n°39 - Maggio 2010 - Liceo Statale Tito Lucrezio Caro

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n°39 - Maggio 2010 - Liceo Statale Tito Lucrezio Caro
Lyceum
n. 39 - Maggio 2010
Editoriale
Un nuovo modo
di fare paideia
La riforma della Scuola secondaria di
secondo grado è ormai legge, per cui il
prossimo primo settembre sarà al via e coinvolgerà tutte le istituzioni scolastiche.
Il tempo della protesta e della resistenza
è finito, tutti siamo impegnati, con entusiasmo, a lavorare secondo le indicazioni
tracciate dalla riforma! Temporeggiare
oltre, probabilmente, sarebbe stato peggio
e avrebbe ridotto ulteriormente i tempi
necessari per acquisire la coscienza del cambiamento, per lo studio delle opportunità
di miglioramento e per un’organizzazione
quanto più consapevole ed efficiente.
Ora che la riforma è certa, ora che la riforma toccherà tutti noi il prossimo settembre,
è nostra attenzione e nostro dovere affrontare, con il consueto impegno e l’abituale
professionalità, le criticità che certamente
sono presenti e quelle che si presenteranno
nei prossimi anni.
Le famiglie, gli allievi,
la comunità tutta stiano
tranquilli; noi, docenti del
Tito Lucrezio Caro, siamo
convinti che dobbiamo
rimetterci in gioco per
trasformare le criticità
presenti in opportunità:
un gruppo di noi sta già
lavorando per predisporre
tutto quanto è necessario
ed opportuno per quella
che sarà la nostra organizzazione il prossimo anno
scolastico.
I docenti, con impegno e grande passione, hanno cominciato a predisporre
nuovi curricoli, metodologie e modalità
più efficaci, criteri di valutazione quanto
più chiari e coerenti con le nuove esigenze
e rispondenti alle mutate finalità. Siamo
però consapevoli che tutto questo non sarà
sufficiente se non riusciremo a coinvolgere
studenti, famiglie e comunità tutta. Il Tito
Lucrezio Caro sta già lavorando per maturare
e fare proprio il cambiamento; ora occorre
che il vostro coinvolgimento sia più incisivo
e proficuo rispetto al recente passato.
Oggi, ad iscrizioni ormai chiuse, mi rivolgo, in particolare, a quelle famiglie che
hanno iscritto i propri figli, e sono tante,
presso il nostro liceo, senza avere notizie certe sull’offerta formativa del prossimo anno
scolastico; ci hanno riconosciuto una fiducia
che ci gratifica, ci inorgoglisce e ci onora,
ma allo stesso tempo ci hanno affidato una
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responsabilità che ci impegna, ancora di
più, ad adoperarci in tutti i modi ed in ogni
circostanza per far crescere ed arricchire i
contenuti didattici del nostro istituto.
In considerazione del vostro riconoscimento, quest’ufficio dirigenziale s’impegna,
fin da ora, a consegnare in tempi rapidi la
prima stesura di quanto intendiamo fare fin
dal prossimo primo settembre, in modo che
tutti possiate verificare, controllare e collaborare con noi per raggiungere il meglio per
i vostri figli, per i nostri giovani!
Tutto ciò oggi ha una valenza ancora più
forte, in quanto la crisi economica sta colpendo soprattutto la nostra regione con una
crescente e preoccupante disoccupazione e
i giovani sono i più colpiti. Siamo ben consapevoli delle preoccupazioni di studenti e
famiglie che, anche se non sentono un particolare bisogno di conoscere le ragioni di questa grande depressione, hanno sicuramente
interesse per le soluzioni e le implicazioni
personali che essa comporterà.
Per poter reggere ed invertire questo
stato di cose, la scuola deve tornare ad essere fra i soggetti principali in cui investire
risorse e nuove progettualità.
È per queste ragioni che stiamo considerando una serie di strumenti, metodologie e
modalità di intervento didattico ed educativo che promuovano la consapevolezza e
la maturazione di sensibilità e competenze
personali, affinché ogni allievo possa pensare al proprio futuro, dal punto di vista
umano, sociale e professionale, elaborando,
esprimendo e argomentando un personale
progetto di vita.
Questo impegno ulteriore e straordinario, non ci allontana naturalmente dalla
normale e quotidiana progettualità che ci
ha caratterizzato negli ultimi anni. Le attività
programmate per il corrente anno scolastico, infatti, si avviano alla loro conclusione,
con soddisfacenti risultati.
Tra le numerose iniziative, mi sia consentito citare l’interesse intorno al progetto
“La scuola incontra l’autore”, arricchito dalla
nuova sezione “La scuola incontra i suoi
autori”, che prima del termine dell’anno
scolastico vedrà la presentazione del primo
volume de Il cattolicesimo politico napoletano dall’età giolittiana all’Italia repubblicana,
scritto dall’ex alunno Giuseppe Palmisciano,
oggi docente universitario.
A fine aprile, dopo il riuscitissimo Convegno su Darwin, vi sarà il Convegno sulla figura di Giovanni Amendola, un uomo politico,
eletto nel collegio di Sarno, uno dei tenaci
oppositori al regime fascista di Mussolini,
che riuscì a zittirlo solo ricorrendo alla brutalità. I relatori del Convegno arriveranno da
tre Università: Napoli, Salerno e Viterbo.
Noi lavoreremo sempre e di più, la comunità tutta può stare tranquilla, ma anche
noi abbiamo bisogno di voi tutti, abbiamo
bisogno di sostegno, di appoggio, di aiuto
nella nostra richiesta incessante di avere
materiale didattico aggiornato ed idoneo
alle nuove esigenze di fare paideia.
Vogliamo una scuola, quale che sia il
luogo, al centro dell’attenzione e delle cure
della comunità tutta. Se avremo questo, se
chi può e siete in tanti, ci sarà vicino in questo impegno, noi con tutte le nostre forze
cureremo, come sappiamo fare, lo spirito e la
mente dei nostri giovani e Sarno continuerà
ad essere un punto luminoso nel mondo
scolastico e culturale del nostro Paese.
Giuseppe Vastola
Dirigente Scolastico
Liceo Classico, Scientifico e Linguistico
Maxisperimentale “T. L. Caro” - Sarno (Sa)
Strumenti
Come anticipato nel n. 38 di Lyceum, la Rivista di maggio 2010 si apre con alcune delle
riflessioni del Prof. Aldo Masullo, eminente pensatore, docente di Filosofia Morale presso
l’Università “Federico II” di Napoli, sul concetto di evoluzione al centro della ricerca filosofica
e scientifica, assumendo come tema centrale la figura e il pensiero di Charles R. Darwin. Non
meno accattivante ed interessante è il contributo in ambito letterario, su Giovanni Boccaccio,
di Roberta Morosini, docente della prestigiosa Università americana “Wake Forrest”, così come
gli interventi di vario genere sulla cultura umanistica.
Estremamente interessante si presenta l’articolo su De Chirico in un itinerario che, a partire
da note biografiche dell’artista, si snoda in modo da far emergere il nesso inscindibile tra arte e
psicoanalisi in un gioco di luci ed ombre che assumono una valenza squisitamente simbolica.
E cosa dire dell’intervento della Dott.ssa Giovanna Esposito? Ebbene, grazie ad esso, si ha la
possibilità di acquisire conoscenze fondamentali in un ambito specifico: la medicina di genere. E un fascino particolare traspare dal lavoro interdisciplinare sulle Beatitudini, arricchito da
esegesi testuali.
Manifesto del Liminarismo
Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello
metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno,
ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a
reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia”
(limen) e di “confine” (limes).
In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i
passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed
analizzare:
• il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe
dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che,
pur se cangiante, non è relativistica;
• il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle
azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di
senso da dare alle cose;
• i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e
cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base
dell’identità di una nazione o di una comunità;
• il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro;
• la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura;
• il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti
i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione;
• il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari;
• il ruolo della contaminatio fra culture diverse;
• la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”;
• il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come
rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico;
• il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia;
• il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare
e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo;
• il superamento del limite come propensione verso la conoscenza;
• il concetto matematico di limite come valore al quale tendere;
• il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”.
La Direzione e la Redazione di Lyceum
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Manifesto of Liminarism
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In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time
is right to pay attention - at a methodological level - not only to the general concrete structure
of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always
subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a
network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes).
According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study
the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following:
- the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the
stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision
which, while certainly subject to change, is not merely relativist;
- the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning
in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any
meaning to give to things;
- the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion
and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past
and present) on which national or community identity is frequently based;
- the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other;
- the function of law within both democratic and dictatorial regimes;
- the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which
appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas;
- the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as
repositories of traditional knowledge;
- the role of contaminatio among differing cultures;
- the line between normality and “ab-normality”;
- the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield
richer insights into a work of art than its macroscopic aspects;
- the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness;
- the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as
“translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] - in a
word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply
original and unrepeatable form;
- the crossing of boundaries as a movement towards knowledge;
- the mathematical concept of limits as a value to be striven for;
- the process of “trial and error” in scientific research.
The Directors and Editors of Lyceum
La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof.
John McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora.
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Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla
Prof.ssa Maria Albano dell’Università di Macerata
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Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua polacca dal Dott. Gennaro Canfora,
alto funzionario dell’Istituto Italiano di Cultura a Varsavia.
Per credere,
bisogna esser capaci
di non credere
IDEE LIMINARI
Tra la fede e la scienza non
c’è una grande differenza:
c’è sempre la potenza della
grandezza umana, che vuole
“credere” nel senso di “avere
fiducia”, ma è pronta a rigettare inganni, pregiudizi e
falsi miti.
E
ssere vissuti e andare al di là della
Vita. La Scienza è una sfera della realtà, nella quale l’uomo si accorge di
stare come in un labirinto, ma non pretende,
come Dedalo e Icaro, di mettere le ali e volare al di sopra di esso; anzi, si mette pazientemente a ripercorrere, metro per metro, ogni
suo angolo, per ricostruirne la pianta e per
muoversi, quanto più è possibile, senza correre il rischio di smarrirsi. L’atteggiamento
dello scienziato è anche e soprattutto questo: quello di avere la pazienza di entrare, via
via, in un accordo con la realtà, allo stesso
modo di come le mie arterie non possono
funzionare, se non secondo quella che è la
legge della realtà e, nella fattispecie, della
circolazione sanguigna.
Ma, mentre io “sono vissuto” dalla mia
natura, mentre io stesso sono un momento, un episodio nel lunghissimo processo
dell’evoluzione, sono anche quello che si
affaccia sulla propria natura. E noi, che cer-
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chiamo di capire che cosa sia l’evoluzione, ci
rendiamo conto del fatto che non ne siamo
solo il risultato, ma ne siamo i provocatori.
Vogliamo vederci chiaro, vogliamo in qualche modo cercare di andare al di là della
nostra vita.
Verità di scienza e verità di fede. Lo
scienziato dice che la verità è ciò che io
posso dimostrare fino a prova contraria, fino
ad una falsificazione eventuale. La verità è
indipendente dalla condizione, in cui ci si
trova in un determinato momento, o dai
materiali che si riescono ad acquisire e di cui
si dispone, sia perché non si esclude che, se
si arricchisce la dotazione di materiale o si
combinano le condizioni in cui ci si muove,
anche la verità cambia. Viceversa, il teologo
dice: “La verità di Dio è immutabile. Io non
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contesto il vostro diritto di ricercare una
verità scientifica, perché io, dalla mia, ho
un’altra cosa: la fede”. Ora, la fede è una categoria del rapporto intersoggettivo, prima di
essere una categoria del rapporto tra uomo
e Dio. Infatti, è pur vero, che anche Lui è un
soggetto, ma la prima esperienza è quella
che avviene tra di noi.
Voi pensate a come sarebbe stata la società, se i primi uomini non avessero avuto
fiducia l’uno dell’altro. Immaginiamo che
un uomo avesse detto ad un altro: ”Costruiamo una capanna, perché in questo modo
ci ripariamo dal freddo e dalla pioggia”. Da
un lato, gli si poteva dar credito e ragione,
anche se in quel momento non era facile
capirlo. Ma, dall’altro, qualcuno avrebbe
potuto dubitare, asserendo: ”Costui mi vuole
imbrogliare”. Nessuno avrebbe costruito la
capanna, e sarebbero stati male sia colui che
l’aveva proposto, sia colui che non gli aveva
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concesso fiducia.
D’altra parte, la parola verità deriva da
una radice iranica, persiana, antichissima,
che significa proprio fiducia; fede, come
fiducia. In fondo, le verità, sia quella dello
scienziato che quella del teologo, da un
punto di vista esistenziale, non sono diverse;
lo scienziato svolge una serie di argomentazioni e, alla fine, non può fare a meno di credere nelle conclusioni che egli può ricavare
da tutte le sue testimonianze, fino
a prova contraria. In
quel momento, non
può
fare a meno di credere, perché in tal caso
negherebbe se stesso.
Pertanto, la verità scientifica è fede: sarebbe bello se, dopo aver fatto una lunga
ricerca, alla fine dicesse “Io non credo a
quello che ricavo da ciò che ho cercato. Il
risultato potrebbe anche essere falso; ma,
fino a che io non abbia la dimostrazione
che esso è falso, questa per me è la verità e
io ci credo”. Tra la fede e la scienza non c’è
una grande differenza, c’è sempre la potenza
della grandezza umana, la quale non vuole
scindere il proprio rapporto dell’una dimensione dall’altra.
Una possibile età dei lumi. Io, per poter
essere in rapporto con la realtà, per poter
comunicare con la realtà, per poter essere intrinseco alla realtà, debbo in qualche modo
aver fiducia in quello che essa mi dice e in
quello che mi dicono gli altri. La ragione è
nient’altro che lo spirito critico, attraverso il
quale io evito di trasformare questa fiducia
in volgarità. Se viene da me un ciarlatano
che mi vuole convincere di alcune tesi, io
metto in campo il mio senso critico e la mia
ragione, che, appunto, consistono nello
svelare la menzogna del ciarlatano, nel non
credere a quello che egli dice.
Purtroppo, spesso, gli si crede, ma penso
che un principio fondamentale dell’uomo
sia quello dell’abituarsi a non
credere. È paradossale, ma, per
credere
au-
Giuseppe Bezzuoli, Galileo dimostra la legge di caduta dei gravi - Affresco
tenticamente, bisogna essere capace di non credere.
Per riuscire a intravedere
la verità, bisogna avere la
capacità di respingere la
falsità. Io sono convinto
che l’evoluzione non sia
affatto in contrasto con la
religione. Per spiegare il
rapporto tra l’evoluzione
e il Padre Eterno, ricorrerei
ad un paragone: il loro rapporto è simile a quello che
esiste tra la madre gravida
e il proprio figlio che sta nel suo grembo. La
madre è sempre la stessa, è suo figlio che
cresce, evolve, si sviluppa. È come se la ma-
dre rimanesse identica a sé, ma
a quella identità corrisponde un
movimento, ed è il movimento di
ciò che, via via, si va formando.
Allora, se noi, anziché irrigidirci negli schemi, nei pregiudizi,
cercassimo di ragionare con la
nostra testa e, soprattutto, di capire le modalità con le quali noi
pensiamo, sicuramente scomparirebbero molti equivoci e noi,
raggiungeremmo davvero quella condizione dell’umana cultura, che Kant chiama età dei lumi.
Aldo Masullo
Filosofo e scrittore
Università di Napoli
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L’intervento qui pubblicato riporta alcune delle riflessioni, che il grande filosofo Aldo Masullo
ha svolto, a braccio, nel corso del Convegno su Darwin organizzato dal Liceo “T. L. Caro” di Sarno. Il testo è stato registrato e trascritto da Elisena Franzese, Loredana Gaudino, Maria Vittoria
Marzullo e Emanuela Rega
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Una scrittrice di frontiera
Animali umanizzati,
uomini e donne nelle
Favole di
Maria di Francia
La liminarità di una favolista che
oscilla tra il desiderio di un’armonica intesa tra le classi sociali e l’auspicio altrettanto
convinto di un’immobilità che conservi il sistema
gerarchico del suo tempo.
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C
hi è Maria di Francia? “Marie ai
num, si sui de France”. Mi chiamo
Maria e sono della Francia, scrive
nell’epilogo delle sue Favole una delle figure più enigmatiche del XII secolo: Maria di
Francia, a cui si attribuiscono i Lais, le Favole
e Il Purgatorio di San Patrizio. Nel corso dei
secoli la poetessa si è vista riconoscere
identità diverse: figlia illegittima di Goffredo
IV d’Angiò e sorellastra di re Enrico II (11331189), Maria sarebbe stata, dal 1181 al 1215
circa, la badessa del convento di Shaftesbury
fondato da un certo Alfredo, probabilmente
l’omonimo re di cui parla Maria nell’epilogo
delle Favole. L’altra ipotesi è che Maria sia
stata badessa dell’abbazia di Reading, sempre in Inghilterra, o addirittura la contessa
Marie de Champagne, come autorizzerebbe
a credere un commento del poeta inglese
Denis Piramus, autore nel 1170 circa di La
vie de Seint Edmund le rei.
Pertanto è impossibile stabilire con
assoluta certezza l’identità e il periodo di
attività della nostra favolista, ma il fatto che
accanto al nome Maria si specifichi che è della “Francia”, e che il manoscritto Harley 978,
unico a contenere le Favole e i Lais, sia stato
probabilmente trascritto presso l’abbazia
di Reading, lascia supporre che la scrittrice
sia nata in Francia e si sia trasferita poi in
Inghilterra. D’altro canto, se Maria non stesse
scrivendo lontano dalla sua terra di origine,
non avrebbe avuto bisogno di specificare di
essere “della Francia”.
I protagonisti delle favole: gli animali
umanizzati. Come nella favola esopica, la
favola di Maria va dai dieci ai cento versi, presenta un dialogo e si conclude con l’epimitio,
la parte finale destinata alla morale. Sessanta
sono gli apologhi in cui il valore esemplare
allegorico attribuito alla favola è affidato agli
animali. I racconti della favolista francese si
contraddistinguono, nell’ambito del genere
favolistico, per l’utilizzo di una terminologia
prettamente feudale che si concretizza nella
contrapposizione leial e felun, rendendo
più umani i personaggi animali. Anche la
frequenza dei verbi di pensiero (“pensò tra
sé” / “dentro di sé”) e riflettere (purpenser)
contribuisce ad evidenziare l’umanizzazione
degli animali, a cui viene esplicitamente
attribuita un’abilità riflessiva. La favola del
lupo e dell’agnello si offre come un valido
esempio: la personalità del lupo e il suo agire
vengono annunciati sin dai primi versi, in cui
si legge che “facilmente irritabile,/ si rivolse
incollerito all’agnello”.
A rendere, però, più verosimili le favole,
lasciando scoprire sotto le mentite spoglie
della finzione animale i vari aspetti della vita
quotidiana dell’epoca di Maria, è la contestualizzazione degli apologhi in un mondo
concreto che si pone in netto contrasto
con la generale e astratta società esopica,
rendendo la favola uno strumento di satira
e protesta sociale. Maria di Francia, alla
fine del XII secolo, decide di abbandonare
l’aspetto e la genericità tipici della favola
per farne un pamphlet satirico della società
del suo tempo. Nell’epimitio della favola del
lupo e della gru Fedro si esprime in termini
morali e sostiene che non si guadagna nulla
ad aiutare persone ingrate; Maria invece
pone la morale in
termini di pote re: il lupo rientra
nella categoria dei
“signori malvagi”,
mentre la gru viene identificata con
“l’uomo povero” al
loro servizio. La terminologia feudale,
che emerge soprattutto dalle morali
finali, conferma il
tentativo di Maria di adeguare l’apologo
alla società del tempo: le categorie debole/
potente, rispettivamente assegnate ad
animali mansueti e forti, vengono dalla
favolista associate al signore e al vassallo,
rappresentanti della gerarchia feudale.
In generale, Maria rivendica i diritti
dei più deboli e si pone contro i crimini
perpetrati nei loro confronti; nella favola
32, L’agnello e la capra, (Una pecora aveva
appena partorito;/ il pastore le tolse/ il suo
agnellino e lo portò via con sé./ Lo diede a una
capra/ che lo allevò col suo latte/ e lo portò
a vivere con lei nel bosco./ Quando l’agnello
era ormai cresciuto/ la capra lo chiamò a sé e
gli disse:/ “Vattene dalla pecora, tua madre,/
e dal montone, tuo padre./ Io ti ho cresciuto
abbastanza”./ E l’altro rispose con saggezza:/
“Ho l’impressione che mia madre/ sia quella
che mi ha cresciuto/ e non quella che mi ha
portato in grembo/ e che mi ha allontanato
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da lei”) anche la maternità viene presentata
in termini feudali di tutela e lealtà verso chi
non può e non sa proteggersi.
Le favole 21 (Il lupo e la scrofa) e 32 si
rivolgono alle madri perché prendano atto
della loro responsabilità: Maria, da una
parte loda la saggezza della scrofa invitando le madri a mentire, pur di non lasciare
morire i loro piccoli, e dall’altra difende i
diritti dell’agnello abbandonato
dalla propria madre. Allo stesso
modo, la favolista non esita a protestare contro certi ingiusti processi
dell’epoca e contro la corruzione
dei giudici, perché a farne le spese
erano sempre i più deboli, come la
pecora ingiustamente accusata e
condannata in un processo in cui è
stato dichiarato il falso. E’ anche vero
che, mentre la poetessa sembra auspicare un cambiamento sociale per
il riconoscimento dei diritti dei più
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deboli, il suo conservatorismo, legato ai
pregiudizi dell’epoca,
sembra confermare il
contrario.
