Non si può accettare Una conversazione con Mario Tronti a cura di

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Non si può accettare Una conversazione con Mario Tronti a cura di
Non si può accettare
Una conversazione con Mario Tronti
a cura di Pasquale Serra
In uno dei testi più densi di questa raccolta – «Politica e cultura» –
c’è un brano che sintetizza molto bene tutto il tuo pensiero: «pensare
per estremi. Altra cosa, altro piano è l’agire. L’errore è agire conseguentemente per estremi. Qui, c’è falsa coerenza logica e reale contraddizione storica». Che cosa significa?
In altro luogo mi sembra di aver detto: un pensare estremo e un agire accorto. Sono formule che spesso sono trattenute per la loro icasticità linguistica, ma poi poco specificamente pensate. Come fossero brillanti trovate letterarie. No,
sono il frutto finale di un percorso di duro interno lavoro, di
quella «fatica del concetto», che qualcuno ci ha raccomandato di coltivare. Quando esplode – perché così accade, esplode – la forma stilistica è perché il pensiero ha raggiunto il
punto di convinta chiarezza. Leggo molti libri di autori contemporanei e nella maggior parte dei casi trovo un discorso
che si esprime in un linguaggio che mi viene da dire inutilmente complicato. Magari c’è anche del pensiero, ma non si
riesce a dirlo in modo da farsi capire. Quando accade questo
è perché, secondo me, il pensiero stesso dell’autore è ancora
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confuso, non è ancora arrivato a chiarirsi, non è maturo. Bisognerebbe avere la pazienza di aspettare, lavorare ancora,
come l’artigiano con il proprio prodotto. Quando il risultato
è pronto dentro, si esprime fuori da solo. Questo è il punto:
il pensiero, nel suo contenuto e nella sua forma, non può
venire da fuori. O viene da dentro, o non c’è. È vero che
spesso sono irresistibili gli influssi esterni, che fanno moda e
quindi affascinano. Qui da noi, ad esempio, hanno combinato, in ambienti diversi, disastri culturali sia un certo heideggerismo sia un certo foucaultismo, come merce di importazione e quindi di cattiva imitazione.
Insomma, io penso questo: che non c’è bisogno di essere
oscuro per essere profondo.
Ma veniamo al punto di merito. In fondo è il grande tema di teoria e pratica, di filosofia e prassi. Quando Gramsci
nei Quaderni usa il termine «filosofia della prassi», si è detto
che era per sfuggire alla censura del carcere, e cioè per non
nominare il marxismo. Ho sempre pensato che ci fosse
qualcosa di più, che quel termine corrispondesse in lui a
un’idea di marxismo. È l’idea dell’XI Tesi su Feuerbach di
Marx: i filosofi fin qui si sono limitati a interpretare il mondo, adesso è venuto il momento di cambiarlo. Molti pezzi
della statua di Marx sono caduti, questo è il volto che rimane, insieme ad altre essenziali parti del suo corpo. Questo
fondamentale concetto è stato poi raffinato dalla storia e
dalla riflessione, che ne sono seguite. Il passaggio novecentesco in questo ha portato conferme e smentite, correzioni e
approfondimenti.
Io ne ho tratto motivi di aggiustamento del problema, in
base ad esperienze pratiche e anche a scorribande teoriche.
È indubitabile che il rapporto pensare/agire si è complessificato. In fondo il tempo di Gramsci era più vicino a quello di
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Marx di quanto non lo sia il tempo di Gramsci rispetto al
nostro. Tra i due piani non si realizza più un rapporto lineare, di adattamento o di rovesciamento, si è interposto un
contrasto, che è logico e storico insieme. Questo è molto
dettato dallo stato del rapporto di forza tra le grandi prospettive di conservazione e di trasformazione del mondo.
Oggi una cosa è certa: puoi pensare la rivoluzione, ma non
puoi farla. Questo non poter fare sovvertimento delle cose
porta molti, porta quasi tutti, a dismettere un pensare alternativo e ad accogliere culture compatibili con la prassi vincente in atto. Nei casi migliori si attenua la carica antagonistica delle idee per ottenere un miglioramento delle condizioni presenti. Nei casi peggiori, si scavalca il campo e si
passa dall’altra parte, assumendo il punto di vista dominante, visto che le cose stesse lo confermano. Il primo atteggiamento è l’errore del riformismo contemporaneo. Il secondo
è un vero e proprio cedimento alle ragioni dell’avversario.
Ai primi bisogna riservare la critica, ai secondi il disprezzo.
Poi c’è l’inverso. Ci sono quelli che vogliono portare l’estremo nell’azione. Dobbiamo confessare che l’estremismo
non è solo una malattia infantile, è anche una malattia senile del comunismo. Permane, è inestirpabile, ha anch’esso
le sue ragioni. Ma è destinato a un minoritarismo congenito,
a volte inoffensivo, altre volte purtroppo dannoso. Occorre
dire che spesso le persone che lo praticano sono da sentire
umanamente vicine. Queste zone di resistenza e di aggressione dal basso, specialmente a livello di giovani generazioni, sono anche preziose. Permettono di intravedere bisogni
e pressioni che, una volta riconosciute, andrebbero risolte e
riorganizzate in altre forme. Ciò non toglie che lì c’è da rilevare un vizio di fondo: non si può gridare all’abbattimento
del sistema, senza avere la forza, e dimostrare di averla, non
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dico per portare a termine, ma almeno per iniziare l’opera.
Mi è anche qui capitato di dire: non si può essere antagonisti, in pochi, o si è in grado di portarsi dietro i molti, o bisogna anche qui preparare il terreno per rendere credibile
nella pratica la prospettiva che ritieni giusta per sola teoria.
Il pensare estremo l’ho imparato da Marx. Ma non solo.
Anche da tutte quelle forme di pensiero incomponibili con lo
stato presente, inassorbibili dall’opinione corrente, irriducibili
al senso comune di massa, alternative al buon senso intellettuale. Queste forme sono venute da chi prefigurava un altro
mondo per il futuro, ma anche da chi rammemorava un altro
mondo, dal passato. Di qui, la mia passione, assolutamente
non compresa, di coltivare insieme il pensiero grande rivoluzionario e il pensiero grande conservatore. Ferruccio Masini
usava l’espressione «pensare per estremi», perché conosceva
bene Nietzsche e frequentava il nichilismo del Novecento. A
volte – non sempre, e bisogna essere attenti e valutare caso
per caso – contro ciò che c’è e contro chi comanda qui e ora,
vale più ciò che c’è stato rispetto a ciò che sta per essere.
