente, fino alla data in cui il fabbricato costruito,
ricostruito o ristrutturato è comunque utilizzato”.
74[74]
Cass. 18 dicembre 2009, n. 26685 (“in tema di imposta di registro, l'art. 52 del d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131,
laddove stabilisce un limite al potere di accertamento dell'Ufficio del Registro in ordine agli atti concernenti immobili,
richiede che l'immobile oggetto dell'atto da registrare sia dotato di rendita catastale riferibile allo stato del bene
trasferito al momento della cessione, sicché il criterio di valutazione automatica non può trovare applicazione quando, a
causa di intervenute modifiche, la situazione di fatto e giuridica risulti modificata rispetto a quella catastale, poiché in
tale evenienza è come se l'immobile fosse privo di rendita”). Cfr. anche, in precedenza, tra le altre, Cass. 16 aprile 2007,
n. 8983, in Foro it., Rep. 2007, voce Tributi locali, n. 218; Cass. 18 marzo 2002, n. 3927, in Foro it., Rep. 2002, voce
Registro (imposta), n. 93.
75[75]
Una diversa e “prudenziale” lettura della disciplina in commento – rispetto a quella proposta nel testo –
potrebbe fondarsi sul rilievo che anteriormente all’inizio dei lavori di ristrutturazione il fabbricato era produttivo di
reddito, ed era censito o censibile in catasto dei fabbricati con attribuzione di rendita; su queste basi potrebbe richiedersi
2.3.3. I fabbricati urbani improduttivi di reddito.
Esistono fabbricati che, a norma dell’art. 3, comma 2, del D.M. 2 gennaio 1998, n. 28, “possono
formare oggetto di iscrizione in catasto, senza attribuzione di rendita catastale, ma con descrizione
dei caratteri specifici e della destinazione d’uso”, e ciò ai soli fini della identificazione. Si tratta, più
precisamente, oltre che dei “fabbricati o loro porzioni in corso di costruzione o di definizione”, di
cui si è già detto, delle “costruzioni inidonee ad utilizzazioni produttive di reddito, a causa
dell’accentuato livello di degrado” (c.d. unità collabenti), dei lastrici solari, e delle aree urbane.
Relativamente a questi fabbricati, la conclusione sembra dover essere identica a quella proposta
riguardo ai fabbricati non ancora ultimati: essendo la loro iscrizione nel catasto dei fabbricati
meramente facoltativa, ed esclusivamente finalizzata all’identificazione, non può farsi discendere
dalla mancata identificazione nel catasto dei fabbricati la nullità dell’atto, la quale sarebbe
totalmente ingiustificata alla luce dello scopo fiscale della disciplina in esame, considerato che si
tratta di unità iscritte in catasto senza attribuzione di rendita, e senza presentazione di planimetria
76[76]
, il cui possesso non assume rilievo ai fini tributari. Né avrebbe senso richiedere una
determinata “classificazione” nel catasto fabbricati (ad esempio, di un rudere di fabbricato come
“unità collabente”) al solo fine di … dichiarare inapplicabile la disciplina in commento: è evidente
che è sufficiente che l’esistenza dei presupposti che, a norma dell’art. 3, comma 2, del d.m. n.
28/1998 sia dichiarata dalla parte alienante (e, preferibilmente, confermata dalla parte acquirente).
Da ciò discende l’inapplicabilità anche della disciplina della conformità soggettiva, dettata dal
secondo periodo del comma 1-bis.
A maggior ragione, sono esclusi dal perimetro applicativo della disposizione in esame i
fabbricati che – a norma dell’art. 3, comma 3, del D.M. 2 gennaio 1998, n. 28 – non costituiscono
oggetto di inventariazione, “a meno di una ordinaria autonoma suscettibilità reddituale”, e più
precisamente: a) i manufatti con superficie coperta inferiore a otto metri quadri; b) le serre adibite
alla coltivazione e protezione delle piante sul suolo naturale; c) le vasche per l’acquacoltura o di
accumulo per l’irrigazione dei terreni; d) i manufatti isolati privi di copertura; e) le tettoie, i porcili,
i pollai, i casotti, le concimaie, i pozzi e simili, di altezza utile inferiore a metri 1,80, purché di
volumetria inferiore a 150 metri cubi; f) i manufatti precari, privi di fondazione, non stabilmente
infissi al suolo. Questi immobili non devono essere, quindi, ordinariamente iscritti nel catasto dei
fabbricati, e conseguentemente non si applica loro la disciplina in esame, per la stessa ragione sopra
enunciata (irrilevanza del possesso dei suddetti fabbricati ai fini dell’applicazione dei tributi). A
meno che – come espressamente disposto dal suddetto art. 3, comma 3 – detti fabbricati abbiano
una “ordinaria autonoma suscettibilità reddituale”: la sussistenza di questo requisito non può che
il riferimento alla planimetria anteriore alla ristrutturazione, e la dichiarazione di conformità al corrispondente stato di
fatto. A ben riflettere, però, a parte l’incongruenza di un riferimento ad uno stato di fatto antecedente, diverso quindi da
quello esistente al momento in cui l’atto è stipulato, che non trova nella legge alcun fondamento normativo, un
problema irresolubile sorgerebbe nell’ipotesi in cui, prima dell’inizio dei lavori di ristrutturazione, non esisteva
conformità tra planimetria, dati catastali e stato di fatto. In questo caso non sarebbe possibile soddisfare lo scopo di
realizzare la “conformità” oggettiva, se non presentando una nuova planimetria, la quale però per definizione non
potrebbe essere conforme allo stato attuale (essendo i lavori in corso); né la vigente normativa catastale consente di
presentare una planimetria aggiornata facendo riferimento ad uno stato di consistenza anteriore. Per converso, non può
neanche ritenersi necessaria una variazione dell’unità immobiliare urbana mediante classamento provvisorio in una
categoria speciale (F/3 o F/4): si è già detto, a proposito dei fabbricati in corso di costruzione, che tale tipo di
accatastamento è sempre facoltativo, non dà luogo a presentazione di planimetria né ad attribuzione di rendita: fermo
restando che la necessità o l’opportunità di identificazione può condurre a denunziare la variazione in catasto, ciò non
vale certo ai fini della validità dell’atto. Non rimane, in conclusione, che ritenere totalmente inapplicabile il d.l. 78/2010
ai fabbricati in corso di ristrutturazione.
76[76]
Come chiarito dalla Circ. Agenzia Territorio 26 novembre 2001, n. 9/T, § 7, le unità ascrivibili alle cosiddette
categorie fittizie, ossia F1 (area urbana), F2 (unità collabenti), F3 (unità in corso di costruzione), F4 (unità in corso di
definizione) ed F5 (lastrico solare), a cui non è associabile una rendita catastale, “devono essere individuate
esclusivamente nell’elaborato planimetrico, con esclusione della presentazione di singole planimetrie”.
essere dichiarata dalla parte alienante, la quale deve a tal uopo effettuarne o farne effettuare una
valutazione tecnica, preferibilmente da parte di un esperto di sua fiducia.
Sono infine esclusi tout court dall’obbligo di iscrizione, e pertanto dall’àmbito di applicazione
del comma 1-bis in esame, i fabbricati indicati nella disposizione – da considerarsi ancora attuale –
dettata dall’art. 6, comma 3, del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, e cioè i fabbricati costituenti le
fortificazioni e loro dipendenze, i fabbricati destinati all’esercizio dei culti, i cimiteri con le loro
dipendenze, i fabbricati di proprietà della Santa Sede 77[77].
Ovviamente, l’inapplicabilità dell’art. 29, comma 1-bis, presuppone che il fabbricato sia
intrinsecamente inidoneo a produrre reddito, come appunto avviene nelle fattispecie appena
richiamate; la suddetta disciplina si applica invece normalmente allorché l’improduttività di reddito
dipenda da ragioni estrinseche, legate ad una particolare soggettiva destinazione dell’immobile. E’
questo, ad esempio, il caso degli “immobili relativi ad imprese commerciali e quelli che
costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni”, i quali, a norma dell’art. 43,
comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, “non si considerano produttivi di reddito
fondiario”, pur costituendo oggetto dell’imposta comunale sugli immobili.
2.3.4. Le unità immobiliari urbane di proprietà condominiale e in uso esclusivo.
Problemi particolari nascono con riferimento alle unità immobiliari comuni condominiali, quali
indicate nell’art. 1117 c.c. E’ noto che tali beni, proprio in considerazione della loro destinazione ed
inerenza al condominio ed all’uso comune, seguono, per la corrispondente quota millesimale
spettante a ciascun condomino, la sorte dell’unità immobiliare a quest’ultimo spettante, e quindi si
trasferiscono necessariamente unitamente ad essa, ancorché non costituiscano espressamente
oggetto dell’atto 78[78]. Ciò, evidentemente, fino a quando i beni comuni mantengono la destinazione
a servizio del condominio: in caso contrario è possibile la sottrazione al regime dei beni comuni
condominiali, e la disposizione autonoma 79[79]. Si è posto, pertanto, il problema della
ricomprensione o meno dei suddetti beni comuni nel regime dettato dall’art. 29, comma 1-bis, in
esame, e si è sostenuto che il regime di inerenza necessaria sopra descritto – il quale fa sì che i
suddetti beni si trasferiscano automaticamente all’acquirente delle singole unità, e non possano
essere convenzionalmente esclusi dal trasferimento – escluderebbe in ogni caso l’applicabilità della
disciplina in commento 80[80]. Ciò, è evidente, vale senza alcun dubbio per le porzioni del fabbricato
che siano censibili e censite nel catasto dei fabbricati come beni comuni non censibili, sprovvisti
cioè di autonoma potenzialità reddituale.
Riguardo, invece, alle porzioni di fabbricato di proprietà comune dei condomini, e suscettibili di
reddito proprio, le cose stanno in termini parzialmente diversi: non esiste infatti – né nella
normativa catastale né in quella tributaria – alcuna espressa disposizione di esenzione che le
riguardi, e che le renda irrilevanti ai fini della disciplina in esame. Esiste, al contrario, una specifica
disposizione tributaria che dimostra la potenziale suscettibilità reddituale di alcune categorie di beni
comuni: a norma l’art. 36, comma 3-bis, del d.p.r. n. 917/1986, come modificato dall’art. 4 del d.l.
n. 330/1994, “il reddito imputabile a ciascun condomino derivante dagli immobili di cui all'articolo
1117, n. 2, del codice civile oggetto di proprietà comune, cui è attribuita o attribuibile un'autonoma
rendita catastale, non concorre a formare il reddito del contribuente se d'importo non superiore a
lire 50 mila”. Si tratta – ai sensi del combinato disposto delle due norme succitate, dei “locali per la
portineria e l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli
stenditoi e per altri simili servizi in comune”, quando la quota millesimale della relativa rendita
77[77]
78[78]
Cfr. anche le esenzioni previste dall’art. 7 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504.
Cass. 29 maggio 1995, n. 216, in Vita not., 1996, p. 215; Cass. 10 gennaio 1990, n. 9, in Vita not., 1990, p.
107.
79[79]
Cfr. gli artt. 61 e 62 disp. att. c.c.
In questo senso Consiglio Nazionale del Notariato, La circolazione immobiliare a seguito del d.l. 31 maggio
2010, n. 78 (c.d. manovra economica). Prime note, in CNN Notizie del 28 giugno 2010.
80[80]
catastale, costituente il reddito imputabile al singolo condomino, sia superiore ad euro 25,82 81[81].
Nei suddetti casi, il condomino – obbligato a dichiarare il relativo reddito – ha, innanzitutto, diritto
ad ottenere dall’amministratore la documentazione relativa ai beni comuni, avendovi specifico
interesse 82[82]; egli ha poi, evidentemente, la possibilità di accedere agli uffici dell’Agenzia del
territorio per verificare i dati catastali e chiedere copia della planimetria; ha, eventualmente, la
facoltà e l’obbligo di presentare una nuova planimetria, in caso di intervenute mutazioni nello stato
di fatto.
Ricorre quindi - limitatamente alle suddette unità immobiliari comuni produttive di reddito –
l’interesse alla verifica della conformità oggettiva (rilevante ai fini della determinazione delle
imposte dovute dal condomino), e della conformità soggettiva (ai fini dell’individuazione del
suddetto condomino quale soggetto passivo dei corrispondenti tributi). Deve, in conclusione,
ritenersi che le disposizioni in esame trovino applicazione alle sole porzioni comuni del fabbricato
che rientrano nell’elencazione dell’art. 1117, n. 2, c.c., e nel solo caso in cui ricorrano le condizioni
previste dall’art. 36, comma 3-bis, del d.p.r. n. 917/1986.
2.3.5. Le aree di pertinenza dei fabbricati urbani.
Va a questo punto verificata la rilevanza o meno, ai fini del comma 1-bis dell’art. 29, delle aree
pertinenziali al fabbricato, di proprietà esclusiva ovvero condominiale. Si è già visto che le aree
urbane, in quanto non abbiano destinazione a pertinenza di una unità immobiliare urbana, sono
soggette ad iscrizione nel catasto fabbricati a soli fini di identificazione, senza obbligo di
presentazione di planimetria né attribuzione di rendita (art. 3, comma 2, del d.m. n. 28/1998). Le
aree urbane non pertinenziali sono, pertanto, escluse dalla disciplina in esame.
Diverso è il discorso per le aree di pertinenza. A norma dell’art. 6, comma 2, del R.D.L. 13
aprile 1939, n. 652, la dichiarazione al catasto urbano “va estesa alle aree e ai suoli che formano
parte integrante di una o più unità immobiliari, o concorrono a determinarne l'uso e la rendita”.
L’art. 56, lett. f), del D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142 dispone l’obbligo di indicare nella denunzia
di accatastamento le “aree, scoperte od altre dipendenze annesse all'uso dell'unità immobiliare
precisando se esse sono comuni ad altre unità immobiliari”. L’art. 8, comma 7, lett. f), del D.P.R. 23
marzo 1998, n. 138, nel determinare i criteri di classamento delle unità immobiliari urbane, e quindi
gli elementi rilevanti per stabilire categoria e classe delle stesse, ricomprende tra questi le
“pertinenze comuni ed esclusive”; nel successivo allegato “C” detta poi criteri al fine di determinare
in quale misura debba essere computata la superficie delle aree scoperte di pertinenza esclusiva (ivi
compresi parchi, giardini, corti e simili), ai fini della determinazione della superficie convenzionale
dell’unità immobiliare urbana.
Alle suddette aree pertinenziali attribuisce rilievo anche la normativa tributaria: a norma
dell’art. 36, comma 2, del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, “le aree occupate dalle costruzioni e
quelle che ne costituiscono pertinenze si considerano parti integranti delle unità immobiliari”; ai
sensi dell’art. 2, comma 1, del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si considera “parte integrante del
fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza”.
Corrispondentemente, dette aree cessano di essere allibrate al catasto terreni, a seguito della
denuncia di cambiamento che deve essere preliminarmente presentata a quest’ultimo 83[83].
81[81]
Ad esempio, in presenza di un alloggio del portiere avente rendita catastale di euro 400,00, se al condomino
alienante compete una quota pari a 35 millesimi dei beni comuni, il reddito a lui imputabile è pari ad euro 14,00, con la
conseguenza che esso non concorre a formare il di lui reddito complessivo, e non assume di conseguenza rilevanza
neanche ai fini in esame.
82[82]
Cass. 5 aprile 1984, n. 2220, in Giust. civ., 1985, I, p. 1189.
83[83]
A norma dell’art. 8 della legge 1 ottobre 1969, n. 679, i possessori di particelle censite nel catasto terreni sulle
quali vengono edificati nuovi fabbricati ed ogni altra stabile costruzione nuova, da considerarsi immobili urbani, hanno
l'obbligo di denunciare all'Ufficio tecnico erariale il cambiamento verificatosi nello stato del terreno per effetto della
avvenuta edificazione, nel termine di sei mesi dalla data di riconosciuta abitabilità o agibilità dei locali. Alla denuncia
deve essere allegato un tipo mappale, riportante la rappresentazione grafica della avvenuta variazione, indicandovi
Agli effetti dell’art. 29, comma 1-bis, della legge n. 52/1985, è quindi necessario distinguere
diverse possibili situazioni:
a) – aree urbane non pertinenziali: le stesse non assumono rilevanza ai fini in oggetto;
ovviamente, non essendo le stesse pertinenza di edifici censiti nel catasto fabbricati, la relativa
alienazione richiede a pena di nullità l’allegazione del certificato di destinazione urbanistica, a
norma dell’art. 30 del d.p.r. n. 380/2001; ai fini fiscali, il relativo trasferimento non può usufruire
della tassazione “su base catastale” (c.d. prezzo-valore, ex art. 1, comma 497, della legge 23
dicembre 2005, n. 266) 84[84], né dell’agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa, limitata
alle sole aree pertinenziali “graffate” al fabbricato 85[85], e quindi inserite nella relativa planimetria;
b) – aree urbane di pertinenza esclusiva dell’unità immobiliare urbana: esse devono essere
necessariamente incluse nella relativa planimetria, in base alla vigente normativa catastale: in
mancanza, non sussiste la conformità oggettiva – in base alla vigente normativa catastale – tra stato
di fatto, planimetria e dati catastali;
c) – aree di pertinenza comune (condominiali), le quali devono essere inserite nell’elaborato
planimetrico dell’intero edificio. Si è già detto che le stesse incidono sul classamento e quindi sul
calcolo della rendita: ciò nonostante, la circostanza che esse non debbano essere inserite nella
planimetria – con la quale soltanto il comma 1-bis impone il riscontro – rende il relativo status
indifferente ai fini della conformità oggettiva di cui trattasi 86[86]. Il che comporta l’irrilevanza, ai
fini de quibus, dell’inserimento o meno del cortile condominiale nell’elaborato planimetrico del
fabbricato.
2.3.6. I posti auto scoperti.
Una particolare categoria di unità immobiliari urbane è quella dei posti auto scoperti, i quali
devono essere censiti nel catasto dei fabbricati con attribuzione di rendita (nell’allegato “B” al d.p.r.
n. 138/1998 sono espressamente inclusi i “posti auto scoperti su aree private”) e si differenziano
quindi nettamente dalle aree urbane, improduttive invece di reddito proprio. Occorre, sul punto,
distinguere due situazioni differenti.
Per quanto riguarda i posti auto in proprietà esclusiva di determinati soggetti, essi rientrano
certamente nella disciplina del comma 1-bis dell’art. 29, nella misura in cui possano essere definiti
come “fabbricati”, e siano quindi realizzati mediante opere che comportino trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio. Si tratta dell’ipotesi maggiormente ricorrente, anche se non è
da escludere l’eventualità di posti auto ricavati su un’area scoperta senza compimento di alcuna
opera edilizia: caso, quest’ultimo, nel quale mancherebbe un “fabbricato”, e dovrebbe ritenersi
inapplicabile la disciplina in esame.