Gli uomini e le
donne. L’atteggiamento ambiguo di
Maria verso le classi
sociali più deboli si
manifesta in tutta la
sua complessità nelle
favole con personaggi
umani. Un pastore, un
cacciatore, un cavaliere, un pescatore, un
falegname, un medico, un ladro, un fabbro,
una strega e poi un eremita, un mercante,
un contadino, un prete sono i protagonisti
di ben 29 favole. I personaggi umani, liberati
dal travestimento animale, riflettono umori
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e pregiudizi del XII secolo.
Certo, Maria di Francia non è la prima
ad affiancare agli animali degli esseri umani
sia nella difficile gestione di una partnership
o da soli, ma nelle sue favole, veri e propri
drammi in miniatura, la poetessa rivela la
sua abilità di narratrice, che, a differenza
dei favolisti precedenti, non ha mai fretta
di arrivare alla morale finale. A Maria sta a
cuore lo sviluppo del racconto e privilegia
il dettaglio significativo, l’epiteto che caratterizza i personaggi delle sue favole: il servo,
il ricco, ma, soprattutto, il vilein, il contadino,
tutti accuratamente caratterizzati psicologicamente.
La favolista, inoltre, infrange una delle
leggi fondamentali del canone favolistico,
che esclude l’analisi della vita sentimentale
dei personaggi affinché i sentimenti si
esprimano attraverso l’azione. In una favola
non si dovrebbe dire che un personaggio si
innamora, ma lo si fa arrossire davanti a ciò
che provoca il suo sentimento: la psicologia
dovrebbe diventare in
un certo senso “meccanica”. L’interesse di
Maria per l’universo
psicologico, entro cui
si muovono le figure delle sue favole,
si riscontra nel ricco
repertorio di avverbi
e aggettivi che denotano gli stati emotivi
del personaggio, ma
a determinare il loro
comportamento è più che un segnale di
tipo psicologico o caratteriale: la categoria
alla quale Maria lo fa appartenere. Accanto
a figure socialmente indeterminate come
un uomo o una donna, Maria di Francia ne
colloca altre che, a differenza dei favolisti
precedenti, vengono designate col nome
generico della loro categoria sociale: contadino, uomo ricco e prete.
Il prete, oltre all’altra figura religiosa
dell’eremita, non ha implicazioni sociali nel
racconto. Tuttavia la sua presenza nel corpus
di favole di Maria contribuisce a dare un quadro esaustivo e fedele dei principali gruppi
sociali che costituiscono l’ordinamento
feudale della fine del XII secolo e di quelli
che stavano per affermarsi. Il termine “ricco”
equivale nelle Favole al ceto cavalleresco e
non corrisponde più al personaggio che
si oppone al povero nella favola antica. Il
personaggio dell’uomo ricco è protagonista
solo di quattro favole, ma la sua presenza
conferma che Maria, a differenza dei favolisti
latini, vuole precisare il rango sociale dei
suoi personaggi. Nella favola 64, L’uomo, il
cavallo e il caprone, nelle vesti consone al
suo personaggio il ricco è un affarista che
vuole vendere il suo cavallo e un caprone
per venti monete ciascuno. Quando sente
che il compratore vuole solo il cavallo, perché
il caprone non valeva
niente, “l’uomo ricco,
indispettito gli disse
che doveva comprarli
tutti e due o nessuno
dei due”. Maria evidenzia l’ostinazione e l’arroganza del ricco e non esita ad attribuirgli
un termine come “nunsavant”, uno sciocco
che è talmente legato alle sue abitudini,
buone e cattive, che non può rinunciare ai
suoi stupidi desideri. Maria condanna il “mal
us”, le cattive abitudini, che corrispondono
al modo di agire di un villano. Si direbbe
dunque che per la favolista villano e ricco
si distinguano solo da un punto di vista
comportamentale.
Il contadino. Uno dei personaggi più
popolari delle Favole è certamente il vilein.
Sebbene non sia facile stabilire il vero significato attribuito da Maria al termine vilein,
si può convenire che si tratta non tanto di
un generico segnale di identificazione della
provenienza sociale, quanto di un termine
derogatorio associato alla categoria del
contadino. Difatti, verso la fine del secolo
XII, villano è colui che agisce in opposizione
alla curteisie e nei Lais il termine indica un
modo di agire nella società. Le occorrenze
della parola vilein nelle Favole ci convincono
che si tratta di un vero e proprio marchio
sociale che serve a segnalare e introdurre
un comportamento tipico da contadini,
confermato dall’etimologia della parola:
vilanie sta alla rusticitas come curteisie sta
all’urbanitas.
Ben sedici sono le favole di cui è protagonista il vilein e non sempre è chiaro il ruolo
che gli viene assegnato nelle Favole
poiché, come afferma Propp, i ruoli
o le funzioni dei personaggi sono
gli elementi stabili e costanti della
favola, ma indipendenti dall’identità dell’esecutore o dal modo di
esecuzione, per cui uno stesso
personaggio può svolgere diversi
ruoli. La favola 47, Il contadino e il
suo cavallo, contrariamente ad ogni
aspettativa, elogia il personaggio del
contadino, che di solito viene schernito o
umiliato, per la sua abilità oratoria: secondo
Maria un’espressione del buon senso che
salva dalle situazioni pericolose. Si tratta
di un episodio isolato nel curriculum vitae
di questo personaggio. L’immagine più ricorrente del contadino si riassume nel tipo
dell’agroikos, la figura shakespeariana del
clown, il personaggio rustico che fa ridere
per la sua grossolanità.
17
Nel tentativo di ricostruire un primo
identikit del contadino delle Favole emerge
che sul piano coniugale è un beffato -come
avverrà nei fabliaux, genere letterario posteriore alla favola- spesso tradito sotto i suoi
occhi dalla moglie, di cui può considerarsi
la vittima principale. Anche sul piano sociale è una vittima: della giustizia corrotta
o della sua stessa ingenuità. In definitiva il
contadino ha il cuore buono e crede in Dio,
anche se gli si rivolge “devotamente” come
dispensatore di beni materiali o perché
protegga “sua moglie,/ i suoi figli e nessun
altro”. Incapace di ogni forma di spiritualità,
è fondamentalmente un pragmatico, come
verrà poi tramandato dalla tradizione fabliolistica del contadino avaro. Oltre ad essere
estremamente pragmatico, il contadino si
contraddistingue per la sua avidità, che si
esprime nelle Favole anche in termini di
maliziosa curiosità.
Tuttavia, il modo in cui Maria procede
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
nell’attribuzione delle colpe non corrisponde ad una semplicistica suddivisione dei
buoni e dei cattivi, e la scelta degli aggettivi
per l’uomo ricco e il contadino rivela che
la ripartizione di qualità e difetti avviene
secondo criteri sociali e non più esclusivamente morali, come succedeva invece
nella favola antica. Ai termini generici di
villano, servo e operario se ne affiancano altri
come ignorante e sciocco che, pur essendo
denigratori, avevano all’epoca una valenza
semantica altrettanto generica.
La dialettica follia/saggezza. Il termine
fol/stupido fa sovente coppia con sage/saggio, suo
polo dialettico, e coincide
con la mancanza di buon
senso. Il frequente ricorso
nelle Favole della parola
sage non è casuale. Il mo18
tivo della folie è assente
nella favola latina e quello
di sagesse non figura in
nessun testo didattico o
religioso prima della prima
metà del XII secolo. Uno
studio sull’uso del termine
sage nei testi letterari del Medioevo evidenzia in che modo la parola, da un senso
prettamente letterario nei romanzi antichi,
assuma, già nei Lais di Maria, un registro
morale e sociale, fino a coincidere negli anni
1180-1240, con la lealtà.
Avendo Maria contestualizzato i suoi
apologhi alla società del tempo, la contrapposizione saggio-folle perde il suo
tradizionale significato per assumere una
connotazione tutta feudale. E’ in questa
chiave, pertanto, che va interpretato il
termine fol, che segnala l’atteggiamento
insensato e assurdo di colui che con le sue
pretese impossibili, perché poco consone al
suo rango sociale e al suo ruolo, infrange le
regole stabilite per lui dalla società.
La visione della donna liminare fra
tradizione e innovazione. E, infine, la donna, una delle figure centrali delle favole con
personaggi umani. Una prima caratteristica
attribuibile alla donna di queste favole è
l’improduttività economica, secondo la
mentalità del tempo che vuole sia l’uomo a
guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
Nella maggior parte dei casi, anche se mai
esplicitamente ammesso nelle Favole, il posto della donna è a casa e il suo ruolo è del
tutto improduttivo. Vedova,
figlia, moglie, amante e strega,
la donna che emerge dalle
Favole, volendo ricorrere alla
nomenclatura di Frye, incarna
il tipo dell’Alazon, il personaggio pericoloso e maligno abile
nell’inganno. Maria dimostra
di essere molto severa nei
confronti delle donne di cui
le favole sembrano voler illustrare la perfidia. Nella favola
che racconta dell’amicizia
trasformata in odio tra l’uomo
e il serpente, il tentativo di amicizia con
il serpente fallisce a causa della cupidigia
che, normalmente condannata dalla favolista, passa in secondo piano davanti alla
responsabilità della moglie colpevole del
malvagio consiglio di uccidere il serpente
per appropriarsi del suo tesoro. Maria biasima il consiglio “stupido, perfido e sleale”
della donna poiché il marito avrebbe “guadagnato tanti beni/ se lei non l’avesse mal
consigliato” e, con tono polemico, suggerisce che “Un uomo di buon senso non deve
stare a sentire una donna sciocca,/ né farsi
consigliare da lei, come fece questo contadino con la moglie; ciò infatti gli procurò, in
seguito, solo pena
e sofferenza”.
Se nelle Favole emerge che le
donne sono la rovina degli uomini,
è perché Maria si
fa portavoce di
certi pregiudizi e
della misoginia
del suo tempo.
L’atteggiamento nei confronti dei personaggi femminili rimane determinato da
sentimenti, umori e pregiudizi diffusi presso
il popolo e il clero della società del XII secolo.
La favolista ricorda alle mogli di rispettare
la maritalis potestas in piena sintonia con la
mentalità feudale che attribuisce addirittura
a Dio l’ordine di porsi ai “comandi” del marito, ma si fa anche portavoce dello spirito
del nuovo secolo proponendo l’immagine
di una donna abile che cerca di sfuggire
a quei vincoli che la società o la cultura
le ha imposto. Maria opera così un taglio
netto con le donne mitiche e divinizzate dei
trovatori, le quali, già escluse dai romanzi
di Chrétien de Troyes, non trovano posto
nelle sue favole. All’orizzonte delle Favole si
intravede già la donna protagonista del suo
destino dei fabliaux.
Una difficile sintesi: armonia sociale e immobilismo del
sistema feudale. Un tema che
emerge con insistenza nel corpus
di favole “umane” è la lealtà che
insieme al tradimento (felunie),), temi
familiari al lettore/pubblico del
XII secolo, sostituisce quelli della
favola latina di tipo morale (con le
sue opposizioni buono/cattivo e
debole/forte). Nella favola del lupo
e del battelliere Maria invita l’uomo
leale a diffidare della compagnia dei traditori, ma il termine fa soprattutto riferimento
alle relazioni interpersonali che regolano la
gerarchia feudale.
Il monito a essere leali si rivolge sia al
signore che al vassallo; ma è soprattutto
ai sottomessi, ai vassalli, che vengono presentate le funeste conseguenze di un agire
individuale ed egoistico, deleterio per l’ideale di società che Maria vuole salvare e che
prevede una ferrea solidarietà tra i membri
che la compongono. E’ l’immobilità sociale a
garantire la sopravvivenza della società pensata da Maria: l’infrazione al codice feudale
da parte del vassallo non solo disonora il suo
signore, ma rappresenta anche una disgrazia per l’individuo che si sottrae al proprio
dovere sociale. Si spiega così la condanna
di Maria dell’avidità e di ogni altra forma di
ricerca di interessi personali e egoistici che si
affermano a spese di quell’ideale di società
19
che la favolista vorrebbe conservare.
Ma, come conciliare l’armonica intesa
tra le parti, o classi, auspicata da Maria di
Francia in varie circostanze con l’immobilità,
altrettanto auspicata, volta a favorire e consolidare il vecchio sistema gerarchico e una
subordinazione delle classi più deboli?
Più che cercare di stabilire se Maria si
schiera con le classi sociali più
agiate o con i poveri e se le
stanno a cuore le sorti
dei più umili, vale la
pena soffermarsi sul
modello proposto
dalla favolista in un
momento di grandi trasformazioni
sociali e politiche.
Maria propone il
modello comportamentale e sociale
(
dell’uomo onesto (frans
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Strumenti/Liminarismo
huem), un individuo pronto ad assumere liberamente su di sé le proprie responsabilità sociali e invita il frans huem, e tutti gli individui
del suo tempo, ad assumersi le proprie responsabilità per riciclare un sistema ormai datato
e farlo funzionare secondo nuove direttive.
Fustigatrice, anche se con qualche punta
d’ironia, di certi aspetti del suo tempo, Maria
20
di Francia non ha mai accenti di parodia verso il mondo feudale, di cui anzi lei auspica
un rinvigorimento per ovviare al suo storico
e indeclinabile destino.
Roberta Morosini
Professore Associato
Wake Forest University
USA
Roberta Morosini, ex vicepresidente dell’American Boccaccio Association e dal 2008 membro
dell’esecutivo dell’Ente Nazionale G. Boccaccio. E’ professore associato presso la Wake Forest University, ex Fellow di Harvard University, “Villa I Tatti” (2003-2004), è attualmente borsista presso il
“Centro studi Ligure” a Bogliasco. Ha pubblicato un libro su Boccaccio“Per difetto rintegrare. Una
lettura del Filocolo di G. Boccaccio”, Ravenna, Longo 2004 e un volume su Boccaccio Geografo,
Firenze, Polistampa, Marzo 2010, oltre diversi articoli sullo stesso autore. Tra i titoli più recenti: “
‘Fu in Lunigiana’. La Lunigiana e l’epistola di frate Ilario (Codice 8, Pluteo XXIX, Zibaldone MediceoLaurenziano) nella geografia letteraria di Boccaccio,” The Italianist, 29, 1, 2009, pp. 50-68; “Secrets and
lies. Utilitas, civanza and “recreantise” in Boccaccio’s Allegory of Good and Bad Government: Decameron
III 4, in Lectura Boccacci, Day III, a cura di P. M. Forni, F. Ciabattoni (Toronto University Press, Toronto
2010); “‘Con segni e parole ornate’: il Calonaco da Siena o la Ruffianella”, LIA, Giugno 2010; “Penelopi
in viaggio ‘fuori rotta’ nel Decameron e altrove. ‘Metamorfosi’ e scambi nel mediterraneo medievale,
California Italian Studies Journal, 1-2 (2009). Roberta Morosini è anche traduttrice dall’anglo- normanno in italiano delle Fables di Marie de France (Carocci, 2006), co-autrice con A. Vitti di In search
of...Italia ( Metauro, 2003) e con C. Perissinotto di Mediterranoesis. Voci dal Medioevo e Rinascimento
Mediterraneo (Salerno editrice, 2007). I suoi recenti lavori sull’Italia nel Mediterraneo del XIV secolo
vanno dallo studio della biografia leggendaria di Maometto alla traduzione in italiano del Roman
de Mahomet di Alexandre Du Pont del 1258: Il Roman de Mahomet tra tradizione e riscrittura nei
Commentari danteschi del XIV secolo e nella Cronica di Giovanni Villani, «LIA», 6, 2005, pp. 293-317;
“Muhammad. The prophet of Islam in the cosmography of Fazio degli Uberti,” in Firenze alla vigilia
del Rinascimento (Cadmo, 2006, pp.199-218); “Maometto profeta dell’Islam secondo Alexandre
Du Pont : l’ascesa di un antieroe a corte” (Mediterranoesis, 2007).Ha appena concluso uno studio
su “Medieval Alexander in Italy” (Leiden, Brill, 2010) a cura di D. Zuwiyya e lavora a due contributi
su Boccaccio, uno per “Christian-Muslim Relations: A Bibliographical History (Leiden, Brill) a cura
di J. Tolan e A. Miller che verrà incluso nel libro “Whispers of the Dove. Representations and Misrepresentations of Muhammad the Prophet of Islam in XIV Century Italy” (in preparazione) e l’altro
sul “De Canaria” per un volume a cura di J. Smarr, V. Kirkham, M. Sherberg, University of Chicago
Press. Con Francesca Dell’Acqua sta preparando un volume di saggi su Sindibad. Tra Oriente e Occidente. In viaggio con Sindibad tra spazio e tempo nel Mediterraneo (Atti del Colloquio, Wake Forest
University Casa Artom, Venezia, Giugno 2008) con un saggio inedito di P. Matvejevic.
L’opera d’arte come enigma
L’EMICRANIA
nell’opera di
GIORGIO
DE CHIRICO
Giorgio de Chirico è cosciente
della sua meravigliosa duplicità, espressa dalla grandezza
dell’artista e dalla caducità dell’umana miseria e malattia,
che sono imprescindibilmente e indissolubilmente legate.
U
na dolorante biografia: vivere tra
nevrosi e fobie
Giorgio de Chirico nasce a Volos
in Grecia il 10 Luglio 1888, da una famiglia
nobile di lingua italiana: il padre Evaristo,
ingegnere delle ferrovie, costruisce reti
ferroviarie in Bulgaria ed in Grecia, la madre
Gemma Cervetto è una discendente della
buona borghesia genovese. Nel 1891, dopo
tre anni nasce ad Atene il fratello Andrea,
che in seguito assumerà lo pseudonimo di
Alberto Savinio, per la
sua attività di musicista,
letterato e pittore.
“Giorgino” trascorre
la maggior parte della
sua infanzia nella ristretta cerchia della famiglia,
anche per i continui spostamenti di residenza a
cui il padre costringeva
Lyceum Maggio 2010
21
Strumenti/Liminarismo
i familiari, a causa
della sua attività
professionale. La
sua permanenza in
Grecia si protrae fino
all’età di 18 anni; ciò
costituisce per lui un’
esperienza formativa determinante: i
ricordi infantili e la
classicità greca, con i miti e l’arte, rappresenteranno due stelle polari nella sua arte.
Nel 1906, dopo la morte del padre, la
madre decide di trasferire la famiglia a
Monaco di Baviera, dove Andrea inizia a
sviluppare il suo istinto musicale e Giorgio
quello pittorico.
Prima di iniziare a considerare gli aspetti
salienti dell’arte del Maestro in relazione alla
malattia emicranica, voglio ricordare alcuni
importanti eventi attraverso una breve
22
anamnesi, che potrebbero spiegare alcuni
atteggiamenti su cui tornerò in seguito.
• Il padre Evaristo è spesso in cattive
condizioni di salute ed il Maestro lo
ricordava pallido, emaciato, curvo,
invecchiato anzitempo. Ricordo che
il pallore facciale potrebbe essere il
segnale di fenomeni vasocostrittivi di
un attacco emicranico, fenomeno da
alcuni definito emicrania bianca. Altra
caratteristica del padre Evaristo è la
Leucofobia, paura del bianco, che può
essere considerata una varietà della
tipica fotofobia dell’emicrania. A
causa di questo fenomeno, de Chirico
in Ebdomero riferisce che in famiglia
venivano usate solo delle tovaglie
colorate per imbandire la tavola.
• Lo zio Gustavo è affetto da una cronica malattia intestinale, che potrebbe
far sospettare una forma di Emicrania
Addominale; inoltre, egli ha avuto dal
medico il consiglio di mangiare carne
tutti i giorni per contrastare i fenomeni dolorosi ed essendo molto religioso
si fa rilasciare uno speciale “nulla osta”
per espressa pronuncia dell’ Autorità
Ecclesiastica: morbi intestinalis causa
licet Gustavo de Chirico carnem in die
veneris edere (a causa della malattia
intestinale si autorizza Gustavo de
Chirico a mangiare carne il Venerdì).
• Lo zio Alberto soffre di una grave
fobia dell’aria, per cui dall’età di
trent’anni rimane praticamente
chiuso in casa, con le finestre e ogni
piccola fessura tappate, per paura che
germi contaminanti possano entrare
in casa. Oltre a ciò, egli affitta anche il
sottostante appartamento, che lascia
disabitato e sigillato, affinché l’aria
non filtri nella propria casa. Presenta,
inoltre, la fobia dell’abisso, per cui
cammina per casa trascinando una
sedia davanti a sé, in modo da evitare
di sprofondare nel vuoto in caso di
cedimento del pavimento. Tale ultima
condizione, oggi, viene da qualcuno
interpretata come la conseguenza
di una momentanea emianopsia,
dovuta ad un’ aura emicranica.