L’agire accorto l’ho imparato da Machiavelli, l’ho inseguito nei teorici della ragion di Stato, poi alla scuola dei Gesuiti, specialmente spagnoli, quindi nella forma politica del cattolicesimo romano, l’ho ritrovato in Max Weber e in Carl
Schmitt, l’ho studiato e ristudiato e dunque approfondito in
Lenin, non nei suoi libri di scarso spessore teorico, ma nelle
sue geniali e magistrali mosse tattiche. Per nessuna ragione
«ideale» rinuncerei a questo sapere incorporato.
Tra il tuo pensiero e il tuo mondo, in mezzo, c’è il tuo
tempo. Con questa contingenza devi fare i conti. Spesso è
un terreno nemico. Devi attraversarlo, senza farti né eliminare né imprigionare. Se ne esci libero e vivo, è un miracolo. Il miracolo dell’esistenza sovrana.
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In molti tuoi scritti recenti, ed anche in molti passaggi di questo libro, affronti il problema della congiuntura, a cui accennavi ora, e
lo colleghi immediatamente alla questione della libertà. Dici spesso
«pensare nella congiuntura, ma liberi da essa»: qui, il «pensare per
estremi» serve a non farsi mai acchiappare dalla congiuntura, e a
durare oltre di essa. Il problema della durata è di fondamentale importanza, anche perché è sul problema della durata che si consuma
la tragedia di tutte le filosofie dell’immanenza, di tutte le filosofie
della prassi novecentesche, le quali, ad un certo punto, dopo aver a
lungo parlato, si ammutoliscono e muoiono. Non durano, appunto,
perché le loro culture non sfuggono alla trappola dell’«ora», alla
trappola della congiuntura.
Ecco un’altra formula, da sistemare: pensare nella congiuntura, ma liberi da essa. Il pensiero politico è sempre
pensiero nella congiuntura. Mi verrebbe da dire che ogni
pensiero è nel qui e ora. Ma lasciamo stare. Una volta mi
capitò di parlarne con Dossetti, negli ultimi anni della sua
vita, che trascorreva nell’eremo di Monteveglio. E da lui mi
venne un elogio teologico-politico della contingenza, come
una sorta di benedizione divina. Ne ha parlato Althusser, in
un libretto, Machiavelli e noi, distinguendo tra il pensiero
«della» contingenza e il pensiero «nella» contingenza. Quest’ultimo è, secondo lui, il pensare di Machiavelli, e poi di
Marx. Non sono mai stato un althusseriano, ma questa tesi
mi convinceva.
Che cos’è la congiuntura? È il tempo breve, la storia in atto, cioè il complesso delle condizioni determinate entro cui
ti trovi ad agire, a volte provocate da precedenti livelli di
soggettività, altre volte autoprodotte da meccanismi oggettivi di sistema. Anche questa differenza devi capire, col pensiero, per orientarti nell’azione. L’economia, ad esempio, in
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una società capitalistica, ha le sue leggi di movimento, ha un
andamento ciclico, e allora va individuato il carattere del ciclo presente. A differenza di quanto si pensa, anche la politica ha i suoi cicli, ci sono quelle «regolarità della politica»,
come le chiamava Miglio, che le forze di alternativa hanno
sempre avuto il torto di non considerare. Poi, c’è l’iniziativa
dell’avversario, che cambia forma, si dà diversi strumenti,
modifica il terreno di gioco. Devi pensare politicamente
dentro questo contesto, appunto mutevole.
Questo non fa problema. La politica riformista ha tenuto
conto molto di questo, ha saputo stare nella congiuntura,
magari anche un po’ troppo, scambiando un passaggio provvisorio come un approdo definitivo. È accaduto con il recente
ciclo neoliberista. Per stare nella congiuntura, si rimane in
essa prigionieri, comunque ad essa subalterni. Ma questo
per mancanza di pensiero. La politica antagonistica commette l’errore opposto. Spesso non vede proprio la congiuntura. Si muove su parametri eterni, i padroni sono sempre
quelli e vanno combattuti sempre allo stesso modo. Magari
con la stessa risposta d’organizzazione. La situazione determinata, di cui non tieni conto, ti sconfigge. È un altro modo
di restare prigionieri della congiuntura, un’altra forma di
subalternità.
Che vuol dire allora: liberi dalla congiuntura? In che consiste questa libertà? Consiste nel conquistare, conservare,
raffinare l’autonomia del proprio punto di vista.
E il punto di vista è fatto di due cose Per prima cosa: il
riferimento al tuo blocco di interessi, di bisogni, di diritti, di
aspettative; e questo non può che essere centrato intorno al
mondo del lavoro, così com’è oggi, cioè nelle contingenti
trasformazioni, che esso attraversa; riferimento materiale,
non ideale. Per seconda cosa: il punto di vista è un pensiero
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di parte sul tutto; anche qui lo stesso percorso, conquistarlo,
conservarlo, raffinarlo; una volta si usava una bella espressione, «Welt-und-Lebensanschauung», concezione del mondo e
della vita, naturalmente, storicamente, alternativa a questo
mondo e a questa vita.
Libero dalla congiuntura vuol dire che devi saper stare
dentro il momento, il passaggio, contingente, ma con una
tua forza e un tuo pensiero. Puoi fare compromessi pratici
vincenti solo quando hai dietro di te un esercito e con te uno
stato maggiore che decide autonomamente le mosse della
guerra. Senza queste due cose, tutti i compromessi pratici
sono perdenti.
La durata: è essenziale. I processi sono lunghi. La storia
stessa del movimento operaio è stata, a suo modo, di lunga
durata. Sta almeno dentro due secoli. Una vicenda di questa
portata non può scomparire come se non ci fosse mai stata.