Vi è poi il caso dei posti auto realizzati nel cortile condominiale, di proprietà comune dei
condomini. Il cortile condominiale, ricompreso tra i beni comuni a norma dell’art. 1117, n. 1, c.c.,
non rientra tra i beni comuni produttivi di reddito in capo ai singoli condomini (indicati al n. 2
dell’art. 1117, richiamato dall’art. 36, comma 3-bis, del d.p.r. n. 917/1986): neanche ai fini catastali
è prevista l’autonoma denuncia di tali cortili nel catasto dei fabbricati, tanto più che la destinazione
anche le relative attinenze coperte e scoperte. Da rilevare che tale denuncia di cambiamento al catasto terreni
costituisce il logico pendant della denuncia al catasto dei fabbricati, con inclusione dell’area urbana pertinenziale nella
planimetria (trattandosi di pertinenza esclusiva) o nell’elaborato planimetrico (trattandosi di pertinenza comune): cfr.
sul punto la Circ. Min. Fin. 20 gennaio 1984, n. 2. Conseguentemente, il semplice allibramento alla partita 1 (aree di
enti urbani) nel catasto terreni non è sufficiente al fine di conseguire la conformità oggettiva di cui all’oggetto, essendo
necessario l’inserimento nella planimetria depositata nel catasto fabbricati.
84[84]
Ris. Agenzia Entrate 11 aprile 2008, n. 149/E.
85[85]
Circ. Agenzia Entrate 12 agosto 2005, n. 38/E; Ris. Agenzia Entrate 16 febbraio 2006, n. 32/E.
86[86]
La conclusione raggiunta nel testo vale anche per le aree comuni a più unità immobiliari urbane, nell’ipotesi in
cui tutte le suddette unità appartengano ad un unico proprietario: pur non essendo giuridicamente “comune”, l’area è
tuttavia legittimamente inserita nell’elaborato planimetrico anziché nelle planimetrie delle singole unità, e non rileva
pertanto ai fini delle prescrizioni dettate dal comma 1-bis dell’art. 29.
a posti auto non è in generale esclusiva di altri utilizzi, secondo il regime proprio del condominio
87[87]
. Deve quindi ritenersi, a contrario, che l’irrilevanza tributaria e fiscale del cortile
condominiale determini l’inapplicabilità, agli atti che lo riguardano, della disciplina in commento.
E’ poi possibile che i posti auto condominiali siano assegnati in uso esclusivo a singoli
condomini. Le pattuizioni di uso esclusivo sono, come è noto, di controversa qualificazione: si
tratta, tendenzialmente, di deroghe – deliberate dall’assemblea del condominio o pattuite tra i
condomini – alle previsioni degli artt. 1102 e 1104 c.c., in forza delle quali ciascun condomino
assegnatario usufruisce in via esclusiva di una porzione del bene comune, e ne sopporta le spese
88[88]
. Dette pattuizioni di uso esclusivo non danno quindi luogo al sorgere di un diritto reale a
favore del condomino (essendo, tra l’altro, nella disponibilità dell’assemblea del condominio la
relativa permanenza o cessazione). Si tratta comunque di quaestio facti, da risolversi mediante
interpretazione del titolo che attribuisca l’uso esclusivo, essendo anche possibile riscontrare nei casi
concreti l’attribuzione di un diritto reale (in particolare, di servitù, o di uso a norma dell’art. 1021
c.c.) 89[89]. In questi ultimi casi, la costituzione del diritto reale comporta applicazione del comma 1bis in commento (non sarebbe invece configurabile un trasferimento dei suddetti diritti, stante
l’incedibilità degli stessi). Nelle fattispecie “normali”, di pattuizioni di uso esclusivo in deroga agli
artt. 1102 e 1104 c.c., la disciplina del comma 1-bis dell’art. 29 è invece inapplicabile.
2.3.7. I fabbricati rurali.
Delicati problemi si pongono per i fabbricati rurali, intendendosi per tali quelli in possesso dei
requisiti di ruralità previsti dalla vigente normativa. I fabbricati già rurali, ma non più in possesso
dei requisiti di ruralità, sono infatti “unità immobiliari urbane” a tutti gli effetti di legge, per le
quali sussiste l’obbligo di denuncia al catasto dei fabbricati. Ne consegue la piena applicazione ad
esse della disciplina del comma 1-bis: a decorrere dal 1° luglio 2010, i fabbricati già rurali che non
siano accatastati sono pertanto incommerciabili.
Quanto ai fabbricati in possesso dei requisiti di ruralità, gli stessi sono – come tutte le unità
immobiliari, urbane o meno – soggetti all’obbligo di iscrizione nel catasto dei fabbricati 90[90]. Il
comma 1-bis, come già visto, esordisce nel primo periodo menzionando tutti i “fabbricati già
esistenti”, ma limita poi la disciplina relativa alla “conformità oggettiva” alle sole “unità
immobiliari urbane”; il secondo periodo del comma 1-bis rinvia invece genericamente ai “predetti
atti”, riferendosi pertanto a tutti i “fabbricati già esistenti”. In tal modo si viene a creare un diverso
àmbito di applicazione delle due discipline, essendo invece l’esigenza di “conformità soggettiva” –
giusta il suddetto rinvio contenuto nel secondo periodo del comma 1-bis – riferibile sia alle unità
immobiliari urbane che ai fabbricati rurali in possesso dei requisiti di ruralità.
La conclusione raggiunta in termini di inapplicabilità dei riscontri di “conformità oggettiva” ai
fabbricati aventi i requisiti di ruralità merita, peraltro, un approfondimento. Le norme catastali in
vigore definiscono il concetto di “fabbricato urbano”, e quello corrispondente di “unità
87[87]
Cfr. sul punto Cass. 16 giugno 2005, n. 12873, in Arch. locazioni, 2005, p. 648.
Cfr. BARALIS-CACCAVALE, Diritti di "uso esclusivo" nell'ambito condominiale, in Studi e materiali, 2003,
2, p. 489. Cfr. anche, sulla complessa problematica, MARMOCCHI, L'uso delle parti comuni: dal pari uso all'uso
esclusivo, in Riv. not., 2008, p. 91; PUGLIESE, Utilizzo di cose comuni e poteri dell'assemblea condominiale (nota a
Cass. 17 luglio 2006 n. 16228), in Giust. civ., 2007, I, p. 2475; Cass. 17 luglio 2006, n. 16228, in Giust. civ., 2007, I, p.
2473; Cass. 7 dicembre 2006, n. 26226, in Giur. it., 2007, p. 1918; Cass. 29 dicembre 2004, n. 24146, in Vita not.,
2005, p. 255; Cass. 17 maggio 1997, n. 4394, in Vita not., 1997, p. 1451.
89[89]
Cfr. sul punto ALCARO, Appunti in tema di servitù di "uso esclusivo", in Studi e materiali, 2009, 3, p. 1027.
90[90]
A norma dell’art. 9, comma 1, del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito in legge 26 febbraio 1994, n.
133, “Al fine di realizzare un inventario completo ed uniforme del patrimonio edilizio, il Ministero delle finanze
provvede al censimento di tutti i fabbricati o porzioni di fabbricati rurali e alla loro iscrizione, mantenendo tale
qualificazione, nel catasto edilizio urbano, che assumerà la denominazione di «catasto dei fabbricati”. V. anche il D.M.
2 gennaio 1998, n. 28 (regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati), ed il D.P.R. 23
marzo 1998, n. 139 (Regolamento recante norme per la revisione dei criteri di accatastamento dei fabbricati rurali, a
norma dell’art. 3, comma 156, della legge 23 dicembre 1996, n. 662); nonché la Ris. Min. Fin. 31 maggio 1999, n. 87/T.
88[88]
immobiliare urbana” 91[91], in contrapposizione alla diversa nozione di “fabbricato rurale” 92[92];
mentre – quando trattano di entrambe le categorie di fabbricati, utilizzano l’espressione generica di
“unità immobiliare” 93[93]. Sul piano strettamente normativo, quindi, non sembra dubbia la
correttezza della superiore interpretazione, e la ricomprensione nel solo àmbito applicativo del
secondo periodo del comma 1-bis dei fabbricati rurali censiti nel catasto fabbricati: la legge
circoscrive inequivocabilmente il riscontro di conformità oggettiva richiesto dal primo periodo del
comma 1-bis alle sole “unità immobiliari urbane” (mentre, quando ha voluto riferirsi a tutte le
“unità immobiliari” ha utilizzato quest’ultima espressione). Occorre, tuttavia, considerare l’estrema
complessità dell’accertamento dei requisiti di ruralità dei fabbricati 94[94], la quale non è oggetto di
alcuna certificazione da parte degli uffici dell’amministrazione finanziaria 95[95]. I fabbricati rurali,
come le unità immobiliari urbane, sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita: semplicemente,
quest’ultima non è oggetto di tassazione in presenza dei requisiti di ruralità (art. 42 del D.P.R. 22
dicembre 1986, n . 917) 96[96]. Si consideri, inoltre, che tra i requisiti richiesti ai fini della ruralità vi
sono anche quelli soggettivi (qualifica di imprenditore agricolo iscritto nel registro delle imprese):
nell’ipotesi in cui il trasferimento del diritto reale abbia luogo da un imprenditore agricolo ad un
soggetto privo di tale qualifica soggettiva, deve probabilmente ritenersi che venga meno
istantaneamente la qualità di fabbricato rurale, con le conseguenze del caso (compresa
l’applicabilità del primo periodo del comma 1-bis in esame, e quindi la nullità dell’atto, in caso di
inottemperanza alle relative prescrizioni). Tutte queste ragioni – ferma l’esclusiva applicabilità del
primo periodo del comma 1-bis alle sole unità immobiliari urbane – consigliano pertanto un
atteggiamento di massima prudenza nell’applicazione della disciplina in esame ai fabbricati rurali.
La prudenza riguarda anche, ed anzi soprattutto, i fabbricati rurali non iscritti nel catasto dei
fabbricati. In assenza, infatti, dei requisiti di ruralità, il mancato accatastamento di quella che
sarebbe a tutti gli effetti un’unità immobiliare urbana ne determinerebbe l’incommerciabilità.
Tuttavia, nel caso in cui vi sia certezza dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ruralità, in capo sia
all’alienante che all’acquirente, il fabbricato rurale può formare oggetto di trasferimento anche se
91[91]
Cfr. supra, la nota segnalibro.
A norma dell’art. 4, comma 1, del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, “Si considerano come immobili urbani i
fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costituite, diversi dai fabbricati rurali”.
93[93]
L’art. 1 del D.M. 2 gennaio 1998, n. 28 (“Regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei
fabbricati”), premesso che “il catasto dei fabbricati rappresenta l’inventario del patrimonio edilizio nazionale”, dispone
che “il minimo modulo inventariale è l’unità immobiliare”; l’art. 2, al comma 1, precisa che “l’unità immobiliare è
costituita da una porzione di fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da un’area, che, nello
stato in cui si trova e secondo l’uso locale, presenta potenzialità di autonomia funzionale e reddituale”, e al comma 2
dispone l’iscrizione nel catasto fabbricati anche delle costruzioni rurali (“L’abitazione e gli altri immobili strumentali
all’esercizio dell’attività agricola costituiscono unità immobiliari da denunciare in catasto autonomamente”).
94[94]
Cfr. sul punto l’art. 9, commi 3, 3-bis, 3-ter, 4 e 5, del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito in legge 26
febbraio 1994, n. 133, quale risultante dalle successive modificazioni intervenute. Sui requisiti di ruralità, v. anche il
Provvedimento del direttore dell’Agenzia del territorio in data 9 febbraio 2007 (pubblicato nella G.U. n. 42 del 20
febbraio 2007); nonché la Circ. Agenzia Territorio 15 giugno 2007, n. 7/T, e la Ris. Agenzia Entrate 23 maggio 2007, n.
111/E.
95[95]
In tal senso la Ris. Agenzia Entrate 23 maggio 2007, n. 111/E, che afferma l’insussistenza di “alcun obbligo in
capo agli uffici dell’Agenzia delle Entrate di rilasciare certificazioni che attestino la ruralità di un fabbricato. Sarà cura
del soggetto che chiede l’accatastamento o la variazione di accatastamento, valutare la ricorrenza di tutte le condizioni
previste dalla norma al fine di qualificare rurale il proprio fabbricato e, in caso positivo, applicare le norme che ne
disciplinano il regime fiscale”.
96[96]
In tal senso, v. espressamente la Circ. Agenzia Territorio 15 giugno 2007, n. 7/T, § 6, ove si evidenzia la
“piena autonomia tra il profilo catastale (costituzione dell’inventario completo) e quello fiscale (imposizione o
esenzione sulla base delle redditività oggettive, comunque riportate in catasto)”.
Va, comunque, considerata anche la previsione dell’art. 23, comma 1-bis, del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207,
convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14, a norma del quale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1, comma 2, della legge
27 luglio 2000, n. 212, l’articolo 2, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, deve intendersi
nel senso che non si considerano fabbricati le unità immobiliari, anche iscritte o iscrivibili nel catasto fabbricati, per le
quali ricorrono i requisiti di ruralità di cui all’articolo 9 del decreto-legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, e successive modificazioni”.
92[92]
non accatastato. In questa ipotesi, le risultanze del catasto terreni (ivi compresa l’intestazione)
devono ritenersi invece irrilevanti agli effetti della “conformità soggettiva”, richiesta dalla norma in
esame: si è già visto, infatti, che dal complesso della disciplina si ricava l’esclusiva attenzione del
legislatore al catasto dei fabbricati, l’unico avente rilievo ai fini della tassazione dei fabbricati. In
sintesi, i fabbricati rurali, effettivamente in possesso dei requisiti di ruralità e non censiti nel
catasto fabbricati, sono da ritenersi commerciabili, e ad essi non si applica in alcun modo la
disciplina del comma 1-bis in esame.
Nessun dubbio, comunque, sull’applicabilità della disciplina della “conformità soggettiva” a
tutti i fabbricati rurali censiti nel catasto fabbricati, oltre che alle unità immobiliari urbane: ciò
discende dalla lettera della legge, oltre che dalla considerazione che il possibile futuro mutamento
di destinazione dei fabbricati rurali rende potenzialmente rilevante ai fini tributari la correttezza
dell’intestazione catastale.
3. Le prescrizioni normative riguardo alla “conformità oggettiva”.
3.1 L’identificazione catastale dei fabbricati ed il riferimento alle planimetrie depositate in
catasto.
Il primo periodo del comma 1-bis dell’art. 29 – riguardante le unità immobiliari urbane ultimate
– può essere, a sua volta, suddiviso in due distinte prescrizioni: la prima richiede “oltre
all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto”, la seconda
impone invece “la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei
dati catastali e delle planimetrie”, consentendo poi di sostituire quest’ultima dichiarazione con una
“attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato”.
Iniziando dalla prima delle suddette disposizioni, va innanzitutto chiarito che, ai sensi dell’art. 4
del D.M. 2 gennaio 1998, n. 28, “a ciascuna unità immobiliare e comunque ad ogni bene immobile,
quando ne occorra l’univoca individuazione, è attribuito un identificativo catastale”; l’art. 1, comma
6, e l’art. 2, comma 3, del D.M. 19 aprile 1994, n. 701, chiariscono d’altra parte che i “parametri di
identificazione definitivi” sono rappresentati da “sezione, foglio, numero di mappale e di eventuale
subalterno”. Questi sono, pertanto, i “dati di identificazione catastale” a cui fa riferimento – oltre al
comma 1-bis in esame – l’art. 2826 c.c. (a sua volta richiamato dall’art. 2659, n. 4, e dall’art. 2839,
n. 7, c.c.).
L’espressione “oltre all’identificazione catastale” sembrerebbe far intendere che non si tratti di
una nuova prescrizione di contenuto, e probabilmente trova la sua ragion d’essere nell’esistenza di
una disposizione (l’art. 2826 c.c.) che già richiedeva tale indicazione. Il codice civile, peraltro,
richiedeva detta indicazione nel solo atto di concessione di ipoteca, mentre per effetto della nuova
disciplina anche i titoli soggetti a trascrizione – nella misura in cui abbiano l’oggetto indicato nel
comma 1-bis dell’art. 29 – devono riportare i dati di identificazione catastale; soprattutto, in questi
ultimi titoli i dati di identificazione catastale sono ora richiesti a pena di nullità.
Quanto al “riferimento alle planimetrie depositate in catasto”, si tratta delle planimetrie la cui
presentazione è obbligatoria a norma della vigente normativa catastale (art. 7 del R.D.L. 13 aprile
1939, n. 652, e successive modificazioni e integrazioni). La planimetria è essenziale ai fini della
individuazione della esatta consistenza dell’unità immobiliare urbana, e conseguentemente del
calcolo della rendita catastale. Vi erano bensì delle ipotesi – a suo tempo contemplate dall’art. 58
del d.p.r. 1 dicembre 1949, n. 1142 – di esenzione dall’obbligo di presentazione della planimetria
per limiti di reddito del possessore: pur non potendosi aderire all’affermazione secondo cui detta
esenzione sarebbe “superata” dalla nuova disciplina (per il motivo che “il riferimento alla
planimetria catastale fa parte del contenuto necessario dell’atto”) 97[97], la difficoltà di accertare oggi
l’esistenza di una causa di esenzione dal relativo obbligo impone di fatto – in considerazione della
97[97]
Circ. Agenzia Territorio 9 luglio 2010, n. 2/T.
gravità della sanzione di nullità – la presentazione della planimetria per tutte le unità immobiliari
urbane per cui sia attualmente previsto il relativo obbligo, anche quando detta planimetria non sia
reperibile o non sia stata a suo tempo presentata.
La legge richiede, come risulta chiaramente dalla sua lettera, il raffronto tra l’identificazione
catastale e la planimetria depositata in catasto: in tal senso deve intendersi l’espressione
“riferimento alle planimetrie depositate in catasto”, che ha la funzione di rendere evidente il
collegamento tra il dato catastale e quella determinata planimetria. Detto in altri termini, il
“riferimento” richiesto dalla legge consiste nella dichiarazione che la particella catastale, ed il
relativo subalterno, identificano l’unità immobiliare raffigurata da quella determinata planimetria
depositata in catasto. Si tratta però di capire come tecnicamente debba essere effettuato il
riferimento richiesto dalla legge, e come debba essere, quindi, “identificata” la planimetria. E’,
ovviamente, mezzo idoneo a tal fine l’allegazione della planimetria all’atto, che costituisce tra
l’altro il miglior modo per indagare la volontà delle parti (art. 47 l. not.), verificando lo specifico
intento di concludere un contratto relativo a quella determinata unità immobiliare; non a caso il
codice deontologico notarile prescrive, come regola, l’allegazione delle planimetrie agli atti 98[98].