• La zia Olimpia è probabilmente
affetta da una nevrosi ossessiva che
la costringe a strofinare il cranio su
svariate superfici, al punto da distruggere la sua splendida chioma,
fino a diventare calva.
• Il fratello Andrea, Alberto Savinio,
soffre della stessa patologia di Giorgio: nei suoi racconti vi sono riferimenti ad episodi di derealizzazione e
trasformazione corporea e nei quadri
compaiono zigzag ed immagini
geometriche, da ricondurre ad aura
emicranica.
Una pittura enigmatica
Possiamo distinguere tre periodi: metafisico, neoclassico e neometafisico.
Il periodo metafisico dura circa un
decennio, dal 1909 al 1919, ed è considerato universalmente quello migliore
in quanto ad espressione artistica ed
inizia con il primo quadro metafisico,
Enigma di un pomeriggio di autunno.
L’arte espressa in questo periodo contribuisce alla definizione di una scuola
metafisica, invero assai poco numerosa,
dal momento che annovera, oltre al
Maestro, il fratello Andrea, alias Alberto
Savinio, ed altri due esponenti, in realtà
quasi due imitatori, molto lontani dai livelli
artistici di de Chirico, quali Filippo De Pisis
e Carlo Carrà (che condivide con il nostro
un periodo di ricovero per malattie nervose
nell’Ospedale militare a Ferrara, dove questi
viene ricoverato, per disturbi neurologici,
durante la prima guerra mondiale).
Il periodo neoclassico inizia nel 1920, in
seguito al terremoto critico che rappresenta
la svolta in cui egli abiura le precedenti opere e l’arte contemporanea; in questo periodo
egli studia antichi trattati, frequenta musei
ed inizia la sperimentazione di materiali
che possano ricondurlo a ripristinare l’olio
emplastico, che sarebbe stato usato dagli
antichi maestri dell’arte fiamminga per i loro
capolavori e portato segretamente in Italia
da Antonello da Messina. Egli parla del suo
cambiamento artistico ed interiore in uno
scritto a Breton, nel 1922 :
“Questo magnifico romanticismo, che noi
23
abbiamo creato, mio caro amico, quei sogni
e quelle visioni che ci sconvolgevano e che,
senza controllo, senza sospetti, noi abbiamo gettato sulla tela e sulla carta, tutti quei
mondi che noi abbiamo dipinto, disegnato,
descritto a parole e che costituiscono la vostra
poesia, quella di Apollinaire e qualche altro,
i miei dipinti, quelli di Picasso, di Derain, e di
qualche altro, sono sempre lì, mio caro amico,
Lyceum Maggio 2010
Enigma di un pomeriggio di autunno
A sua volta il Maestro ha un carattere
difficile; è sovente malinconico, scontroso,
suscettibile e meteoropatico; è inoltre
egocentrico, vanitoso e narcisista, al punto
da considerarsi il più grande pittore di tutti
i tempi e firmare molte opere come Pictor
optimus. È goloso, pedante e taccagno (un
dì parlando con un amico gli riferisce di aver
fatto un sogno bellissimo: si era addormentato su un materasso pieno di banconote
da diecimila lire). Egli ha, inoltre, la fobia
dell’acqua, forse condivisa con Picasso, al
punto da rifiutare di lavarsi: durante la sua
permanenza in America, i fotografi Vogue
gli chiedono di posare nudo ed egli rifiuta
per non mostrare i buchi nella biancheria
intima.
La sua opera artistica, pur se prevalentemente pittorica, si è realizzata anche in
campo letterario; come scrittore ha composto tre opere di carattere sostanzialmente
autobiografico: Ebdomero (1929), Dudron
(1940) e Memorie della mia vita (1945).
L’opera pittorica si svolge nell’arco di
poco meno di 70 anni, a partire dal 1909
fin quasi alla sua morte, che avviene il 20
novembre del 1978 in Roma.
Strumenti/Liminarismo
Chirico si rende
conto che, nonostante il valore della sua arte,
sono le opere
iniziali ad essere
più apprezzate
dalla critica e
dal pubblico e
meglio valutate
economicamente. Dal momento che è molto
attaccato al vile
denaro inizia a ripercorrere la traccia metafisica, dipingendo quadri metafisici, spesso
ripetendo temi precedenti: infatti produrrà
svariate opere dal titolo Piazza d’Italia e ben
18 versioni de Le muse inquietanti. Questo
ritorno all’arte metafisica è da qualcuno
ritenuto conseguenza del suo desiderio di
riscuotere altri successi, anche economici,
come nel primo periodo metafisico.
Nonostante ciò e malgrado egli consideri
le sue opere attuali ancor più pregevoli per
la maturità artistica raggiunta, non ottiene il successo sperato e le nuove opere
non hanno un gran successo di critica e
pubblico. Egli non accetta questo giudizio
critico, né che un’ opera del periodo iniziale
possa valere più di dieci volte rispetto ad
una del periodo neometafisico. A questo
punto, oltre a ricorrere alla riproduzione di
molteplici versioni delle prime opere, più
fortunate, egli inizia a falsificarne la data, per
due probabili motivi. Un motivo meramente
materiale: retrodatando la data può sperare
che l’opera abbia una valutazione maggiore;
l’altro con uno scopo polemico: prendersi
gioco di quegli stessi critici d’arte che non
hanno adeguatamente apprezzato le sue
ultime opere, mettendoli in difficoltà sulla
valutazione delle stesse.
Le muse inquietanti
e non è stata ancora detta l’ultima parola su
di essi; il futuro li giudicherà molto meglio di
quanto non facciano i nostri contemporanei
e noi possiamo dormire tranquillamente. …
mi sono accorto, sì, infine, mi sono accorto
che cose terribili accadono oggi in pittura, e
che se i pittori continuano su questa strada
andiamo verso la fine…la malattia cronica
e mortale della pittura oggi è l’olio, quell’olio
che è ritenuto la base di tutta la buona pittura. Antonello da Messina che per la storia
avrebbe portato il segreto della pittura ad olio
in Italia dalle Fiandre, non fece mai questo.…
Il mistero del colore, la luce, la brillantezza e
tutta la magia della pittura…queste qualità
della pittura aumentano prodigiosamente,
come illuminate da una nuova luce, e pensai
con tristezza agli impressionisti, ai Monet,
ai Sisley, ai Pissarro e a tutti quei pittori che
credettero di poter risolvere con la loro tecnica il problema della luce, quando sulla loro
24
tavolozza c’era già la sorgente stessa delle
tenebre…”.
Con la crisi economica degli anni trenta
inizia un periodo difficile anche per de
Chirico, dal momento che i suoi quadri non
vengono venduti e lui stesso deve rinunciare
al lusso della propria casa per un’ abitazione
più modesta. Egli si iscrive al Partito fascista
con la speranza, poi delusa, di ottenere un
posto di insegnante; alla fine decide di trasferirsi in America, ove resta dal 1936 al 1938.
Qui la sua arte riscuote grandi successi con
numerose esposizioni; egli collabora anche
con il mondo della moda (Vogue, Harper’s
Bazar) e le sue opere (sia quelle realistiche
che quelle metafisiche) influenzano anche
la Pop Art americana. Dopo una parentesi
in Francia il Maestro, nel 1944, torna definitivamente in Italia.
Dal dopoguerra inizia il terzo periodo,
quello neometafisico, che durerà fin quasi
alla morte dell’artista. In questo periodo de
La sua vena polemica lo porta, addirittura, a disconoscere la paternità di alcune
sue opere, allo scopo di deridere i critici,
incapaci, in tal modo, di riuscire a distinguere un vero da un falso. Le conseguenze di
tale atteggiamento sono rilevanti perché il
Maestro si trova impegolato in una serie di
querelles giudiziarie. Infatti, da un lato egli
intenta numerose cause per contraffazione
allo scopo di disconoscere diverse opere;
dall’altro deve comparire, come imputato
di simulazione e falso ideologico, in numerosi processi intentatigli da critici, musei e
singoli privati, allo scopo di veder riconosciuta la presunta paternità di tali creazioni.
Naturalmente queste vicissitudini fanno sì
che il suo carattere, già diffidente, peggiori
ulteriormente, aggravando la sua tendenza
ad isolarsi e rifiutare di parlare in pubblico,
quasi per non tradirsi con affermazioni
avventate. Nel ’74 viene nominato Accademico di Francia, nel ’76 Grande Ufficiale
della Repubblica Democratica Tedesca e
nel ’78, al novantesimo compleanno, viene
commemorato in Campidoglio; muore a 90
anni, il 20 Novembre del ’78, dopo aver continuato la sua attività artistica fino a pochi
mesi prima della morte.
In un’intervista, all’intervistatore che gli
chiede, per l’ennesima volta, la spiegazione
della svolta, nel 1919, relativa allo stile prima
metafisico e poi classico, un po’ infastidito,
egli risponde: “Ho dipinto quadri metafisici
ed ho dipinto quadri realisti. Nei quadri realisti non c’era bisogno che io mettessi della
metafisica e nei quadri metafisici non c’era
alcuna ragione che io mettessi del realismo. È
come uno che lavora con due mani, la destra
e la sinistra”.
Arte e sintomatologia
Nel 1988 il neurologo inglese Geraint
S. Fuller ed il critico d’arte Matthew V. Gale,
pubblicano su BMJ un breve scritto in cui
ipotizzano che i sintomi presentati da de
Chirico sono riconducibili ad una patologia
emicranica e più specificamente ad una Emicrania con Aura ed Emicrania Addominale.
Quest’ultima era stata definita da Paul Moebius, alla fine dell’Ottocento, Haemicrania
sine Haemicrania; essa è anche considerata
una sindrome periodica dell’infanzia, manifestandosi con algie gastriche o addominali,
nausea, vomito, pallore, sudorazione, vertigini, e solo occasionalmente cefalea; colpisce per lo più bambini dai 3 ai 10 anni ed è
osservabile in età scolare, meno frequentemente nell’adolescenza, occasionalmente
nella maturità. Gli attacchi possono durare
alcune ore; può essere compresente l’aura;
è frequentemente ereditaria. Le manifestazioni algiche addominali sono considerate
equivalenti emicranici.
E il Maestro è affetto da dolori addominali
25
e crisi gastrointestinali di cui parla in Memorie
come coliche saturnine, in riferimento alla
teoria rinascimentale secondo cui il genio
nasce sotto il segno di Saturno, è malinconico
e soffre di disturbi epatici. Questi disturbi
intestinali lo affliggono in età giovanile, soprattutto nel biennio 1910-1912. Lo stesso
de Chirico ricorda quanto possano essere
disturbanti tali manifestazioni, al punto che
un suo viaggio giovanile verso Parigi deve
essere fatto in più tappe, che si rendono
necessarie per la gravità dei sintomi.
Il maestro non è a conoscenza della
propria malattia che sostanzialmente si
caratterizza per i seguenti sintomi: dolori
intestinali, chinetosi, vomito, cefalea, sintomi
auratici visivi, “déjà vu” e “jamais vu”. Per lui i
più disturbanti sono i dolori addominali; la
cefalea è presente, anche se non necessariamente collegata alle aure visive, che risultano
essere di gran lunga più frequenti. In Villeggiatura, un breve testo dedicato a Carlo Carrà,
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
de Chirico narra l’esperienza della cefalea,
attraverso, forse, un sogno lucido:
“Dormo. Porto l’elmo del palombaro. Il
pulsare del mio cervello si spacca in tante
bollicine sulla piattaforma laccata del mio
settimo soffitto”.
Gli effetti del complesso sintomatologico
sulla sua arte sono le aure visive ed i disturbi di
coscienza determinati da “déjà vu”, “déjà vecù”
e “jamais vu”(dal francese, rispettivamente
“già visto”, “già vissuto”, “mai visto”, che fanno
riferimento ad una alterazione dello stato
di coscienza che conduce ad un’ erronea
percezione soggettiva della realtà, come se
l’individuo avesse già visto o già vissuto una
situazione per lui nuova o, viceversa, “mai
visto” una situazione già nota).
Il maestro, pur non conoscendo il significato clinico di tali fenomeni, percepisce comunque l’importanza di questi nella genesi
della propria arte ed, a suo modo, definisce
26
“rivelazioni” le alterazioni di coscienza e “febbri spirituali” le manifestazioni auratiche .
Relativamente a questi fenomeni auratici, ricordo, più in generale, che pur essendone possibili svariati tipi, a seconda dell’area
cerebrale coinvolta, quelle visive sono le
più frequenti; esse possono manifestarsi
in forma semplice o complessa; nel primo
caso si osservano nel campo visivo chiazze luminose, a forma di fulmini, sfarfallii,
zigzag (detti Fosfèni dal greco ς (“luce”)
e ανω (“faccio apparire”) ovvero come
buchi di visione oscurata (detti scòtomi, dal
greco σκτς, “ombra”, “buio”, “oscurità”); nel
secondo caso si realizzano delle manifestazioni allucinatorie complesse, con visione di
immagini o scene strutturate.
Altro elemento caratteristico è rappresentato dalla tendenza di tali fenomeni all’
espansione centripeta; insomma gli scotomi
tendono ad ingrandirsi, progredendo dalla
periferia verso il centro, fino a raggiungere un
punto di massima espansione, oltre il quale
progressivamente si riducono fino a scomparire. Il margine degli scotomi rappresenta
un fronte di espansione, che talvolta si mostra
frastagliato, tremolante e scintillante a zigzag
(in questo caso si parla di scotoma scintillante),
così da assumere l’aspetto di una muraglia o
fortificazione, vista dall’alto: tale fenomeno
prende il nome di Spettro di fortificazione (o
Teicopsia, letteralmente: visione di fortificazione, dalle parole greche τες, fortificazione,
ed ψις, vista. Un’ altra distinzione riguarda
gli Scotomi relativi o assoluti, a seconda se,
rispettivamente, impediscano parzialmente o
del tutto la visione degli oggetti sottostanti.
De Chirico in preda a tali stupefacenti
visioni, che si proiettano sugli oggetti reali
come le immagini di una lanterna magica e,
non conoscendone l’origine, definisce tali
fenomeni febbri spirituali.
In Ebdomero ne dà una descrizione:
“…Nastri incantevoli, fiamme senza calore,
avventate in alto come lingue lunghe, bolle
inquietanti, linee tirate con maestria di cui
credeva persino il ricordo già perduto da lungo
tempo, onde tenerissime, ostinate ed isocrone,
salivano e salivano senza fine verso il soffitto
della camera. Tutto ciò se ne andava in spirali,
in zigzag regolari, oppure dritto e lento o ancora perfettamente perpendicolare. Come le aste
di una truppa istruita e disciplinata…”.
È probabile che i primi lavori metafisici
siano nati da annotazioni visive e schizzi fatti
al momento, probabilmente durante un’aura
emicranica; la rivelazione arriva all’ improvviso ed è una condizione di assoluta passività
poiché il maestro non può sceglierne il tema
ma solo subirla; in quel momento egli prende
appunti e fa schizzi di ciò che potrà successivamente rielaborare; qualsiasi pezzo di carta
può andar bene: una lettera, un invito ad una
mostra o programma musicale o, persino,
una partecipazione mortuaria.
Comunque il Maestro ignora il nesso
tra la sua malattia e le manifestazioni che
si realizzano in modo ricorrente. Come interpretare quanto gli accade? Non essendo
uomo di fede, al contrario di Ildegarda di
Bingen, non considera le allucinazioni auratiche in maniera mistica né un’ espressione
dello Spirito Santo discendente su di lui. De
Chirico attribuisce ad esse un carattere gioioso, creativo, sorprendente, folle, inusuale
ed incontrollabile, ma, purtroppo, piuttosto
raro: “La porta sul mondo della Metafisica,
non si apre che raramente!”.
L’ignoranza dell’ origine dei fenomeni
porta il Maestro ad interpretare come poteri
ciò che noi, oggi, sappiamo essere dei sintomi e pensare che si tratti di sogni premonitori. In conseguenza di ciò sviluppa l’idea di
avere facoltà superiori, di chiaroveggente, di
custode della porta del Mondo Metafisico,
ciò anche in relazione all’influenza su di lui
esercitata dall’opera di Nietzsche (anch’egli
emicranico), al punto da generare un’ autopercezione di Superuomo e Superpittore,
definendosi Pictor optimus.
L’enigma dell’ora
Una lettura neurologica di alcune opere
Passiamo ora ad analizzare alcune sue
opere alla luce della Malattia Emicranica e
del complesso sintomatologico precedentemente riportato.
L’opera con la quale inizia praticamente
il periodo metafisico è Enigma di un pomeriggio d’autunno, strettamente collegata con
le Rivelazioni ( in particolare il “Jamais vu“); il
Maestro, è reduce da una lunga e fastidiosa
malattia intestinale che lo pone in uno stato
di morbosa sensibilità; sta seduto, in un limpido pomeriggio autunnale, su una panca in
piazza Santa Croce, a lui ben nota, in Firenze;
egli riferisce (in Manoscritti parigini) che il
marmo degli edifici e delle fontane gli sembra
convalescente; il caldo sole autunnale illumina, “sans amour”(senza passione), la statua di
Dante e la Chiesa. L’artista vive “l’impressione
di guardare tutte le cose per la prima volta…”,
“il momento è un enigma per me, in quanto
esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare
enigma l’opera da esso derivata”. Una rilettura
neurologica ci evidenzia :
• la lunga e morbosa malattia intestinale è una possibile emicrania
27
addominale
• il coinvolgimento dello stato di coscienza (con “un etat de sensibiltè
presque morbìde”) può essere una
manifestazione emicranica
• la luce del sole, definita “tiede e
sans amour”, può avere un carattere
fotofobico
• il marmo degli edifici e delle fontane gli sembrava “convalescente”, a
testimonianza di un’ ipersensibilità
“emicranica”
• “l’impressione di guardare tutte le
cose per la prima volta…” ed il senso
di estraneità nei riguardi di luoghi
ed oggetti conosciuti rappresenta
un “jamais vu”.
Altro elemento significativo è costituito
dalla dimensione temporale: infatti in diverse
opere (L’enigma dell’ora, 1911, La conquista
del filosofo, 1914) il Maestro inserisce un orologio. L’elemento enigmatico è proprio co-
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Strumenti/Liminarismo
stituito dalla fissità di questo momento, che
è l’antitesi stessa del fluire inesorabile del
tempo, poiché non vi è né passato né futuro
se non per la mediazione del presente, rappresentato da questo nunc immobile. Oltre
a questa interpretazione artistico-filosofica,
occorre ricordare che l’elemento temporale
ha un suo rilievo nel contesto della malattia
emicranica. In primis, durante l’aura o la crisi
stessa si può registrare un’ errata percezione
dello scorrere del tempo (pazienti emicranici
riferiscono sensazioni come se il tempo
si fosse fermato o addirittura accelerato,
con la difficoltà di percepire la nozione del
tempo). D’altronde, l’elemento di immobilità
costituito dall’orologio bloccato alla stessa
ora costituisce una sorta di omaggio al bisogno di riposo e staticità che l’emicranico
sperimenta su di sé, durante la crisi.
28
Ombra e fotofobia, melanconia ed
emicrania
In precedenza abbiamo indicato che un
importante fenomeno emicranico è costituito dai fenomeni visivi chiamati Scotomi,
che significano letteralmente ombre. Non
a caso de Chirico è molto impressionato da
ciò, al punto da affermare “Ci sono più enigmi
nell’ombra di un uomo che cammina sotto il
sole, che in tutte le religioni, passate, presenti
e future” (Manoscritti) e da riportare questo
elemento in molteplici opere, tra cui ricordo:
L’enigma dell’ora, 1911, La partenza del poeta,
1914, La malinconia della partenza o La gare
de Montparnasse, 1914, La torre rossa, 1913,
Ariadne, 1913, Melanconia, 1912, Malinconia di una bella giornata, 1913, Mistero e
malinconia di una strada, 1914, La partenza
misteriosa, 1930, La piazza, 1914, Il destino
del poeta, 1914.
Questa ricorrenza del tema dell’ombra
sembra richiamare il ripetersi di fenomeni
di deficit visivo, nella vita del Maestro a
seguito delle manifestazioni emicraniche;
a tali disturbi ricorrenti si associa un senso
di angoscia e di malinconia e molte delle
opere del Maestro presentano questa caratteristica, e non solo nella definizione del
titolo. La presenza delle ombre, sapientemente disegnate dall’inclinazione del sole
su edifici, che limitano la visuale e sono per
lo più squadrati, freddi, austeri, con una
serie di arcate in ombra, come occhi senza
luce, contribuisce a sottolineare l’atmosfera
angosciosa e malinconica. Effetto analogo
si realizza quando le
ombre nascono da
oggetti sconosciuti
ed invisibili, come in
La partenza del poeta, 1914, e Mistero
e malinconia di una
strada, 1914. Il fenomeno appare ancor
più evidente quando
le ombre originano da
immote statue, quasi
monumenti funerari
Mistero e malinconia di una strada
che sottolineano la
sospensione del tempo, in una sorta di angosciosa attesa, come
in Melanconia, 1912 o in Ariadne, 1913, o in
Piazza, 1914.
Un elemento ulteriore che possiamo
ricondurre ai disturbi visivi presenti nell’emicrania, oltre agli scotomi, è quello degli
occhiali scuri che compare in La nostalgia del
poeta e Ritratto di Apollinaire, del 1914; esso
può essere un riferimento al sintomo della
fotofobia che quasi sempre accompagna
l’emicrania.