È forse scomparso il capitalismo, che aveva nel movimento
operaio un interlocutore/contraddittore storico? Se abbiamo
capito bene la società capitalistica, dalla lezione di Marx in
poi, essa non può vivere senza una contraddizione di fondo,
che dal suo interno la sviluppi, o, ma è la stessa cosa, senza
che la metta in crisi perché si sviluppi. Qual è la contraddizione che residua dall’esaurimento di quella forma storica di
movimento operaio, centrata sulla classe operaia della grande
industria manifatturiera? Residua, perché continua, si protrae, va oltre la fase, si allunga sull’epoca. Cambia forma e si
situa, altra, al di là della congiuntura.
Certo, qui c’è il problema dell’oltre. Per non essere subalterni alla congiuntura, ci vuole un’idea di quanto c’è stato
prima, e di quanto può esserci dopo. Una filosofia della storia in generale, no, ma una filosofia della propria storia, sì.
Il difetto delle filosofie dell’immanenza non è di essere sen19
za storia, ma di essere senza storia sacra, senza cioè una storia che abbia un senso, non una direzione, piuttosto un significato, una tensione, una scommessa, per cui valga la pena di viverla da parte di soggettività collettive autonomamente fondate. Per assicurare la durata è necessaria l’istituzione, perché la propria storia continui deve organizzarsi.
Istituzione e organizzazione non sono la stessa cosa, ma sono le due forme che sole permettono di oltrepassare la congiuntura. Anche qui, al contrario di quanto si pensi, le strutture sociali sono più effimere delle forme politiche. Questo
è il motivo per cui i cosiddetti movimenti, che si propongono di aderire immediatamente alla superficie delle soggettività sociali, non hanno durata. Le forme di movimento sono
tutte sempre congiunturali. Colgono il momento, ma con il
momento spesso passano e si perdono.
La trappola dell’ora è mortale per le forze che si propongono di cambiare il corso delle cose. L’ora, il momento, la
congiuntura, il destino si presentano oggi con il volto del
nuovo, del mai stato, del massimo di opportunità, della facilitazione tecnica, della risoluzione facile. Cade il livello di
responsabilità. E con esso si involgarisce il senso della libertà. Il mondo nemico è questo. Bisogna starci dentro ed essere contro. Un esercizio difficile, che ogni giorno è messo alla
prova. Ma è così che si cresce e si diventa profondi.
Dentro e contro, dici: un topos dell’operaismo. Che però, negli ultimi anni, decenni ormai, hai ulteriormente affinato, toccando un livello di profondità che era pressoché assente nel periodo precedente.
In quello che dici c’è molto più della «Lettera a Diogneto» che di
«Operai e capitale», sebbene tra le due opere sia rintracciabile un
filo sottilissimo di continuità. Sono cambiati gli strumenti, forse, ma
il nemico è lo stesso. Si potrebbe dire con il giovane Blanchot («Si
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cercano dissidenti», del 1937), che tu abbandoni o affini una posizione senza cessare di osservare la stessa ostilità di fronte alla posizione contraria o, piuttosto, l’abbandoni per accentuare questa ostilità. Il nesso trascendenza-libertà c’era già in «Operai e capitale»,
solo che ora è diventato, in forma esplicita, il tuo tema centrale, un
tema che affronti da diverse angolazioni (la coscienza, il mondo interiore, la spiritualità, ed anche, su un piano diverso, la teologia
politica), ma per giungere ad un punto dove guadagna nuova
centralità l’uomo religioso, perché è l’uomo meno assimilabile di
tutti, il più adatto (quasi in senso evoluzionistico) a stare dentro e
fuori, dentro e contro: e a durare di più. Mi sembra che questa sia
per te una chiave molto importante perché la usi finanche per spiegare la vittoria del comunismo in Russia e l’impossibilità della Rivoluzione in Occidente.
La domanda è molto complessa. Mi fa venire in mente,
per scherzare un po’, un episodio, che lessi anni fa sui giornali. De Gaulle, da Presidente dei francesi, era in visita in
una città. Un suo seguace lo apostrofa: generale, a morte
tutti i coglioni! De Gaulle si ferma, si volta e, con fare pensoso, risponde: «il suo progetto è troppo ambizioso». Troppo ambiziosa è questa domanda. Su alcuni temi qui sollevati
il pensiero è ancora in corso, su altri ho intenzione di tornare in altra sede, ad approfondire e ad argomentare. Partiamo dal più semplice: il dentro e contro. È vero, è una scoperta dell’operaismo, la forza-lavoro dentro e contro il capitale, la classe operaia dentro e contro il capitalismo, noi
dentro e contro questa struttura di mondo, a un certo punto
si è teorizzato lo stare dentro e contro il partito così com’è,
anzi com’era. Questo, per cogliere due obiettivi in uno:
mantenere l’alterità rispetto al nemico che hai scelto, e non
isolarti uscendo fuori dal contesto, contrapponendoti in
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modo astratto. Il problema è sempre quello: primato del
conflitto, ma cercando l’efficacia dell’azione, che si può ottenere soltanto essendo punto interno della contraddizione.
Non declamare di essere altro, ma agire in modo da esserlo
realmente. Poi, come tu dici, il senso della posizione si è affinato. Ma tutto bisogna curare che sempre si affini, continuamente riflettendo sulle proprie esperienze. I comunisti
non furono i primi, e soli, a contrapporsi in modo intelligente. I primi cristiani ad esempio fecero esattamente così.
Passarono dalle catacombe alle chiese, iscrissero la loro religione entro i confini dati dalla struttura imperiale romana,
portarono un messaggio di salvezza dentro un ordine del
potere. E vinsero perché durarono. E durarono perché, come si dice nel Vangelo di Giovanni, essi erano «nel mondo»,
ma non «del» mondo. E, su questa base, si fecero istituzione
Chiesa. Della Lettera a Diogneto ha parlato a lungo, non a caso, Franco Rodano. L’ostilità è il punto che tiene, che deve
tenere. Perché regge il senso del discorso complessivo e attraversa le sue diverse successive fasi. È anche il punto più
difficile da dire.