Altrettanto idonea appare la modalità consistente nella indicazione degli estremi della planimetria
(coincidenti con data e numero di protocollo della denuncia di nuova costruzione, o di variazione, a
corredo della quale la planimetria è stata presentata) 99[99]. La legge, tuttavia, non richiede
espressamente l’indicazione di tali estremi (a differenza di altre disposizioni normative che
espressamente richiedono gli “estremi” di determinati documenti, come, ad esempio, l’art. 46,
commi 1 e 4, del d.p.r. n. 380/2001; ovvero l’art. 6, comma 1, lett. c), g) ed i) del d. lgs. 20 giugno
2005, n. 122). Pertanto, anche altre modalità di “riferimento” possono essere impiegate, purché in
concreto idonee ad identificare senza margini di dubbio la planimetria di cui trattasi (si pensi, per
esemplificare, alla citazione di un precedente atto notarile, al quale la planimetria è stata allegata).
E’ invece da escludersi che possa considerarsi idoneo un semplice riferimento alla “planimetria
depositata in catasto”, senza ulteriori indicazioni: in questi termini, la previsione normativa del
“riferimento” sarebbe infatti superflua, venendo a confondersi con la dichiarazione di conformità
allo stato di fatto.
La legge non indica espressamente l’autore del “riferimento” di cui trattasi: dal confronto con
la seconda parte della disposizione – che a proposito della conformità con lo stato di fatto richiede
espressamente la dichiarazione degli intestatari – si è desunto, a contrario, che autore della
dichiarazione in esame debba essere il notaio 100[100]. Una tale conclusione è però destituita di
qualsiasi fondamento. Innanzitutto, nel caso di scrittura privata autenticata, il notaio interviene al
solo fine di autenticare le sottoscrizioni delle parti, previo espletamento dei prescritti controlli di
identità, capacità, legittimazione e legalità, mentre autori (in senso giuridico) della scrittura privata
rimangono soltanto ed esclusivamente le parti (e ciò anche quando il notaio sia stato autore
materiale del documento, essendo stato incaricato dalle parti di confezionarlo). Nel caso invece
dell’atto pubblico – il quale documenta, oltre ad eventuali dichiarazioni del notaio, le dichiarazioni
delle parti dell’atto – la lettera del comma 1-bis è talmente ampia da consentire che la dichiarazione
in esame possa provenire, indifferentemente, dal notaio o dalle parti. Va però considerata la
circostanza decisiva per cui – come sarà meglio chiarito nel prosieguo (cfr. il § 3.4) – il notaio
potrebbe non essere in condizione di verificare direttamente le planimetrie (la legge ne consente la
visione unicamente al titolare del diritto reale). In conclusione, deve ritenersi che normalmente la
dichiarazione di corrispondenza tra identificazione catastale e planimetria debba essere effettuata
98[98]
Art. 50, lett. c), dei “Princìpi di deontologia professionale dei notai”, approvati con delibera del Consiglio
nazionale del Notariato del 5 aprile 2008, n. 2/56 (pubblicata nella G.U. n. 177 del 30 luglio 2008).
99[99]
Occorre, peraltro, valutare il fatto che numero e data di registrazione della denuncia di variazione, o di nuova
costruzione, molto spesso non identificano una sola planimetria, ma un certo numero di planimetrie, corrispondenti a
diverse unità immobiliari urbane; in questi casi, il mero riferimento a tali estremi non consente quindi di identificare
compiutamente la singola planimetria che interessa.
100[100]
In questo senso Consiglio Nazionale del Notariato, La circolazione immobiliare a seguito del d.l. 31 maggio
2010, n. 78 (c.d. manovra economica). Prime note, in CNN Notizie del 28 giugno 2010.
dalle parti; nell’atto pubblico, è possibile, ma non necessario, che la stessa dichiarazione provenga,
o sia confermata, dal notaio che abbia avuto modo di eseguire personalmente il raffronto richiesto
dalla legge.
Altro, e diverso discorso è se il notaio sia tenuto a verificare la correttezza della dichiarazione
resa dalle parti, e quali siano le conseguenze dell’eventuale dichiarazione non veritiera: profili,
questi, che verranno esaminati nel prosieguo della trattazione.
3.2. La conformità delle planimetrie e dei dati catastali con lo stato di fatto.
Il secondo requisito richiesto – a pena di nullità – dal comma 1-bis dell’art. 29, è “la
dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e
delle planimetrie”, sostituibile come già detto con una attestazione di conformità redatta da un
tecnico abilitato. A differenza della prima dichiarazione di corrispondenza (quella tra dati catastali e
planimetria), la quale – consistendo in un raffronto tra dati risultanti dal catasto – potrebbe almeno
in alcuni casi essere resa dal notaio, quella qui all’esame richiede la precisa conoscenza dello stato
di fatto; proprio per questo la legge richiede che la stessa sia resa dalle parti.
In sostanza, le parti devono raffrontare la reale situazione dell’unità immobiliare urbana sia con
la planimetria che con i dati catastali: con riferimento a questi ultimi, la legge adopera, non a caso,
un’espressione più ampia di quella utilizzata nella prima parte della disposizione (“identificazione
catastale”). Nel più esteso concetto di “dato catastale” devono ritenersi ricompresi anche i “dati non
identificativi”, nella misura in cui ad essi possa essere riconosciuta rilevanza ai fini tributari:
quindi, oltre a sezione, foglio di mappa, numero di mappa e subalterno, anche indicazione del piano
101[101]
, del numero dei vani o dei metri quadri 102[102], elementi questi ultimi certamente rilevanti ai
fini del classamento, e quindi del calcolo della rendita catastale. Deve, pertanto, ritenersi che la
dichiarazione richiesta alle parti debba estendersi anche a questi ulteriori dati catastali. Non sembra,
invece, che abbiano rilevanza ai fini in esame i dati toponomastici, ossia l’indirizzo (via e numero
civico) dell’unità immobiliare: la mancata corrispondenza della relativa indicazione negli atti
catastali, rispetto alla realtà ed a quanto risulta dalla planimetria, non può ragionevolmente
condurre, per la sua irrilevanza, alla nullità dell’atto. Neanche le indicazioni della categoria, della
classe e della rendita catastale sono da considerarsi “dati catastali” nell’ottica in esame, essendo il
risultato di operazioni di calcolo e valutazione, comunque non confrontabili con lo stato di fatto e
con la planimetria. Parimenti, non rilevano – nell’ottica del solo primo periodo del comma 1-bis –
gli eventuali errori nell’intestazione soggettiva (della partita catastale o della planimetria), che è
oggetto di autonoma disciplina nel secondo periodo della disposizione.
Dal raffronto sopra descritto può emergere la conformità, o in alternativa la difformità della
situazione di fatto rispetto ai dati catastali ed alla planimetria. La legge, tuttavia, richiede la
“dichiarazione della conformità”, con ciò evidentemente subordinando la validità dell’atto all’esito
positivo dell’accertamento. In presenza, pertanto, di difformità che investano i dati emergenti dalla
101[101]
Ai sensi dell’art. 8, comma 7, lett. g), del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, il “livello di piano” è elemento
rilevante ai fini del classamento dell’unità immobiare urbana. Ciò significa che eventuali errori nell’indicazione del
piano potrebbero incidere sul classamento e, quindi, sull’attribuzione della rendita, rendendo i dati catastali e/o la
planimetria non conformi allo stato di fatto. Non tutti i casi sono, ovviamente, uguali: è possibile che il piano sia
indicato non correttamente nella planimetria, e questa è evidentemente una difformità rilevante; è al contrario possibile
che il piano sia indicato in modo inesatto – in conseguenza di un mero errore materiale – nel solo indirizzo risultante
dalla visura catastale, ed in questo caso potrebbe trattarsi di difformità che non ha determinato alcuna conseguenza sul
classamento. La valutazione di conformità è, in ogni caso, di esclusiva competenza della parte alienante, la quale
soltanto – edotta dal notaio sulle conseguenze dell’eventuale dichiarazione mendace – ha l’onere di eseguire le relative
verifiche.
102[102]
Occorre peraltro evidenziare che, per effetto dell’art. 3 del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, “L’unità di
consistenza delle unità immobiliari urbane a destinazione ordinaria indicate nel quadro generale, di cui all’allegato B, è
il metro quadrato di superficie catastale”, con la conseguenza che “Le tariffe d’estimo delle unità immobiliari urbane, di
cui al comma 1, sono determinate con riferimento alla suddetta unità di superficie”. Cfr. anche, sui criteri di
classamento, l’art. 8 del medesimo decreto, nonché la Determinazione del direttore dell’Agenzia del territorio in data 16
febbraio 2005 (pubblicata nella G.U. n. 40 del 18 febbraio 2005).
planimetria, ovvero i dati catastali sopra menzionati, l’intestatario che intenda alienare l’immobile
ha l’onere di regolarizzare preventivamente la situazione catastale, presentando apposita denuncia
di variazione al catasto dei fabbricati, corredata da nuova planimetria (a norma dell’art. 28, comma
3, del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652); in mancanza, la conformità non può essere dichiarata, e l’atto
che contenesse una dichiarazione di difformità sarebbe nullo. La novella impedisce, pertanto, di
addossare convenzionalmente all’acquirente l’onere di regolarizzare la situazione catastale
successivamente all’acquisto.
Il principio suesposto è temperato dalla limitazione all’obbligo di denuncia delle variazioni
catastali, desumibile dall’art. 20 del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, a norma del quale occorre
presentare detta denunzia, corredata da una planimetria delle unità variate, nei soli “casi di
mutazioni che implichino variazioni nella consistenza delle singole unità immobiliari”. L’art. 17
dello stesso decreto attribuisce, d’altra parte, rilevanza alle sole le mutazioni che avvengono “nello
stato dei beni, per quanto riguarda la consistenza e l’attribuzione della categoria e della classe”.
Anche se di recente l’amministrazione finanziaria ha ritenuto possibile la presentazione di denunce
di variazione “non sostanziali”, a fronte anche di modifiche interne all’unità immobiliare non
rilevanti ai fini del classamento 103[103], la denuncia di variazione con presentazione di nuova
planimetria è obbligatoria unicamente quando i mutamenti nello stato di fatto incidono su
consistenza, categoria e classe, e quindi si riflettono sul calcolo della rendita catastale 104[104].
L’esclusione dell’obbligo di presentare denunce di variazione per tali modifiche interne (ad
esempio, spostamento di pareti interne) esclude la rilevanza – agli effetti del comma 1-bis dell’art.
29 – delle difformità non sostanziali, nel senso sopra precisato.
Al fine di eliminare ogni dubbio sul punto, la legge di conversione del d.l. n. 78/2010 ha
espressamente precisato che la dichiarazione della conformità tra stato di fatto, planimetrie e dati
catastali deve essere resa dagli intestatari “sulla base delle disposizioni vigenti in materia
catastale”: l’espressione deve essere, plausibilmente, interpretata nel senso che la “conformità” non
deve essere “assoluta”, ma che il relativo significato deve essere inteso, appunto, alla luce delle
norme catastali vigenti: con il risultato di ritenere sussistente la conformità in tutti i casi in cui non
vi sia obbligo di presentare una denunzia di variazione con una nuova planimetria.
Alla luce del significato come sopra ricostruito occorre, allora, verificare se sia legittima, e
veritiera, la dichiarazione di conformità allo stato di fatto delle planimetrie redatte secondo
disposizioni legislative o regolamentari oggi non più in vigore: si pensi alle planimetrie che – in
base alle norme vigenti al momento della relativa presentazione – ricomprendono sia
l’appartamento che l’autorimessa di pertinenza; o quelle che ad esempio includono anche accessori
comuni (bagni, cantine, locali caldaia, ecc.). L’interpretazione letterale dell’espressione “sulla base
delle disposizioni vigenti in materia catastale” sembrerebbe condurre alla necessità di presentare
una denunzia di variazione con nuove planimetrie nei casi suddetti, non essendo la planimetria
conforme alle disposizioni “oggi vigenti”. Senonché, per un verso il principio tempus regit actum,
che qui non appare espressamente derogato, depone per la valutazione della correttezza degli atti
catastali, planimetria inclusa, con riguardo al momento in cui gli stessi sono stati perfezionati. In
secondo luogo, il comma 1-bis dell’art. 29 trova applicazione unicamente nei casi in cui vi è
obbligo per il titolare di presentare la planimetria, e le norme vigenti dispongono tale obbligo
unicamente quando vi siano “mutazioni nello stato dei beni” rispetto alla situazione preesistente
(art. 17 del r.d.l. n. 652/1939), ovvero “situazioni di fatto non più coerenti con i classamenti
catastali per intervenute variazioni edilizie” (art. 1, comma 336, della legge n. 311/2004), ovvero
ancora “interventi edilizi che abbiano determinato una variazione di consistenza ovvero di
103[103]
Circ. Agenzia Territorio 9 luglio 2010, n. 2/T, che modifica sul punto la Circ. Min. Fin. 14 ottobre 1989, n.
3405.
104[104]
In tal senso la suddetta Circ. Agenzia Territorio 9 luglio 2010, n. 2/T, e anteriormente la Circ. Agenzia
Territorio 26 novembre 2001, n. 9/T, § 4, ove si precisa che la denuncia di variazione per “diversa distribuzione di spazi
interni” comporta necessità di presentazione di una nuova planimetria qualora le modifiche interne comportino una
variazione del classamento già attribuito (aumento o diminuzione del numero dei vani e variazione della consistenza)”.
destinazione” (art. 19, comma 9, del d.l. 78/2010). Nessuna disposizione, per contro, obbliga il
proprietario a presentare denunzia di variazione e nuova planimetria quando, in luogo della
situazione di fatto, sia mutata unicamente la normativa che regola il contenuto delle planimetrie.
L’argomento decisivo – al fine di circoscrivere il riferimento alle “vigenti disposizioni” al
significato, puramente “negativo” di non rendere necessarie denunzie di variazione per difformità
minimali non rilevanti – sembra, però, un altro: la legge, nel menzionare le planimetrie, fa
riferimento a quelle “depositate in catasto”: il raffronto, quindi, non può che aver luogo tra dati
catastali, stato di fatto e planimetrie “già depositate” (non certo con planimetrie “da depositare” in
base alla normativa vigente). Se quindi, ad esempio, appartamento ed autorimessa, ancorché
riportati nella medesima planimetria, vi sono correttamente raffigurati, nessun obbligo grava sul
titolare, la conformità allo stato di fatto sussiste e può essere legittimamente dichiarata
dall’alienante.
Diverso è, ovviamente, il caso in cui già ab origine – a prescindere quindi da modificazioni
successive – la planimetria fosse difforme dalla situazione di fatto: in questo caso evidentemente
sussiste a monte una violazione di legge, e nell’attualità l’obbligo di presentare una nuova
planimetria, anche ai fini qui in esame.
Quanto all’autore della dichiarazione, la legge menziona gli “intestatari”; nel secondo periodo
del comma 1-bis, invece, fa riferimento agli “intestatari catastali”. La diversa formulazione della
disposizione non sembra casuale: al di là del problema – che verrà infra esaminato – della necessità
di preallineamento dell’intestazione catastale ai fini della stipula, sembra che la ratio della prima
parte della disposizione esiga la provenienza della dichiarazione dal soggetto alienante, sia egli o
meno titolare del diritto reale che costituisce oggetto dell’atto, o intestatario catastale. Il punto
merita una precisazione, essendo questo uno snodo fondamentale della disciplina in esame. Deve
essere qui affermato, senza esitazioni, che l’effettiva titolarità del diritto in capo all’alienante non
costituisce in alcun modo presupposto della validità dell’atto di alienazione ai fini del comma 1-bis
dell’art. 29: nelle ipotesi in cui l’atto provenga a non domino, esso è – in base alle norme
civilistiche – inefficace (secondo i princìpi generali), nullo (es., donazione di cosa altrui) o
annullabile (es., vendita da parte di un solo coniuge nell’ipotesi regolata dall’art. 184 c.c.).
L’obiettivo limitato della norma in commento (quello fiscale, come più volte ripetuto) non è
certamente sufficiente a stravolgere l’intero sistema civilistico degli acquisti a non domino, e va
recisamente escluso che questo possa essere il significato della novella. Ciò che rileva, ai fini della
norma in esame, è soltanto che la dichiarazione sia resa dal soggetto alienante, il quale
normalmente, ma non necessariamente, è il vero titolare del diritto reale ed è, sempre normalmente
ma non necessariamente, intestatario catastale. Il legislatore, nel parlare di “intestatario”, ha
evidentemente impiegato una sineddoche, riferendosi all’ipotesi normale e maggiormente
ricorrente, in cui intestatario, titolare del diritto e alienante coincidano, ma disciplinando in realtà
una fattispecie più ampia, come sopra precisato. Tecnica normativa, questa, di utilizzo abbastanza
frequente 105[105], e che trova molteplici esempi nella legislazione più recente: basti pensare al
richiamo del contratto di compravendita, in fattispecie normative che hanno, per pacifica
interpretazione, ad oggetto tutti gli atti traslativi a titolo oneroso (cfr., ad esempio, l’art. 8 del d. lgs.
20 giugno 2005, n. 122, e l’art. 6 del d. lgs. 19 agosto 2005, n. 192). Del resto, è risalente
insegnamento metodologico quello secondo il quale la costruzione interpretativa deve procedere
dalle ipotesi “normali”, e non viceversa 106[106]; anche il legislatore, evidentemente, procede in
questa direzione. In definitiva, nei casi – pur marginali nella circolazione giuridica – in cui sussista
un disallineamento tra intestazione catastale, titolarità reale del diritto e qualifica di alienante, non
appare dubbio che sia proprio l’alienante l’unico soggetto legittimato a rendere la dichiarazione di
conformità oggettiva richiesta dalla legge.
105[105]
Cfr. sul punto MONATERI, La sineddoche, Milano, 1984; ID., Sineddoche, in Digesto discipline
privatistiche, sez. civ., XVIII, Torino, 1998, p. 524.
106[106]
BIGIAVI, “Normalità” e “anormalità” nella costruzione giuridica, in Riv. dir. civ., 1968, I, p. 519.
La legge di conversione ha consentito, come già detto, di sostituire la dichiarazione
dell’alienante con “un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla
presentazione degli atti di aggiornamento catastale”. Ciò, evidentemente, sul presupposto che
almeno in alcuni casi la valutazione di conformità può non essere agevole per un profano (ad
esempio, per difficoltà connesse al confronto tra le misure reali dell’unità immobiliare e quelle
risultanti, in scala, dalla planimetria; o per la difficoltà di verificare l’esatta ubicazione dell’unità
immobiliare rispetto al fabbricato). Non sembra dubbio che l’attestazione del tecnico – in quanto
“sostitutiva” della dichiarazione dell’alienante – debba essere redatta su richiesta ed a spese di
quest’ultimo; e che del relativo contenuto il medesimo alienante risponda, a norma dell’art. 1228
c.c. Sotto il profilo documentale, l’attestazione di conformità non è soggetta né a formule
sacramentali, né a requisiti particolari: non vi è, in particolare, l’obbligo di rendere l’attestazione
dinanzi al notaio, né di asseverarla con giuramento, essendo unicamente necessaria la sottoscrizione
da parte del tecnico abilitato; ed anche l’onere di accertamento dei requisiti di abilitazione del
professionista non può che far capo al soggetto alienante. Ai fini del soddisfacimento dell’esigenza
documentale posta dall’art. 29, comma 1-bis, sembra invece necessaria (e sufficiente) l’allegazione
dell’attestazione di conformità all’atto notarile. A maggior ragione, ovviamente, il tecnico può
intervenire quale comparente nell’atto notarile, e rendere in quella sede l’attestazione di cui trattasi.
