ela regina vittoria ci rimise le braghe

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ela regina vittoria ci rimise le braghe
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Coppa America Sabato 23 Giugno 2007 Corriere della Sera
in cui si svolse la prima
1851 L’anno
regata. Lo schooner America (da
qui il nome del Trofeo) vinse con
largo margine sugli inseguitori
Il racconto
Al largo dell’Isola di Wight
la flotta britannica viene sconfitta
dall’unica barca dell’ex colonia:
così nel 1851 nasce l’America’s Cup
volte in cui Sir Thomas
5 LeLipton,
tra il 1899 e il 1930,
L’anno in cui la coppa lascia
la classe di barche che,
12 Metri,
1983
l’America, per la prima volta in
nel 1958, prese il posto dei vecchi
tentò invano di «strappare»
la coppa agli americani
J-class. Con queste vele, gli Usa
difesero il trofeo 8 volte in 25 anni
132 anni: merito di Australia II,
grazie ad un bulbo innovativo
E LA REGINA VITTORIA
CI RIMISE LE BRAGHE
DI MARCO MISSIROLI
S
uccesse nell’anno del Signore 1851 che la regina
d’Inghilterra offrì le sue preziose braghe di lino. Le
promise al suo Capitano, il comandante dello yacht reale, poche ore prima che la grande regata estiva conoscesse il via: «Se accadrà, le butterò in mare dopo essermele sfilate sottocoperta» promise sorridendo, il vento
sobrio dell’Isola di Wight tra i capelli.
«Non ce ne sarà bisogno, Maestà» disse il Capitano e
scorse all’orizzonte le 15 navi già pronte a gareggiare.
«Certo che non ce ne sarà» la regina Vittoria sorrise, e
fissò quell’ingombrante clipper che si avvicinava pian
piano al campo di gara. La barca se ne stava tra i 14 cutter inglesi, pesci agili e snelli a fior d’acqua. Quell’unico
clipper, americano perdipiù, una balena ingombrante
senza coda che aveva deciso di sfidare la madre patria
della vela: «Se l’americana vincerà, le mie braghe saranno a mare. È una promessa reale», ripeté. Erano le 8 e
10 della mattina del 22 agosto. Il giorno della regata più
importante dell’anno. Il giorno di quella che 24 ore dopo tutti avrebbero chiamato America’s Cup.
Fu così che sua Maestà La Regina Vittoria d’Inghilterra cominciò a sorseggiare tè mentre sbirciava l’equipaggio del clipper americano. Zotici abbronzati e volgari,
pensò. E intanto guardava quei marinai dai muscoli all’infuori e senza una tenuta a dovere. «Barbari, non è
vero Capitano?», chiese guardando quell’uomo pensieroso che le era accanto.
«Barbari... ma professionisti» disse il Capitano e si
sporse dal ponte della «Victoria and Albert», la barca reale. Subito si voltò verso il nugolo dei quattordici cutter
inglesi trascinati agilmente dalle loro vele di lino. «Marinai in tenuta e senza fronzoli, i nostri», disse l’uomo indicando le ciurme inglesi.
«Come l’hanno chiamata gli americani?»
«America, Maestà».
«La fantasia non fa parte del Nuovo Mondo, mi pare».
Il Capitano annuì, la coda di un occhio alla barca
americana. Era un clipper, non un cutter. Un clipper di
31 metri, robusto, inquartato di legno d’oltre oceano.
Senza coda. Un grosso pesce mozzato a trequarti.
«E le loro vele, sono più grandi delle nostre?»
«Poco più magre, Maestà. E di cotone cucito a macchina».
«Non di lino?», domandò la Regina.
L’uomo scosse la testa.
«Zotici — sorrise Vittoria —. Zotici su una barchetta
porta tè».
Il Capitano si asciugò la fronte. Guardò l’orologio che
diceva 9 e 35 e non poté non pensare alla barchetta
americana. Un clipper disegnato sulla falsa riga di quelli che avevano regnato sulle rotte per la Cina più di
chiunque altro tipo di yacht. E che grazie alla sua velocità aveva fatto del tè cinese la merce meglio trasportata
dei sette mari. «Altro tè, Maestà?».
A riva più di millecinquecento persone erano pronte
a festeggiare una delle quattordici barche inglesi. E a
deridere l’unica americana.
Quando la Regina Vittoria domandò l’ora, il Capitano non rispose. Fu una distrazione ben motivata dal fatto che stava ordinando di issare le vele del grande yacht
reale. Diede il comando alle dieci meno due minuti precise, mentre fissava quelle ancora spiegate delle quindici barche sul traguardo.