In alcune opere ricorre, in secondo piano, la presenza di un treno, talvolta appena
visibile sullo sfondo (La conquista del filosofo,
1914, La malinconia della partenza o La gare
sole e della luna e dai cordoni attraverso i
quali avviene il trapasso, come specie di fili
della corrente elettrica.
Nella serie di opere definite Bagni Misteriosi compare il tema della tenda che ci
riconduce alle Rivelazioni: è come se quella
spessa tenda (o anche una porta) stesse
a celare il mondo metafisico all’umanità
ed il compito dell’artista fosse quello di
svelare tale nascosto. In alcune di queste
opere si vede chiaramente un personaggio
con cappello (egli rappresenta il Maestro),
nell’atto di aprire la porta che introduce al
mondo metafisico. L’elemento più strano ed
interessante è costituito dall’aspetto dell’acqua, dal colore marrone e con caratteristiche
striature che ricordano un parquet. Si può
sostenere che l’emicrania abbia avuto parte
in questo elemento, dal momento che esso
ricorda i zigzag tipici dell’aura.
Nel periodo neometafisico si collocano
29
anche alcune opere con un tema nuovo: in
Battaglia sul ponte e Ritorno al castello, del
1969, si osservano delle figure centrali, nere,
con bordi frastagliati ed acuminati, come
ritagliate con le forbici ed incollate sulla
tela; chiaramente tali figure sono vestigia di
scotomi in corso di aura. Analogamente, Il
rimorso di Oreste del 1969, oltre a mostrare
l’immagine-scotoma, nera, accanto alla
figura uomo manichino, evidenzia il tema
del doppio, con
il contrasto tra
una testa di manichino, priva di
vita, ed un torace “vitale” di
espressioni geometriche.
Nell’opera,
inoltre, si può
Interno
metafisico
de Montparnasse, 1914, La partenza misteriosa, 1930, La piazza, 1914, L’angosciosa
partenza, 1914); tale elemento potrebbe
essere espressione di un fenomeno osservabile nell’Emicrania: l’autocinesi, che è
un’ illusione percettiva visiva che consiste
nell’impressione avuta dal soggetto che
oggetti, altrimenti stabili e fissi, appaiano
in movimento.
Gli Interni Metafisici costituiscono un
altro gruppo di opere, soprattutto del periodo Neometafisico, di interesse specifico.
La predominante regolarità delle forme
geometriche che in esse si osservano può
riportare il nostro pensiero alle geometrie
degli spettri di fortificazione, la teicopsia:
Interno metafisico, 1926, Interno metafisico
con biscotti, 1916 e 1968, Natura morta
evangelica, 1956, La rivolta del saggio, 1916.
Similmente, ne Il mistero di Manhattan del
1973, la chioma di Apollo e una specie di
coperta sulla poltrona ricordano la macchia
di uno scotoma in evoluzione, che sembra
ripresentarsi nel luccichio dell’acqua ne Il
ritorno di Ulisse del 1968; in esso l’eroe greco
è rappresentato nell’atto di remare, su una
barca, in un mare circoscritto, all’interno di
una stanza (si osserva sullo sfondo che la
porta della stanza è aperta, a testimoniare la
possibilità di accedere al mondo metafisico);
nel quadro il luccichìo del bordo dell’acqua
ricorda chiaramente la chiazza di uno scotoma scintillante, che si allarga con il suo
fronte di espansione. Ma l’immagine dello
sfavillio dello scotoma scintillante dell’aura
è ancor più evidente in opere quali Sole sul
cavalletto del 1972 e 1973, Interno metafisico con sole spento del 1971 e Sole e luna
sulla spiaggia del 1930; in esse si nota una
caratteristica della dinamica allucinatoria
dell’aura, quale è il passaggio dalla luminosità all’oscurità (dai fosfeni agli scotomi); tale
transizione è espressa dalla coesistenza del
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Strumenti/Liminarismo
L’autoritratto come alter ego
Una parte importante dell’attività di
de Chirico si è incentrata sul tema dell’au30
toritratto. L’opera Autoritratto pietrificato,
1925, evidenzia un dinamico, progressivo
processo di statuificazione del suo corpo,
che inizia dalla mano destra, mentre il capo
conserva un aspetto carneo, per estendersi
a tutto il corpo. Ciò illustra in modo suggestivo alcuni caratteristici fenomeni parestesici
centripeti tipici dell’aura, ovviamente causa
di angoscia e sconforto in chi non conosce
il fenomeno, mentre la serafica espressione
dell’artista dimostra che egli, ormai, ne è
perfettamente consapevole.
La coesistenza di parti di natura diversa,
carnee e marmoree, presente nell’opera
suddetta, introduce un elemento di fondamentale importanza: il Doppio. Questo si
ritrova in opere quali I due manichini,1920,
I due manichini e la torre rosa, Le maschere,
1973, Le due sorelle, 1925, Archeologi, 1927,
Archeologi IV, 1931, e soprattutto in Autoritratto, 1922, Autoritratto con ombra, 1920, e
Autoritratto con busto di Euripide.
Esaminando in dettaglio Autoritratto,
1922, e Autoritratto con ombra, 1920, si
apprezza la presenza di un doppio sé stesso,
fenomeno definibile con il nome di autoscopia o allucinazione autoscopica del proprio
doppio, condizione questa descritta tra le
manifestazioni auratiche. In queste due
opere, il doppio appare come un fantasma,
che sta lontano dal corpo, come un alter ego;
nella prima si osservano le due immagini
una in carne ed ossa e l’altra formata da
un busto di pietra, l’una di fronte all’altra;
nella seconda opera la figura reale sorregge
e sembra indicare un libro o una stele di
pietra, essendo rivolta verso l’osservatore;
l’immagine doppia è messa di spalle, quasi
appoggiata all’altra e guarda nell’opposta
direzione. Questo secondo caso sembrerebbe evidenziare un esempio di esperienza
extracorporea di derealizzazione con la
percezione somestesica di un corpo parasomatico, fuori dal Sé fisico; infatti l’alter ego
appare differente in grandezza e postura,
Manichini in riva al mare
osservare che l’ombra scotomica dalla
sembianza umana ha dei rapporti sproporzionati e tale elemento può essere riferito
al fenomeno, che si realizza, talvolta, nei
soggetti emicranici, definito Sindrome di
Alice nel paese delle meraviglie. Questa è caratterizzata da una distorsione allucinatoria
della normale percezione somestesica del
proprio corpo, per cui il soggetto percepisce
alterato il corpo nel peso, nella statura, nella
forma. Tale definizione sindromica risale al
1952, quando Caro W. Lippman descrive il
fenomeno, notando la grande somiglianza
tra le descrizioni che gli vengono offerte dai
pazienti e l’opera di Lewis Carroll (al secolo
reverendo Charles Lutwidge Dodgson, peraltro anche egli affetto da emicrania).
con lo sguardo e la mano sinistra differentemente orientata rispetto all’immagine reale
(al contrario di quanto accade nel doppio
autoscopico).
Nell’Autoritratto con busto di Euripide
si osserva la giustapposizione della figura
vivente dell’artista con il busto di pietra del
filosofo greco.
Il significato presumibile di queste figure
doppie può essere interpretato come la metafora del contrasto vissuto nell’animo dal
Maestro. Il doppio rappresenta l’antitesi e nel
contempo l’unione tra la vita quotidiana e la
vita “pietrificata” nella malattia emicranica;
tra la vita reale e la malattia mentale.
Da una parte c’è la freddezza e la durezza
del vivere quotidiano e delle miserie della
malattia e dall’altra la vivacità e la creatività
dell’arte e della conoscenza, che, per esempio, l’artista simboleggia, rispettivamente,
con la testa lignea e l’addome pieno di
monumenti ed arte, nell’ opera Archeologi,
1927. Il doppio rappresenta il contrasto tra
la colorata vita quotidiana e quella grigia
ed immota dell’ombra, del fantasma, della
malattia. È anche l’antitesi nella vita quotidiana, che è da un lato colorata e creativa
e dall’altro condizionata dalla debolezza
e dalla malattia (così come il ventre degli
Archeologi è depositario della bellezza
dell’arte e della sofferenza dell’emicrania
addominale). D’altro canto la pietra dei busti
dell’autoritratto e di Euripide rappresenta il
contrasto tra la freddezza della malattia e
la perfezione dell’arte, quasi che ognuna di
queste espressioni, la vita e la pietra fredda,
avessero in sé due opposti estremi.
La sintesi di tutto ciò è nel contrasto tra
la vita e la malattia (ed in questa tra la malattia fisica e quella mentale) e tra la gloria
dell’arte e la tragedia della sofferenza, che
sebbene contrapposte sono, per tutto ciò,
legate indissolubilmente, al punto da non
esistere l’una senza l’altra: “Nulla sine tragoedia gloria” (massima latina che compare sulla
stele sorretta con una mano dall’artista nell’
Autoritratto con busto di Euripide.
Ancora, le Rivelazioni sono l’espressione
della creativa genialità e del fatto che il
Maestro è uno dei pochi eletti ad accedere
al mondo metafisico; del resto esse sono
anche una espressione di diversità potenzialmente negativa, la follia. Ricordo, a tal
proposito, che a lungo è circolata voce che,
durante la guerra, egli sia stato esentato dal
combattere al fronte, perché i suoi quadri
sono considerati l’opera di un matto; inoltre,
nella sua mente, sicuramente, ha avuto un
ruolo la consapevolezza dell’esistenza del
germe della follia nella sua famiglia.
Anche a causa di ciò, probabilmente, il
Maestro, è stato ossessionato da un’eterna
duplicità. Duplicità è temere di avere una
malattia fisica ed una tara mentale; duplicità
31
è avere una doppia esistenza: quella della
vita di tutti i giorni e quella scandita dalla
successione delle crisi dolorose addominali
e dalla cefalea. Analogamente, duplicità è
costituita dalla compresenza della paura
della follia e dall’orgoglio di essere una
persona speciale per aver accesso al mondo
metafisico. Egli forse considera sé stesso
una sorta di novello oracolo e forse ciò è
confermato da opere quali Il veggente, 1914,
La ricompensa dell’indovino, 1913, L’enigma
dell’oracolo, 1913.
De Chirico, insomma, quale novello Tiresia. L’indovino della tradizione mitologica
ellenica, una sorta di transessuale “ante
litteram”per divina maledizione, è egli stesso
simbolo di duplicità per il fatto di aver vissuto sia l’essere maschile che quello femminile,
essendo stato tramutato in donna dagli dei,
per aver ucciso un serpente femmina che
copulava con un maschio; dopo sette anni,
nella stessa situazione uccide il serpente
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Strumenti/Liminarismo
32
maschio e torna egli stesso maschio. Successivamente, in una disputa tra Zeus ed Era,
egli svela il segreto del piacere erotico della
donna (che ha piacere nove volte superiore
all’uomo) e per punizione Era lo priva della
vista; ma, sempre per volontà di Zeus, egli
ha il dono di vivere per sette generazioni e
di predire il futuro.
De Chirico, dal canto suo, rappresenta un
Tiresia redivivo; così come l’oracolo greco ha
avuto due maledizioni (quella della doppia
vita sessuale e quella della cecità), analogamente il Maestro è costretto a subire due
sofferenze (dunque in entrambi si osserva
una simile duplicità): la sofferenza fisica (la
malattia emicranica) e quella mentale (la
follia nella sua famiglia e quella che una
parte del pubblico attribuisce ai suoi quadri); nel contempo, entrambi hanno avuto
il dono di essere speciali (guardare il futuro,
per Tiresia, ed aprire la porta del mondo
della metafisica, attraverso le Rivelazioni,
che alimentano la sua arte, per de Chirico).
Per de Chirico gli elementi apparentemente
negativi, della malattia fisica (emicrania) e
psichica (follia), costituiscono dunque un
vantaggio, un’ opportunità, sono anzi indispensabili, per poter accedere all’ esperienza
unica del mondo della creatività metafisica.
Dunque “nulla sine tragoedia gloria”; egli è
cosciente della sua meravigliosa duplicità,
con la grandezza dell’artista e la caducità
della umana miseria e della malattia, che
sono imprescindibilmente ed indissolubilmente legate, senza che l’una possa esistere
senza l’altra.
Cosa questa che è meravigliosamente
possibile ed analoga per ognuno di noi esseri umani, occorre solo rendersene conto
ed…accettarlo.
Giacomo Visco
Psicoanalista e saggista
MEDICINA & SOCIETà
Il limite
della parità
in medicina:
le differenze
di genere
Il fenomeno dell’emancipazione della donna, inteso come
parità tra i sessi in tutti i campi, non può che definirsi una
conquista sociale. Nell’ambito della medicina, la dialettica
disuguaglianza-eguaglianza ha portato o a negare l’esistenza di alcune patologie nella donna o, superato il limite
della disuguaglianza, a pensare di poterla curare come un
uomo. Il risultato è che il concetto di parità porta in sé il limite di una generalizzazione delle cure, a discapito di una
medicina personalizzata.
V
erso il limen della parità. Oggi
possiamo affermare che la donna,
con l’accesso a tutte le profes­sioni
e a tutti i ruoli della vita sociale e politica, ha
finalmente raggiunto la parità con l’uomo.
Un obiettivo conquistato a tappe, in tempi
che in Italia non sono poi così lontani, se si
pensa che solo nel 1874 è stato concesso
alle donne l’accesso ai Licei e alle Università
e solo nel 1877 sono state ammesse come
testimoni negli atti di stato civile. Nel 1896 le
prime donne laureate in medicina, nel 1907
la prima donna italiana con patente di guida;
nel 1908 si tiene a Roma il primo Congresso
delle Donne Italiane, e c’è il primo ingegnere
donna. Nel 1912 c’è la prima donna avvocato
iscritta all’ordine, e due donne vengono elette al Consiglio Superiore del Lavoro.
Durante la prima guerra mondiale viene
introdotta la manodopera femmi­nile nelle
industrie meccaniche e belliche (in certi casi
fino all’80%), contravvenendo ad una legge
del 1902 che ne impediva l’u­tilizzo, per essere
poi di nuovo vietata alla fine della guerra con
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33
Strumenti/Liminarismo
Il limen irraggiungibile. Nel 1991, in
un clima di “parità” ormai presente in molti
dei Paesi occidentali, compresa l’Italia,
Bernardine Healy,
direttrice dell’Istituto di Salute Pubblica
Americano, mette in
evidenza, in un famoso editoriale, The Yentl
syndrome, su New England Journal of Medicine, una penalizzazione della donna nei percorsi diagnostici
e terapeutici. La Healy, attraverso l’analisi
di due studi clinici, sottolinea che le donne
ricoverate nelle Unità di Terapia Intensiva
Cardiologica sono vittime di un rischio maggiore di errore diagnostico e tera­peutico
rispetto ai maschi ed hanno una minore
probabilità di essere inviate a procedure di
rivascolarizzazione, anche in presenza di
una severa coronaropatia. Con tono pro­
vocatorio, la Direttrice afferma che questa
disparità è frutto di una discriminazione
culturale e non clinica dei cardiologi nei
confronti del sesso femminile.
La “questione femminile” per la prima
volta entra in medicina e, più precisamente,
in cardiologia, facendo cadere il “metodo
bikini”, ossia la focalizzazione sulla patologia mammaria e del sistema riproduttivo,
che per tanto tempo ha caratterizzato il
tema della salute nella donna. Il “metodo
bikini”, conseguenza del ruolo più importante che la donna ha nella procreazione
rispetto all’uomo (formazione dei gameti,
gestazione, parto e allattamento), ruolo
che ne ha poi condizionato l’esclu­sione
dalla vita sociale, porta in sé l’affermazione
che la donna, eccezion fatta per la procreazione, è per le malattie degli altri apparati
considerata uguale all’uomo o, addirittura,
immune da alcune patologie come l’infarto
del miocardio e il tumore del polmone. Tale
Bernardine Healy
la motivazione di sottrarre lavoro ai reduci.
Nel 1919, con l’abolizione del diritto maritale,
finalmente la donna ottiene l’emancipazione
giuridica, e ha inizio il percorso per il diritto al
voto. Nello stesso anno si costituisce la Medical Women International Association, un’organizzazione interna­zionale non governativa,
cui partecipano donne medico appartenenti
a 70 Paesi con l’obiettivo di migliorare lo stato
di salute di donne e bambini. Con la marcia
su Roma (1922), la donna viene riportata
tra le mura domestiche, viene inasprito il
codice di fami­glia ed introdotto il “delitto
d’onore”. Durante la seconda guerra mondiale le donne rappresentano più del 20% dei
partigiani, vengono però tenute lontane dai
combattimenti di prima linea. Il 1° febbraio
1945 viene concesso il voto alle donne, la
Costituzione garantisce l’uguaglian­za tra i
due sessi (art. 3), pur rimanendo in vigore le
discriminazioni sancite nel Codice di Famiglia
34
e nel Codice Penale.
Nel 1951 c’è la prima donna al Governo
nelle vesti di Sottosegretario all’Industria e al
Commer­cio, nel 1958 l’abolizione dello sfruttamento statale della prostituzione (legge
Merlin), nel 1959 l’istituzione del corpo di
polizia femminile. Nel 1961 le donne sono
ammesse alla carriera diplomatica ed in
magistratura. Nel 1970 nasce il Movimento
di Liberazione della Donna che conquista il
divorzio, nel 1975 con la riforma del diritto
di famiglia si attua finalmente l’uguaglianza
tra i coniugi ed infine, nel 1977, arriva la
legalizzazione dell’a­borto. Il 5 agosto 1981
vengono abrogate le disposizioni del delitto
d’onore e il 15 febbraio 1996 cade l’ultima ingiustizia nei confronti della donna: lo stupro
diventa reato contro la persona piuttosto
che contro la morale.
semplicistica e riduttiva visione, insieme
alla necessità di proteggere le donne in età
fer­tile e/o il prodotto del concepimento,
insieme alle diffi­coltà culturali ed oggettive
della donna di essere arruo­lata in uno studio
clinico e di rimanervi, ha portato alla costruzione di una medicina maschile, per quanto
ri­guarda l’eziologia, il decorso, la diagnosi e
la terapia.
Il limes invalicabile. Gli studi che seguono alla provocazione della Healy mettono in
evidenza inaspettatamente diversità insuperabili nell’in­cidenza, nella presentazione,
nel decorso, nella prognosi e nella risposta
ai farmaci per molte malattie, a seconda che
si manifestino nell’uomo o nella donna. Ad
esempio, rimanendo nel campo della cardiopatia ischemica, oggi è ben noto che la
donna, sotto l’ effetto dello scudo ormonale,
si ammala in modo diverso ed in tempi diversi dall’uomo. Manifesta rispetto all’uo­mo
placche diffuse lungo l’albero coronarico
piuttosto che localizzate, sintomi diversi
dal dolore opprimente in sede toracica, più
frequentemente segni elettrocardiografici
diversi dal sopraslivellamento del
tratto ST, ed un tasso di mortalità
più elevato per malattie cardiovascolari (53% versus 48%).
Più precisamente la donna presenta: in età fertile rottura di cuore
per dissecazione delle coronarie o
trombosi su placca erosa; fino a 60
anni cardiopatia con disfunzione
endoteliale e vascolare a coronarie
indenni; a tutte le età, in seguito
a stress, disfunzione ventricolare
sinistra reversibile a coronarie
indenni; a 75 anni malattia coronarica ostruttiva simile a quella
dell’uomo. Nel campo della psichia­
tria/neurologia, le donne sono più La stiratrice
colpite rispetto agli uomini dallo spettro dei
disturbi ansioso-depressivi e dal disturbo
del comportamento alimentare (7% versus
3%); sperimentano forme meno gravi di
schizofrenia; manifestano una maggiore
prevalenza della cefalea e del­l’Alzheimer.
Negli ultimi decenni la donna, passando
dall’ambiente domestico a quello delle industrie e diventando fumatrice, muore più
di cancro del polmone che della mammella
(tasso di mortalità 25% versus 16%), con
una incidenza del tumore polmonare che è
aumentata del 200% nell’uomo e del 550%
nelle donne negli ultimi cinquanta anni.
Le stesse esposizioni portano la donna
a soffrire come l’uomo di Bronco-Pneumopatia Cronica Ostruttiva, sebbene i sintomi
della tosse e dell’espettorato siano meno
eclatanti e siano vissuti con un senso di
pudore (la prevalenza della BPCO mondiale
è 9,4/1000 per gli uomini e 7,33/1000 per la
35
donna); d’altra parte, se si è attenti a vegliare
sulla donna quando dorme, ci si accorge che
soffre anche di apnee notturne, un tempo
ritenute solo maschili come la BPCO. Il sistema immunitario, invece, è il punto debole
delle donne: le malattie
autoimmunitarie sono
infatti appannaggio
delle donne, insieme
all’osteoporosi e alle
malattie osteo-articolari (9% versus 1%). Le
donne si ammalano
complessivamente più
degli uomini (8.3% versus 5.3%), anche se poi
vivono più a lungo. Nel
campo della diagnostica, l’aver considerato per anni la donna
eguale all’uomo nella
malattia ha portato ad
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Strumenti/Liminarismo
esempio in cardiologia alla costruzione di
test diagnostici come l’ ECG da sforzo poco
sensibili e specifici per la cardiopatia ischemica nella donna, o all’uso di device troppo
grandi per le coronarie delle donne.