Non occorre – anche se è possibile, e consigliabile – la dichiarazione dell’alienante che
l’attestazione è stata redatta su sua richiesta, né la menzione in atto che detta attestazione è stata
consegnata al notaio dall’alienante. Sono, per il resto, estensibili alla materia de qua – nei limiti
ovviamente dell’oggetto di cui trattasi – le considerazioni elaborate dalla dottrina in relazione alla
c.d. perizia contrattuale 107[107].
3.3. La sanzione della nullità.
Gli atti in oggetto “devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità”,
l’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie e la dichiarazione (o attestazione
sostitutiva) di conformità, di cui si è già detto. Dalla disposizione emerge chiaramente che la
sanzione di nullità colpisce sia la mancanza di identificazione catastale 108[108], sia la mancanza della
dichiarazione (o attestazione sostitutiva) relativa alla corrispondenza con le planimetrie, sia infine la
mancanza della dichiarazione della corrispondenza tra stato di fatto, planimetrie e dati catastali.
Risulta, inoltre, chiaramente che la nullità è prevista solamente per gli atti riguardanti unità
immobiliari urbane, con esclusione quindi dei fabbricati che non abbiano tale caratteristica
(fabbricati rurali aventi i requisiti di ruralità ai fini fiscali; immobili urbani iscritti o iscrivibili senza
attribuzione di rendita).
Quanto all’inquadramento della nullità, è escluso che si tratti di nullità per violazione di norma
imperativa, ex art. 1418, comma 1, c.c.: sia perché il comma 1-bis non rientra non rientra nella
107[107]
Cfr. sull’argomento BOVE, La perizia contrattuale, in I contratti di composizione delle liti, I, a cura di
Gabrielli e Luiso, Torino, 2005, p. 1219; GALATRO, Problemi di interpretazione e qualificazione giuridica della
perizia contrattuale (nota a Cass. 22 maggio 2007, n. 11876), in Nuova giur. civ., 2007, I, p. 1297; Cass. 30 giugno
2005, n. 13954, in Obbligazioni e contratti, 2005, p. 5.
108[108]
Un discorso a parte merita l’eventuale errore nell’identificazione catastale. L’errore nell’indicazione dei dati
identificativi (eventuale sezione, foglio e numero di mappa, eventuale subalterno) potrebbe – secondo una lettura
rigorosa – essere considerato equivalente alla mancanza di tale identificazione: si potrebbe, cioè, astrattamente
sostenere che non sia “identificazione” quella rappresentata dall’indicazione di un foglio o di un numero di mappa non
corrispondenti a quelli che effettivamente corrispondono all’unità immobiliare urbana. Una lettura di questo tipo
escluderebbe, evidentemente, la possibilità di rettificare l’errore (come consentito dai princìpi generali). La nullità
sarebbe, tuttavia, rimedio assolutamente sproporzionato rispetto alla gravità della patologia: sul presupposto che vi sia
materia per una possibile rettifica, e quindi della univoca e sufficiente indicazione degli altri elementi descrittivi
dell’immobile (ubicazione, consistenza, confini, nonché riscontro della planimetria), sembra davvero eccessivo – ed in
contrasto con i princìpi di proporzionalità e ragionevolezza – ipotizzare una nullità in conseguenza di un mero errore
materiale. Deve pertanto ritenersi che in presenza di errore materiale l’identificazione richiesta dal comma 1-bis debba
considerarsi esistente, e che quindi l’atto sia, in tale ipotesi, valido, e suscettibile di rettifica.
categoria delle norme imperative, quale accolta dalla dottrina prevalente 109[109]; sia perché,
diversamente, la nullità sarebbe stata prevista anche in relazione alle scritture private non
autenticate; sia perché quella disciplinata dal primo comma dell’art. 1418 è “nullità virtuale”, non
comminata cioè espressamente dalla legge, ma desumibile dalla natura imperativa della norma
violata, mentre quella in esame è una nullità testuale, rientrante tra quelle previste dall’art. 1418,
comma 3, c.c.
In mancanza di diversa previsione di legge, la nullità in esame non può essere inquadrata tra le
nullità speciali, o di protezione. Si tratta di nullità assoluta, e ad essa si applica la disciplina prevista
in generale per le nullità dagli artt. 1418 ss. c.c.: con conseguente rilevabilità d’ufficio, azionabilità
da parte di chiunque vi abbia interesse, imprescrittibilità, insanabilità. Non vi sono neanche ostacoli
all’applicazione della disciplina dell’art. 1419 c.c., relativa alla nullità parziale, ricorrendone i
presupposti.
Nessun dubbio, infine, sulla possibile applicazione della disciplina dettata dall’art. 2652, n. 6,
c.c. (c.d. pubblicità sanante): se il contratto nullo viene comunque trascritto, decorsi cinque anni
dalla trascrizione sono fatti salvi i diritti subacquistati da un soggetto di buona fede.
Occorre a questo punto risolvere il delicato problema della qualificazione della invalidità in
esame in termini di nullità formale o sostanziale: occorre, cioè, chiarire se la nullità sia disposta per
il solo caso della mancanza in atto delle dichiarazioni prescritte, ovvero se la stessa sia
configurabile anche nell’ipotesi in cui la dichiarazione richiesta – pur essendo contenuta nell’atto –
non sia veritiera. Il caso prevedibilmente più frequente, in cui potrà porsi la questione, sarà quello in
cui sussista difformità tra la planimetria e lo stato di fatto, e l’alienante dichiara falsamente la
relativa conformità. La legge, invero, non sancisce la nullità come conseguenza della “oggettiva” e
“reale” difformità, ma si limita a prescrivere “a pena di nullità” alcuni riferimenti e dichiarazioni:
dalla lettera della disposizione si evince quindi la natura formale (rectius, documentale) della
nullità, e – stante la natura eccezionale e tassativa delle nullità, che non derivino da violazione di
norme imperative – è d’obbligo interpretarla restrittivamente.
Il punto merita un chiarimento. La legge sancisce la conseguenza della nullità unicamente per
l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata, a differenza di disposizioni similari (cfr. per tutte
gli artt. 30 e 46 del d.p.r. n. 380/2001) che invece estendono la sanzione a tutti gli atti in forma
pubblica e privata, quindi anche alle scritture non autenticate. Il profilo dell’autenticità non attiene,
invero, alla forma dell’atto, bensì alle caratteristiche del documento: è autentico il documento
redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, con le richieste formalità ed all’esito dei prescritti
controlli, e dotato dell’efficacia probatoria prevista dalla legge (artt. 2699 e 2703 c.c.) 110[110]. La
mancanza delle prescritte formalità rende nullo il documento, non l’atto giuridico. Sanzione,
questa, alla quale non conseguono però gli effetti propri della nullità del negozio giuridico, nella
misura in cui l’atto abbia i requisiti formali e sostanziali previsti dalla legge. Si tratta di un
fenomeno noto, ed espressamente disciplinato con riferimento alle violazioni “formali” riguardanti
109[109]
Sugli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali riguardo al concetto di norma imperativa, v. PETRELLI, Gli
acquisti di immobili da costruire, Milano, 2005, p. 182 ss.
110[110]
Sull’attinenza del profilo dell’autenticità al documento e non all’atto giuridico, v. correttamente FERRIZANELLI, Della trascrizione, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 375 ss.
Sul concetto giuridico di documento, e sulla sua distinzione rispetto all’atto giuridico in esso contenuto, cfr. per
tutti LANDINI, Documento e sottoscrizione, in Formalità e procedimento contrattuale, Milano, 2008, p. 57; LA
TORRE, Contributo alla teoria giuridica del documento, Milano, 2005; DI SABATO, Il documento contrattuale,
Milano, 1997; GUIDI, Teoria giuridica del documento, Milano, 1950; PATTI, Documento, in Digesto discipline
privatistiche, sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 1; ANGELICI, Documentazione e documento (dir. civ.), in Enc. giur.
Treccani, XI, Roma, 1989; CANDIAN, Documento e documentazione (teoria generale), in Enc. dir., XIII, Milano,
1964, p. 579; CARNELUTTI, Documento (teoria moderna), in Novissimo dig. it., VI, Torino, 1960, p. 85; NAVONE,
La teoria giuridica del documento nel sistema della prova civile, in Studi in onore di Majello, II, Napoli, 2005, p. 301;
BORTOLUZZI, Frammenti di un discorso sul documento giuridico, in Vita not., 2005, p. 430; ANGELICI,
Documentazione e documento, in Studi sull'autonomia dei privati, a cura di Ferri e Angelici, Torino, 1997, p. 282;
BELVEDERE, Documento, in Glossario, Milano, 1994; IRTI, Sul concetto giuridico di documento, in Norme e fatti,
Milano, 1984, p. 239.
l’atto pubblico notarile: alle infrazioni più gravi consegue la nullità documentale, prevista dall’art.
58 l. not., la quale però non pregiudica necessariamente la validità del negozio giuridico 111[111];
ricorrendo i requisiti di sostanza e di forma della scrittura privata, l’atto pubblico si converte in
quest’ultima (art. 2701 c.c., la cui disciplina è richiamata dal suddetto art. 58, sia pure mediante
riferimento alla corrispondente previsione – l’art. 1316 – del codice civile del 1865) 112[112].
Appare senz’altro condivisibile la posizione dottrinale che limita la portata dell’art. 2701 c.c., e
quindi dell’“effetto di conversione”, al piano puramente probatorio 113[113]: in quest’ultimo senso
depone, inequivocabilmente, la lettera dell’art. 2701 c.c., per cui l’atto pubblico viziato “ha la stessa
efficacia probatoria della scrittura privata”, e che si esprime quindi con formulazione
significamente diversa rispetto all’art. 1316 del codice civile del 1865 (che recitava: “L’atto che per
incompetenza od incapacità dell’uffiziale o per difetto di forma non ha forza di atto pubblico, vale
come scrittura privata, quando sia stato sottoscritto dalle parti”). Dalla nuova formulazione del
vigente codice civile sembra emergere, nella sua più ampia portata, il principio utile per inutile non
vitiatur: l’ordinamento giuridico ha interesse alla conservazione dei valori giuridici, e quindi degli
effetti, prodotti dall’atto viziato nella misura più estesa possibile, e pertanto – preso atto
dell’impossibilità di accordare all’atto pubblico viziato gli effetti probatori privilegiati previsti
dall’art. 2699 c.c. – l’art. 2701 “sacrifica” unicamente l’efficacia probatoria suddetta, ma null’altro:
facendo invece salve, nella misura in cui per esse non statuisce, tutte le rimanenti conseguenze che
derivano dal “ricevimento” – pur “irregolare” – dell’atto pubblico da parte del notaio.
Nella fattispecie regolata dall’art. 29, comma 1-bis, in commento, si ha proprio una nullità
documentale, sancita per il documento autentico ma non per l’atto giuridico: quest’ultimo può ben
produrre i propri effetti sostanziali, all’esito della conversione in scrittura privata non autenticata
(sufficiente ai fini della validità, a norma dell’art. 1350 c.c.), in presenza dei relativi requisiti di
sostanza e forma. L’art. 2701 c.c. disciplina una sola fattispecie, quella della conversione da atto
pubblico a scrittura privata, non contemplando l’ulteriore fattispecie della conversione da scrittura
privata autenticata a scrittura privata semplice: anche quest’ultima deve peraltro ritenersi
ammissibile, per effetto dell’interpretazione estensiva dell’art. 2701 c.c.: norma che fu redatta in
un’epoca nella quale non esistevano formalità dettate unicamente per la scrittura privata autenticata,
rispetto alla scrittura privata semplice, e la cui ratio è certamente comprensiva anche dell’ipotesi
qui all’esame. D’altra parte, poiché l’applicazione del suddetto art. 2701 all’atto pubblico è testuale
e non può che essere ammessa, non potrebbe certo ragionevolmente essere esclusa la stessa
applicazione alla scrittura privata autenticata, a meno di creare una irragionevole, e quindi
incostituzionale, disparità di trattamento.
Va, a questo punto, fatto un passo ulteriore. Alla conversione dell’atto autentico in scrittura
privata non autenticata, ex art. 2701 c.c., consegue l’inidoneità dell’atto quale titolo per la
111[111]
Sulla natura “documentale” delle nullità previste dall’art. 58 l. not., cfr. FALZONE-ALIBRANDI, Nullità
dell’atto notarile, in Dizionario enciclopedico del Notariato, III, cit., p. 139 ss.; PACIFICO, Le invalidità degli atti
notarili, cit., p. 143 ss.; DI FABIO, Manuale di notariato, cit., p. 302.
112[112]
Sul fenomeno della “conversione formale”, disciplinato dall’art. 2701 c.c., cfr. soprattutto FRANZONI, La
conversione dell'atto nullo, in Società, contratti, metodo, Milano, 2002, p. 211; GANDOLFI, La conversione dell'atto
invalido, I – Il modello germanico, Milano, 1984; GANDOLFI, La conversione dell'atto invalido, II – Il problema in
proiezione europea, Milano, 1988; BIGLIAZZI-GERI, Conversione dell'atto giuridico, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p.
528; BOZZI, Brevissime note sparse in tema di atto pubblico, in Riv. dir. comm., 2002, II, p. 83; BIGLIAZZI GERI,
Conversione dell'atto giuridico, in Rapporti giuridici e dinamiche sociali, Milano, 1998, p. 725; ANSALONE,
Conversione di atto pubblico in scrittura privata, in Nuova giur. civ. comm., 1991, p. 251; GANDOLFI, Alle origini del
principio della c.d. "conversione" dell'atto pubblico, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di M.
Giorgianni, Napoli, 1988, p. 287 ss.; MONTESANO, Forma essenziale e documento notarile del negozio nella
sentenza civile su falso ideologico e nell'atto pubblico convertito in scrittura privata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1985,
p. 879; MONTESANO, Sull'efficacia probatoria dell'atto pubblico convertito in scrittura privata, in Riv. dir. proc.,
1954, p. 102.
113[113]
BIANCA, Diritto civile, 3 – Il contratto, Milano, 1991, p. 292, nota 48; MONTESANO, Sull'efficacia
probatoria dell'atto pubblico convertito in scrittura privata, in Riv. dir. proc., 1954, p. 109; GALDIERO, nota a Cass.
20 agosto 1990 n. 8442, in Giur. it., 1992, I, 1, p.169.
trascrizione, per l’inesistenza dei requisiti richiesti dall’art. 2657 c.c. Ma un titolo inidoneo non può
dar luogo a trascrizione: ed infatti in mancanza dei requisiti ex art. 2657 c.c. la legge prevede il
potere-dovere del conservatore di rifiutare la trascrizione (art. 2674, comma 1, c.c.); in ogni caso,
anche se si ritenesse inapplicabile questa disposizione (poiché il titolo è “apparentemente”
autentico), reputando precluso al conservatore il rilievo della nullità sulla base dell’art. 2674,
comma 1, c.c., dovrebbe ritenersi comunque l’atto non trascrivibile agli effetti dell’art. 2674-bis c.c.
Non si tratta di un mero escamotage: il regime dell’art. 2674-bis c.c. è finalizzato a filtrare le
fattispecie per le quali sussistano “gravi e fondati dubbi di trascrivibilità” ai quali non si vuole, però,
condizionare il “beneficio del grado” a favore del richiedente. Quest’ultimo ha la possibilità di
chiedere la trascrizione con riserva, ed in tal caso la questione è rimessa al giudice (art. 113-ter
disp. att. c.c.); in mancanza di tale istanza, il conservatore rifiuta la trascrizione. Soluzione,
quest’ultima, che appare coerente, e che consente – interpretando in parte estensivamente la
disposizione in commento – di superare la possibile censura di irragionevolezza, e quindi
incostituzionalità, della disciplina in commento, che si presenterebbe sulla base del rilievo che la
legge sancisce la “nullità” unicamente per gli atti notarili, e non per i provvedimenti giudiziari ed
amministrativi che producono i medesimi effetti. Per gli atti giudiziari, in particolare, una previsione
di nullità era improponibile, essendo coperti i relativi vizi dal regime del giudicato (o da regimi
analoghi: v. l’art. 2929 c.c.). Se però si ritiene che tutti i titoli – notarili, giudiziari, amministrativi –
devono contenere, ai fini della trascrivibilità, i riferimenti e le dichiarazioni prescritti dall’art. 29,
comma 1-bis (cfr. supra, il § 2.1), il sistema riacquista coerenza e ragionevolezza. Un’operazione
“ortopedica” non dissimile ha compiuto, del resto, la giurisprudenza nei numerosi casi in cui ha
ritenuto che la sentenza ex art. 2932 c.c. non possa essere pronunciata in mancanza di allegazione
del certificato di destinazione urbanistica dei terreni 114[114].
3.4. Obblighi del notaio in relazione alla conformità oggettiva.
Il primo periodo del comma 1-bis, a differenza del secondo, non prevede espressamente
obblighi del notaio riguardo ai profili di conformità oggettiva, ivi contemplati. Non chiarisce,
innanzitutto, se il notaio possa o debba essere autore delle dichiarazioni di corrispondenza tra
identificazione catastale e planimetria: domanda alla quale si è, peraltro, già risposto (cfr. il § 3.1).
Soprattutto, la norma non chiarisce se sia compito funzionale ed inderogabile del notaio verificare
la conformità della planimetria con i dati di identificazione catastale.
La questione – a monte del più generale problema della derogabilità o meno dell’obbligo
notarile di eseguire le visure ipotecarie e (per quello che qui interessa) catastali – dipende dalla
risposta ad un quesito preliminare: se sia consentito al notaio – in veste di pubblico ufficiale –
visionare le planimetrie delle unità immobiliari urbane. Allo stato della vigente normativa, la
risposta è in linea di principio negativa: a norma dell’art. 2, comma 4, del Provvedimento del
direttore dell’Agenzia del Territorio in data 12 ottobre 2006, relativo alle modalità di esecuzione
delle visure catastali (pubblicato nella G.U. n. 243 del 18 ottobre 2006), “la visura delle planimetrie
delle unità immobiliari urbane è consentita, in conformità a quanto previsto dalle disposizioni
vigenti, soltanto a richiesta del proprietario, del possessore, di chi ha diritti reali di godimento
sull’unità immobiliare ed in genere di chi ha legittimo interesse o possa dimostrare di agire per
conto di questi”. La medesima disciplina è ribadita dall’art. 15, comma 2, lett. d) ed e), del
Provvedimento del direttore dell’Agenzia del Territorio in data 13 giugno 2007, in materia di diritto
di accesso ai documenti amministrativi, ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241 (pubblicato sulla
G.U. n. 279 del 30 novembre 2007), che esclude dal diritto di accesso: “d) le planimetrie di
immobili iscritti ovvero iscrivibili alle categorie A, B, C, qualora l’accesso non sia richiesto dal
proprietario dell’immobile, dal titolare di altro diritto reale, o da persona da questi formalmente
delegata; e) le planimetrie e la documentazione presentata dalle parti o prodotta d’ufficio
114[114]
Cfr. sul punto la rassegna di LA MARCA, Nullità urbanistiche e preliminare di vendita di immobili abusivi:
inammissibile l'esecuzione ex art. 2932 cod. civ. (nota a Cass. 30 novembre 2007, n. 25050), in Nuova giur. civ., 2008,
I, p. 701.
relativamente agli immobili iscritti o iscrivibili in una delle categorie dei gruppi D ed E, quando la
richiesta non pervenga dai soggetti intestatari”.