«È il momento?», domandò la Regina. Le bastò guardare di fronte per rispondersi da sola.
Il vento gonfiò il lino dei quattordici cutter inglese e il
cotone del solo clipper americano.
Promesse reali
L’AUTORE
«Se l’americana vincerà, getterò le mie mutande
in mare»: la scaramanzia di Sua Maestà non
evitò la disfatta della madrepatria della vela
Dal commercio alle regate
Lo yacht vincente è un massiccio clipper senza
coda, con le vele di cotone anziché di lino,
ispirato a quelli usati per trasportare il tè cinese
L’urlo della folla si levò e coprì i gemiti della regina
Vittoria che si sporse dal ponte agitando il fazzoletto.
«Per la Corona!», biascicò tra i denti mentre un’onda
più energica delle altre la costrinse a sedersi di nuovo,
le braghe ben incollate alla pelle sudaticcia.
«Cinquantatre miglia, un giro dell’Isola», disse il Capitano lanciando la «Victoria and Albert» a lato delle navi
in gara.
«Stiamo vincendo?», domandò subito la regina.
Ma le barche erano solo legno confuso tra i flutti disordinati. Un zig zag di vele e prue, di poppe e corde
tese. Braccia e gambe affrettate si agitavano attorno ai
timoni e il vento, il vento trascinava le grida indaffarate
delle squadre in gara.
Marco Missiroli è nato a
Rimini il 2 febbraio 1981.
Con il suo libro d’esordio
«Senza coda» (Fanucci)
ha vinto il Premio
Campiello opera prima
2006. È appena uscito il
suo secondo romanzo, «Il
buio addosso» (Guanda)
«Stiamo vincendo?»
Il Capitano cercò la balena senza coda, la barchetta
da tè. Annaspava in un tratto di mare defilato dal groviglio inglese. Spiccava un’uniforme bianca lì sopra un
macchia ferma tra un tappeto di carne abbronzata in
movimento. Era del capitano Richard C. Brown, elegante stratega di mare che molti inglesi avevano rifiutato di
sfidare. «L’America non se la passa bene, Maestà». Il Capitano si avvicinò al viso della regina che alzò un solo
sopracciglio.
E la regina sussurrò: «Nemmeno il Signore vorrebbe
vedere una regina senza le sue braghe».
«Certo che no, Maestà».
«E non la vedrà capitano!», si alzò in piedi e prese a
sventolare il fazzoletto sgualcito sulla linea dell’orizzonte, lo sguardo alla barca che precedeva tutte le altre. In
cima all’albero di quella barca sventolava bandiera inglese.
La «Victory and Albert» lasciò il gruppo dei quindici
quando ancora le imbarcazioni in gara non avevano
percorso un solo lato dell’Isola di Wight. «Meglio attenderli al traguardo», aveva detto il Capitano a Sua Maestà. Così fece strambare all’istante, nello stesso momento in cui il clipper americano cercava di divincolarsi dal
gruppo degli ultimi.
«Chi è in testa?», domandò la regina.
«Aurora, la più piccola di tutte, Maestà».
«Seconda?»
«Fino al nono posto si vedono solo bandiere inglesi,
Maestà».
«Che Dio benedica la Corona», disse tenendosi ben
stretto il cappello tormentato dal vento.
La Regina venne chiamata all’improvviso. Riposava
sotto coperta da meno di un’ora quando il Capitano la
mandò a cercare. Sua Maestà uscì sul ponte, portò gli
occhi all’orizzonte ma non vide nient’altro che gabbiani e blu. Fu allora che sentì il rumore sordo del silenzio
che si aggrappava al vento. La folla era muta, anche le
altre imbarcazioni spettatrici non fiatavano.
«Maestà...», il Capitano le si avvicinò. Le porse un cannocchiale.
La regina si tolse i guanti di cotone. «Notizie?», disse
mentre si appoggiò la lente dello strumento all’occhio.
Una piccola sagoma marrone avanzava lenta verso il
traguardo. Lo sguardo reale ne seguì la forma, il gonfiore della vela, l’albero alto e sottile. La bandiera, là in alto. A stelle e strisce. «Mio Dio», disse portandosi una
mano sui fianchi, all’altezza delle braghe reali. Porse subito il cannocchiale al Capitano.
«Chi è secondo?» fiatò.
«Ah, Maestà — disse il Capitano guardando meglio
—, non c’è secondo».