Tutta la condizione politica contemporanea tende a rimuovere questo tema. Si vuole far credere che viviamo in
una società pacificata, che ha superato le contrapposizioni di
un tempo – quel tempo naturalmente era il Novecento –
quando c’era la lotta di classe, c’erano le guerre mondiali, e
c’erano muri e blocchi e divisioni e reciproche incomprensioni. Oggi invece parliamo tutti la stessa lingua – naturalmente l’inglese –, stiamo nella stessa barca, dobbiamo remare nella stessa corrente, collaborare in santa pace al bene
comune, preoccuparci delle sorti del pianeta senza toccare i
profitti dei capitalisti, cambiare il mondo senza prendere il
potere, risolvere la fame nel mondo senza espropriare gli
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espropriatori… La sinistra è stata seppellita in questo cimitero! E accanto a lei, nella tomba vicina, la politica. Che ragione hanno più infatti, l’una e l’altra, di vivere? Competere
«per» qualcosa senza lottare «contro» qualcuno è l’utopia
della democrazia. Il massimo ammissibile del conflitto è la
provvisoria personalizzazione di quel qualcuno, nella parte
del «cattivo». Lo era Bush, lo è Berlusconi. Allora si rianima
la volontà di lotta. Basta un niente, un Obama, e l’America
torna ad essere il «buon pastore» del mondo. E i poveri no
global non hanno più che fare. Eliminato Berlusconi, che fare avrà l’opposizione intellettuale e sociale italiana, oltre che
tornare al governo con Banca d’Italia e Confindustria? È la
condizione soggettiva che è drammatica, non la situazione
oggettiva che, sviluppo o crisi, lascia sempre margini di manovra. Non mi preoccupa «il nemico»: so chi è e come devo
stargli di fronte. Tra l’altro esso, malgrado le sue chiacchiere, non cambia granché. Mi preoccupa «l’amico», il disperante stato della mia parte. Siamo noi che abbiamo questa
ossessione di cambiare, di rincorrere il nuovo anche quando
il nuovo è contro di noi, di diventare «diversi», ma non dagli
altri, da noi stessi. È chiaro che in queste condizioni il discorso si fa più duro. So che mi aspetta un salto di paradigma, se possibile, più radicale di quello compiuto nei primi
anni Sessanta, in una situazione allora opposta, di spinta in
avanti, innovativa e trasformativa. Cerco di controllare i passaggi, di arginare la corsa alle ultime conseguenze. Questo è
il motivo di una ricerca che va ad occupare altri territori, la
teologia politica, la geopolitica, il nesso inscindibile di libertà e autorità, il rapporto difficile di trascendenza e politica,
il mito dell’homo religiosus contro la realtà effettuale dell’homo
democraticus. Ma di tutto questo, non qui. Anche questo dialogo ha, ed è bene che abbia, un «oltre».
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Da un altro versante, e su un altro piano, il tema potrebbe essere:
politica e storia. Politica vs. Storia: il lavoro di Sisifo, lo hai chiamato in una recente Conversazione sull’«autonomia del politico».
Nell’intermezzo di questo libro, in mezzo a politica e lavoro, si
parla dei comunisti: che cosa hanno rappresentato i comunisti in
questa guerra, o in questa dialettica, tra politica e storia? La storia
– un tuo vecchio tema –, mi piacerebbe molto capire che cosa rappresenta la storia nel tuo pensiero. Che cosa ha rappresentato? E
che cosa rappresenta ora? Credo che qui, sul tema della storia (e poi
su quello della necessaria scissione tra storia e filosofia), ci sia un
punto importante che ti avvicina molto a Luporini e a tutto quel
marxismo complesso degli anni ’50 e ’60; un marxismo spazzato via
dal ’68, in questo veramente data epocale, perché è a partire dal
’68 che ci siamo abbarbicati alla superficie delle cose e degli uomini,
e poi, com’era prevedibile, «suicidati».
Hai ragione. È un tema per me strategico questo di politica e storia. Relativamente recente, come emersione alla
superficie, ma in incubazione, nel profondo, da tempo. Ho
sempre coltivato il pensiero, e la produzione di pensiero, in
antagonismo con il tempo storico. Ho letto i pensatori in
rapporto con il loro tempo. La definizione di Hegel: la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero, è stata una
stella di orientamento. Non da libro a libro, ma da epoca a
epoca, sta il passaggio che, volta a volta, dobbiamo pensare.
Il rifiuto delle note a piè di pagina, l’assenza di interminabili apparati bibliografici, non è, nei miei libri, disprezzo per
il pensiero degli altri, che del resto utilizzo a modo mio, è
piuttosto la cura del proprio pensiero come scelta di lavoro
intellettuale. In questi giorni ho trovato una stupenda osservazione di Schopenhauer, dai Manoscritti berlinesi, che vorrei
dedicare ai giovani intellettuali in formazione. «Merita di es24
sere letto soltanto colui che ricava la materia di cui scrive
anzitutto e ‘direttamente’ dalla sua testa. Invece tutti i fabbricatori di libri, i compilatori di compendi e simili prendono la materia direttamente dai ‘libri’ […] Spesso quindi il loro cicalare ha talmente poco senso che invano ci si rompe la
testa per sapere ‘che cosa’ alla fine pensano: non pensano
affatto […]. Per questo non bisogna mai leggere i compilatori, ma solo sfogliarli, per via delle citazioni: il resto è carta
straccia». La storia dunque è il nostro interlocutore, con cui
ci dobbiamo misurare, possibilmente alla pari. Là dove c’è
grande storia, dobbiamo salire a grande pensiero. Noi poi
abbiamo imparato una cosa, dall’esperienza diretta. Il processo storico non è una marcia trionfale verso il meglio. Un
errore del movimento operaio, dello stesso Marx, e poi di
gran parte del marxismo, è stato di aver assunto, di aver fatto propria, senza critica, l’idea di progresso. Un’idea borghese moderna, elaborata in continuità dall’illuminismo materialista, dall’idealismo storicista, dal positivismo scientista,
e che solo il Novecento, subito, ai suoi inizi, ha buttato a
gambe all’aria e solo la restaurazione antinovecentesca degli
ultimi decenni ha rimesso, non a caso, trionfalmente in sella. È un’idea organica alla natura storica del capitalismo,
maschera ideologica del suo bisogno e della sua capacità di
invincibile infinita innovazione di processo. Per questo, il
rapporto con la storia moderna, quando essa, come oggi, è
interamente occupata dal capitalismo moderno, senza nessuna potenza di alternativa, è un rapporto di inimicizia.
Nemica della storia in atto è stata nel passato la politica.