La motivazione della suddescritta disciplina è da rinvenirsi nella considerazione che le
planimetrie delle unità immobiliari urbane – non comprese, ai sensi del Regolamento approvato con
D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, fra gli atti che costituiscono il nuovo catasto edilizio urbano, ora
catasto dei fabbricati – non sono considerate atti catastali a tutti gli effetti, bensì meri “atti
strumentali, finalizzati ad agevolare l’accertamento delle unità immobiliari urbane, segnatamente
con riferimento alla loro consistenza”. Per tale ragione è stata ritenuta l’“insussistenza, per
l’amministrazione, di un generale obbligo di rilascio delle copie delle planimetrie o della relativa
visione a chiunque ne faccia richiesta. D’altra parte, la circostanza che le planimetrie, consentendo
di verificare (rectius: accertare) la rappresentazione della disposizione interna delle unità
immobiliari, assumono uno spiccato carattere di riservatezza, ha da sempre indotto
l’Amministrazione ad adottare specifiche cautele relativamente al loro utilizzo” 115[115].
Allo stato della vigente normativa, pertanto, il notaio può visionare le planimetrie solo in
quanto “formalmente” delegato dal titolare del diritto reale; la circostanza che nella prassi
amministrativa l’accesso del notaio alle suddette planimetrie sia facilitata, in considerazione della
funzione espletata 116[116], pur apprezzabile sul piano della sensibilità dimostrata
dall’amministrazione per le esigenze dei traffici giuridici, non ha attualmente fondamento
normativo, ed in ogni caso deve essere ricondotta ad un fondamento giuridico – la delega da parte
del titolare, espressa o meno – profondamente diverso dalla legittimazione autonoma del notaio in
quanto pubblico ufficiale, ed in relazione alla sua funzione pubblica. Mancando la facoltà, o potere,
di visionare le planimetrie, non può evidentemente configurarsi neanche un obbligo in tal senso,
almeno fino a quando la suddescritta disciplina non sarà stata modificata (il che appare certamente
auspicabile, soprattutto alla luce del nuovo comma 1-bis in commento).
Quanto sopra significa quindi che con riferimento alle planimetrie – ed al loro raffronto con i
dati di identificazione catastali – non può configurarsi un obbligo funzionale di verifica da parte del
notaio. Questi è certamente obbligato ad informare le parti della necessità di operare il raffronto
delle suddette planimetrie con i dati catastali, a pena di nullità dell’atto, ed acquisire – ogni
qualvolta ciò sia possibile – l’incarico al fine di visionare egli stesso gli elaborati. Tuttavia, nel caso
– che nella pratica sarà probabilmente eccezionale, e marginale – che le parti non consentano al
notaio la visione delle planimetrie medesime, e ritengano quindi di effettuare personalmente il
raffronto tra i suddetti documenti e dati, rendendo in atto la prescritta dichiarazione sotto la loro
responsabilità, il notaio non potrà rifiutare il ricevimento dell’atto, a norma dell’art. 27 della legge
notarile.
Diversa è la soluzione per quanto concerne la individuazione dei “dati di identificazione
catastale”, in sé considerati. Si è già visto come, fino all’emanazione della novella in commento, la
giurisprudenza abbia considerato derogabile l’obbligo notarile su concorde dispensa delle parti, e
sul presupposto dell’urgenza (in parallelo alla previsione dell’art. 4, comma 3, del d.p.r. n.
650/1972). La disciplina in esame aggiunge un elemento in più, e precisamente il rilevante interesse
pubblico alla conformità tra risultanze dei dati catastali, planimetrie e situazione di fatto. Da ciò si
desume l’indisponibilità dell’obbligo notarile di accertamento dei “dati di identificazione
catastale”, e quindi la non dispensabilità ad opera delle parti: trattandosi di obbligo sussistente
nell’interesse pubblico, di esso non possono evidentemente disporre i privati, analogamente a
quanto comunemente si ritiene per l’obbligo notarile di curare l’esecuzione della trascrizione ex art.
2671 c.c., anch’esso non derogabile. Occorre, piuttosto, chiedersi quale debba essere il
115[115]
Circ. Agenzia Territorio 25 novembre 2003, n. 9/T, e circolari ivi citate.
In base alla Circ. Agenzia Territorio 25 novembre 2003, n. 9/T (peraltro anteriore ai provvedimenti indicati
nel testo), la visura o il rilascio di copie di planimetrie sono consentite anche al “notaio incaricato della stipula di atti
concernenti beni immobili. In tale ipotesi, la lettera d’incarico è sostituita da una dichiarazione sottoscritta dal notaio,
nella quale si attesta l’avvenuto conferimento dell’incarico di stipula di un atto immobiliare, riguardante le unità urbane
di cui si chiede la documentazione (visura e/o copia)”.
116[116]
comportamento del notaio, nell’ipotesi in cui le parti effettuino esse stesse l’accertamento dei dati
di identificazione catastale. A tale domanda occorre rispondere in linea con i princìpi sopra
enucleati: il notaio sarà tenuto – per quanto gli è possibile, alla luce della normativa suddescritta – a
verificare la correttezza e veridicità delle dichiarazioni delle parti, e solo in caso di “eccezionale e
dichiarata urgenza” potrà procedere, giusta la previsione dell’art. 4, comma 2, del d.p.r. n.
650/1972, alla stipula in assenza di tale controllo. In questo caso, dall’atto dovrà risultare il motivo
di urgenza, e la circostanza che i dati di identificazione catastale non sono stati riscontrati da parte
del notaio. Il mancato controllo sarà comunque imputabile a tali ragioni “oggettive” di urgenza, e
non certo ad un accordo di dispensa da visure intercorso con le parti, trattandosi di materia
indisponibile.
3.5. Conseguenze della dichiarazione falsa od erronea delle parti o del tecnico.
Rimane da verificare quali siano le conseguenze dell’eventuale falsità, od erroneità, delle
dichiarazioni rese in atto dalle parti (rectius, dall’alienante, quale “intestatario”), ovvero dal tecnico
abilitato.
E’ controvertibile, innanzitutto, la responsabilità penale delle parti per falso in atto pubblico
(art. 483 c.p.). Le dichiarazioni in oggetto non devono essere rese in forma di dichiarazione
sostitutiva di atto notorio, in mancanza di prescrizione di legge in tal senso; d’altra parte, l’atto
pubblico non è, di regola, destinato a far prova della intrinseca veridicità delle dichiarazioni delle
parti, ma unicamente della provenienza da chi le ha rese, nonché delle dichiarazioni del pubblico
ufficiale, e dei fatti che lo stesso attesti essere avvenuti in sua presenza, o da lui compiuti 117[117].
Occorre peraltro segnalare che altra giurisprudenza ha ritenuto che integri il reato di falso
ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta del privato, parte di un contratto di
compravendita immobiliare, che dichiari falsamente al notaio rogante la conformità dell’immobile
al titolo abilitativo edilizio ed ivi autorizzate, in quanto, in tal caso, sussisterebbe a carico del
privato l’obbligo giuridico di dire la verità in ordine alla condizione giuridica dell’immobile
oggetto d’alienazione e alla corrispondenza dello stesso agli estremi della concessione, trattandosi
d’obbligo preordinato alla tutela d’interessi pubblici, connessi all’ordinata trasformazione del
territorio, prevalenti rispetto agli interessi della proprietà, mentre nessun obbligo di verificare la
corrispondenza di tali dichiarazioni al vero incombe sul notaio rogante, tenuto solo a recepire le
dichiarazioni del privato 118[118]. Secondo questo ulteriore orientamento, che conta altri precedenti
119[119]
, non vi sarebbe quindi necessità di una espressa previsione di legge che sancisca l’obbligo di
117[117]
Cfr., da ultime, Cass. 4 dicembre 2007, in Foro it., Rep. 2008, voce Falsità in atti, n. 28; Cass. 25 maggio
2006, n. 12386, in Foro it., Rep. 2006, voce Prova documentale, n. 22.
118[118]
Cass. 19 settembre 2008, n. 35999, la quale ha affermato che - pur in assenza di dichiarazione sostitutiva di
atto notorio - le dichiarazioni del privato in atto pubblico, se prescritte dalla legge “nell’interesse pubblico”, devono
essere veritiere: vi sarebbe cioè, un obbligo giuridico di dire la verità, e conseguentemente si rientrerebbe nell’àmbito
di applicazione dell’art. 483 c.p., in quanto l’atto pubblico sarebbe destinato a provare – nell’interesse pubblico – la
verità del contenuto intrinseco della dichiarazione dell’alienante. Peraltro, in contrasto con quanto sopra, le sezioni
unite penali, nel 1999, avevano affermato che “Il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico è
configurabile nel solo caso in cui una specifica disposizione di legge (non importa se penale, civile, amministrativa o
processuale) attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando
l’efficacia probatoria dell’atto stesso al dovere del dichiarante di affermare il vero” (Cass. S.U. 15 dicembre 1999, in
Foro it., 2000, II, c. 463; Cass. S.U. 17 febbraio 1999, in Foro it., 1999, II, 435).
119[119]
Cfr. Cass. 4 dicembre 1995, in Foro it., Rep. 1996, voce Falsità in atti, n. 29 (“In tema di falso ideologico
del privato in atto pubblico, non è necessario che l’atto di cui si ipotizza la falsità sia previsto da una specifica
disposizione di legge, ma è sufficiente che esso sia destinato a provare la verità, e cioè che la falsa attestazione abbia
una qualche efficacia probatoria, da accertare di volta in volta”); Cass. 24 ottobre 1994, in Riv. pen., 1995, p. 1346 (“Il
riconoscimento di figlio naturale costituisce una dichiarazione di scienza rivolta a conferire certezza al fatto della
procreazione, di cui è destinato a provare la verità; commette, pertanto, il delitto di falsità ideologica in atto pubblico
(art. 483 c.p.) il privato che effettui falsa dichiarazione di paternità naturale in un atto ricevuto da notaio”); Cass. 19
dicembre 2005, in Foro it., Rep. 2006, voce Falsità in atti, n. 64 (“Le false dichiarazioni del privato concernenti la
sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge o dagli strumenti urbanistici per il rilascio di concessione edilizia, essendo
destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si riferiscono e ad essere recepite quali condizioni per la emanazione o per la
dire la verità, essendo sufficiente un obbligo di dichiarazione sancìto nell’interesse pubblico.
Presupposto, quest’ultimo, che ricorrerebbe anche nel caso in esame, posto che le dichiarazioni
richieste dal d.l. 78/2010 sono certamente previste nell’interesse pubblico (di natura eminentemente
fiscale). Potrebbe pertanto configurarsi – in presenza di dichiarazione mendace riguardo alla
conformità oggettiva – il delitto di falsità ideologica del privato in atto pubblico di cui all’art. 483
c.p. (al quale sarebbe, ovviamente, estraneo il notaio che si limitasse a recepire la dichiarazione di
parte).
Per quanto riguarda il tecnico abilitato, la relazione redatta dallo stesso è destinata, per espressa
disposizione di legge, a costituire parte integrante dell’atto notarile: deve quindi equipararsi la
posizione dello stesso a quella della parte alienante, ai fini dell’eventuale responsabilità penale (non
potendo evidentemente applicarsi l’art. 373 c.p., non trattandosi di perito nominato dall’autorità
giudiziaria).
Non è invece configurabile una responsabilità amministrativa del dichiarante: le sanzioni
amministrative sono governate dal principio di tipicità e di legalità 120[120], e nessuna disposizione di
legge sanziona la falsa dichiarazione riguardo agli elementi richiamati dal comma 1-bis dell’art. 29.
Non può certamente configurarsi nullità, quale effetto della falsa dichiarazione in atto: la nullità
prevista dal comma 1-bis ha infatti natura documentale e non sostanziale, come già evidenziato (cfr.
il § 3.3), e colpisce unicamente l’assenza in atto delle dichiarazioni e dei riferimenti prescritti.
Invece, alla falsa o erronea dichiarazione dell’alienante consegue la responsabilità civile nei
confronti dell’acquirente (che non ne fosse a conoscenza) per gli eventuali danni a lui provocati. In
particolare, la difformità della situazione di fatto rispetto a quella raffigurata nella planimetria – se
fino ad oggi poteva rimanere sostanzialmente priva di conseguenze nella maggior parte dei casi, in
cui l’acquirente aveva accettato l’immobile “nello stato di fatto” in cui lo stesso si trovava – oggi, a
fronte di una dichiarazione di conformità resa dall’alienante, può configurare la fattispecie di
“mancanza delle qualità promesse”, con le conseguenze previste dall’art. 1497 c.c. In caso di
attestazione sostitutiva redatta da un tecnico abilitato, l’alienante ne risponde a norma dell’art. 1228
c.c.; il tecnico, da parte sua, è obbligato in base alle norme che regolano la responsabilità dei
professionisti intellettuali.
A parte vanno considerati, ovviamente, i casi in cui la difformità dello stato di fatto rispetto alla
planimetria dipenda da un abuso edilizio, da cui derivano le conseguenze sanzionatorie, anche
civilistiche, previste dalla relativa normativa; la falsa dichiarazione potrebbe infatti, nei casi più
gravi, riguardare anche la regolarità urbanistica del fabbricato (l’irregolarità può, oggi, emergere
con maggiore facilità, attraverso i riscontri richiesti dalla novella), e dar luogo quindi alle sanzioni
previste dal testo unico dell’edilizia, non esclusa la possibile nullità dell’atto.
Occorre, infine, rammentare le sanzioni amministrative, previste dalla vigente normativa per il
mancato adempimento agli obblighi di denuncia al catasto dei fabbricati delle nuove costruzioni e
variazioni, e per la mancata presentazione delle planimetrie aggiornate, ove ne ricorrano i
presupposti 121[121], tenuto conto dei nuovi strumenti e poteri di accertamento ora previsti dall’art.
19, commi 10 e seguenti, del D.L. n. 78/2010.
Il notaio è ovviamente obbligato ad informare le parti di tutte le suddette conseguenze,
chiarendo loro esattamente la portata delle eventuali infrazioni commesse ai fini della responsabilità
penale, civile ed amministrativa di cui sopra.
4. Le prescrizioni relative alla conformità “soggettiva” dell’intestazione catastale con le
risultanze dei registri immobiliari.
efficacia dell’atto pubblico, producendo cioè immediati effetti rilevanti sul piano giuridico, sono idonee ad integrare, se
ideologicamente false, il delitto di cui all’art. 483 c.p.”).
120[120]
Cfr. l’art. 3 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e l’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
121[121]
Cfr. gli artt. 28 e 31 del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, e successive modificazioni; l’art. 52 della legge 28
febbraio 1985, n. 47; l’art. 1, comma 338, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni.
4.1. La verifica della conformità soggettiva: ratio e perimetro applicativo del secondo periodo
del comma 1-bis.
Ai sensi del secondo periodo del comma 1-bis dell’art. 29, “Prima della stipula dei predetti atti
il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri
immobiliari”. Si tratta della “conformità soggettiva” tra intestazione catastale e titolarità del diritto,
quale risultante dai registri immobiliari: al fine di comprendere appieno il significato e la portata
dell’innovazione, occorre partire dalla situazione precedente alla sua emanazione.
La “ditta catastale” identifica – in base alla vigente normativa – i titolari di diritti reali su beni
immobili 122[122]; tale “intestazione” agevola, tra gli altri obiettivi, il compito dell’amministrazione
finanziaria ai fini dell’individuazione del soggetto passivo delle imposte fondiarie (imposta sui
redditi, ed imposta comunale sugli immobili). Il sistema catastale si fonda – come regola – sul
“principio di continuità storica delle iscrizioni catastali” 123[123], che dovrebbe rispecchiare la serie
continua dei trasferimenti, e quindi degli acquisti a titolo derivativo dei medesimi diritti reali.
Questa serie continua emerge dalle certificazioni storiche catastali, e dalle corrispondenti visure: in
occasione di ogni atto civile, giudiziario o amministrativo che dia luogo a vicende traslative,
costitutive o divisionali, è fatto obbligo ai pubblici ufficiali (e in loro assenza alle parti) di
richiedere la corrispondente voltura catastale (art. 3 del D.P.R. n. 650/1972). Nell’ipotesi di
discordanza tra l’autore del trasferimento e il soggetto intestatario in catasto, vi è obbligo, in sede di
domanda di voltura, di indicare gli estremi dei passaggi intermedi.
Nel tempo, tuttavia, l’imperfezione del sistema pubblicitario italiano, e l’esistenza di mutazioni
giuridiche (es., l’usucapione) che maturano a prescindere da specifici “atti legali” (ossia
indipendentemente dall’esistenza di titoli formali), ha determinato l’introduzione di deroghe alla
rigida regola di continuità catastale. Innanzitutto, nel caso in cui manchino i suddetti atti legali, è
data possibilità di eseguire la voltura con “annotazione di riserva”, ossia “ai soli fini della
conservazione del catasto” e impregiudicati i diritti dei terzi: il che significa, in altri termini, che in
questo caso l’ordinamento rinuncia alla continuità catastale e segnala peraltro, con annotazione a
margine, l’insussistenza di tale continuità (prevedendo, peraltro, la cancellazione della riserva
decorso un ventennio, sul presupposto evidentemente della probabile usucapione) 124[124]. In
secondo luogo, in conseguenza dell’automazione della voltura catastale – che è oggi eseguita in via
automatica, per effetto della presentazione della nota di trascrizione (ai sensi dell’art. 2 del d.m. n.
701/1994) – è fatto obbligo al notaio di indicare in apposito foglio informativo gli estremi dei
passaggi intermedi e delle relative domande di voltura; obbligo, questo, ribadito dall’art. 5, comma
2, del D.P.R. 18 agosto 2000, n. 308, a norma del quale “Nel caso in cui non vi sia concordanza fra i
soggetti intestati in catasto e quelli risultanti dall’atto, il pubblico ufficiale indica nel modello unico
gli estremi degli atti e denunce che hanno dato luogo ai passaggi intermedi o alle discordanze fra le
ditte”. E’, tuttavia, eseguita ugualmente la voltura, con annotazione di “passaggi intermedi da
esaminare”, quando non siano indicati gli estremi delle volture dei passaggi intermedi, o quando in
altro modo non risulti la coincidenza tra ditta catastale ed autore del trasferimento 125[125]. Viene
122[122]
A norma dell’art. 41 del D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1142, “Ciascuna unità immobiliare urbana accertata
deve essere intestata alla ditta che ne è in possesso. La ditta è costituita dalle persone dei proprietari o dei possessori e
da quelle che hanno diritti reali di godimento sull’unità immobiliare. Esse devono essere individualmente designate,
specificando per ognuna le quote di partecipazione o il diritto spettante”.