Nel campo della psichiatria, si è ignorato
che i disturbi dello stato di salute mentale
della donna si verificano anche al di fuori di
eventi biologici e affettivi come gravidanza,
parto e menopausa, con la conseguenza di
un mancato riconoscimento dei sintomi,
soprattutto quando questi si manifestano
in un’atmosfera di sottomissione e passività.
In relazione all’uso dei farmaci, le donne
sono percentualmente più numerose degli
uomini (42% versus 32%), ma usano farmaci
testati in trial da dove esse sono state escluse per effetto della medicina bikini. Il risultato è, nella donna, l’inefficacia dell’aspirina
nella prevenzione primaria delle sindromi
coronariche acute, un maggiore rischio
36
emorragico nella terapia trombolitica,
una maggiore tossicità degli antiaritmi­ci o
l’aumento nella incidenza dell’osteoporosi
nell’uso degli ipoglicemizzanti, solo per
citare qualche esempio.
L’eccentricità della medicina di genere. Gli studiosi hanno quindi ignorato,
nella costruzione della medicina, che il sesso,
dicotomico per definizione (nell’ac­cezione
più semplice), comporta necessariamente,
attra­verso i cromosomi, gli ormoni e l’anatomia, una diversità nella fisiologia e nella patologia che non può essere riferi­ta soltanto a
un unico apparato, quello riproduttivo.
Il secondo errore, e non meno grave, in
cui è incorsa la comunità scientifica è stato
quello di non aver conside­rato il genere
(gender) nell’analisi delle malattie. Il genere,
che non deve essere mai confuso né con il
sesso sopra definito, né con la sessualità, è
un costrutto sociale che varia da società a
società, ed in relazione al contesto storicocul­turale. Esso è inteso come l’insieme dei
tratti di perso­nalità, delle attitudini, dei
sentimenti, dei valori e delle attività che la
società attribuisce ai due sessi; s’interseca
con il sesso, e a sua volta influenza le prospettive lavora­tive, familiari, culturali e di
salute. Dagli esempi fin qui illustrati, risulta
chiaro che il gender ed il sesso diventano
determinanti di salute, insieme a reddito,
status sociale, supporto sociale, abitazione,
cure personali, accesso ai servizi medici,
etnia e stato di immigrato, in una visione
moderna del concetto di salute inteso come
«stato dina­mico di totale benessere fisico,
mentale, spirituale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità»
(definizione dell’OMS del 1998).
Di limes in limes. In un ottica liminaristica, sottolineiamo le tappe che hanno
segnato il passaggio a questa nuova epoca
della medicina, dove le differenze vanno
individuate e valorizzate per il successo
delle cure, attuando un mainstreaming di
genere.
Nel 1991 il Dipartimento della Salute
Americano ha costituito l’Ufficio sulla Salute
della Donna, The Office on Women’s Health,
che lavora per ridurre le ineguaglianze
nella ricerca, nei servizi educativi e di cura
che hanno storicamente messo a rischio la
salute della donna. Nel 1994, in America, per
la prima volta il National Institute of Health
ha elaborato le regole per l’inclusione del
punto di vista di genere nella ricerca come
prerequisito per accedere ai finanziamenti
pubblici. Nel 1995, durante la Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne tenutasi a
Pechino, le Nazioni Unite si sono impegnate
a realizzare una prospettiva di genere nel
campo della salute, partendo dal fatto che
le donne e gli uomini sono diversi e devono
essere valutati in base alle loro
differenze. Nel 1997, alla Columbia University di New York,
è stato organizzato un corso di
Women’s Study su Gender-Speci­
fic Medicine. Nello stesso anno in
Europa è stato pubblicato, a cura
del Dipar­timento Employment
and Social Affairs, il rapporto
sullo stato di salute delle donne
in Europa (The State of Women’s Health in the
European Community).
Fin dal 1998 la Comunità Europea ha incluso, all’interno dei programmi di ricerca (IV
e V Programma Quadro), un invito alle donne
a partecipare e a presentare progetti; oggi vi
è un settore della ricerca europea (Science
Woman) con un focus sulle donne. Nel 1999
nasce in Italia il gruppo di lavoro “Medicina
Donne Salute”. Nel 2002 la Medical Women’s
International Association ha pubblicato un
manuale di formazione per l’inserimento del
punto di vista di genere nella salute: Training
Manual for Gender Mainstreaming in Health.
Nello stesso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha costituito il Dipartimento
per il Genere e la Salute della Donna (The
Department of Gender and Women’s Health),
riconoscendo che esistono differenze nei
fattori che determinano la salute e nei fattori
che determinano
il carico di malattia per uomini e
donne.
Nel 2004 l’European Agency for
Safety and Health
at Work esamina
le differenze legate al genere negli
infortuni e nelle malattie sul luogo di lavoro
e le relative implicazioni per la prevenzione,
scoprendo che l’orientamento tradizionale
di prevenzione sottovaluta i rischi sul lavoro
per le donne. Nel 2007 nasce in Italia la Società per la Salute e la Medicina di Genere.
Nello stesso anno presso l’Università degli
Studi di Roma “Tor Ver­gata” è stato istituito
un master di Medicina di Genere. Nel 2009
c’è stato il primo congresso Italiano di Medicina di Genere. Nel 2009 nasce in Italia il
37
Gruppo Italiano Salute e Genere.
Se nel corso della Storia l’uomo avesse
avuto consapevolezza e sensibilità di fronte
alle differenze, tanti errori ed orrori si sarebbero potuti evitare. Il con­cetto di genere che
abbiamo portato all’attenzione del lettore
dovrebbe invece orientare strategie ed
azioni in tutti i campi.
Giovanna Esposito
Giovanna Esposito è Dirigente medico PS e MU ASL/SA, Coordinatrice Gruppo Medicina di Genere Comitato Pari Opportunità ASL/SA, Responsabile per la Cardiologia nell’ ambito dell’Osservatorio
di Genere ASL/SA, Segretario Regionale Sindacato Professionisti Emergenza Sanitaria, Membro del
Coordinamento Nazionale Federazione Italiana Medicina Emergenza Urgenza e Catastrofi.
Riferimenti bibliografici
B. Healy, The Yentl sindrome, NEJM 1991; 325: 274-275.
K. W. Davidson, K. J. Trudeau, E . van Roosmalen et al., Gender as a Health Determinant and Implications for Health Education, Health Educ. Behav. 2006; 33(6): 731-743.
G. Esposito, A. Baruffo. M. La Rocca et al., La cardiopatia ischemica femminile, Decidere in Medicina 2009; 2: 42-47.
P. Sabatini, Gender un fattore di rischio per le malattie autoimmuni, Decidere in Medicina 2009; 3: 41-45.
G. Salomone, F. Basile, C. Battipaglia et al., Gender e cervello: dati attuali sulle differenze di genere, Decidere in Medicina
2009; 4: 41-45.
G. Esposito, R. Ferrante, L. Iovino et al., Malattie polmonari e gender,Decidere in Medicina 2009; 5: 41-45.
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
ANTROPOLOGIA CULTURALE
38
La liminarità
frontiera tra
del sagrato Una
spazio sacro
I
l sagrato, ossia lo spazio antistante la
chiesa cattolica, si presenta sopraelevato
rispetto al piano stradale o come piazzuola in qualche modo delimitata. La sua
diversità si percepisce con immediatezza:
separato dallo spazio comune, introduce
in quello sacro. Nella valenza etimologica è
il vero spazio profano, parola che dal latino
pro-fanum vuol dire davanti al tempio. L’attuale concezione del sacro ne fa un’area di
rispetto, un luogo intermedio, il passaggio
in cui matura il distacco del fedele dal male
del mondo affinché si presenti per quanto
possibile puro nella casa di Dio. Essendo
collegato alla chiesa, anzi costituendone la
e spazio d’uso
soglia, partecipa del valore della sacralità;
troviamo questo aspetto in Manzoni, che
accentua il carattere di empietà di Bernardino Visconti (l’Innominato) citando tra i
suoi numerosi delitti quello consumato sul
sagrato di una chiesa.
Molto diversa fu la concezione del sacro
nel mondo antico, dove era l’uomo a doversene difendere non lasciandosi contaminare
dalla sua diversità. Il teménos, interrompendo lo spazio profano davanti all’edificio di
culto pagano, serviva a proteggere l’umano
fermandolo fuori dal tempio. Il vocabolo
sacro, infatti, negli antichi linguaggi (latino,
greco, egiziano, paleosemitico) contiene
una forte ambivalenza: il latino sacer vuol
dire sia “sacro” sia “maledetto”; il greco
aghios ha il significato sia di puro e sia di
“contaminato”. La contrastata semantica di
questo vocabolo deriva dalla sovrapposizione di due concezioni: l’idea primordiale
immanentista e quella dell’ordine cosmico
diffusa nell’antichità.
Per i Greci arcaici il mondo era interamente divino: Tutto è pieno degli dei,
affermava Talete. Ma poi si prese consapevolezza del fatto che l’organizzazione
armonica dell’universo, seguita alla suddivisione degli elementi primordiali e delle
sfere delle esistenze, aveva allontanato gli
dei dalla terra dove erano stati collocati
dalla religione immanentista. Luogo sacro
per eccellenza, allora, divenne il cielo che,
per la sua distanza dal pianeta, accolse gli
dei senza rischio di commistione dei due
ambiti, il terreno e il divino. L’aria, essendo
la fascia d’avvolgimento del cielo, ne derivò
il carattere sacro; perciò nell’antichità, specialmente gli etruschi e i romani, dal volo
degli uccelli dedussero la volontà degli dei,
considerandoli loro messaggeri.
Pur essendo stata sofferta la separazione
tra il divino e l’umano, con il consolidarsi
della concezione ordinata dell’universo gli
uomini ne compresero la necessità,
quindi accettarono il vuoto lasciato
dagli dei attorno a loro, relegandone
la presenza in vaste estensioni di
natura intatta, separate dai luoghi
praticati dalla gente. I boschi carichi
di mistero, le fonti incontaminate, le
cime montane a contatto con il cielo,
le rocce ricche di energia primordiale,
le grotte che avevano ospitato l’umanità originaria ed erano state luoghi
d’incontro e cappelle divennero
spazio eterogeneo, distinto da quello
antropizzato.
Gli Ateniesi consacrarono agli dei
la vetta collinare soprastante la città, dove
con splendidi monumenti costituirono
l’acropoli accentuando la sacralità già contenuta in quel sito per il suo slancio verso
il cielo, per la netta separazione dalla base
antropizzata, per l’armonia dell’habitat puro.
39
I cristiani hanno la loro montagna sacra nel
Golgota. Salendo, il pellegrino si purifica,
e quando, raggiunta l’altura, trascende
lo spazio usuale, può penetrare in quello
sacro. Tramite il rito, quindi, al cristiano si
rende possibile superare il ristretto ambito
dell’umano e immergersi nella dimensione
in cui soddisfa il desiderio di paradiso.
Per il carattere non integrato nello spazio dell’uomo e per il mistero in cui erano
avvolti, boschi e foreste furono santuari. Le
popolazioni del nord Europa recintarono
boschetti sacri e verdi radure, dove era vietato l’accesso alle donne. I Pelasgi, gli Europei
del settentrione, gli Italici antichi, i Druidi, i
Latini avevano boschi sacri. Nell’Eneide si
narra del re dei Laurenti, Latino che, allarmato dai ripetuti prodigi verificatisi nella
sua casa all’arrivo di Enea sulle sponde del
Tevere, si reca nel bosco sacro a Fauno per
avere responsi sul futuro e, per compensare
lo squilibrio creato dalla presenza umana
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
in quel sito interamente divino, sacrifica
cento bidenti.
Il pio Enea, pur avendo ricevuto dagli dei
l’incarico di raggiungere la terra del Lazio,
quando tocca luoghi eterogenei come l’area
dell’Etna, si appresta a celebrare riti per le
divinità autoctone. Ulisse, invece, che, spinto
dal desiderio laico di conoscere, attraversa
spazi intatti e, senza la dovuta preparazione
rituale, s’addentra in isole abitate esclusivamente da esseri divini, subisce continui
danni fino alla perdita di tutti i compagni
di viaggio.
La presenza del divino fu molto forte
anche nella natura litica, specialmente nelle
meteoriti che, cadendo dal cielo, ne derivavano la sacralità e furono giudicate anelli
di congiunzione con la terra. I Greci, che
le chiamarono con il nome semitico betili,
ebbero nel betilo di Delfi il centro cosmico
più famoso dell’antichità e consacrarono
40
tutta l’area circostante. Nella terra di Canaan,
l’immanenza del divino nella natura litica generò la venerazione dei betili che venivano
posti come testimoni delle ierofanie, finché
il Dio biblico, condannando quel fenomeno,
comandò a Mosè di distruggere tutte le
pietre cultuali. Dall’intervento di Dio contro
l’adorazione delle pietre, venne segnata la soglia tra divino e natura; da
allora il popolo ebraico, abbandonata
la concezione arcaica che identificava
il segno con l’immanenza, pose il suo
Dio all’interno del tempio in una zona
irraggiungibile.
Timorosi dell’alterazione cosmica,
che sarebbe derivata dalla confusione delle due sfere con l’immissione di
una nell’altra, gli uomini separarono
gli spazi consacrati con recinzioni
non oltrepassabili, nel cui interno
sostava o risiedeva un dio, e solo chi
fosse preparato ritualmente poteva
accedervi. L’ambivalenza del sacro, afferma
Mircea Eliade, è dovuta alla sua diversità
rispetto alla natura comune. Il sacro non
può essere avvicinato, perché possiede una
forza non sostenibile dal non addetto al rito;
con la sua ambivalenza, un luogo o oggetto
sacro attira l’uomo che desidera stabilire
un contatto con la ierofania e, nello stesso
tempo, lo respinge inculcando il timore
d’irretirlo in un ambito eterogeneo.
I recinti sacri, presenti sia nelle civiltà
proto-indiane sia in quelle egee, avevano
lo scopo di tutelare dal pericolo del sacro
chiunque non fosse preparato a sperimentarlo, cioè il profano che deve fermarsi sulla
soglia del sacro. Nei tempi più remoti uno
spazio recintato, con o senza un altare, era
un tempio. Quando furono costruiti gli edifici templari, i limina del sacro si restrinsero.
Greci e Romani chiusero nella parte più
interna una cella accessibile al solo sacerdote, come il popolo d’Israele aveva il Sancta
sanctorum nel tempio di Salomone.
Per entrare nello spazio sacro sono
necessari dei preliminari. Le popolazioni
semitiche usano scalzarsi. Nell’Esodo leggiamo che Dio ferma Mosè ai confini del
sacro dicendogli: Non avvicinarti più, scalzati:
questo luogo è terra sacra. I cristiani, dopo avere attraversato
il sagrato che separa i due spazi
eterogenei, esterno - interno,
trovano nell’ingresso il fonte
dell’acqua santa con cui si
segnano ma che non basta a
renderli partecipi dell’intero
spazio sacro: una balaustra o dei
gradini sotto l’arco trionfale staccano l’area
del presbiterio, riservato al solo officiante,
dalle navate dove si radunano
i fedeli. Nessun rituale, inoltre,
nella chiesa cristiana può preparare l’uomo comune all’accesso
in un esiguo spazio rimasto interamente divino, il tabernacolo,
dove penetrano esclusivamente
le mani del sacerdote.
Vittoria Butera
Scrittrice e saggista
Falerna Marina (CZ)
41
Riferimenti bibliografici
Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, 1992
Frazer, Il ramo d’oro, Newton, 1992
La Bibbia, l’ Odissea e l’Eneide.
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LETTERATURA GRECA
L’ALCESTI Di
euripiDe:
al limen di
qa@natov
42
wù sch^ma do@mwn, pw^v eièse@lqw ;
pw^v d’oièkh@sw metapi@ptontov
dai@monov ; oiòmoi. Polu# ga#r to# me@son *
to@te me#n peu@kaiv su#n Phlia@sin
su@n q’ uémenai@oiv eòsteicon eòsw,
fili@av aèlo@cou ce@ra basta@zwn,
polua@chtov d’ eiçpeto kw^mov,
th@n te qanou^san kaòm’ oèlbi@zwn,
wév euèpatri@dai kai# aèp’ aèmfote@rwn
oòntev aèri@stwn su@zugev eiùmen *
nu^n d’ uémenai@wn go@ov aènti@palov
leukw^n te pe@plwn me@lanev stolmoi#
pe@mpousi@ m’ eòsw
le@ktrwn koi@tav eèv eèrh@mouv.
“oh vista della mia casa, come entrerò?
Come abiterò là dentro, adesso che il
destino è cambiato? oh, molto cambiato:
allora entrai con le fiaccole del Pelio e con
gli imenei, tenendo mia moglie per mano,
e ci seguiva un corteo rumoroso, felicitando me e la morta, perché, nobili entrambi
da ambedue le parti, ci eravamo uniti in
matrimonio. ora, invece degli imenei il
compianto funebre, e vesti nere anziché
bianche mi portano a giacere su un letto
deserto”. ( vv.912-925)
In questi versi, pronunciati da Admeto
subito dopo la morte di Alcesti, si condensa
la difficile e, talora,
antitetica “realtà del
cambiamento” che
percorre l’intera tragedia
euripidea; il concetto
di cambiamento, tra
l’altro, si potrebbe configurare quale circuito complesso in cui
agiscono e interagiscono forze dinamiche
capaci di operare passaggi a più livelli.
La tragedia, infatti, è fortemente caratterizzata da “momenti e riti di passaggio”
che interessano non solo la realtà esterna
e oggettiva in cui si muovono i personaggi,
ma anche la sfera emotiva di questi ultimi i
quali, superando i limina della propria condizione, percepiscono col tempo gli affectus
derivanti dalle loro scelte.
Dai versi considerati, infatti, emerge un
“rito di vita”, il matrimonio, e un “rito di morte”, accompagnato dal compianto funebre;
entrambe le dimensioni si configurano,
dunque, come riti di passaggio definiti da
Van Gennep “meccanismi cerimoniali con
la funzione di guidare, controllare e regolamentare i cambiamenti di ogni tipo degli
individui e dei gruppi”.
L’Alcesti di Euripide è, in tal senso, il
“dramma del divenire”, dove il termine
“dramma” è da intendersi nel pieno significa-
to etimologico di “azione”, e che si risolve in
un perenne movimento di entrate e uscite,
di separazioni e aggregazioni, e in un continuo alternarsi di vita e morte, di egoismo
e altruismo, di “luce ed ombra”.
La tragedia, non a caso, si apre con il
dialogo tra Apollo, dio del sole, e Thanatos,
personificazione della morte, che conclude
la discussione con un preciso riferimento
alla ritualità vigente nell’Oltretomba:
Qa. stei@cw d’ eèp’ auèth@n, wév kata@rxwmai
xi@fei *
ié e ro@ v ga# r ou§ t ov tw^ n kata# cqono# v
qew^n
oçtou to@d’ eògcov krato#v aégni@shj tri@ca.
“ora vado da lei a compiere il rito della
spada: è sacra alle divinità di sottoterra la
persona a cui recide un capello”. (vv.74-76)
Siamo appena all’inizio della tragedia, e
già si percepisce in che modo Alcesti oltrepasserà il limen della vita per donarsi ad una
dimensione oscura.
È costante, nel corso dell’opera, il riferimento alla luce del sole, che farà da sfondo
all’orizzonte interiore della protagonista e
che, prima della sua entrata in scena, sarà invocato dal Coro nella figura del dio Apollo:
Co. wùnax Paia@n,
eòxeure mhcana@n tin’ èAdmh@twj kakw^n.
“Signore Apollo, trova tu un rimedio alla
disgrazia di Admeto”. (vv.220-221)
Ai vv. 244-245, comparendo per la prima
volta, Alcesti a sua volta cercherà il sole, la
luce, consapevole che di lì a poco si prefigurerà per lei una realtà buia:
Al. çAlie kai# fa@ov aéme@rav,
ouèra@niai@ te di^nai nefe@lav dromai@ou.
“o sole, o luce del giorno, vortici rapidi di
nuvole nel cielo”. (vv.244-245)
Al verso successivo, tra l’altro, lo stesso
Admeto, confidando in una dimensione
superiore, chiama il sole quale ma@rtuv del
triste destino che aspetta lui e la sua compagna:
Ad. oéra^j se# kaème@, du@o kakw^v peprago@tav,
ouède#n qeou#v dra@santav aènq’ oçtou qanh^j.
“Il sole vede te e me, due infelici che niente
hanno fatto agli dei perché tu debba morire”. (vv. 246-247)
Il tema della “luce” abbraccia, dunque,
con soluzione di continuità i versi più pregnanti della tragedia euripidea, raggiungen43
do la sua aèkmh@ quando, quasi avvertendo un
senso di disorientamento
sintomatico
p e r l ’i m m i nenza della
propria fine,
Alcesti, percepisce che “una
notte buia” le si sta insinuando negli occhi,
ed augura perciò ai propri figli di “vedere
con letizia la luce del sole”; evidente risulta
in questi versi l’antitesi tra la nu@x skoti@a, la
“notte buia”, del v. 269, e il riferimento al fw^v,
alla “luce”, del v. 272.