Oggi non più. Ma potrebbe tornare ad esserlo. La rivoluzione comunista del Novecento è stato un atto politico contro il
destino di una storia unica, scritta per tutti i popoli e tutte le
nazioni del mondo: occidentalizzazione, modernizzazione,
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borghesizzazione, democratizzazione. Sconfitta storica, probabilmente inevitabile, dato lo stato oggettivo dei rapporti
di forza e la condizione di immaturità dei soggetti alternativi. Ma l’intera umanità, non appena sarà trapassato questo
tempo stupido che ci opprime, tornerà ad essere grata ai
comunisti per aver compiuto questo eroico tentativo. Che in
qualche altro modo, in forme del tutto diverse, che oggi non
riusciamo nemmeno a immaginare, dovrà essere ripetuto. Il
destino della storia è potente ma non è onnipotente. Ma ecco, non c’è un destino anche dall’altra parte. Dall’altra parte, dalla nostra, c’è una volontà. O c’è questa, o non c’è niente. Ma che cos’è la volontà se non la politica? Armarsi di
un’idea-forza, organizzarla, farla precipitare nell’entusiasmo
collettivo di una prospettiva, che muove menti e cuori,
avanguardie non minoranze, le avanguardie guidano i molti, le minoranze si chiudono fra i pochi. E soprattutto risollevare la «grande paura» nel campo di chi comanda, perché
solo questo capisce chi comanda, la paura di non poter più
comandare.
Hai ragione anche sul marxismo italiano del secondo dopoguerra. Ha avuto delle punte di eccellenza, Della Volpe,
Luporini, Banfi; un marxismo critico nei confronti della
tradizione dominante, storicistico-idealista, tutto da riscoprire. Queste personalità sono arrivate a Marx, dopo aver
sperimentato altri filoni di pensiero. La mia generazione,
venuta dopo, ha fatto il percorso inverso. Siamo partiti da
Marx e poi abbiamo contaminato il marxismo con altri filoni
di pensiero. Ognuno ha scoperto i suoi. Io ho frequentato il
filone realistico del pensiero politico moderno e la tradizione del grande pensiero conservatore. È questo che mi ha
concesso di non farmi incantare dalle sirene sessantottine. E
mi tiene opportunamente lontano da ogni radicalismo liber26
tario, da ogni partecipazionismo democratico, da ogni laicismo secolarizzante. Ma sul ’68 non voglio tornare. Ho già
detto altrove. È un discorso difficile. Ho visto che un approccio critico al tema va a colpire le persone che da quella
esperienza hanno tratto in fondo il meglio di sé, e su quella
sono cresciute e si sono formate. Penso a quello strato di intellettualità, maschile e femminile, che ancora rappresenta
un fronte di resistenza alla deriva attuale della società e
della politica. La polemica va condotta con quel pezzo di ceto politico della sinistra che, mentre allora fu più che tiepido
nei confronti dei moti del ’68, ne ha poi assunto solo le
istanze che sono servite alla modernizzazione di sistema: ricambio delle classi dirigenti, cambiamenti selvaggi del costume, distruzione di civili tradizioni, pulsioni antipolitiche
e antipartito. E poi un’idea di cultura come moda, happening, performance, installazione mediatica, musei aperti anche di notte e biblioteche chiuse anche di giorno. Il «suicidio
della rivoluzione» non è venuto solo da lì, ma anche da lì.
Suicidio della rivoluzione è stato anche fine della centralità del lavoro, un pilastro o un macigno dell’Antinovecento. Al tema del lavoro è dedicata una parte significativa di questo libro, nella quale
tuttavia la difesa del lavoro viene svolta in un quadro sostanzialmente nuovo, molto problematico, con elementi di forte discontinuità rispetto al passato. Parli spesso di «lavoro dopo la classe» o
anche di «popolo dopo la classe». Il tema andrebbe precisato. Forse
si dovrebbe dire «la classe dopo l’economia», in quanto il problema
non è la classe, ma l’economia, ed il tema che andrebbe ripensato è
il rapporto Marx/economia politica, ovvero il tema della «critica
dell’economia politica», perché se si assume integralmente il piano
dell’economia politica, il rischio che si corre è quello di girare in
eterno all’interno di essa, e, infine, di rimanervi intrappolati. E
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qui, come sempre accade nel tuo pensiero, si entra in una terra di
frontiera, o anche in un territorio nemico, tra le due rivoluzioni
novecentesche (la rivoluzione operaia e la rivoluzione conservatrice), e forse varrebbe la pena dire qualcosa su questo punto, sul tema
del fascismo innanzitutto, l’eterno enigma del movimento operaio.
Il lavoro, dunque. Manca ancora una considerazione di
fondo, una elaborazione sistematica. In realtà, il discorso sul
lavoro in questa fase nasce più da un’esigenza pratica che da
un bisogno teorico. Il discorso sul lavoro è molto una proposta per la sinistra. Si tratta di ricomporre, di ricostruire,
un’idea di sinistra. E la proposta è che questo si può fare
solo recuperando e riorganizzando una centralità del lavoro.
Sembrerebbe una cosa ovvia. E invece è il contrario. Per la
maggioranza dello schieramento che si definisce di centrosinistra, e per moltissimi di quelli che fino a ieri militavano
in un partito di sola sinistra, si tratta proprio di superare
questa centralità, se si vuole conquistare un consenso più
largo, indispensabile per diventare forza di governo, legittimata da un voto popolare. Quindi quello sul lavoro è un
discorso fondamentalmente polemico, che mira a contrastare questa posizione. È un limite, che in qualche modo impedisce l’approfondimento del tema. L’espressione che io
uso spesso è quella di una sinistra dopo il movimento operaio, che si fa erede di quella storia e la porta avanti nelle
condizioni del capitalismo attuale. Il movimento operaio era
quel complesso di forme organizzate e di coscienze collettive
fondato su una centralità operaia, su una centralità politica
del lavoro industriale. È chiaro che questa condizione sociale non si dà più. L’eredità che la sinistra deve raccogliere
da quella lunga storia è una centralità del lavoro, oltre i
confini della fabbrica moderna, declinando l’attività lavora28
tiva a tutti livelli, materiali e intellettuali, in cui essa si svolge
nella struttura presente della produzione di profitto. Anche
quella del lavoro odierno deve essere una centralità politica.