123[123]
A tale principio fa riferimento l’art. 26, comma 2, ultimo periodo, del D.M. 2 gennaio 1998, n. 28,
nell’attribuire agli uffici – in sede di aggiornamento del catasto dei fabbricati con le procedure automatiche di cui al
D.M. n. 701/1994 – di operare in deroga ad esso.
124[124]
Cfr. l’art. 12 della legge 1 ottobre 1969, n. 679.
125[125]
Si veda sul punto – oltre alla disposizione citata alla precedente nota 123 – la disciplina dettata dal Decreto
dirigenziale 15 ottobre 1998 (pubblicato nella G.U. n. 250 del 26 ottobre 1998), concernente l’esecuzione automatica
delle volture catastali: premesso che, a norma dell’art. 1, comma 3, “qualora non vi sia concordanza tra la situazione
indicata nella nota di trascrizione, relativamente ai soggetti, agli immobili o ad entrambi, rispetto a quella presente nelle
scritture e negli atti catastali, la parte che richiede la trascrizione presenta, su supporto informatico, apposito foglio
informativo”, il successivo art. 2, comma 1, stabilisce che “qualora non risultino indicati nel foglio informativo, di cui
conseguentemente imposta all’ufficio un’attività di verifica, e di riscontro dell’effettiva sussistenza
dei passaggi intermedi 126[126], la quale però – per intuibili ragioni, connesse alla mancanza delle
necessarie risorse, umane ed economiche – non ha avuto fino ad oggi luogo. La verifica dovrebbe
essere agevolata dall’obbligo (imposto dall’art. 2, comma 4, del d.m. 701/1994 “al notaio ed agli
altri pubblici ufficiali che ricevono atti o autenticano firme su atti civili, giudiziari e amministrativi,
che danno origine a variazione di diritti censiti in catasto”) di indicare nel medesimo atto la serie dei
passaggi intermedi, con i relativi estremi 127[127]. A parte la pratica assenza di successivi controlli,
deve essere anche evidenziato il fatto che l’eventuale mancato adempimento ai suddetti obblighi del
notaio, o altro pubblico ufficiale, non può dar luogo a rifiuto della trascrizione 128[128].
In tutti i suddetti casi, pertanto, il sistema previgente affidava certamente al notaio ed agli altri
pubblici ufficiali il compito di verificare preventivamente la concordanza o meno “tra la situazione
dei soggetti titolari del diritto di proprietà o di altri diritti reali e le corrispondenti scritture
catastali” (art. 2, comma 4, succitato), ma consentiva comunque di perfezionare il successivo atto
traslativo anche in caso di esito negativo della verifica, prevedendo soltanto un obbligo di indicare,
negli atti e nelle note di trascrizione (e correlato foglio informativo ai fini della voltura automatica),
i passaggi intermedi mancanti ai soli fini catastali, senza però alcun obbligo di regolarizzare
eventuali volture mancanti. Era, poi, meramente facoltativo il “preallineamento catastale”, ossia la
regolarizzazione della situazione catastale anteriormente all’atto. Infine, non vi era alcun obbligo di
regolarizzare le trascrizioni nei registri immobiliari, in caso di loro mancanza: ove, ad esempio,
fosse mancata la trascrizione di un acquisto successorio, il successivo atto di alienazione poteva
essere stipulato senza necessità di trascrivere, preventivamente o contestualmente, anche l’acquisto
mortis causa. Tutto ciò rendeva, evidentemente, precario lo stesso fondamento dell’obbligazione
tributaria, in quanto la futura contestazione della titolarità del diritto reale – anche in conseguenza di
un difetto di trascrizione, o di continuità delle trascrizioni – poteva comportare inutile dispendio di
attività di accertamento o riscossione da parte dell’amministrazione finanziaria.
Con la novella in esame il legislatore – ritenuta evidentemente insufficiente la disciplina già
esistente – ha invece imposto la necessità di individuazione, da parte del notaio, degli intestatari
catastali, e di verifica della relativa “conformità”, non più con “la situazione dei soggetti titolari
del diritto”, bensì con le “risultanze dei registri immobiliari”, e ciò “prima della stipula”. Con un
deciso cambio di passo, viene imposto – con le modalità che saranno infra chiarite – l’allineamento
“bidirezionale” delle risultanze del catasto e dei registri immobiliari, ponendo attenzione – a
differenza del passato – anche a queste ultime; nonché, come meglio si dirà tra breve, la
regolarizzazione della situazione mediante l’allineamento anteriore alla trascrizione. Il tutto già con
all’art. 1, comma 3, gli estremi di protocollo delle domande di voltura degli eventuali atti intermedi, l’ufficio procede
ugualmente alla registrazione della voltura automatica, ai soli fini della conservazione del catasto e con indicazione
negli atti catastali dell’elenco dei passaggi intermedi riportati nel foglio informativo medesimo. Tale circostanza sarà
fatta rilevare negli atti a mezzo di apposita annotazione”.
V. anche, sul punto, la Circ. Agenzia Territorio 18 dicembre 1998, n. 287/T, § 10, nonché la Circ. Agenzia
Territorio 2 maggio 2002, n. 3/T, § 6.1, lett. a).
126[126]
Cfr. la Circ. Agenzia Territorio 2 maggio 2002, n. 3/T, § 6.4: “Con la precipua finalità del recupero della
qualità dell’informazione catastale, gli Uffici dovranno porre in essere, tempestivamente, ogni intervento atto alla
analisi ed alla risoluzione delle cause imputabili agli Uffici medesimi che hanno impedito la regolare registrazione delle
volture ed esaminare le eventuali annotazioni (da verificare, apposizione di riserva, ecc.) riportate in automatico dalla
procedura, con le modalità che verranno indicate con apposita procedura operativa in corso di emanazione”.
127[127]
A norma dell’art. 2, comma 4, del D.M. 19 aprile 1994, n. 701, “Qualora non vi sia concordanza tra la
situazione dei soggetti titolari del diritto di proprietà o di altri diritti reali e le corrispondenti scritture catastali, è fatto
obbligo al notaio ed agli altri pubblici ufficiali che ricevono atti o autenticano firme su atti civili, giudiziari e
amministrativi, che danno origine a variazione di diritti censiti in catasto, di fare menzione, nell’atto medesimo e nella
relativa nota di trascrizione, dei titoli che hanno dato luogo ai trasferimenti intermedi o delle discordanze”. V. anche,
sul punto, la Circ. Agenzia Territorio 18 dicembre 1998, n. 287, § 2.
128[128]
V. in tal senso l’art. 3, comma 2, del Decreto dirigenziale 15 ottobre 1998: “La mancata richiesta della
voltura automatica o la mancata presentazione dei fogli integrativi, ovvero la loro errata o incompleta compilazione,
non costituisce motivo di rifiuto della trascrizione”.
riguardo alla posizione dell’alienante; mentre prima della riforma l’allineamento – che veniva
conseguito per effetto della voltura automatica – aveva luogo nella persona dell’acquirente.
Occorre, a questo punto, definire l’àmbito di applicazione della disposizione.
Sotto il profilo oggettivo, vale quanto sopra chiarito in ordine alla tipologia degli atti (atti
pubblici e scritture private autenticate), al loro oggetto (il trasferimento, la costituzione o lo
scioglimento di comunione di diritti reali), ai beni immobili interessati (i “fabbricati già esistenti”,
comprensivi non solo delle unità immobiliari urbane, ma anche dei fabbricati effettivamente rurali,
in quanto censiti nel catasto dei fabbricati). L’àmbito applicativo della norma in esame è quindi più
ampio di quello relativo al primo periodo del comma 1-bis, che riguarda unicamente le “unità
immobiliari urbane”.
Sotto il profilo soggettivo, la norma pone, in modo espresso, l’obbligo di comportamento solo in
capo al notaio. Non sembra, tuttavia, possibile distinguere tra notaio ed altri pubblici ufficiali
roganti, eccezionalmente autorizzati dalle leggi speciali a ricevere o autenticare l’atto (ex artt. 2699
e 2703 c.c.): la disposizione contiene, sul punto, una sineddoche, riferendosi al notaio quale
pubblico ufficiale istituzionalmente, e normalmente, competente riguardo ai suddetti atti, ed è
quindi applicabile anche agli altri pubblici ufficiali competenti (console, segretario comunale, ecc.).
Al di fuori dell’àmbito degli atti autentici tra vivi, la legge non sancisce invece alcun obbligo di
accertamento della conformità soggettiva in oggetto. In particolare, né il giudice dell’esecuzione nel
procedimento di espropriazione forzata immobiliare, né il professionista delegato a norma dell’art.
591-bis c.c., né il giudice che emana la sentenza costitutiva, soggetta a trascrizione a norma dell’art.
2643, n. 14, c.c., sono tenuti – in base al tenore testuale della norma – ad operare preliminarmente
alcuna verifica riguardo alla conformità soggettiva tra risultanze del catasto e dei registri
immobiliari. Una lettura restrittiva di tal genere appare però fortemente irragionevole, non
essendovi ragione di distinguere in relazione a fattispecie che rappresentano, in egual modo,
acquisti a titolo derivativo, e nelle quali quindi la titolarità del diritto acquistato (ancorché
coattivamente) dipende dalla sussistenza della medesima titolarità in capo al dante causa (con le
medesime esigenze di riscontro della continuità catastale e delle trascrizioni). Sussisterebbe, quindi,
un fondato rischio di incostituzionalità della norma, nella parte in cui la stessa fosse interpretata in
modo rigidamente letterale, senza estendere gli obblighi in accertamento in esame a tutti i pubblici
ufficiali che intervengono, a qualsiasi titolo, in occasione di un trasferimento anche forzato della
titolarità di diritti reali. A fronte di questo rischio, è d’obbligo il ricorso all’interpretazione
adeguatrice ed estensiva: considerando che vi sia una semplice imperfezione letterale della
disposizione, e che la relativa ratio ne imponga l’estensione anche all’autorità giudiziaria che
emani provvedimenti, aventi come effetto l’acquisto a titolo derivativo dei diritti in oggetto.
Soccorre in questo senso anche la parallela disposizione – contenuta nell’art. 2, comma 4, del d.m.
n. 701/1994, che in presenza di discordanza tra titolarità reale e intestazione catastale pone un
obbligo di menzione dei titoli intermedi in capo “al notaio ed agli altri pubblici ufficiali che
ricevono atti o autenticano firme su atti civili, giudiziari e amministrativi, che danno origine a
variazione di diritti censiti in catasto”; l’evidente similitudine tra le due situazioni rende certamente
plausibile l’estensione analogica, al fine di colmare la lacuna normativa.
4.2. L’individuazione degli intestatari catastali.
Il primo obbligo, sancito dalla norma in commento, è quello di individuazione degli “intestatari
catastali”. Si tratta delle persone o degli enti che compongono la “ditta catastale”, in qualità di
titolari di diritti reali sui fabbricati in oggetto. La verifica può dar luogo ad esiti di diverso tipo.
Innanzitutto, è possibile che la ditta catastale non sia aggiornata, perché ad esempio non è stata
richiesta la voltura di uno o più precedenti trasferimenti di proprietà o riunioni di usufrutto, ovvero
la voltura non è stata correttamente eseguita (dando luogo, ad esempio, ad intestazione parziale, o
con errori nell’attribuzione delle quote di comproprietà). In queste ipotesi, risulterà intestatario
catastale, in tutto o in parte, una persona diversa dal titolare del diritto reale oggetto dell’atto da
stipularsi. Si tratta di situazione da regolarizzare, come meglio si vedrà tra breve.
In secondo luogo, è possibile che l’intestatario catastale corrisponda all’attuale titolare del
diritto reale, ma che l’intestazione catastale rechi una annotazione di “riserva per passaggi
intermedi non esistenti” (per mancanza di atti legali, riguardo ad un precedente trasferimento),
ovvero una annotazione di “passaggi intermedi da esaminare”, apposta in occasione di una
precedente voltura catastale automatica. Si pone, in questi casi, il problema della rilevanza o meno
di tali annotazioni ai fini della regolarità dell’intestazione catastale: quest’ultima è da ritenersi
“intestazione catastale” a tutti gli effetti, ovvero deve essere “regolarizzata"? Ove si rispondesse in
questo secondo senso, occorrerebbe preventivamente individuare le cause che hanno dato luogo
all’annotazione, e quindi chiederne la cancellazione con apposita istanza, documentando i
presupposti che dimostrano la regolarità dei precedenti trasferimenti. A ben vedere, tuttavia, la
legge non richiede nulla di ciò. Nella misura in cui – all’esito delle indagini eseguite nei registri
immobiliari – il notaio accerti che l’attuale intestatario catastale è il reale titolare del diritto, la
veridicità della intestazione catastale è comprovata dall’esito positivo delle suddette indagini, e si
tratta semmai di osservare il disposto dell’art. 2, comma 4, del d.m. 19 aprile 1994, n. 701,
ricorrendo un caso – sia pur particolare – di discordanza “tra la situazione dei soggetti titolari del
diritto di proprietà o di altri diritti reali e le corrispondenti scritture catastali”. Queste ultime, infatti,
nella misura in cui riportano le suddette annotazioni, manifestano una situazione di irregolarità che
in realtà non sussiste. Potrebbe invece darsi che a fronte, ad esempio, di un’annotazione di riserva
per passaggi intermedi non comprovati da atti legali, il notaio effettivamente verifichi che manca un
passaggio intermedio, perché, ad esempio, nel ventennio un soggetto ha venduto un immobile
dichiarando di averlo usucapito, senza avere ottenuto la relativa sentenza dichiarativa. In tutti questi
casi – giusta quanto si dirà infra, a proposito dei casi in cui la situazione dei registri immobiliari non
è suscettibile di essere regolarizzata sulla base dei titoli esistenti – appare semmai opportuno
applicare analogicamente la prescrizione del suddetto art. 2, comma 4, e quindi “fare menzione,
nell’atto medesimo e nella relativa nota di trascrizione, dei titoli che hanno dato luogo ai
trasferimenti intermedi o delle discordanze”, per un periodo comunque non eccedente il ventennio
(arg. ex art. 12, comma 3, della legge 1 ottobre 1969, n. 679). In definitiva, in nessun caso
l’esistenza di un’annotazione del tipo di quelle sopra descritte impedisce la stipula dei successivi
atti, né può configurarsi alcun obbligo del notaio – né tantomeno alcun onere delle parti – di
richiedere preventivamente la cancellazione di detta annotazione, in assenza di una prescrizione
normativa in tal senso. La legge richiede l’individuazione degli intestatari catastali, e tali sono i
soggetti indicati nella ditta catastale; l’esistenza di annotazioni catastali non determina alcuna
conseguenza, se non l’obbligo in capo al notaio di verificare diligentemente che ad essa non
corrispondano dei “problemi” riguardo alla titolarità effettiva del diritto reale.
4.3. L’identificazione delle “risultanze dei registri immobiliari”; la continuità delle trascrizioni.
Il secondo termine di riferimento, da raffrontare con l’intestazione catastale, sono le “risultanze
dei registri immobiliari”. L’espressione deve essere attentamente valutata, tenendo conto dello
scopo della norma, che è quello di individuare – a fini fiscali – il “soggetto titolare dei diritti reali”,
il possesso dei quali determina la nascita di obbligazioni tributarie in capo al medesimo titolare.
A prima vista, l’obiettivo del legislatore non sembrerebbe realizzabile. Il sistema italiano della
trascrizione immobiliare appartiene infatti alla categoria della pubblicità di atti, in contrapposizione
ad altri – quale, per rimanere in àmbito nazionale, quello tavolare – che danno luogo invece ad una
pubblicità di diritti 129[129]. La trascrizione, impostata su base personale e non reale 130[130], non
129[129]
Nel sistema tavolare vigente nelle nuove province italiane, l’intavolazione ha ad oggetto diritti, mentre
l’annotazione (ex artt. 19 e 20 della legge tavolare, allegata al R.D. n. 499/1929) ha ad oggetto atti o fatti giuridici:
GABRIELLI, Libri fondiari, in Novissimo dig. it., Appendice, IV, Torino 1983, p. 952.
130[130]
Sull’impostazione “personale” dei registri italiani di pubblicità immobiliare, cfr. per tutti FERRI–ZANELLI,
Della trascrizione, in Commentario del codice civile Scialoja–Branca, Bologna–Roma, 1997, p. 47 ss.; GAZZONI, La
trascrizione immobiliare, II, in Il Codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1993, p. 191. In
giurisprudenza, v. soprattutto Cass. 1 dicembre 1995, n. 12429, in Vita not., 1996, p. 909; Cass. 22 aprile 1997, n. 3477,
in Vita not., 1997, p. 875.
identifica infatti il “soggetto titolare del diritto”, ma unicamente gli atti che nella loro sequenza
danno luogo – secondo i princìpi propri degli acquisti a titolo derivativo – a vicende traslative,
costitutive, modificative o estintive del diritto stesso. Vicende la cui sorte dipende dalla validità ed
efficacia dei precedenti trasferimenti, oltre che dalla combinazione delle regole di priorità e
continuità delle trascrizioni.
D’altra parte, è estranea ai registri immobiliari italiani l’efficacia di prova piena riguardo alla
titolarità del diritto, stante la possibilità di trascrizioni in assenza di continuità, di coesistenza di
trascrizioni tra loro contraddittorie (come nel caso di plurime, parallele catene di provenienza a
partire da un remoto autore) 131[131], nonché di acquisti a titolo originario (in particolare, usucapione,
ma anche espropriazione per pubblica utilità), la cui mancata trascrizione non ne pregiudica la
prevalenza rispetto a concorrenti acquisti a titolo derivativo a carico di un comune autore 132[132].
E’, però, anche vero che le risultanze dei registri delle trascrizioni sono ormai utilizzate, a
svariati fini (espropriazione forzata immobiliare, espropriazione per pubblica utilità, accertamenti
antiriciclaggio e antiterrorismo, accertamento di tributi), quale “prova indiziaria” della titolarità
dei diritti reali 133[133]. Tenendo conto, cioè, della “tendenziale” completezza delle risultanze dei
registri immobiliari, e dei controlli di legalità che costituiscono il presupposto della trascrizione, in
una serie di procedimenti amministrativi o giudiziari le norme “presumono” l’esattezza delle
risultanze suddette, e quindi la titolarità dei diritti in capo a coloro che ne risultano acquirenti,
salvo evidentemente prova contraria che può essere fornita nell’àmbito degli stessi procedimenti.