Gli stessi figli, tra l’altro, costituiranno
l’ “oggetto” di un ulteriore passaggio, nella
misura in cui, superando il proprio limen
materno, Alcesti li “donerà” al suo parakoi@
thv, chiedendo a quest’ultimo di “far loro
anche da madre”.
Non dimentichiamo che già precedente-
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
mente la donna aveva avanzato ad Admeto
delle richieste circa il rispetto che questi
avrebbe dovuto accordarle anche dopo
la morte; dalle parole di Alcesti si evince
quanto dolorosa e importante sia stata la
sua scelta di morire al posto del marito:
44
A
ò dmhq’, oéra^vj ga#r taèma# pra@gmaq’ wév eòcei,
le@xai qe@lw soi pri#n qanei^n a° bou@lomai.
eègw@ se presbeu@ousa kaènti# th^v eèmh^v
yuch^v katasth@sasa fw^v to@d’ eièsora^n,
qnhjs
@ kw, paro#n moi mh# qanei^n, uépe#r se@qen,
aè l l’ aò n dra te scei^ n Qessalw^ n o° n
hòqelon,
kai# dw^ma nai@ein oòlbion turanni@di.
Ouèk hèqe@lhsa zh^n aèpospasqei^sa@ sou
su#n paisi#n oèrfanoi^sin, ouèd’ eèfeisa@mhn
hçbhv, eòcous’ eèn oi§v eèterpo@mhn eègw@.
kai@toi s’oé fu@sav chè tekou^sa prou@dosan,
kalw^v me#n auètoi^v katqanei^n h§kon bi@ou,
kalw^v de# sw^sai pai^da keuèklew^v qanei^n.
mo@nov ga#r auètoi^v hùsqa, kouòtiv eèlpi#v hùn
sou^ katqano@ntov aòlla fitu@sein te@kna.
Kaègw@ t’ aàn eòzwn kai# su# to#n loipo#n cro@non,
kouèk aàn monwqei#v sh^v da@martov eòstenev
kai# pai^dav wèrfa@neuev. A
è lla# tau^ta me#n
qew^n tiv eèxe@praxen wçsq’ouçtwv eòcein.
Eiùen * su# nu^n moi tw^nd’ aèpo@mnhsai ca@rin *
aièth@somai ga@r s’ aèxi@an me#n ouòpote *
yuch^v ga#r ouède@n eèsti timiw@teron
di@kaia d’, wév fh@seiv su@ * tou@sde ga#r filei^v
ouèc h§sson hà gè w# pai^dav, eiòper euù fronei^v *
tou@touv, aèna@scou despo@tav eèmw^n do@mwn,
kai# mh# pè igh@mhjv toi^sde mhtruia#n te@knoiv,
hçtiv kaki@wn ouùs’ eèmou^ gunh# fqo@nwj
toi^v soi^si kaèmoi^v paisi# cei^ra prosbalei^.
“Admeto, tu vedi qual è la mia condizione;
prima di morire voglio dirti le mie volontà.
Io ti ho reso onore fino al punto di farti
vivere a prezzo della mia vita, e muoio
per te, pur potendo non morire e prendere
per marito un altro Tessalo, chi volevo, e
abitare una casa prospera e regale. Non
ho voluto vivere senza te con figli orfani, e
non ho risparmiato la mia giovinezza, pur
avendo la possibilità di trascorrerla in letizia. Ma tuo padre e tua madre sì ti hanno
abbandonato, quando erano arrivati a un
punto della vita in cui sarebbe stato bello
per loro morire, bello salvare un figlio e
morire gloriosamente. Avevano te solo, e
dopo la tua morte non avevano speranza
di generare un altro figlio. E io sarei vissuta
e tu con me per il tempo che ci restava, e
non saresti rimasto senza la tua donna, a
piangere e ad allevare figli orfani.
Ma qualcuno degli dei ha voluto che così
fosse, e sia. Tu però ricordati quello che
mi devi: sì, ti farò una richiesta, non dello
stesso valore, perché niente vale quanto
la vita, ma giusta; lo riconoscerai anche
tu che non ami meno di me i nostri figli,
saggio come sei.
Lascia che siano loro i padroni della mia
casa, non sposare un’altra donna, una
matrigna che, peggiore di me, per invidia
metterà le mani addosso ai miei e ai tuoi
figli.”(vv. 280-307)
Si è visto che quando Alcesti compare
sulla scena è in preda a una forte tensione
emotiva; ella invoca il sole e la luce del giorno, la terra, la casa e il letto della patria Iolco.
A questo stato d’animo, permeato di una fragilità tutta femminile, segue - come si evince
dai versi riportati - una Alcesti totalmente
padrona di sé, a cui l’idea della morte non
suscita più il rimpianto per la perdita della
felicità coniugale e nemmeno il terrore per
il viaggio nell’Ade che l’aspetta.
La donna, infatti, accetta con realismo
e consapevolezza, quasi con un’apparente
razionalità, quanto le sta per accadere, ma
insiste sulla grandezza eroica del proprio
sacrificio, sottolineando il vile comporta-
mento dei genitori di Admeto che, già vecchi
e prossimi ad una fine naturale, non hanno
accettato di sacrificarsi.
L’eccezionalità del suo comportamento
e la dedizione incondizionata mostrata nei
confronti del marito, inducono però la donna a formulare una richiesta che definisce
di@kaia:
“…non sposare un’altra donna, una matrigna che, peggiore di me, per invidia
metterà le mani addosso ai miei e ai tuoi
figli…”(vv. 305-307)
Non si dimentichi, tra l’altro, che all’inizio
del suo discorso Alcesti afferma che avrebbe
potuto non morire
per Admeto e “scei^n
Qessalw^n o°n hòqelon”; tale riferimento, pertanto, trova la
sua evidente spiegazione proprio in
ciò che ella chiede
al marito.
Alcesti è consapevole della propria scelta e questa lucidità
la rende una figura generosa ed altruista
ma, al tempo stesso, tale “eroico altruismo”
sfocia in una sorta di egocentrismo; siamo
dunque in presenza di una realtà soggettiva
in cui convivono due piani piuttosto antitetici, la generosità al limen dell’egocentrismo,
e in cui la “soglia” del passaggio dall’una
all’altro è insita in un circuito verbale caratterizzato da un’emotività particolarmente
umana.
Tutta la réh^siv è impregnata di un marcato egocentrismo che raggiunge toni
più sommessi e pacati solo quando, alla
fine, nonostante l’apparente accettazione
dell’imminente morte,la donna lascia trapelare la sua rassegnazione:
dei^ ga#r qanei^n me * kai# to@d’ ouèk eèv auòrion
ouèd’ eèv tri@thn moi mhno#v eòrcetai kako@n,
aèll’auèti@k’ eèn toi^v ouèke@t’ ouùsi le@xomai.
“Devo morire, e questo succederà non
domani o dopodomani, ma subito sarò tra
quelli che non sono più”.
I limina che emergono dall’Alcesti di Euripide sono perciò armonicamente incastonati non solo in un mosaico di stati d’animo e
di identità soggettive, ma si impiantano con
soluzione di continuità nello sfondo stesso
della tragedia che, come si è visto all’inizio, è
costantemente caratterizzato dall’alternanza di luce e buio, di vita e morte.
Tale “intermittenza”, pertanto, si riflette
nelle dinamiche rituali
descritte nel testo che,
sottolineando con
45
particolare pathos il
passaggio di Alcesti
dalla vita alla morte,
renderanno ancor più
realistico il suo ritorno
alla vita e alla “luce del giorno”.
Alcesti appare sulla scena agonizzante
e dice di vedere Caronte, non a caso il “traghettatore” dei morti, colui che è preposto
al fatale passaggio “della soglia”; l’agonia di
Alcesti termina ai vv.385-390 e, poco dopo,
la sua morte sarà concretizzata da un rituale
ordinato dallo stesso Admeto:
aèll’, eèkfora#n ga#r tou^de qh@somai nekrou^,
pa@reste kai# me@nontev aènthch@sate
paia^na twj^ ka@twqen aèspo@ndwj qewj^.
Pa^sin de# Qessaloi^sin w§n eègw# kratw^
pe@nqouv gunaiko#v th^sde koinou^sqai le@gw
koura^j xurh@kei kai# melampe@plwj stolhj^ *
te@qrippa@ q’ oi° zeu@gnusqe kai# mona@mpukav
pw@louv, sidh@rwj te@mnet’ auèce@nwn fo@bhn.
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
“Ma poiché bisogna fare il trasporto di questa salma, restate e intonate il peana all’inflessibile dio degli Inferi. A tutti i Tessali che
mi sono sottoposti ordino di partecipare al
lutto per questa donna tagliandosi i capelli
e indossando abiti neri; e voi che aggiogate
i tiri a quattro e montate i cavalli, recidete
col ferro le loro criniere”. (vv.422-429)
Al v.422 ricorre il sostantivo eèkfora@,
“trasporto”, che ha un logico legame col
verbo eèkfe@rw, “portare fuori da”, “trasportare”; la preposizione eèk, “fuori da”, amplifica
ulteriormente l’immagine di “uscita” della
protagonista, di passaggio non solo dall’abitazione alla sepoltura ma, metaforicamente,
da bi@ov a qa@natov: attraverso l’ eèkfora@
Alcesti supera il limen vitale.
A tale uscita corrisponde, com’é noto, la
nuova “entrata” di Alcesti, il suo no@stov dalla
morte alla vita: dopo aver appreso da un ser46 vo che il palazzo è in lutto per la scomparsa
della regina, Eracle decide di attendere al
varco Qa@natov vicino alla tomba destinata
alla donna, per strapparle Alcesti.
Essendo riuscito nell’intento, l’eroe
ritorna con una donna silenziosa e velata,
dichiara di averla avuta come premio di
una vittoria in gare atletiche e chiede al re
di custodirgliela in casa, anzi addirittura di
accompagnarla dentro per tenerla con sé
definitivamente, nel caso che la lotta tra
Eracle e Diomede non si concluda bene per
lo sfidante.
Inizialmente Admeto è reticente ma poi
accetta:
Ad. komi@zet’, eiè crh# th@nde de@xasqai
do@moiv.
Hr. ouèk aàn meqei@hn th#n gunai^ka prospo@loiv.
Ad. su# d’ auèto#v auèth#n eiòsag’, eiè bou@lhj,
do@mouv.
Hr. eèv sa#v me#n ouùn eògwge qh@somai ce@rav.
Ad. ouèk aàn qi@goimi *dw^ma d’ eièselqein^
pa@ra.
Ad.Conducetela dentro, se si deve riceverla.
Er. Non affiderei mai questa donna ai
servi.
Ad.E allora tu stesso, se vuoi, introducila in
casa.
Er. Io stesso la porrò nelle tue mani.
Ad.Non la voglio toccare, però può entrare
in casa.
(vv. 1110-1114).
Dopo aver chiesto ad Eracle di eiè s a@
gein th#n gunai^ka do@mouv e averne ricevuto
un rifiuto, Admeto concede ad “Alcesti” di
eièselqei^n; i due verbi adoperati da Euripide si compongono, come si vede, della
preposizione eièv che, non a caso, esprime
un concetto di movimento e, spesso, di un
movimento verso l’interno.
Alcesti, dunque, è rientrata non solo
nella sua casa e, di conseguenza, nella
propria comunità di appartenenza, ma
nella luce stessa della vita; tuttavia, per
reinserirsi totalmente nella dimensione del
quotidiano, la donna deve purificarsi dalla
sua consacrazione agli Inferi e rimanere tre
giorni in silenzio:
Hr. ouòpw qe@miv soi th^sde prosfwnhma@twn
klu@ein, pri#n aàn qeoi^si toi^si nerte@roiv
aèfagni@shtai kai# tri@ton mo@lhj fa@ov.
Er. “Non ti è lecito sentire la sua voce prima
che sia stata sconsacrata agli Inferi, il terzo
giorno”. (vv.1144-1146).
Un altro rito, dunque, che suggella e descrive circolarmente l’“iter liminare” di Alcesti.
L’intera tragedia è percorsa da una conti-
pollai# morfai# tw^n daimoni@wn,
polla# d’ aèe@lptwv krai@nousi qeoi@ *
kai# ta# dokhqe@nt’ ouèk eètele@sqh,
tw^n d’ aèdokh@twn po@ron hu§re qeo@v.
toio@nd’ aèpe@bh to@de pra^gma.
nua ricerca dell’equilibrio che garantisce nel
finale, mediante il meccanismo dell’agnizione, un ritorno alla realtà di partenza; le due
parti di cui si compone il testo, la prima più
dolorosa e la seconda in cui si sviluppa il
lieto fine, si bilanciano perché funzionali al
senso generale ed empatico della tragedia;
la macrostruttura dell’opera è la proiezione
esteriore del contenuto stesso di quest’ultima, nella misura in cui, come si evince dalle
parole finali del Coro:
“Molte sono le forme del divino; molte le
cose che gli dei compiono contro le nostre
speranze; e quello che si aspettava non si
verificò, a quello che non ci si aspettava
diede compimento il dio. Così terminò
questo fatto.” (vv.1159-1163)
Luce ed ombra, vita e morte, altruismo
ed egocentrismo, andata e ritorno, entrata
e uscita, illusione e speranza, non sono altro
che i “due” volti dello stesso limen.
Ilenia D'Orio
Docente di Latino e Greco
Liceo Classico Kennedy
Salerno
Lyceum Maggio 2010
47
Strumenti/Liminarismo
LETTERATURA ITALIANA
48
Il “visibile parlare”:
liminarismo nel X
una sinestesia Il del
Purgatorio
lunga un canto
L
a rete di rimandi che attraversa la
Commedia è stata spesso sottolineata
dagli studiosi, a cominciare dai sesti
canti delle tre cantiche; talvolta, però, vi
sono dei collegamenti più sotterranei, ma
non per questo meno significativi.
Con il decimo canto ha inizio il Purgatorio vero e proprio perché Dante ha passato la
porta del Purgatorio dopo che l’angelo gli ha
segnato 7 “P” sulla fronte; analogamente nel
X dell’Inferno i due pellegrini entrano nella
città di Dite, da cui ha inizio il basso Inferno.
Anche qui i due poeti si inoltrano in un luogo
deserto. Anche qui il motivo dominante è
quello della pietra. Queste osservazioni non
risultano particolarmente originali. Tuttavia
vi sono altri motivi che accomunano i due
canti e che non sono stati sufficientemente
sottolineati: il peccato di superbia e il senso
della vista.
È evidente che il tratto distintivo dei due
eretici, Farinata e Cavalcanti, è l’orgoglio proprio dei nobili e degli scomunicati. Basti considerare l’atteggiamento di Farinata durante
tutto l’incontro con Dante: dalla postura del
dannato , all’esordio del suo colloquio con
Dante2, all’eufemismo con cui allude alla sua
pena3. Altezzosa appare anche la domanda
drammatica che Cavalcante rivolge a Dante a proposito del figlio4. Farinata è stato
processato per eresia e condannato “post
mortem”. Che il vizio degli scomunicati sia
la superbia ci è suggerito dallo stesso Dante
attraverso le parole di Manfredi che nel III
del Purgatorio definisce “presunzion” il suo
peccato.
Nel canto degli epicurei il riferimento alla
vista ricorre più volte, associato soprattutto
alla figura di Cavalcante Cavalcanti.
Si inizia con “vista scoperchiata” per
indicare l’apertura della tomba, si continua
con “cieco carcere” per designare il luogo
infernale, e si arriva a trattare l’”antivedere”
(la preveggenza) e a utilizzare la similitudine della “mala luce”: i dannati sono come
i presbiti che vedono bene solo le cose
lontane.
Il decimo del Purgatorio ha come motivo
conduttore il senso della vista: emerge dalle
occorrenze di “occhi”5, del verbo “parere”che
ritorna sei volte e di vocaboli che appartengono comunque all’area semantica del
vedere.
L’intervento d’autore iniziale, in cui si
afferma che sarebbe stata una grave colpa
volgersi indietro al suono della porta del
Purgatorio che si chiudeva, rinvia sia all’episodio biblico di Sara, sia al mito di Orfeo, ma
soprattutto crea un altro collegamento con
la città di Dite: nel IX canto i diavoli avevano
esposto la testa della Medusa che pietrifica
chi la guardi; da qui la raccomandazione di
Virgilio (IX, vv.55-57):
“Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso; / che
se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi, / nulla
sarebbe di tornar mai suso”.
Dante deve tenere gli occhi chiusi altrimenti non potrebbe mai più tornare nel
mondo dei vivi.
Il mostro mitologico ci riporta al tema
della pietra, che è palese nel canto X dell’Inferno soprattutto per la presenza delle arche,
ma viene riproposto più suggestivamente
nel Purgatorio a cominciare dalla pietra fessa
sulla quale bisogna passare per giungere a
contemplare gli altorilievi che sembrano
vivi al punto da confondere i sensi, mentre
le anime appaiono come sculture tanto da
essere paragonate a delle cariatidi. Non è
la prima volta che il pellegrino è vittima di
questo inganno dei sensi; anche nel XXXI
dell’Inferno Dante crede che i giganti che si
trovano nel pozzo siano delle “alte torri”.
Il canto decimo non ha solo funzione di
cerniera, tra l’Antipurgatorio e il Purgatorio
vero e proprio, come i canti decimi dell’Inferno e del Paradiso. La sua è anche una
funzione prolettica: anticipa il grande tema
dell’arte, della superbia che scaturisce dalla
creazione artistica che avrà il suo massimo
sviluppo nell’undicesimo. La creazione artistica divina realizza la sintesi, la sinestesia tra
vista e udito, tra arte scultorea o figurativa
e letteratura.
La sinestesia ha importanti precedenti
nel poema: basti ricordare la prima apparizione di Virgilio (chi per lungo silenzio parea
49
fioco6), e la definizione dell’Inferno come
loco d’ogni luce muto7.
La confusione e fusione dei sensi si realizza durante la contemplazione di altorilievi
che raffigurano esempi di umiltà riguardanti
l’Annunciazione, la danza di Davide davanti
all’Arca dell’Alleanza, Traiano e la vedovella;
sono, quindi, tratti rispettivamente dal repertorio mariano, dal Vecchio Testamento,
dalla storia classica: la vita della Vergine, la
storia sacra e profana si inseriscono in un
unico disegno provvidenziale.
I tre pannelli non coinvolgono solo la
vista, ma anche altre impressioni sensoriali con un procedimento sinestetico che
annulla le divisioni tra scultura e pittura, la
distinzione tra i sensi della vista, dell’udito
e dell’olfatto.
Nel primo esempio, l’Annunciazione, il
carattere miracoloso dell’immagine che parla
è compiutamente espresso dai vv. 40-45:
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“giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’; / perché
iv’era imaginata quella / ch’ad aprir l’alto
amor volse la chiave; / e avea in atto impressa esta favella / ‘Ecce ancilla Dei’, propriamente / come figura in cera si suggella.
Assistiamo qui al primo straniamento
dei sensi da parte di Dante, anche se per il
momento la sensazione è ancora indefinita:
le parole s’imprimono nell’atto della Vergine
come una figura s’imprime nella cera.
Il secondo esempio, quello di Davide,
segna un progresso rispetto al primo e ha
ispirato molti artisti medievali. In realtà
Dante opera una “contaminatio” di due episodi distinti, anche se vicini e concernenti
entrambi il trasferimento dell’Arca: 1) Davide
che si umilia davanti all’Arca e suscita l’ira
sprezzante della moglie Micol, che sarà punita con la sterilità per la sua alterigia; 2) la punizione tragica ed esemplare di Oza per aver
50 toccato l’Arca, pur non essendo sacerdote.
Pertanto un esempio di umiltà racchiude
in sé due esempi di superbia punita. Tutto
questo episodio appare ispirato a un certo
gusto teatrale, come evidenziano in primo
piano la danza del re, sullo sfondo la finestra
alla quale è affacciata
Micol e il gran palazzo,
reggia superba che si
oppone spazialmente alla mortificazione
del sovrano. Tra i due
esempi di superbia
punita si inserisce una
descrizione della confusione dei sensi in
Dante pellegrino (vv.
58-63):
“Dinanzi parea gente,
e tutta quanta, / partita in sette cori, a’ due
mie’ sensi / facea dir
l’un “No”, l’altro “Sì, canta”. Similemente al
fummo de li ‘ncensi / che v’era imaginato,
li occhi e ‘l naso / e al sì e al no discordi
fensi.”
Rispetto all’esempio precedente qui entra in gioco anche il senso dell’olfatto: l’episodio oltre a confondere l’udito di Dante,
che crede di sentire cantare, inganna anche
l’olfatto del poeta, che crede di percepire
l’odore di incenso.