La centralità del lavoro non è un fatto sociologico da rilevare empiricamente. È un’opzione soggettiva che legge, e fa
leggere, la diffusione e la frantumazione, la dispersione, la
precarizzazione, la stessa disoccupazione, come un interesse
unico. Legge e fa leggere il multiverso dei «lavori» come
universo del «lavoro». Evidente che per questo diventa essenziale l’esistenza di una forza organizzata che si prende in
carico questo compito politico. Il lavoro per noi non è un
valore. Un valore, produttore di plusvalore, lo è semmai per
il capitale. Non stiamo dalla parte dei lavoratori, perché lavorare è bello, o perché il lavoro nobilita l’uomo. Siamo
dalla parte dei lavoratori perché sono sfruttati dai padroni e
lo sfruttamento non si può accettare. In questo senso, gli
operai dentro il capitale sono stati l’ultimo anello, quello
giunto a più alta coscienza, della lunga catena degli oppressi. Ai lavoratori di oggi bisogna riconsegnare questa coscienza, di essere un ulteriore anello della catena; proprio in
quanto lavoratori, esseri umani non-liberi, pur vivendo nelle
più avanzate democrazie del mondo. E poi, stiamo dalla
parte dei lavoratori, perché questi, una volta organizzati politicamente, rappresentano l’unica vera minaccia portata nel
cuore della formazione economico-sociale capitalistica. E
questo alla fine ci interessa: qual è, dov’è, la forza potenzialmente in grado di contrastare, e alla fine, rovesciare l’attuale forma di dominio. Non mi soffermerei più di tanto
sulla disamina delle formule. Il «lavoro dopo la classe» è
un’espressione usata, per primo, da Aris Accornero. Credo
sia per lui una formula descrittiva. A mio parere corretta.
Classe erano, o potevano diventare, gli operai. Può esistere
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una classe dei lavoratori? A parte che non c’è classe senza
lotta di classe. E si può motivare il conflitto sociale contemporaneo nel senso di lotta di classe contro classe? Mi pare
un declamatorio alzare i toni delle parole, del tutto inconcludente. È come presentare una lista comunista e anticapitalista alle elezioni di un comune di montagna. La «classe
dopo l’economia» potrebbe avere senso se si ha in mente di
aprire un discorso di critica della critica dell’economia politica. Ma mi viene in mente il sarcasmo distruttivo di Marx,
quando nell’Ideologia tedesca si prendeva gioco della critica
della critica…
Popolo del lavoro, ma sarebbe meglio dire dei lavoratori,
è un’espressione non perfetta, approssimativa, però comprensibile. Quell’espressione per me traduce, aggiornandola
e diciamo pure adattandola, quell’altra a noi, a me senz’altro, cara di «popolo comunista». Un protagonista della storia recente, che consapevolmente è stato messo a morte. I
gramsciani-togliattiani ortodossi non hanno mai assunto
questa definizione. Perché, per loro, popolo è popolo-nazione. Io non ho mai ragionato in termini di Italia. È il sociale,
non il nazionale, che definisce, per me, il popolare. Con il
concetto di «diversità» Berlinguer aveva intuito un problema. Su quello viene infatti ancora crocefisso. Noi dobbiamo
continuamente badare ad iscrivere le nostre teorie, il nostro
pensiero, la nostra cultura, in una realtà di popolo. Altrimenti ci perdiamo. Ci sradichiamo e diventiamo facile terra
di scorreria per tutte le mode culturali e genericamente civili e stupidamente postmoderne, che il modo di vita borghese inventa giorno dopo giorno. Popolo è un pezzo di società, una parte sociale, autonoma e organizzata, che si fa
portatrice di un progetto di trasformazione. Né massa passiva (il popolo delle libertà!) né minoranza-mosca cocchiera (il
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partitino della sinistra). Non sarà facile farlo capire ai nostri,
ma intanto è importante che lo capiamo noi.
Il lavoro, e la stessa figura del lavoratore, è stato molto
valorizzato dalle esperienze totalitarie. L’Arbeiter jüngeriano,
le figurazioni di Sironi, parte della stessa dottrina fascista.
Ma del resto la stessa dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum novarum alla Caritas in veritate. Sono dimensioni, se non
anticapitalistiche, sicuramente non capitalistiche. Non solo
strumentali. Andrebbero esaminate con più attenzione di
quanto non si è fatto finora. C’è un antifascismo di maniera,
come c’è un laicismo di maniera, che spesso ci ha impedito
di cogliere le contraddizioni vitali presenti in campi che non
sono i nostri, ma non sono nemmeno completamente quelli
dei nostri avversari. Tu, Pasquale, ne sai qualcosa, quando ti
sei avventurato sui campi impervi della complessa cultura
del fascismo, ricevendone solo o indifferenza o ostracismo.
Il tema delle due rivoluzioni novecentesche, la rivoluzione
operaia e la rivoluzione conservatrice, che si confrontano e
si combattono, fuoriuscendo ambedue dal terreno imposto
dalla vincente soluzione «liberaldemocratica» del conflitto di
classe, questo lo considero uno dei temi più ricchi di implicazioni conoscitive che mi sia stato dato di maneggiare. Non
ci rinuncerei, a meno che non rinunciassi a capire che cosa è
veramente accaduto nella storia di ieri.
Ma senza capire la storia di ieri come facciamo a trovare il
«che fare» per la storia, o meglio, per la cronaca di oggi?
Questa volta è la tua risposta ad essere molto complessa. Molte delle
cose che dici andrebbero approfondite ulteriormente, e ulteriormente
discusse. Ma non lo possiamo fare ora, anche perché, a conclusione
della nostra Conversazione, dobbiamo dire qualcosa sul tema della
sinistra, un tema, questo, che collegherei subito ad un altro, a te
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molto caro, quello degli «invisibili», il quale, riprendendo la metodologia sintomale di Althusser, rappresenta il punto cui bisogna
giungere per scoprire «a partire da esso, le ragioni della svista che
conduce ad una vista», di un’assenza che ci fa vedere qualcosa della
sinistra presente, perché – è ancora Althusser – tra «visibile e invisibile così definiti può esistere un certo rapporto di necessità». Riprendendo uno scritto di Fortini su Panzieri hai ripreso più volte in
questi anni il tema degli invisibili, dei «diversi tra i diversi». Nelle
conclusioni ad una tua recente relazione su San Paolo, parli di
«esistenti invisibili» e li metti al centro, perché – così concludi – «le
persone che non si vedono sono le uniche con cui vale la pena di
avere un rapporto di scambio umano, perché tutti quelli che si vedono sono perduti». Chi sono gli invisibili? E che hanno a che fare
con la sinistra, con la sua crisi, con il suo futuro? Forse che non
può esistere sinistra senza gli invisibili? senza l’Invisibile? Non è
forse intorno a questo problema che stiamo tutti girando a vuoto?