Tenuto conto, peraltro, dei princìpi degli acquisti a titolo derivativo (nemo plus iuris transferre
potest quam ipse habeat, e resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis), una tale presunzione è
evidentemente – in un sistema di trascrizione a base personale – solo nella misura in cui le
risultanze di cui trattasi non si esauriscano in una trascrizione isolata, ma rappresentino invece una
serie continua di trascrizioni apparentemente coerenti tra loro e regolari (tenuto conto anche
dell’intervento, decorsi cinque anni da ciascuna trascrizione, della c.d. pubblicità sanante ex art.
2652, n. 6, c.c.). Anche perché, in assenza di tale serie continua, le successive trascrizioni non
producono alcun effetto: decisiva, in tal senso, la fondamentale prescrizione dell’art. 2650 c.c., a
norma del quale le trascrizioni ed iscrizioni sono inefficaci, in assenza di trascrizione dei precedenti
acquisti.
Deve pertanto ritenersi che le “risultanze dei registri immobiliari”, richiamate dal comma 1-bis
dell’art. 29 in commento, siano rappresentate dalla catena continua delle trascrizioni: accertare le
risultanze dei registri immobiliari significa verificare, mediante ispezione dei registri delle
trascrizioni, l’esistenza della continuità richiesta dall’art. 2650 c.c. Argomento decisivo in questo
senso è fornito dalla previsione contenuta nell’art. 567, comma 2, c.p.c. (come da ultimo modificato
dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263), secondo cui “Il creditore che richiede la vendita deve
provvedere, entro centoventi giorni dal deposito del ricorso, ad allegare allo stesso l’estratto del
catasto, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate
nei venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento; tale documentazione può essere
sostituita da un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri
immobiliari”. Qui l’espressione “risultanze dei registri immobiliari” è evidentemente impiegata –
giusta i princìpi suesposti – proprio con riguardo alla serie continua delle trascrizioni.
La disposizione appena richiamata è importante anche per un’altra ragione. Teoricamente, la
continuità delle trascrizioni andrebbe verificata a partire dal 21 aprile 1942, data di entrata in vigore
131[131]
GIULIANI, Nuove norme sull’annotazione tavolare dei contratti preliminari, in Riv. not., 2001, p. 577;
MENGONI, Relazione al disegno di legge per la modifica della legge tavolare (atti condizionati e trascrizione del
preliminare), in Riv. not., 2001, p. 743 ss. (ove si evidenzia che nel sistema dei registri immobiliari la coesistenza tra
trascrizioni incompatibili “è possibile, essendo rimesso esclusivamente al giudice del contenzioso l’accertamento della
prevalenza dell’una o dell’altra delle trascrizioni o iscrizioni in conflitto»); ASTUNI, La fede del libro fondiario e
l’usucapione, in Riv. giur. edilizia, 2000, I, p. 57.
132[132]
Cfr. per tutte Cass. 3 febbraio 2005, n. 2161, in Giur. it., 2005, p. 2275.
133[133]
Cfr. PETRELLI, Pubblicità legale e trascrizione immobiliare tra interessi privati e interessi pubblici, cit., p.
712, e nota 65.
del codice civile (art. 225 disp. trans. c.c.). Senonché, la recente evoluzione normativa consente di
raggiungere una diversa conclusione: il suddetto art. 567 c.p.c., nel circoscrivere al ventennio
l’accertamento della titolarità dei diritti reali finalizzato all’espropriazione forzata, pone in realtà un
principio generale, applicabile a qualsiasi procedimento giudiziario o amministrativo nel quale
occorre, sulla base delle “risultanze dei registri immobiliari”, accertare la titolarità di diritti reali
134[134]
. Principio generale che trova conferma in alcuni articoli del codice civile (artt. 534, 2668-bis,
2668-ter c.c.), recentemente novellati, e finalizzati a consentire la limitazione delle indagini
ipotecarie al ventennio, anche per ciò che riguarda l’esistenza di vincoli o pesi pregiudizievoli sulla
proprietà. Sarebbe, del resto, irragionevole che il giudice dell’esecuzione dovesse limitarsi,
nell’accertamento dei diritti reali ai fini dell’espropriazione forzata, al ventennio, ed invece questo
limite non valesse negli altri procedimenti, compresi quelli amministrativi tributari. Per altro verso,
non avrebbe senso che solo in alcuni procedimenti, e non in altri, rilevasse la “serie continua”
delle trascrizioni. Nel medesimo senso devono essere pertanto interpretate tutte le disposizioni
legislative che utilizzano, nell’àmbito di procedimenti amministrativi e giudiziari, l’espressione
“risultanze dei registri immobiliari”, al fine di desumerne la “prova indiziaria” della titolarità del
diritto, con svariate finalità, quale ad esempio quella dell’inventariazione del patrimonio di enti
pubblici 135[135], ovvero – per quanto qui più interessa – quella dell’accertamento dei tributi.
Non si tratta, del resto, solo di un problema di congruenza formale dei pubblici registri, ma di
una questione di rilievo sostanziale: la continuità delle trascrizioni svolge una fondamentale
funzione anche ai fini tributari, nell’ottica del rafforzamento del “fondamento” dell’obbligo fiscale,
che è costituito dalla titolarità del diritto reale. E’ vero che sarebbe teoricamente possibile
accertare la titolarità di un diritto reale pur in assenza di continuità delle trascrizioni, ma è altresì
vero che – trattandosi di acquisto a titolo derivativo – detta titolarità sarebbe precaria, e sempre
esposta al rischio della soccombenza nei confronti di un altro avente causa dal medesimo autore,
mediato o immediato (l’art. 2650 fa, infatti, salva la previsione dell’art. 2644 c.c.). Se, ad esempio,
Tizio ha venduto prima a Sempronio (con atto non trascritto), e poi a Caio (con atto trascritto), e
Sempronio ha successivamente venduto a Mevio, che ha trascritto ed anche volturato a proprio
favore l’acquisto, nonostante le apparenze il reale titolare del diritto è Caio e non Mevio:
l’amministrazione finanziaria, che svolgesse un’attività di accertamento e riscossione dei tributi
fondiari nei confronti di Mevio, sulla base delle risultanze catastali ed in mancanza di riscontro
della continuità ipotecaria ventennale, svolgererebbe un’attività inutile ed illegittima. Da ciò
l’interesse del fisco a conoscere il vero titolare, che è realizzabile solo per effetto dell’accertamento
ventennale delle trascrizioni nei registri immobiliari. La titolarità del diritto reale è quindi
“rafforzata” per effetto della continuità delle trascrizioni, e tale rafforzamento riguarda
indirettamente anche l’obbligazione tributaria.
In conclusione, pertanto, le "risultanze dei registri immobiliari" non si esauriscono nella sola
trascrizione dell'ultimo titolo di provenienza a favore dell'alienante. Quest'ultima, isolatamente
considerata:
1) - è inefficace, a norma dell'art. 2650 c.c., in mancanza di trascrizioni dei precedenti acquisti;
2) - potrebbe essere soccombente rispetto ad altra trascrizione prioritaria, a norma dell'art. 2644
c.c., presa a carico del comune autore immediato, ovvero di un comune autore mediato;
134[134]
Le considerazioni sviluppate nel testo sono rafforzate dalla considerazione che il secondo periodo del
comma 1-bis dell'art. 29, a proposito della conformità soggettiva, non opera sul piano "ontologico" dell'esistenza della
conformità tra registri immobiliari e catasto, bensì sul piano "comportamentale", degli obblighi imposti al notaio.
Obblighi che non possono essere certo maggiori di quelli imposti al giudice delle esecuzioni che deve verificare,
istituzionalmente, la proprietà dell'immobile soggetto ad espropriazione, e che per espressa disposizione di legge deve
acquisire solo certificazioni ipotecarie ventennali (art. 567, comma 2, c.p.c., come modificato nel 2005), senza dover
risalire più a ritroso nel tempo.
135[135]
Si vedano, a titolo esemplificativo, l’art. 46 del d.m. 23 aprile 2009, n. 87; l’art. 70 del d.m. 24 gennaio
2003; l’art. 21 del d.m. 14 giugno 2002; l’art. 59 del d.m. 31 maggio 2001; l’art. 21 del d.m. 29 novembre 2000; l’art.
60 del d.m. 3 agosto 1999; l’art. 17 del d.m. 22 aprile 1997; l’art. 51 del d.m. 27 aprile 1995, n. 392; l’art. 36 del d.p.r. 4
agosto 1986, n. 1104; l’art. 35 del d.p.r. 4 marzo 1982, n. 371; l’art. 41 del d.p.r. 18 dicembre 1979, n. 696.
3) – in base ai princìpi degli acquisti a titolo derivativo (nemo plus iuris transferre potest quam
ipse habeat; resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis), non ha da sola alcuna idoneità ad
individuare "il soggetto titolare di diritti reali", obiettivo primario, quest'ultimo, dell'anagrafe
immobiliare integrata;
4) – il termine "risultanze dei registri immobiliari" identifica, nel linguaggio legislativo, proprio
la catena continua di trascrizioni efficaci, come risulta tra l'altro dall'art. 567, comma 2, c.p.c.
Pertanto la verifica delle "risultanze dei registri immobiliari" consiste nell'accertamento della
continuità delle trascrizioni, e della relativa priorità rispetto ad eventuali formalità confliggenti.
Accertamento che deve ritenersi comunque circoscritto al ventennio, come risulta da altre
disposizioni normative, prima tra le quali quella dettata dall'art. 567, comma 2, c.p.c. (che, parlando
di "risultanze dei registri immobiliari", fa espresso riferimento a tale ventennio).
Occorre, quindi, innanzitutto curare l’esecuzione nel ventennio della trascrizione degli acquisti
a causa di morte, a norma dell’art. 2648 c.c. 136[136]. Non assume, invece, alcuna rilevanza agli
effetti del comma 1-bis in commento – e non realizza quindi la “conformità soggettiva” richiesta
dalla legge – la trascrizione del certificato di denunciata successione: quest’ultima individua, a
determinati fini fiscali, i chiamati e non gli eredi; non individua, quindi, i "titolari di diritti reali",
sia pure ai fini fiscali, come richiede la nuova disposizione 137[137]. Ovviamente, per quanto sopra
detto, è necessario trascrivere tutti gli acquisti mortis causa verificatisi nel ventennio, ancorché non
costituiscano provenienza immediata.
Proseguendo nell’analisi, occorre evidenziare come la legge si riferisca alle risultanze dei
registri immobiliari tout court, senza distinguere fra trascrizioni aventi natura di pubblicità
dichiarativa, e ipotesi di mera pubblicità notizia. L’ampia formulazione della legge conduce ad
estendere la disciplina in esame anche alle ipotesi in cui la trascrizione sia richiesta a fini soltanto
notiziali: ciò risponde anche alla ratio per la quale la pubblicità notizia è imposta dalla legge, che
risponde ad un obiettivo generale di informazione 138[138], certamente diretto anche nei confronti
dell’amministrazione finanziaria. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’ipotesi in cui l’acquisto del
soggetto alienante sia stato a suo tempo accertato con sentenza dichiarativa di usucapione, o abbia
avuto luogo a seguito di decreto di espropriazione per pubblica utilità: anche in questi casi deve
essere realizzato l’allineamento tra intestazione catastale e trascrizione dell’acquisto a titolo
originario. Ovviamente, è necessario che la trascrizione, ancorché con efficacia meramente
notiziale, sia obbligatoria: nelle ipotesi in cui si tratti, invece, di trascrizione meramente facoltativa
139[139]
(si pensi, per esemplificare, alla trascrizione della trasformazione di società, o del mutamento
di denominazione o sede sociale, certamente praticabile – arg. ex art. 2 del d. lgs. 29 marzo 2004, n.
99 – ma sicuramente non obbligatoria per legge), la stessa non è invece necessaria agli effetti del
136[136]
Cfr. PETRELLI, Note sulla trascrizione degli acquisti «mortis causa», in Riv. not., 1993, p. 271; ID., ,
Trascrizione degli acquisti «mortis causa» e espropriazione forzata immobiliare, cit., p. 483.
137[137]
E' infatti sui chiamati all'eredità che grava l'obbligo di presentazione della dichiarazione di successione (art.
28, comma 2, del d. lgs. n. 346/1990). Ed è il contenuto della dichiarazione di successione che risulta dalla trascrizione
prescritta dall'art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 347/1990 (che, per inciso, non richiede questa trascrizione genericamente a
tutti i fini fiscali, ma dispone che "La trascrizione del certificato è richiesta ai soli effetti stabiliti dal presente testo
unico (ossia delle sole imposte ipotecarie e catastali: n.d.a.) e non costituisce trascrizione degli acquisti a causa di
morte").
Occorre, piuttosto, ritenere che – ancorché nella nota di trascrizione dell’accettazione di eredità non siano stati
inseriti tutti i beni immobili ricompresi nella successione – la conformità soggettiva richiesta dalla legge debba ritenersi
sussistente ogni qualvolta dal contesto della nota risulti che si tratta di successione nell’universum ius (il che avviene,
ovviamente, per tutte le successioni legittime, quando la natura legale della delazione emerga dalla nota). Conclusione,
questa, alla quale è possibile giungere tenendo conto della validità della trascrizione così effettuata a norma dell’art.
2665 c.c. (non essendovi “incertezza” sull’oggetto della successione), e dell’impostazione su base personale, e non
reale, dei registri immobiliari italiani.
138[138]
GABRIELLI, Limiti di ammissibilità di una dispensa del notaio dal dovere di provvedere alla pubblicità
immobiliare, p. 572 ss.
139[139]
Sulle fattispecie di trascrizione facoltativa, cfr. PETRELLI, L’evoluzione del principio di tassatività nella
trascrizione immobiliare, Napoli, 2009, p. 423 ss.; BARALIS, La pubblicità immobiliare fra eccezionalità e specialità,
Padova, 2010, p. 67 ss.
comma 1-bis dell’art. 29. E’, invece, da ritenersi obbligatoria – e quindi rientrante nel perimetro
applicativo del suddetto comma 1-bis – la trascrizione degli atti di fusione e scissione (arg. ex art.
10, comma 2, del D. Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, ed art. 4 della tariffa ad esso allegata).
Sempre a proposito di pubblicità notizia, deve ritenersi che la conformità soggettiva richiesta
dal comma 1-bis in commento richieda anche l’esecuzione delle annotazioni a margine delle
trascrizioni, prescritte dagli artt. 2655 e 2668 c.c., essendo le stesse necessarie al fine di far
risultare, dai registri immobiliari, il reale titolare del diritto (a seguito, ad esempio, di avveramento
di condizione sospensiva o risolutiva, di annullamento o risoluzione del contratto, e simili).
Non sembra invece – alla luce della ratio della normativa in esame – che rilevi la trascrizione
delle convenzioni matrimoniali di scelta del regime di separazione dei beni. Ai fini fiscali, infatti,
l’obbligo tributario grava – in entrambi i regimi – sui coniugi in quote uguali, e la convenzione non
apporta sul punto elementi di novità. Si aggiunga che la pubblicità dei regimi patrimoniali è
realizzata mediante l’“incrocio” delle risultanze dei registri immobiliari con quelli di stato civile, e
dall’esame di questi ultimi è comunque possibile accertare il regime effettivamente vigente.
Sulla base del medesimo principio deve essere valutata l’ipotesi della trascrizione dell’acquisto
separato del coniuge in comunione legale: in questa ipotesi, apparentemente, le risultanze dei
registri immobiliari non corrispondono all’intestazione catastale, per ipotesi correttamente eseguita
a favore di entrambi i coniugi. In dottrina si concorda, tuttavia, nel ritenere che in questa ipotesi sia
comunque rispettata la regola di continuità delle trascrizioni, tenuto conto della pubblicità negativa
del regime di comunione legale 140[140]. La fattispecie, come descritta, è quindi regolare, e non
necessita di alcun intervento di regolarizzazione ai fini del comma 1-bis dell’art. 29.
Nulla quaestio, infine, riguardo alle vicende dei diritti reali delle quali la legge non preveda, o
non consenta, la trascrizione: si pensi, in particolare, alla riunione dell’usufrutto per consolidazione
in capo al nudo proprietario, a seguito di morte dell’usufruttuario 141[141]. In questi casi, vi è
certamente l’obbligo di eseguire la relativa voltura catastale, adempiuto il quale il dettato del
secondo periodo del comma 1-bis deve intendersi rispettato, non essendo prevista la relativa
trazcrizione.
4.4. Gli obblighi del notaio. Attività preliminari ed attività successive alla stipula.
L’attività di “individuazione” e “verifica” – che la legge impone “prima dell’atto” – consiste
evidentemente nell’esecuzione delle visure ipotecarie e catastali, finalizzate a riscontrare la
conformità o meno delle risultanze dei registri immobiliari con quelle catastali, per ciò che riguarda
l’intestazione in capo all’attuale titolare. Giusta quanto sopra chiarito, il notaio deve verificare
l’attuale intestazione catastale, e confrontarla con le risultanze delle trascrizioni nel ventennio.
L’esito positivo di tale verifica – continuità delle trascrizioni ex art. 2650 c.c., assenza di
trascrizioni prioritarie prevalenti, e intestazione catastale in capo all’attuale alienante – rappresenta
la “conformità” che è richiesta dal secondo periodo del comma 1-bis.
Sembra evidente la natura imperativa della prescrizione in esame, che detta un obbligo di
comportamento in capo al notaio nella sua veste di pubblico ufficiale, ed ai fini del perseguimento
di un interesse pubblico, di natura prevalentemente tributaria. Ciò determina una conseguenza di
notevole rilievo. Fino ad oggi dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che l’obbligo di esecuzione
delle visure ipotecarie e catastali fosse funzionale al soddisfacimento dell’interesse, meramente
privato, delle parti dell’atto, e derivasse quindi dal contratto d’opera professionale tra notaio e
clienti (a seconda delle impostazioni, dall’obbligo di diligenza, o dalla prassi negoziale integrativa
del contratto stesso); ne veniva, conseguentemente, ammessa – sia pure con limitazioni – la
derogabilità, mediante espressa e concorde dispensa proveniente da tutte le parti dell’atto. Oggi, al
contrario, quest’obbligo trova il proprio fondamento nell’interesse pubblico, e si basa sulla pubblica
funzione notarile; esso è sancìto non più soltanto nell’interesse dei privati, ma – in via prioritaria –
140[140]
Cfr. per tutti MONTECCHIARI, La trascrizione dell’acquisto separato del coniuge in comunione e
principio di continuita’ delle trascrizioni, in Riv. not., 1992, p. 1091.
141[141]
FERRI–ZANELLI, Della trascrizione, cit., p. 294.
nell’interesse pubblico. Interesse non dissimile da quello che sta alla base dell’obbligo di
trascrizione ex art. 2671 c.c. Ne consegue che viene meno qualunque disponibilità di tale obbligo ad
opera delle parti, le quali non potranno più dispensare il notaio dall’eseguire le visure.
