Rendez-vous - Premio Eno-Letterario Santa Margherita

Transcript

Rendez-vous - Premio Eno-Letterario Santa Margherita
Rendez-vous
di Carmela Colaninno
Lei l’aspettava. Come ogni giorno. Nel medesimo tempo di un giorno. Seduta accanto a quella finestra
dal vetro ampio e immacolato. Un moscerino posato per qualche istante a riposare le ali. E poi di nuovo
immacolato. Lei l’aspettava. Come si aspetta l’amore all’improvviso. Quello dei libri o quello dei
sogni. Aveva preparato tutto. Attentamente. Il calice dallo stelo affusolato, trasparente quasi invisibile,
posato sul legno non laccato di un tavolino comprato per due soldi accanto ad un libro dalla copertina
incartapecorita e ad una bottiglia sudata di vino bianco che prima di rinascere vino era morto da neri
acidi. Era stupita del fatto che un’uva nera potesse generare un vino talmente chiaro.
Lei l’aspettava. Sempre più impaziente. Ed ecco i colori mutare. Il cielo lentamente iniziare a scaldarsi.
Tutto cominciava a rallentare, tutto come sospeso, lei stessa. Il sole iniziava a morire e le nuvole si
coloravano di rosso e viola. Lei posò le natiche su quella pesante poltrona di velluto verde e respirò a
fondo. Una scintilla di gioia le attraversò le pupille. Il suo tempo preferito. Immancabile come ogni
giorno. Quel tempo che non ha ancora smesso di essere giorno ma è ancora lontano dall’essere cenere
notturna. Tutto era dilatato. Come immerso in una liquida sostanza. C’era poco tempo. Tutto era nel
silenzio. Lei prese la bottiglia per il collo e impietosa infilò il vortice metallico nel tappo. Si udiva solo
l’eco lamentoso, come di dolore, dello stridìo prodotto dal metallo contro il sughero. E poi quel rumore
netto, chiaro, del tappo che libera la storia. Quel suono le ricordava suo padre ogni volta che, facendo
scivolare un dito contro una guancia, produceva quel rumore per far sorridere un bambino. Il tramonto
era li. Solo per lei. In quel mistico silenzio. Solo il suono del liquido freddo che si infrangeva contro le
pareti cristalline del bicchiere che lei portò lentamente alla bocca e, dischiuse le labbra, lasciò che la
lingua ritrovasse, in quel silenzio, in quel tempo sospeso e in quel sapore sorprendente, un ricordo. O un
pensiero. O un sogno. Vide un uomo vecchio, dalle grosse mani callose, dure e generose e dalle unghie
macchiate di terra, raccogliere a mani nude un fico d’india, rosso e maturo. Lo vide sbucciarlo con
maestria. In una mano teneva il purpureo frutto, nell’altra un bicchiere sbeccato ricolmo di un nettare
nero e corposo, grosso come quelle stesse mani che l’avevano prodotto e che macchiava le pareti di quel
bicchiere come fosse fuliggine mista a sangue. E sudore. L’uomo ne bevve una lunga sorsata e subito
dopo addentò il frutto e chiuse gli occhi. Una goccia di vino e succo di fico gli scivolò lentamente lungo
la bocca fino a rigare il collo e il petto dalla pelle bruciata dal sole dei campi di grano. Restò con gli
occhi chiusi ancora qualche istante. Cantavano le cicale.
Lei riaprì gli occhi. Tutto, intorno, aveva ripreso a muoversi e a risuonare. Restò ancora un attimo
immobile. Così. E attese pochi istanti prima di ricominciare a camminare.
Era certa che l’ora del tramonto sarebbe arrivata anche domani. Sorrise.
1/1