Bella domanda, che mi aspettavo da te, che da tempo ragioni e mediti su questi problemi. Non so se con essa si
chiude il discorso o piuttosto non se ne apre un altro. L’altro
discorso è se, in base alle considerazioni precedenti, si può
arrivare a definire meglio, e a significare meglio, questa parola: sinistra. È infatti una parola che non dice da sola
quello che significa. Quando dicevamo socialismo o comunismo, si capiva chi eravamo e che cosa volevamo. Quando dici che sei di sinistra, c’è una domanda che segue: e allora?
Non a caso l’origine viene dal linguaggio parlamentare: chi
siede a sinistra, chi siede a destra. Siedono, appunto, e parlano. Ma che cosa vuol dire un agire, un fare, e un pensare,
di sinistra? Si cita spesso il catechismo di Bobbio, la sinistra
si distingue dalla destra, perché declina il tema della libertà
insieme a quello dell’uguaglianza e della giustizia. È il so32
cialismo liberale, da partito d’azione, che, specialmente in
Italia, ha occupato quasi per intero il territorio della sinistra.
Ma anche le varie terze vie, alla Blair, e prima alla Dahrendorf, sono questa roba qui. E il Partito Democratico se ne
allontana quel tanto che basta per accontentare la componente cattolica, che segue una terza via diversa, quella delle
encicliche sociali della Chiesa. Io credo che la sinistra è una
seconda via, rispetto alla prima via che nella modernità ha
preso l’interesse borghese-capitalistico. Un percorso diverso
per lo sviluppo del progetto moderno, un’idea alternativa
della modernità, che voleva dire un’altra idea dell’uomo e
della donna, del mondo e della vita. Il movimento operaio,
sulla base di un’analisi scientifica e sul fondamento di una
pratica diretta, aveva avuto la forza di elaborare un pensiero
teorico. Non aveva scritto una carta dei valori, aveva irriso,
con Marx, chi cianciava astrattamente di giustizia e libertà,
aveva organizzato un campo di battaglia, in cui misurarsi
alla pari con l’avversario di classe. Per questo io dico sempre: o la sinistra di oggi si fa erede della storia del movimento operaio, aggiornandola, declinandola per i tempi nuovi,
hegelianamente negandola per superarla, oppure hanno
ragione quelli, e sono i tanti, e sono i più, che dicono non
esserci più bisogno di una sinistra. Le cose stanno in questo
modo. E il modo in cui stanno è drammatico. Credo che anche su questo dobbiamo cambiare passo.
Due esempi concreti. Stiamo dicendo della sinistra, e
quindi dobbiamo parlare di politica, non di filosofia. Seconda via vuol dire che si riteneva possibile un secondo mondo.
E questo ci fu. Venne il tentativo, comunista, di costruzione
di una società socialista. Fallimento storico. Se si volevano
prendere le distanze da quell’esperimento, come era giusto
alla fine fare, non era la cosa più semplice, ragionevole, a
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tutti comprensibile, dire: l’idea di una società alternativa era
giusta, sbagliati erano i modi, i metodi, le forme di realizzazione dell’idea? Mettersi al lavoro dunque, teorico e pratico,
per cercare e trovare altri modi, metodi e forme. Quando si
è detto invece: un secondo mondo non è più possibile, ce
n’è ormai uno solo, si tratta di avere qui giustizia e libertà,
che cosa si è detto che era la sinistra? Era la sinistra, anzi il
centrosinistra della società capitalistica che si contrapponeva
alla destra, anzi al centro destra della società capitalistica. Il
sol dell’avvenire forse riscaldava troppo i corpi, ma questa
pallida luna ha raffreddato menti e cuori. Secondo esempio.
L’attuale crisi economico-finanziaria. Doveva venire un Salvati a fare la domanda: ma come mai, in una occasione come questa, la sinistra non ha ripreso forza e consistenza e
presenza? I padroni e i governi che, come la crisi stessa ha
di nuovo mostrato, sono la stessa cosa, hanno avuto appena
un momento di panico, poi si sono dati da fare approfittandone per eliminare banche infette e imprese decotte, quindi
ad una voce hanno cominciato a dire che il peggio era passato, si vedeva la luce in fondo al tunnel, oggi giurano che
siamo quasi fuori. E in base a quali elementi? Perché le Borse sono tornate sotto controllo, gli «ordini» danno segni di
ripresa, il PIL non è crollato, è solo diminuito. Poi aggiungono: per tutto l’anno e forse ancora nel prossimo, la disoccupazione continuerà a crescere. Capito? La «loro» crisi non
contempla, tra gli elementi di misura della sua intensità, la
condizione dei lavoratori. Messi a posto i «loro» conti, la crisi, per quanto li riguarda, è passata. C’è qualcuno che li richiama, non con i buoni consigli alle loro Assemblee, ma
con uno strattone, spintonandoli, alzando le mani, o almeno
alzando la voce? E non basta che a farlo sia un sindacato di
categoria, ci vuole un partito politico. Non è questo il me34
stiere della sinistra? E non riconquisterebbe così quel consenso di popolo che meritatamente ha perso? Lo dico e lo
ripeto sempre. Il problema della sinistra è la sua debolezza.