Ciò non significa che non vi siano dei casi in cui ragioni di urgenza impongano la stipula
immediata dell’atto senza che vi sia il tempo materiale di eseguire un’indagine approfondita, qual è
quella come sopra richiesta. L’art. 27 della legge notarile impone al notaio di ricevere o autenticare
gli atti di cui sia richiesto, salvo che per gli atti vietati dalla legge a norma dell’art. 28: e
quest’ultima disposizione, come si dirà, non è applicabile al caso di specie. La soluzione del
dilemma – da un lato l’obbligo di accertamento imposto dall’art. 29, comma 1-bis, dall’altro
l’obbligo di ricevere o autenticare l’atto, la cui urgenza può essere incompatibile con tale
accertamento – sembra doversi rinvenire nell’applicazione, anche analogica per quanto occorra,
dell’art. 4, comma 2, del d.p.r. n. 650/1972, che consente di ricevere l’atto in assenza di
documentazione catastale aggiornata in casi di “eccezionale e dichiarata urgenza”. Ciò significa
che il notaio dovrà menzionare nell’atto nei suddetti casi – che comunque devono essere
eccezionali – le ragioni che hanno determinato l’urgenza e l’incompatibilità di essa con gli
accertamenti richiestigli. In ogni caso, non vi è in questi casi alcuna necessità, né possibilità, di
dispensa ad opera delle parti: l’obbligo notarile di visura viene meno ex lege ed automaticamente,
nei casi eccezionali in cui sia urgente la stipula dell’atto.
La verifica preliminare sopra descritta può, d’altra parte, condurre al riscontro di una
“difformità”: l’intestazione catastale può non essere aggiornata, oppure uno o più atti – perfezionati
nel ventennio precedente – possono non essere trascritti nei registri immobiliari. La legge – nel
richiedere la verifica della “conformità” tra registri immobiliari e intestazione catastale – esige
evidentemente che questa verifica, lungi dal rimanere fine a se stessa, sfoci in una attività diretta ad
“allineare” le risultanze dei due archivi.
E’ anche vero, peraltro, che la norma non pone espressamente un obbligo di
“preallineamento”, e ciò, evidentemente, perché vi possono essere delle situazioni che lo rendono
impossibile: si pensi, ad esempio, all’accettazione tacita di eredità che abbia luogo per effetto del
medesimo atto di alienazione, e che può essere quindi trascritta solo dopo la stipula dell’atto stesso.
Per tale ragione, la legge richiede espressamente l’anteriorità, rispetto all’atto, della sola attività di
“individuazione” e “verifica”. Considerato, però, che come già detto la suddetta attività di “previa
individuazione e verifica” non è e non può essere fine a se stessa, e tenuto conto della ratio della
norma, e del rapporto con la disciplina previgente, deve ritenersi necessario realizzare – al più tardi
al momento della relativa trascrizione – il risultato dell’allineamento. Occorre, a questo punto,
esaminare distintamente l’allineamento catastale, e la regolarizzazione delle trascrizioni nei registri
immobiliari.
Per quanto riguarda l’intestazione catastale, deve ritenersi richiesta dalla disciplina in esame
non soltanto la voltura catastale a favore dell’acquirente – risultato, questo, che già la normativa
previgente consentiva di ottenere, sia pure con l’eventuale annotazione dei “passaggi intermedi da
verificare” – ma soprattutto la regolarizzazione della situazione catastale dell’alienante,
rafforzando in tal modo le possibilità di accertamento ai fini fiscali con riferimento al periodo
pregresso, e quindi di recupero delle imposte non versate da parte del medesimo alienante, in
quanto non sia intervenuta prescrizione o decadenza dell’azione della finanza. In caso di
intestazione catastale non corretta, deve ritenersi quindi che il notaio debba diligentemente – entro
la data di trascrizione dello stesso – sollecitare l’alienante a richiedere la voltura dei passaggi
intermedi mancanti, ed eventualmente acquisire dallo stesso l’incarico di richiederla egli stesso
(anche mediante procedura telematica di “allineamento”, che il notaio può certamente eseguire,
documentando la richiesta mediante indicazione dei titoli legali, e dei relativi estremi). Dovrà poi
compilare – in sede di redazione della nota di trascrizione con connessa richiesta di voltura
automatica – l’apposito foglio informativo, con modalità tali da conseguire il “risultato”
dell’allineamento e della continuità storica catastale.
Per quanto concerne le risultanze dei registri immobiliari – in mancanza di trascrizione a favore
dell’alienante, o di una precedente trascrizione nel ventennio che pregiudichi la continuità ex art.
2650 c.c. – dovrà a tali trascrizioni provvedersi entro il momento in cui viene eseguita la
trascrizione dell’atto da stipularsi. Può verificarsi sia l’ipotesi in cui il titolo da trascriversi sia
anteriormente formato, sia quello in cui esso debba essere ancora perfezionato (si pensi
all’accettazione tacita di eredità, che si perfeziona con il medesimo atto di alienazione): deve
ritenersi che lo scopo della norma sia egualmente soddisfatto, in entrambi i casi, anche se la
trascrizione o le trascrizioni mancanti vengono eseguite entro il momento in cui viene eseguita la
trascrizione dell’atto da stipularsi.
La possibilità di realizzare l’allineamento – sulla base della “previa” verifica – anche
successivamente all’atto, purché entro il momento della relativa trascrizione, consente di ritenere
pienamente rispettato il dettato normativo nei casi di “apparente disallineamento”, conseguente ad
esempio a stipula contestuale di più vendite a catena: ipotesi nelle quali la normale esecuzione delle
formalità, dipendenti dai singoli atti, condurrà senz’altro all’allineamento richiesto dalla legge.
Per finire, occorre ricordare che la legge non richiede – riguardo all’adempimento degli
obblighi notarili in oggetto – alcuna menzione nell’atto pubblico, e tantomeno nell’autentica della
scrittura privata. Non è quindi indispensabile che venga dato atto della concordanza, ovvero della
discordanza dell’intestazione catastale rispetto alle risultanze dei registri immobiliari; una tale
menzione può, tuttavia, rivelarsi opportuna sia al fine di verificare l’adempimento degli obblighi
posti a carico del notaio, sia nell’ottica di una trasparente informativa alle parti riguardo alla
situazione catastale ed ipotecaria di ciò che costituisce oggetto dell’atto.
4.5. La mancanza di “atti legali” di provenienza.
Le fattispecie finora analizzate sono quelle “normali”, nelle quali – pur in presenza di una
discordanza dell’intestazione catastale rispetto ai dati emergenti dai registri immobiliari – sussiste,
tuttavia, la titolarità del diritto in capo all’alienante, in base ad un titolo legale, valido ed efficace. Il
legislatore, nel secondo periodo del comma 1-bis dell’art. 29, si è prefigurato proprio detta
situazione “normale”: esiste un titolo legale, ma lo stesso non è trascritto o non è volturato, o non lo
è stato correttamente; occorre, quindi, regolarizzare le formalità mancanti o erronee.
Ciò che il legislatore ha voluto imporre è stato, quindi, unicamente la regolarizzazione di
obblighi inadempiuti (di trascrizione e/o di voltura), non certo la formalizzazione di ulteriori atti,
oltre a quelli esistenti. Il primo tipo di attività, oltre a costituire adempimento – sia pur tardivo – di
obblighi non assolti, non incide d’altra parte, se non in misura fisiologica e tollerabile, sulla
contrattazione immobiliare, che verrebbe invece fortemente ostacolata se si imponesse a carico dei
privati un obbligo, od onere, di regolarizzazione anche dei titoli di acquisto. Le due ipotesi sono, e
devono rimanere, nettamente distinte: è risalente in dottrina la distinzione tra fattispecie primaria
(atto) e fattispecie secondaria (pubblicità) 142[142]: la disciplina dettata dal comma 1-bis attiene
unicamente al secondo aspetto, e non al primo. Essa non è, d’altra parte, neanche suscettibile di
interpretazione estensiva: il sacrificio che verrebbe così imposto all’autonomia privata non sarebbe
proporzionale, rispetto all’obiettivo fiscale che costituisce ratio della norma in esame, e
contrasterebbe con il fondamentale canone di ragionevolezza della relativa disciplina.
E’, quindi, possibile che un titolo legale manchi, per diverse ragioni. La più frequente è quella
dell’usucapione, la quale, notoriamente, opera di diritto, a prescindere dall’eventuale declaratoria
con sentenza, che ha comunque natura di sentenza dichiarativa. D’altra parte, l’usucapione dà luogo
ad un acquisto a titolo originario, che prevale pacificamente su eventuali concorrenti acquisti a
titolo derivativo dall’originario titolare del diritto, e ciò a prescindere dalla trascrizione (essendo
quella prescritta dall’art. 2651 una trascrizione con effetto di mera pubblicità notizia). La Relazione
al codice civile ha chiarito in modo adeguato come non si sia voluto imporre all’usucapiente
l’onere del previo accertamento giudiziale del proprio diritto, in considerazione del ruolo sistemico
142[142]
PUGLIATTI, La trascrizione, I – La pubblicità in generale, cit., p. 419 ss.
che l’usucapione svolge nel vigente ordinamento italiano, consentendo di rimediare ai problemi a
cui dà luogo l’imperfezione del sistema pubblicitario 143[143]. Tutto ciò, in definitiva, depone per
l’inapplicabilità del secondo periodo del comma 1-bis ai casi in cui la conformità ivi contemplata
non sussista per il fatto che la provenienza è rappresentata da una usucapione non dichiarata con
sentenza (fattispecie, questa, che è comunque da ritenersi eccezionale e marginale, e che è dovere
del notaio sconsigliare al di fuori di casi del tutto particolari). In questi casi è necessario che
dall’atto risulti la mancanza del “titolo legale”, la quale giustifica l’inapplicabilità della disciplina
in commento. Nell’ipotesi, invece, in cui la sentenza di accertamento dell’usucapione sussista, la
relativa trascrizione – che costituisce obbligo per il cancelliere, a norma dell’art. 2651 c.c. – deve
ritenersi necessaria agli effetti del secondo periodo del comma 1-bis in oggetto.
Altra ipotesi rilevante, sotto il profilo di cui trattasi, è quella della vendita di cosa altrui. Non si
vuole qui affrontare la problematica della trascrivibilità, o meno, della vendita dicosa altrui: è
sufficiente partire dal presupposto che detta vendita è trascrivibile a partire dal momento in cui
l’alienante ha acquistato la titolarità del diritto. Il problema deve essere risolto sulla base dei
princìpi sopra enunciati: mancando non solamente la trascrizione e la voltura catastale, ma
addirittura il titolo di provenienza, idoneo ad eseguire tali formalità, la vendita di cosa altrui può
essere ricevuta dal notaio senza che possa ritenersi applicabile il comma 1-bis dell’art. 29. Salva,
ovviamente, la necessità di far risultare dall’atto l’assenza di un titolo legale di provenienza, come
detto a proposito della fattispecie dell’usucapione non dichiarata.
Un altro caso, che potrebbe dar luogo a discussioni, è quello dell’acquisto ex lege dell’eredità,
per effetto del possesso ultratrimestrale da parte dell’erede in assenza di inventario (art. 485 c.c.):
anche in questo caso, infatti, manca un “titolo legale”, sulla base del quale operare la trascrizione
dell’acquisto a causa di morte. Va evidenziata con decisione la necessità di procedere, anche nel
suddetto caso, alla trascrizione dell’acquisto mortis causa: a parità di effetti giuridici, non può
infatti ritenersi che l’acquisto sia trascrivibile solo se deriva da un titolo piuttosto che da un altro. La
dottrina ha chiarito, d’altra parte, come anche in questa ipotesi la trascrizione possa e debba aver
luogo a norma dell’art. 2648 c.c., sulla base di una sentenza di accertamento, o di un atto negoziale
di accertamento che dia atto del verificarsi della fattispecie acquisitiva 144[144]. Per quanto qui
interessa, va peraltro segnalata la possibilità di eseguire la trascrizione dell’accettazione tacita di
eredità, anche se si è in precedenza verificato l’effetto acquisitivo mortis causa in dipendenza della
fattispecie legale ex art. 485: anche qui la dottrina che ha affrontato il problema concorda sul fatto
che titolo della trascrizione possa essere anche un atto successivo rispetto a quello che ha prodotto
l’effetto (tipica l’ipotesi, frequente nella prassi, della ripetizione in forma solenne del negozio
giuridico ai fini della trascrizione, che trova la sua consacrazione normativa nell’art. 1543, comma
2, c.c.) 145[145]. Parimenti, non costituisce ostacolo alla trascrizione dell’accettazione tacita di eredità
il decorso del decennio dall’apertura della successione, in considerazione della non rilevabilità
d’ufficio e rinunciabilità della prescrizione, e della possibile sussistenza di cause di interruzione o
143[143]
Cfr. sul punto, la Relazione al Re, n. 1074, che – nel soffermarsi sull’irrilevanza della trascrizione della
sentenza di usucapione ai fini del principio di continuità ex art. 2650 c.c. – afferma: “Se infatti si fosse voluto applicare
anche all’acquisto per usucapione ... la sanzione dell’inefficacia delle trascrizioni o iscrizioni prese contro l’usucapiente
sino a che non fosse stata trascritta la sentenza che la dichiara, si sarebbe dato un colpo assai grave all’istituto
dell’usucapione che invece nel nostro ordinamento ha un’importanza fondamentale. Infatti colui che ha acquistato per
usucapione sarebbe costretto, per avere la libera disponibilità di fatto del suo diritto, di provocare l’accertamento
giurisdizionale dell’acquisto nei confronti di colui che per effetto dell’usucapione ha perduto il suo diritto. Ora
addossare all’acquirente l’onere di un giudizio di accertamento anche quando il suo diritto non subisce alcuna
contestazione, e per di più un giudizio nei confronti di persone che possono essere ignote e a distanza di molti anni dal
giorno in cui l’usucapiente ha cominciato a possedere in violazione del diritto del proprietario, non sarebbe stato certo
molto opportuno, anche a prescindere dal fatto che l’usucapione è un modo di acquisto che ha in sé, nel prolungato
esercizio del diritto, la sua virtù e la sua ragione di essere, e che quindi non può essere condizionato, neppure sotto il
profilo della disponibilità di fatto della cosa, a una pronuncia giudiziale, che ne accerti il compimento”.
144[144]
Cfr. per tutti GAZZONI, La trascrizione immobiliare, II, Milano, 1993, p. 114; PETRELLI, Note sulla
trascrizione degli acquisti “mortis causa”, in Riv. not., 1993, p. 304.
145[145]
PETRELLI, Note sulla trascrizione degli acquisti «mortis causa”, loc. cit. (ed ivi riferimenti di dottrina).
sospensione della stessa 146[146]. Anche nei suddetti casi, quindi, in presenza di acquisto a causa di
morte è necessario “allineare” le risultanze dei registri immobiliari a quelle catastali.
In definitiva, in alcuni casi – come quello da ultimo descritto – solo apparentemente manca un
“titolo legale”, idoneo alle formalità di trascrizione: la realizzazione del titolo di accettazione tacita
consente la trascrizione e quindi l’allineamento richiesto dalla legge. In altri casi un tale titolo
effettivamente manca, e deve allora ritenersi che l’atto possa essere stipulato – facendo
opportunamente menzione di tale circostanza – senza che a ciò sia di ostacolo il secondo periodo
del comma 1-bis dell’art. 29.
4.6. Conseguenze della violazione degli obblighi posti a carico del notaio.
La prima bozza del d.l. n. 78/2010, quale pubblicata dagli organi di stampa 147[147], stabiliva – in
quello che era l’originario comma 1-ter aggiunto all’art. 29 della legge n. 52/1985 – che “il notaio
può stipulare gli atti di cui al comma 1 solo previa individuazione degli intestatari catastali e
verifica della loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari”. Se la norma fosse rimasta
di questo tenore, non sarebbe stato dubbio che il ricevimento o l’autenticazione di un atto, in
assenza della preventiva verifica richiesta, avrebbe integrato violazione dell’art. 28, n. 1, l. not.,
trattandosi di atto espressamente vietato dalla legge.
Il testo di legge è tuttavia cambiato rispetto a quella originaria bozza, e oggi, nel suo testo
definitivo, si limita a disporre che “prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli
intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari”.
Formulazione, questa, che appare significativa soprattutto nel raffronto con la precedente: non viene
più vietata la stipula dell’atto in assenza della previa verifica, ma si pone unicamente un obbligo di
comportamento a carico del notaio. Nessuna conseguenza, invece, sulla validità dell’atto, che
certamente non è inficiata dalla mera violazione di un obbligo di verifica da parte del notaio, non
potendo ovviamente ascriversi la disposizione alla categoria delle norme imperative, la cui
violazione determina nullità virtuale ex art. 1418, comma 1, c.c.
Esclusa, conseguentemente, la sanzione disciplinare per violazione dell’art. 28 l. not., non
appare tuttavia dubbio che sia configurabile ad altro titolo – in caso di inadempimento –
responsabilità disciplinare del notaio. La fonte di questa responsabilità è da individuarsi
innanzitutto nell’art. 135 l. not., che commina sanzioni di diversa natura ed intensità
(dall’avvertimento alla destituzione), precisando al comma 2 che “tali sanzioni si applicano
indipendentemente da quelle comminate da altre leggi ed anche qualora l’infrazione non comporta
la nullità dell’atto o il fatto non costituisce reato”. In particolare, le sanzioni dell’avvertimento e
della censura (previste dall’art. 136) sanzionano il notaio per la violazione dei doveri allo stesso
imposti, senza effettuare elencazioni tassative, quali sono quelle previste, per i casi più gravi, dagli
artt. 137 ss. l. not. Né può sostenersi che tale relativa “genericità” violi il principio di tipicità delle
sanzioni amministrative, visto che gli artt. 135 e 136 rappresentano basi normative certamente
sufficienti a giustificare l’irrogazione delle suddette sanzioni, quando sussista una infrazione
specifica ad un obbligo sancìto da una precisa disposizione di legge, come avviene nel caso in
esame. Non vi è neanche dubbio che, nei casi più gravi, scatti poi la sanzione disciplinare prevista
dall’art. 147 l. not., non essendovi dubbio che in certe situazioni anche la violazione degli obblighi
qui in esame possa integrare violazione dei princìpi di deontologia professionale, e compromettere
il decoro ed il prestigio della categoria.
Non è configurabile, invece, alcuna responsabilità penale del notaio, se non nel caso in cui lo
stesso dichiari falsamente nell’atto pubblico di aver eseguito una verifica che in realtà non ha
effettuato, o di avere riscontrato una conformità nei fatti insussistente.
Non vi è, infine, dubbio che sia configurabile responsabilità civile del notaio, per gli eventuali
danni arrecati dalla violazione dell’obbligo in esame.
Gaetano Petrelli
146[146]
147[147]
PETRELLI, Note sulla trascrizione degli acquisti «mortis causa”, cit.
Cfr. Il Sole 24 Ore del 29 maggio 2010, p. 28.