Le tre storie sono disposte secondo
un climax ascendente che ha la sua acmé
nell’episodio di Traiano e della vedovella. Il divino artefice ha prodotto un “visibile parlare”,
espressione che sinesteticamente sintetizza
la confusione tra vista e udito, prodigio che
non solo provoca una confusione sensoriale,
ma suscita anche l’impressione di un succedersi dei fatti e, conseguentemente, anche
degli stati d’animo. L’autore libera l’esempio
da tutti i particolari che considera superflui
rispetto al dialogo. Dà l’indicazione che il
terzo esempio “biancheggiava”, spiccava,
quindi, tanto da attirare la sua attenzione al
punto da farlo spostare per poterlo contemplare (vv. 70-72):
“I’ mossi i piè del
loco dov’io stava, /
per avvisar da presso un’altra istoria, /
che di dietro mi biancheggiava”.
Si tacciono i sentimenti dei due personaggi nel dialogo
che suscita anche
l ’i m p re s s i o n e d e l
tempo, di proiettare
nella quarta dimensione; d’altra parte già
dall’inizio del canto la
dimensione spaziale e quella temporale risultavano poco chiare. La pittura e la scultura raffigurano solo il momento; qui, invece,
Dante rappresenta la successione dei fatti
in un solo gruppo scultoreo. Subito dopo il
dialogo il poeta commenta (vv. 94-96):
“Colui che mai non vide cosa nuova / produsse esto visibile parlare, / novello a noi
perché qui non si trova”.
Dio, per il quale non vi è nulla di nuovo,
produsse quest’opera che supera i limiti
imposti all’arte umana. La vista e l’udito
sono sinesteticamente confusi: le parole
non si percepiscono con l’udito, ma sono
diventate immagine.
L’arte divina può superare il modello naturale in quanto è figlia diretta di Dio, non una
semplice imitazione della natura, e il canto
decimo si configura come una lunga “amplificatio” della figura retorica della sinestesia.
Carlo Pica
Docente di Lettere
Liceo Scientifico “Ugo Morin”
Mestre
51
ed el s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto (Inf. X, vv. 35-36)
“Chi fuor li maggior tui” (Inf. X, v. 42)
3
“S’elli han quell’arte” disse “male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto” (Inf. X, vv. 77-78
4
“Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? E perché non è teco” (Inf. X, vv. 58-60)
5
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa / qual fora stata al fallo degna scusa (vv. 5-6) (Dante spiega che se si fosse
volto a guardare la porta del Purgatorio che si era appena richiusa avrebbe commesso una grave colpa); e quanto l’occhio mio potea trar d’ale (quanto l’occhio di Dante poteva arrivare a vedere) (v. 25); perch’io varcai Virgilio,
e fe’mi presso, / acciò che fosse a li occhi miei disposta (Dante oltrepassa Virgilio e si avvicina, per poterla vedere)
(vv. 53-54); Similmente al fummo de li ‘ncensi / che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso / e al sì e al no discordi fensi (la
vista e l’olfatto si fecero discordi sul sì e il no di fronte al fumo dell’ncenso che era rappresentato nell’episodio di
Davide che danza precedendo l’arca). (vv. 61-63); Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti / per veder novitadi ond’e’
son vaghi, / volgendosi ver’ lui non furon lenti (i miei occhi che erano soddisfatti di osservare cose nuove di cui essi
sono bramosi furono pronti a volgersi verso Virgilio).
6
Inf. I, v. 63.
7
Inf. V, v. 28
1
2
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Strumenti/Liminarismo
LATINO E GRECO
Il messaggio
di frontiera
delle Beatitudini
nell’immaginario
dell’Occidente
I testi evangelici di Matteo e Luca sulle
Beatitudini si pongono come “luogo”
di confine fra culture e autori diversi,
da omero a Virgilio a Dante, riscrivendo e transcodificando topoi canonici
dell’immaginario universale.
52
T
ra i messaggi profondamente incisi
nell’immaginario collettivo dell’Occidente sicuramente vanno annoverate
le due pericopi (o “estratti”) delle Beatitudini
evangeliche1 (Matteo 5, 3-12 e Luca 6, 20-23):
due testi esemplari e canonici, che, per la
loro pregnanza semantica, si configurano
come una grande Utopia2 o come un Decalogo progettuale3. Le modalità della loro
formulazione (sono da considerarsi “beati”
coloro che soffrono) attraversano tutta
la storia dell’Occidente, ponendosi come
segni di confine e di frontiera fra culture e
autori diversi.
Il carattere plurimo del concetto di
beatitudine. Plurimo e cangiante è già il
termine stesso che indica “il considerare
beata una persona”: µακαρισµς (“macarismo”). Nato nella cultura greca, esso ricorre
nella Repubblica di Platone4 e nelle Egloghe
di Stobeo5, il quale lo collega alla condizione
di beatitudine dovuta alla buona sorte.
Nell’Antico Testamento la condizione di
beatitudine è invece collegata a una dimensione spirituale. L’incipit del Salmo I (XI sec. a.
C.) recita così: “Beato l’uomo che non segue
il consiglio degli empi, non indugia nella
via dei peccatori e non siede in compagnia
degli stolti”. Il Salmista si avvale di precise
categorie: la moralità (l’errore degli “empi”),
la religione (la caduta nel “peccato”) e
la mancanza di razionalità (empietà e
peccato affondano le loro radici nella
“stoltezza”).
Ma significativo è anche un passo
del libro di Tobia (V-III sec.). In esso si
canta la rinascita del Tempio di Gerusalemme dopo la sua distruzione ad
opera di Nabucodonosor (605-587 a.
C.) “Beati coloro che avranno pianto
per le tue sventure: gioiranno per
te e vedranno tutta la tua gioia per
sempre”6. Questo testo sembra anticipare i macarismi delle Beatitudini, non solo
per la prospettiva escatologica (fondata
sulla felicità futura), ma soprattutto per il
presente di sofferenza (intesa come “prova”)
da cui il giusto sarà salvato.
La dialettica beatitudine vs maledizione. Anche il Nuovo Testamento è ricco
di macarismi. È interessante citare quello
contenuto nella Lettera di Giacomo, che
così inveisce contro i ricchi: “Orsù, voi ricchi,
piangete e lamentatevi per le sciagure che si
abbatteranno su di voi […]. Il salario da voi
trattenuto, dei lavoratori che hanno mietuto
i vostri campi, grida”7.
Alla maledizione
nei confronti dei ricchi, la Lettera di Giacomo affianca e contrappone un interessante
macarismo: “Beato
l’uomo che sopporta
la prova, poiché, divenuto comprovato, riceverà la corona della
vita, che Dio promise
a quanti lo amano”8.
Nel testo greco compare, oltre che il nostro
aggettivo-chiave µακρις, un termine
emblematico: il sostantivo pειρασµς, che,
derivando dal verbo pειρω (“sperimentare”
e “provare”), significa “prova”: è un lessema
peculiare dell’idioletto dei Settanta, che per
la prima volta viene usato -al di fuori del
greco classico- nel senso cristiano di “ten53
tazione” (quella “prova” che appare come
sottesa al testo stesso delle Beatitudini).
La felicità, concetto di frontiera.
I l sostantivo “macarismo” richiama
evidentemente l’aggettivo µακρις
(che presenta anche una
forma arcaica: µκαρ,
attestata in Omero e in
Esiodo). In realtà, i Greci
avevano altri tre aggettivi
per indicare “felice”:
 λ  ι  ς (“splendido”
per possesso di beni),
εδαµων (“che gode dei
favori dei δαµνες”) e
ετυς (“favorito dalla
fortuna”) 9. Singolare è
l’espressione di Teognide,
in sua Elegia 10 , in cui
descrive la beatitudine
di colui che, senza aver
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sofferto, scende nella nera dimora di
Ade. Il poeta, infatti, lo chiama µκαρ,
εδαµων τε κα λις. La beatitudine
piena è data appunto da µακρις, che
etimologicamente forse deriva da una
radice greca µκ (presente anche in µγας,
“grande”) o dall’egiziano m c hr (mcr =
“giustificato a voce”), che era un appellativo
riferito al morto quando veniva identificato
con il dio Osiride.
Nella versione latina delle Vulgatae
µακρις viene tradotto con beatus, che
è il participio passato del verbo beare
(“riempire”) e perciò in origine significava
“riempito”, “che non manca di nulla che
possa contribuire alla felicità”. Cicerone
nelle Tusculanae disputationes11 chiarisce
la simbiosi fra beatus e felix: quest’ultimo
aggettivo deriva da un arcaico verbo
latino feo (“generare”), il quale a sua volta
richiama il corrispondente greco ω.
54
Egli scrive: “Come si definisce produttiva
un’aratura, non solo se è immune da ogni
calamità naturale, ma se le circostanze
favorevoli (felicitas) sono predominanti, così
può essere chiamata
giustamente beata la
vita, non solo se da
ogni parte è colma di
beni, ma anche se i
beni vi assumono un
ruolo importante e
produttivo”. I Latini
dunque inscrivevano il
concetto di beatitudo
in una prospettiva
concreta derivante da
una cultura rurale.
Virgilio stesso ampliò il concetto di felix, chiamando beato
chi sa elevarsi oltre la
mentalità ed i pregiu-
dizi del volgo, spaziando in un’atmosfera
superiore. Celebre è il suo macarismo: Felix
qui potuit rerum cognoscere causas12 (“Felice
colui che ha potuto penetrare nell’essenza
delle cose”). Il concetto di Beatitudine, per
Virgilio, acquista una pregnante sfumatura
filosofico-morale-esistenziale.
Intertestualità tematica fra le Beatitudini di Matteo e Luca. Con Virgilio
siamo ormai prossimi all’era cristiana, in cui
si accampano come pietre miliari appunto
i testi evangelici delle Beatitudini di Matteo
e di Luca. La tradizione sostiene che Matteo
scrisse il primo Vangelo, originariamente in
aramaico, che fu pubblicato negli anni fra il
40 e il 50. Matteo è uno scrittore colto, che
prende in considerazione la traduzione
greca antica della Bibbia, usando parole che
non esistono in aramaico, come ad esempio
pαρυσα e pαλιγγενεσα.
Passiamo a Luca che è considerato il terzo
evangelista (il suo Vangelo risale al 65-70): di
stirpe siriana, medico di professione, si convertì verso il 43 a C. La profonda conoscenza
del messaggio di
Cristo è dovuta
anche al fatto che
fu discepolo di
Paolo, il quale lo
chiama suo “collaboratore” che
non lo ha mai abbandonato. Luca,
come Matteo, utilizza Marco: egli è
scrittore coltissimo13; sicuramente
è l’evangelista più
raffinato nell’uso
della lingua greca
e nel ricorso alle
fonti.
Molte sono le analogie fra le due pericopi, ma soprattutto molte le differenze.
Cominciamo con le differenze contenutistiche. Innanzitutto, il numero delle Beatitudini. Matteo ne enuncia nove, mentre Luca
quattro, a cui fa seguire quattro maledizioni
(gli α, in latino vae). In secondo luogo,
mentre il Discorso in Luca si svolge “in un
luogo pianeggiante”, in Matteo invece è
ambientato su un monte (da Agostino in poi
è, perciò, chiamato “Discorso della montagna”). Il monte rivela tutta la sua importanza
sacrale, in quanto è collegato all’Alto e al
Celeste e richiama alla memoria del lettore
(sia ebreo che cristiano) il Sinai, su cui Mosè
ricevette da Dio le Tavole della Legge.
Intertestualità semantica fra le Beatitudini di Matteo e Luca. Ma vediamo,
ora alcune differenze testuali a livello
esegetico-filologico. Ne scegliamo due. La
prima differenza consiste nella presenza
nel testo matteano (accanto a  pτω)
dell’espressione τ pνεµατι (“in spirito”),
assente in Luca. Sicuramente, la formula
matteana (che potrebbe essere la traduzione dei Settanta rispetto all’originale
ebraico dakk’éj-rûah, cioè “spezzati nello
spirito”) rivela un retroterra semitico, visto
che nel rotolo qumraniano14 della Guerra
dei figli della luce si ritrova l’espressione
‘anwéy rûah (letteralmente “piegati di
spirito”). Essa ha dato luogo a diverse interpretazioni da parte dei padri della Chiesa.
Una parte autorevole di essi ritiene che
essa significa “gli umili”15, un’altra parte la
traduce nel senso letterale di “distacco dalle
ricchezze”16 (l’assenza nel testo lucano di
questa aggiunta fa pensare che Luca alluda
alla povertà reale).
La seconda differenza riguarda, nella
nona beatitudine di Matteo e nella quarta
beatitudine di Luca, i cambiamenti apportati
da quest’ultimo. I due testi sono concettualmente simili, ma semanticamente diversi.
55
In realtà, l’unico verbo usato da entrambi è
νειδω (“ingiuriare”), un termine aulico del
greco classico, adoperato da Omero, Sofocle
e Platone ed è la spia
della profonda cultura
dei due evangelisti.
L’altra versione
di Luca. Notevole è,
invece, il cambiamento apportato da Luca
riguardo i due imperativi presenti (αρετε
e γαλλισθε) usati
da Matteo. Matteo, avvalendosi del presente, vuole suggerire un
valore continuativo
dell’azione. Ma può
sembrare un po’ contraddittorio il fatto che
egli, dopo aver elenca-
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
to le sofferenze a cui
andranno incontro
i credenti in Cristo,
inviti a “continuare
a rallegrarsi”. Luca,
invece, pur mantenendo lo stesso verbo αρω e lo stesso
modo (imperativo), lo
usa al tempo aoristo
(ρητε), che, in questo caso, acquista una
sfumatura incoativa.
Perciò il significato
dell’azione risulta
essere: “Cominciate,
preparatevi, disponetevi con l’animo a rallegrarvi, proprio dopo
avere ascoltato le tribolazioni a cui andrete
incontro”. Luca ribadisce così l’importanza
della “preparazione” al µαρτριν (“testimo56
nianza e sofferenza”) della κκλησα.
Per quanto riguarda l’altro verbo
γαλλισθε17 (il quale, peraltro, rivela un
riuso sapiente di un termine omerico, che
esprime l’orgoglio regale e militare), esso
è sostituito da Luca con il verbo σκιρτω
(nella sua forma dell’aoristo imperativo),
che significa “saltellare” e “tripudiare”, ma
anche “essere sfrenato”: lo troviamo, in
Eschilo18, per indicare la potente azione del
soffio del vento e poi, in Euripide, riferito
alle Baccanti19.
Pertanto all’orecchio di coloro, che conoscevano il greco, l’uso di questo verbo
poteva risultare sorprendente; ma l’intento
di Luca è quello di transcodificare, riscrivere,
personalizzare il linguaggio classico e pagano, per reinventare un codice linguistico
nuovo, che si avvalesse di tutte le componenti semantiche del mondo orientale e di
quello greco classico.
I macarismi: l’altro messaggio nella
Divina Commedia. A testimonianza della vitalità universale delle Beatitudini matteane
e lucane sicuramente può essere addotto il
fatto che i macarismi non sono presenti solo
nella Bibbia, ma anche in grandi capolavori
della letteratura italiana, come ad esempio
nella Divina Commedia, in cui è possibile rintracciare ben sette beatitudini. Innanzitutto
va notato che nell’intero Poema l’aggettivo
beato ricorre 42 volte (7 volte nell’Inferno,
14 volte nel Purgatorio e 21 nel Paradiso).
Che il numero 7 sia considerato il numero
sacro per eccellenza, è confermato dalla
forte valenza simbolica conferitagli nelle
Sacre Scritture20.
Le prime sei Beatitudini dantesche vengono proclamate nel Purgatorio e riguardano i poveri in spirito, i misericordiosi, i pacifici, coloro che piangono e gli aventi fame
e sete di giustizia. La settima Beatitudine
consiste in un nuovo macarismo, che, proposto da Dante stesso, condensa uno dei
messaggi più profondi del Cristianesimo:
il perdono divino. L’espressione di Dante
“Beati coloro ai quali i peccati sono coperti
dal perdono” riprende il Salmo XXXI: “Beato
l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato
il peccato”. Grazie alle Beatitudini, Dante
delinea, così, un percorso culturale, che,
passando dalle Sacre Scritture alla Letteratura, trasmette un messaggio, che resterà
inciso a lettere di fuoco nell’immaginario
collettivo.
Melissa Chantal Salerno
L’autrice di questo saggio, che ha conseguito la Laurea Specialistica in Studi Classici,
ha collaborato a “Millennio”, la nuova Storia della Letteratura italiana della casa Editrice Simone.
1
Per una panoramica completa sui temi e sull’esegesi delle Beatitudini, cfr. J. Dupont, Le Beatitudini, 1969, ed.
it. Milano, 1992, vol. I-II e III.
2
Giustino nel suo Dialogo con Trifone (cap. 10) testimonia l’opposizione degli Ebrei a un Vangelo che contenesse precetti inattuabili per le sole virtù umane.
3
Sant’Agostino, De sermone Domini in monte, I, 1.
4
Platone, Repubblica, 591.
5
Stobeo, Ecloga III, 57.
6
Tobia, 13, 15-16.
7
Lettera di Giacomo, 5, 1, 4 e 6.
8
Ivi, 1, 12.
9
Per il significato dei quattro termini λις, εδαµων, ετυς e µακρις cfr. F. Hauck, Grande Lessico
del Nuovo Testamento, VI, 977, Brescia, 1965 e C. De Heer, λις, εδαµων, ετυς, µακρις. A study of the
semantic field denoting appiness in ancient greek to the 5th century B. C., Amsterdam, 1968.
10
Teognide, Elegie, vv. 1013-1014.
11
Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 30, 85 e 31, 86.
12
Virgilio, Georgiche, II, 490.
13
Lucas eruditissimus fuit (San Girolamo, Epistulae, 20, 4).
14
Qumran è una località sulla riva occidentale del Mar Morto, in Palestina. Il sito, costruito tra il 150 a.C. e
il 130 a.C., fu distrutto, nell’estate del 68, dalla X legione dell’imperatore Tito. Qui, tra il 1947 e il 1956, furono
scoperti, oltre ai resti di un monastero dove si ritiene vivesse una comunità di Esseni, i cosiddetti Manoscritti del
Mar Morto o di Qumran. L’opera di gran lunga più nota è il Rotolo della Guerra dei figli della luce (110 a.C.-25 d.C.), il
quale descrive la guerra di quaranta anni, che avverrà tra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre”, con il concorso
delle schiere angeliche.
15
Cfr. San Girolamo, Prefazione al Commento di Matteo, 26, 34; Giovanni Crisostomo In Matthaeum, Homil., XV,
1-2 e Sant'Agostino, De sermone Domini in monte, I, 1, 3.
16
Cfr. Gregorio di Nissa, Patrologia Graeca, 44, 1193-1208 e Leone Magno, Sermo XCV, Homilia de gradibus
ascensionis ad beatitudinem, in Patrologia Latina, 54, 460-466.
17
Il verbo γαλλιω, peraltro usato da Matteo solo in questo passo, innanzitutto, esprime il carattere intenso
del “rallegrarsi”, perché contiene la radice αγα, che ben rende tale intensità: si vedano -per contiguità semanticaanche l’avverbio γαν (“troppo”) e il verbo γαµαι (“guardare attonito”). In secondo luogo, il verbo γαλλιω
ricorre solo nella traduzione greca dei Settanta, mentre nella lingua greca classica si presenta in una variante
e nella forma media γλλµαι che ricorre in grandi scrittori, come Omero. Si veda, ad esempio, l’espressione
omerica ppισιν γαλλµενς (Iliade, XII, 114), che significa “superbo per i cavalli”. È evidente, però, il processo
di transcodificazione operato dal colto Matteo, che, pur avvalendosi di questo verbo del sotto-codice epico, lo
priva del suo originario significato di “esaltazione e orgoglio regale e militare”, per conferirgli il senso di una “gioia
interiore e spirituale”.
18
Eschilo, Prometeo, 1085.
19
Euripide, Baccanti, 446.
20
Nella Bibbia Dio impiegò sette giorni per realizzare la sua creazione. Nell’Apocalisse si dice che sette furono
le Chiese del tempo e che la fine del mondo sarà annunciata dalla rottura dei sette Sigilli.
Lyceum Maggio 2010
57
Strumenti/Liminarismo
LETTERATURA & PSICOANALISI
Leonardo
liminare
Il mostro e la follia,
il Labirinto e l’Apocalisse:
questi i poli dilacerati e
inconsci di un Viaggio geniale
-tra Arte e Letteraturain una terra di frontiera tra
Scienza e Mistero.
58
“U
sciranno dalla terra animali
vestiti di tenebre, i quali con
maravigliosi assalti, assaliranno l’umana generazione e quella da feroci
morsi fia, con fusion di sangue, da essi divorata. Ancora; scorrerà per l’aria la nefanda
spezie volatile, la quale assalirà li omini e
li animali, e di quelli si ciberanno con gran
gridore: empieranno i loro ventri
di vermiglio sangue”. Espressioni
terribili da far tremare le vene e
i polsi, quelle che abbiamo appena lette. Uscite -penseranno i
lettori- dalla penna nera e cupa
di uno dei Maestri del brivido e
tali da ben figurare accanto alle
immortali pagine dell’Apocalisse.
E, invece, sono solo un esempio
fra i tanti, tratti dai frammenti
apocalittici degli Scritti letterari di
Leonardo da Vinci (1452-1519),
canone indiscusso della cultura mondiale,
perennemente liminare fra due strade opposte eppur complementari: quella della
Scienza rigorosa e sperimentalista e quella
del Mistero, condizionato da conturbanti
pulsioni psicologiche.