Le divisioni sono una conseguenza. Ci si divide quando si è
deboli. E l’unità non è una scelta, è un obbligo. Uniti si è più
forti. Solo se proponi una grande forza puoi conquistare il
maggior consenso. Il rapporto di forza, a questo punto, è
troppo squilibrato a nostro sfavore. E questo stato di salute
debilitato del corpo della sinistra, ormai privo di difese immunitarie, esposto all’influenza di tutti i virus che girano per
questo pessimo mondo, è stato causato solo in parte dalla
manovra intelligente, di innovazione conservatrice, sviluppata dall’avversario di classe negli ultimi tre decenni. Per
un’altra parte, dall’essersi disarmata da sola, in questa sorta
di generosa intifada, di bambini che tirano sassi contro i carri
armati. Belle parole, buoni propositi, contro crudi fatti e
spregiudicate azioni. E so che già solo dire armi fa saltare
sulla sedia. Ma c’è bisogno di avvertire che non stiamo parlando delle stupide pallottole dei terroristi, né delle mascherate coi passamontagna, spranghe contro vetrine? L’armamento della sinistra è ancora quello stesso di cui si era saggiamente dotato appunto il movimento operaio: la politica,
le lotte, l’organizzazione, il pensiero. O riconquistiamo queste casematte, o continueremo a battere in ritirata, fino a
chissà quando.
Di prima mattina, quando ascolto la rassegna stampa, sono
costretto a recitarmi certi versi di Brecht, Stanno in una breve
poesia, che porta il titolo Aus der Flucht, che Fortini traduce
In fuga. E già il titolo dice tutto. Ecco i versi finali: «accanto
al letto / c’è la piccola radio a sei valvole. / Di prima mattina
/ giro la manopola e ascolto / i notiziari di vittoria dei miei
nemici». È una condizione che no, non si può accettare.
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Infine, gli invisibili. È un tema che, so, ti piace molto. Ne
parlo, perché ne ho conosciuti. Ho avuto la fortuna di incontrarne alcuni. Non li nomino, perché allora che invisibili
sarebbero! Ma li porto dentro, in giro con me e, appunto, in
fuga. Sono delle personalità in lotta con il mondo e che il
mondo ripaga, non conoscendoli, o non riconoscendoli. Le
dittature, rozzamente, li colpivano. Le democrazie, sottilmente, li ignorano. Colpendoli, li fai vedere: i martiri sono
noti alla storia e hanno fatto storia. Ignorandoli, li fai sparire: nessuno sa che ci sono e saprà che ci sono stati: la storia
futura sarà senza di loro. Le democrazie sono veramente un
progresso verso un’umanità peggiore. E tuttavia queste persone sono esistenti e, siccome non demordono, non concedono, sono anche resistenti. Quando li senti parlare, e soprattutto li vedi vivere, capisci che sono esseri di un altro
mondo, che niente hanno a che vedere con le coordinate entro cui sono iscritte tutte le altre persone che conosci. Non
tutte, ma in gran parte, si tratta di personalità religiose. Il
che mi conferma in una cosa che so da tempo, ma che faccio
fatica a comunicare anche agli amici più stretti. L’homo religiosus ha una potenzialità di alternativa, e di antagonismo,
rispetto alla struttura fondante di questo mondo, che l’homo
democraticus non ha e non può avere, perché è stato costruito
affinché non l’avesse. Perché se tu, piccolo invisibile, ti metti
in rapporto con un Invisibile più grande, ti rendi indisponibile, inassimilabile, incatturabile per una coscienza dominante di mondo che ti dice: è tutto qui, non c’è altro, quello
che conta è quello che vedi, devi sistemarti, o devi partecipare, che è la stessa cosa. Ogni volta che accenni a un oltre,
ti liberi e non c’è altro modo per liberarti. Se accetti il tutto
qui, sei tutto dentro. Questa totale immanenza è stata portata al massimo livello di sviluppo nella modernità dallo spiri36
to borghese illuminato. L’egocentrismo individualista ha
trovato qui un terreno privilegiato di elezione. La morale
utilitaristica ne è una componente essenziale. In perfetta
consonanza con le leggi di movimento dettate dall’economia: se ti arricchisci tu, cresce la ricchezza delle nazioni.
Dall’individuo alla società, è il solo passaggio consentito.
Questo mondo centrato sull’onnipotenza umana io lo vedo
come il Moderno occupato dal Capitalismo. Una totalità organica come questa non si era riscontrata in nessun Impero
e in nessuna Chiesa della storia. E lo chiamano il mondo libero! Ma non è libero un mondo unico. Come non è libero
l’uomo quando è solo. Non c’è libertà umana nel paradiso
terrestre. Dovevamo essere cacciati dal cielo e gettati sulla
terra per conquistarci il gusto della libertà. Ma allora la libertà è la nostalgia impossibile di un cielo. Il comunismo
non era l’assalto al cielo? L’uscita «liberatoria» – a detta di
tutti – dal Novecento ci ha in realtà definitivamente imprigionato in questa ultima nostra specifica, weberiana, gabbia
d’acciaio, la profana, laica, tutta terrena, alleanza tra capitalismo e democrazia, che purtroppo anche le menti più aperte si ostinano a non voler vedere. Sto ragionando molto in
questo periodo sul rapporto tra modo di produzione capitalistico e forme di vita borghese. Un nesso stretto, dominante
e vincente. Che si raffina sempre di più e si introietta nelle
persone. Ci troviamo oggi di fronte a un guasto antropologico di proporzioni inquietanti. Invade per intero il popolo
della destra. E lambisce ormai parti consistenti del popolo
della sinistra: quelle che appunto si vedono, perché parlano
e contano, le parti più acculturate. La sinistra ufficiale di
oggi, anche qui quella che si vede, è una moderna borghesia
illuminata. Leggere Repubblica! A volte mi fermo e mi chiedo: ma io che c’entro con questi qui? Ecco. Gli invisibili
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hanno scelto di stare «fuori e contro». Noi scegliemmo di
stare «dentro e contro». Adesso non so più chi aveva ragione. So che ci sono questi due movimenti contrari: quanto
più si sviluppa questa cosiddetta civiltà, e finché tutto, impazzimento tecnologico compreso, resta in mano a chi attualmente la comanda, tanto più degraderà la sostanza
umana. So che, nel frattempo, tutto ciò che c’è, è il contrario
di quello che io sono. Ne prendo atto e mi comporto di conseguenza. So che se non saremo capaci di indicare, agli uomini e alle donne di questo tempo, un senso alternativo
dello stare al mondo, tutti i programmi saranno carta, le
azioni fumo e i propositi, siano essi di cambiamento o di
miglioramento, tutti, visibili e inutili.
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