Di certo frasi come quelle citate ci consentono di ripercorrere il complesso cammino con cui Leonardo si
addentrò nei labirinti del
Fantastico, delineando
suggestivi e apocalittici
scenari, partoriti dal suo genio irregolare e visionario.
Il Mostro, la Caverna e
Thanatos. Il nostro viaggio
nelle raffigurazioni leonardesche sulla “fine del
mondo” parte da un concetto, che è emblematico
nella ricerca del genio di Vinci: quello di
“natura artificiosa”, che figura nel frammento Il mostro marino, il quale risale
agli anni 1478-80, quindi al soggiorno
fiorentino. In esso lo scrittore immagina di vedere un animale mostruoso
arenato sulla riva del mare, formato da
“cavernose e ritorte interiora”. Questa
frase è illuminante, perché ci introduce
in una metafora cara al Leonardo misterioso: la caverna.
L’avventura del grande artista continua infatti con un frammento, intitolato
dagli studiosi appunto La caverna e risalente
agli ultimi anni del soggiorno fiorentino,
cioè al 1480-82. Nell’esplorare una grande
immaginaria caverna, lo scrittore viene
colto da due spinte contrapposte: paura e
desiderio (“paura per la minacciante e scura
spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa”). Paura dunque di
affrontare le prove del Viaggio nelle viscere
della Verità e desiderio comunque di squarciare il velo che la ammanta e la nasconde
agli occhi di chi vuol sapere. Nella caverna
della Verità, che si dispiega nella sua potenza
nell’imminenza della fine del mondo, Leonardo scopre che i mostri abitano in noi. È
la rivelazione (questo significa
del resto il termine greco apokalypsis) della “fine dei tempi” a
segnare il dispiegarsi dell’Anomalo, dell’Indicibile, del Perturbante (termine freudiano che
significa il vedere dinanzi a noi
concretizzato il movente delle
nostre angosce).
In linea con tale processo,
anche molte operazioni della
vita quotidiana vengono rovesciate fino a rivelare la loro
intima pulsione di morte. Così,
l’uccidere qualcosa (presumi-
bilmente un animale), prima di mangiarla,
suggerisce a Leonardo il fatto che l’uomo
“uccide il suo nutritore”; oppure l’esistenza
del manico della scure appare come un oggetto, che si pone come una contraddizione
vivente, in quanto serve per abbattere, quindi uccidere, proprio quelle selve da cui esso
è nato. La morte, dominatrice sovrana della
fine del mondo, dunque permea l’esistenza
stessa fino a penetrare nella dimensione del
59
gioco: i dadi sembrano a Leonardo ossa di
morti, che “con veloce moto” determinano
“la fortuna del suo motore”.
Sul rosso lettino di Sigmund: Leonardo e i suoi doppi. A questo punto ci siamo
inevitabilmente immessi nella strada aperta
da Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, il quale scrisse
nel 1910 uno dei suoi saggi più
illuminanti proprio sul grande
scienziato rinascimentale, intitolato Un ricordo d’infanzia di
Leonardo da Vinci, che qui è il
caso di riassumere brevemente. Il Grande Viennese parte
dal richiamo alla misteriosa
situazione familiare di Leonardo, figlio illegittimo del notaio
ser Piero da Vinci e di Caterina,
probabilmente una contadina, che poi sparirà, almeno
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
Leonardo, Sant'Anna con la Vergine e il Bambino
come presenza fisica,
senza il maschio: la madre gli ha
dalla vita di Leonardo.
dato la vita e il piccolo Leonardo la
Quest’ultimo infatti va
“ricambia” con un viscerale amore
a vivere all’età di cinque
edipico.
anni in casa del padre,
Diverso è l’atteggiamento
anche perché la moverso il padre. Per un verso, egli
glie di Ser Piero, Donna
lo imita sia attraverso il gusto per
Albiera, non ha avuto
il lusso e lo sfarzo, sia attraverso
figli. Il tema delle “due
l’identificazione con lui (in quanto
madri” si evince da alcuegli non si cura più dei suoi dipinti
ni dipinti leonardeschi
dopo averli creati, come il padre
(incentrati sullo schema
non si è curato più di lui dopo
di “Sant’Anna con altri
averlo generato). Per l’altro verso,
Due”) in cui da una sola
egli accusa, all’indomani della sua
figura femminile sembrano diramarsi le parti morte, Ludovico il Moro -che secondo Freud
superiori di “due” corpi.
sarebbe un doppio del padre- di un comIn tali condizioni il piccolo Leonardo portamento che in realtà ha caratterizzato
trascorre la sua primissima infanzia, alme- l’attività artistica di Leonardo stesso: cioè
no fino a che vive con la madre vera, nella quello di non aver portato a compimento le
ricerca ossessiva della spiegazione della sua sue opere. Opere, peraltro segnate da due
misteriosa condizione: quella di essere un elementi spiazzanti: il pensiero labirintico e
60
bambino senza padre. A tale proposito, la regressione.
Freud analizza un ricordo d’infanzia di Leonardo, al quale sembrò, come egli stesso
Il sangue e il labirinto. Il pensiero labiscrisse, che un nibrintico affonda le sue radici
bio venisse nella sua
in un inconscio desiderio di
culla e, apertagli la
disordine, che poi si tramuta
bocca con la coda,
invece nella capovolta osseslo percuotesse con
sione per l’ordine. Ciò si verifiessa dall’interno delca puntualmente nelle annole labbra. Per Freud
tazioni private di Leonardo,
il nibbio-avvoltoio
nelle quali l’artista registrava
(il cui disegno appaminuziosamente anche le più
re chiaramente nel
insignificanti spese quotidiacartone loninese per
ne, tralasciando magari fatti
il dipinto “Sant’Anna
o elementi più importanti.
con la Vergine e il
Leonardo, infatti, si disperde
Bambino”) è la main una serie di particolari
dre. Questo volatile
non sempre determinanti e
appare nel sogno a
spesso ripetuti.
Leonardo come l’uniPer avere una prova sico animale-femmina
gnificativa del suo “pensiero
Leonardo, Cartone londinese per
capace di partorire
labirintico” e ossessivamente
“Sant'Anna con la Vergine e il Bambino"
ripetitivo, possiamo
prendere in considerazione il frammento
che meglio descrive
la sua paura per la fine
del mondo, che egli
immagina causata da
un Diluvio universale.
Il brano, costituito da
appunti sicuramente
da collocare nell’ultima parte della vita di
Leonardo, suole esser
indicato con il titolo Il
Diluvio e sua dimostrazione in pittura. In essi
lo scrittore dà le sue
indicazioni per raffigurare l’immane catastrofe, suggerendo una miriade di particolari, ossessivamente legati all’idea del “cader
precipitosamente”, indicato con il concetto di
ruina: “La cima d’un monte... ruvinosa discenda; ...i piedi delle montagne sieno rincalzati
e vestiti delle ruine delli arbusti precipitati...
Ruinino le mura della città... Vedevasi le ruine
dei monti ruinare sopra
i medesimi fiumi”.
Ritorno allo stadio
precedente alla Vita.
Il secondo aspetto, la
regressione, esplode
nell’imminenza della
catastrofe e della morte, che si pone come
un momento duplice e
imprevedibile. Proprio
quando la stirpe umana
infatti è minacciata nella sua esistenza, la vita
celebra il suo trionfo,
con l’affermazione della
sua virtù sociale più alta: la solidarietà.
“Se non fussi per certi popoli che ci
hanno soccorso di vettovaglia -scrive
Leonardo nel frammento apocalittico
Lettera al Diodaro di Soria- tutti saremmo morti di fame... I vicini per pietà ci
hanno soccorso di vettovaglie, i quali
prima erano i nostri nimici”.
L’istinto di aggressione cambia in
tal modo la sua forza dirompente e la
convoglia -ma solo apparentemente
ed esteriormente- ad un fine altruistico. Resta in sottofondo la pulsione di
morte, che comunque assume un’altra
forma: quella della “invidia” verso il Regno della Non-esistenza (“Sono stato
in tanti affanni, che avam d’avere invidia ai morti”). Il processo di regressione
è ormai definitivamente innescato:
Leonardo aspira a ritornare alla condizione di
quando egli e il mondo non esistevano.
61
Illuminante è l’aforisma leonardesco,
che si può porre a suggello della vicenda
di Leonardo: “I’ son colui che nacqui innanzi
al patre: la terza parte delli omini uccisi; po’
tornai nel ventre alla mia madre”. Come un
novello Edipo, il Genio
di Vinci profetizza il suo
congedo dal mondo e
dalla fatica dell’esistere, in
un’atmosfera di miracolo
rarefatto, che gli fa sperimentare prima il superamento dell’Apocalisse,
che per lui diviene un “rinnovamento del Mondo” e
poi la scoperta di un’altra
dimensione, quella immediatamente prima della
nascita, che nessuno ricorda ma che tutti vorrebbero
rivivere.
Franco Salerno
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
TEORIE LIMINARI
Il paradosso del
compleanno
S
e consideriamo una classe di 23
alunni la probabilità che due di essi
siano nati lo stesso giorno dell’anno
è di circa il 50%. Se la classe è abbastanza
numerosa (30 alunni) questa probabilità
supera il 70%.
Il fatto che queste probabilità siano così
alte sembra strano, perché l’intuito comune
ci porta a sostenere che 23 persone siano
poche perché, su 365 giorni disponibili in un
anno, si verifichi una coincidenza di compleanni. Un modo per rendere tale paradosso
più accettabile al senso comune è che in
realtà dobbiamo pensare che 23 persone
62
significano un numero di combinazioni
pari a C23,2=253, ossia 253 coppie differenti.
Inoltre noi non ci stiamo chiedendo se una
di queste coppie sia nata in un determinato
giorno (per esempio il 25 Aprile) poiché questa probabilità sarebbe realmente bassa; noi
stiamo considerando il fatto che la coppia
possa essere nata in uno qualsiasi dei 365
giorni dell’anno. Questo accresce di gran
lunga la probabilità.
Proviamo a scrivere la probabilità che
in un gruppo di n persone nessuna sia nata
nello stesso giorno di un’altra persona del
gruppo.
Notiamo che questa probabilità può
essere espressa in termini delle sole disposizioni e delle disposizioni con ripetizione.
Abbiamo 365 giorni di nascita da distribuire
ad n persone. Tutti i casi possibili sono le
disposizioni con ripetizione D(r)365,n dei 365
giorni alle n persone (nelle disposizioni
con ripetizione qualcuno può condividere
il compleanno). I casi favorevoli, quelli in
cui i compleanni non sono condivisi, sono
le disposizioni D365,n (senza ripetizione) dei
365 giorni alle n persone. Da cui:
(0.1) P1 (n)=
nf
=
D365,n
np D(r)365,n
Che possiamo scrivere in termini di
fattoriali:
D
365!
=
P1 (n)= 365,n
D(r)365,n [365-n]! · 365n
Questa è la probabilità che nessuno sia
nato nel giorno in cui è nato uno degli altri individui del gruppo. La probabilità che ci siano
due individui nati lo stesso giorno è quindi:
D365,n
(0.2) P(n)=1 – P1(n)=1 – (r)
D 365,n
In Figura 1 è mostrato un diagramma
di questa probabilità al variare del numero
di persone.
Il grafico ci ripropone valori indicati
all’inizio della trattazione. Per 23 persone siamo intorno al 50% e per 30 intorno al 70%.
Notiamo inoltre che intorno alle 40 persone
tale probabilità raggiunge il 90%. Ad 80
persone siamo ormai al 99,99%. Ovviamente
arrivati a 366 persone avremo P(366)=100%
infatti, essendo i giorni dell’anno pari a 365,
su un gruppo di 366 persone sicuramente
avremo la sovrapposizione di almeno due
compleanni.
Vediamo qualche esempio di utilizzo
delle formule (0.1) e (0.2).
Figura 1: La probabilità che due persone abbiano il compleanno lo stesso giorno
cresce all’aumentare del numero di persone prese in considerazione.
La raccolta di figurine
Per completare una raccolta di figurine si
cerca in generale di scambiare con gli amici
delle figurine di cui abbiamo delle copie
(i doppioni) con altre che ci mancano per
completare la nostra raccolta.
Alla base di tutto questo vi è però l’acquisto di pacchetti di figurine per cercare
di acquisire nuove figurine mancanti o,
nell’ipotesi più sfortunata, delle copie da
scambiare con gli amici.
Le moderne catene di produzione delle
figurine sono predisposte in modo che nel
singolo pacchetto non possano capitare
due figurine identiche (o almeno cercano
di minimizzare questa eventualità). Tale
ipotesi resterebbe ancora probabile se le
figurine fossero impacchettate casualmente. Vogliamo pertanto chiederci quale sia
l’eventualità sfortunata che in un pacchetto
possano esserci due figurine uguali.
Questa probabilità dipende dal numero
totale di figurine della raccolta e dal numero
di figurine che si trova nel singolo pacchetto.
Si noti come questo problema sia identico
a quello del paradosso del compleanno,
sebbene in un contesto diverso: ai 365 giorni
possibili va sostituito il numero totale di
figurine della raccolta, mentre il numero di
individui è sostituito dal numero di figurine
in un pacchetto.
Per fissare le idee consideriamo una
raccolta di 400 figurine con pacchetti da 6.
Sappiamo che la probabilità che, in un pacchetto, vi siano 6 figurine diverse è pari a:
D400,6
≈ 0,963 → 96,3%
D(r)400,6
Di riflesso la probabilità che in un pacchetto possano esserci 2 figurine uguali è
pari a:
Lyceum Maggio 2010
63
Strumenti/Liminarismo
P=1–
D400,6
D
(r)
400,6
≈ 0,037 → 3,7%
Che è quasi il 4%, questo significa che
dovremmo trovare due figurine uguali in un
singolo pacchetto, quasi una volta su 25.
Distributori
automatici di caramelle
Quando si introducono delle
monete in un distributore automatico di quelli
mostrati in Figura 2, in generale,
si spera di poter
collezionare con
il minor numero
possibile di mo64
nete la maggior
Figura 2: Un distributore
varietà di oggetti
automatico di caramelle
(siano essi caramelle, giocattoli a sorpresa, pupazzetti o
altre amenità). Fissiamo il numero totale
di oggetti diversi che il distributore può
erogare, ad esempio, caramelle di 8 gusti
diversi. Nell’ipotesi che ogni caramella sia
erogata con una singola moneta, vogliamo
investigare quale sia la possibilità che con
un numero di monete pari a 5 possiamo
assaggiare 5 caramelle diverse.
Anche questo problema è identico a
quello del paradosso del compleanno,
ovviamente visto sotto una prospettiva
diversa. Questa volta i 365 giorni possibili
vanno sostituiti con gli 8 gusti possibili della
caramella, mentre il numero di individui è
sostituito dal numero di monete n=5.
La probabilità di avere due caramelle
allo stesso gusto tra le 5 erogate dal distributore è:
D8,5
P=1–
≈ 1– 0,205 → 79,5%
D(r)8,5
Una probabilità considerevole: sembra
proprio che non dobbiamo considerarci
sfortunati quando non riusciamo a collezionare tutti gli oggetti differenti erogati da
un distributore.
Emiliano Barbuto
Emiliano Barbuto è autore di Teoria dei giochi. Modelli e strategie per massimizzare le probabilità
di vincita e minimizzare i rischi, Edises - Napoli, 2007.
POéSIE
Entrevue avec la
poètesse syrienne
L
Maram Al-Masri
iminality par excellence est l’intellectuel qui vit loin de sa patrie et se sent
citoyen du monde. Ce qui est ressorti
de l’entrevue avec la poètesse syrienne
Maram Al-Masri que nous avons rencontrée
à l’occasion d’un projet arabe “Voyage au
Maghreb et au Moyen-Orient”, qui s’est tenue
à Cava et organisé par le Professeur Maria
Albano de l’Université de Macerata. Née à Latakia (Syrie), d’une riche famille musulmane,
a été formée sur la poésie de Hikmet, Gibran
et Tagore. À l’âge de seize ans, elle commença
à écrire les premières poésies “Renaissantes
et rythmées”, sentimentales et patriotiques.
En 1982, elle s’installe à Paris, où une vie vide,
enfermée dans une banlieue malsaine, n’a
pas permis de donner libre cours à sa nostalgie pour ses liens affectifs en Syrie. Pour
cela, elle recommença à écrire dans sa langue
maternelle et à raconter son monde et les
souvenirs de sa patrie. Le texte qui suit est
l’entrevieu qu’elle a gentilment, bien voulue
nous accorder en français.
Je suis
habitante
de la Terre
la France c’est quand même un très beau
pays qui m’a donné des droits.
Avez vous quelques difficultés?
65
Oui il y a quelques difficultés au niveau
national, continental mais malgré tout ce
pays m’a offert un dieu de droit, de dignité
que certains pays ne donnent pas.
Quel est votre concept de l’amour?
Mon concept de l’amour est très realiste,
lié a l’experience de vie, qui entraîne toutes
les paroles inutiles, les tabous de l’amour qui
nous ont emprisonnés pendant des siècles
et des siècles.
Selon vous, quels sont les éléments
communs entre Orient et Occident et
egalement les différences?
Certainement il y a des différences
importantes entre les deux continents.
Bien que les cultures, les traditions et de la
tolérance, je pense que les pays pourraient
se rapprocher. Et pourtant les méditerraneens habitent sur la même rive, partagent
le meme soleil, donc les difficultés sont liées
à la religion. Je repète qu’avec un peu de
tolérance, d’humanité, d’amour il pourrait
y avoir une communication.
Comment vivez vous votre condition
de syrienne à Paris?
Je vie des fois cela un peu mal, mais Paris,
Entre Occident et Orient ou vous sentez vous d’appartenir le plus?
Mon enfance je l’ai vécue en Arabie
Lyceum Maggio 2010
Strumenti/Liminarismo
mais je suis habitante de la Terre, je suis
universelle, je me sens cosmopolite, parce
que maintenant on ne vit plus seulemement
dans notre pays, tous les pays sont liés par
un destin commun, le destin de la terre.
Y a-t-il quelqu’un en particulier qui
vous a inspirée?
Quand j’etais petite et quand j’ai commencé à écrire, je me suis inspirée de poète
arabe comme Hikmet et Gibran; néanmoins
je ne fais pas partie d’une école en particulier.
J’appartiens à la modernité de la poésie arabe.
Malgré tout où vous sentez vous le
plus à l’aise?
Vous avez été identifiée comDes fois je m’étonne,
me poetesse de la naïveté, de la
je me sens très orientale
“J’appartiens
simplicité: vous croyez apparteet d’autres je me trouve
à la
nir a ce mouvement littéraire?
vraiment très occidenmodernité de
Simplicité oui, je pense que la
tale selon les circonsimplicité
est la meilleure méthode
la poésie arabe”
stances, si maintenant je
de faire approcher la poesie à la
vais en Syrie je me trouve
vie! Moi je veux donner ma poesie
étrangère et maintenant
dans la plus simple forme possible, a moi les
en France...
complications ne m’intéressent pas.
Votre style n’est pas facile à encadrer,
avez vous des modèles d’inspiration du66 rant votre formation littéraire?
Je n’ai vraiment pas d’exemple à part
celui de la Liberté, l’exemple que l’on a suivi
à l’école classique: les rimes, les strophes...
mais moi à un moment de ma vie, j’avais un
frère qui m’a poussé à me libérer de cette
chaine. Parce que il y a fait beaucoup de
sacrifices, d’experiences pour transmettre
l’émotion à travers les rimes, moi je me suis
libérée du style et de la forme.
Quels sont les éléments essentiels de
votre poésie?
C’est la vie!
La vie?
Oui: le sentiment, l’observation, les
êtres humains, c’est moi, c’est toi, tout le
monde, c’est tout ce qui passe à travers les
hommes.
Salvatore Falanga
III B - Liceo Classico
Il testo in italiano di questa intervista è stato pubblicato nel numero 38 di Lyceum.
Due liriche di Maram al-Masri
67
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ANALISI TESTUALE LIMINARISTICA
Uccidere il rivale?
I
L'alter ego ne
La coscienza di Zeno
l capitolo de La coscienza di Zeno di Italo
Svevo presenta come sequenza apicale
l’episodio, in cui il debole Zeno, oscillante
fra la malattia e la inettitudine, manifesta
in maniera sorprendente la sua rivalità con
Guido Speier. Già precedentemente lo aveva
colto un problema fisico, precisamente un
forte dolore alla gamba (lo stesso che per
la prima volta ha provato in casa Malfenti
di fronte alla superiorità del rivale). Poi un
errore, compiuto durante la seduta spirituale, lo incastra nella relazione con Augusta
(l’anti-Ada). Infine, la rabbia -scaturita dall’in68
feriorità rispetto al commerciante toscanoraggiunge la sua “acmè” quando si presenta
a Zeno un’occasione di eliminare il rivale,
capovolgendo la situazione: la posizione liminare di Guido, a livello fisico ed ontologico
(egli è pendulo sul muricciolo fra la vita e la
morte), offre a Zeno lo spunto per partorire
pensieri in bilico fra l’odio e la rivalità, che
sfociano in un desiderio omicida.
Ma il Super-io,
in contrasto con
l’emergente Es, e
la sua iperbolica
necessità di una
protezione, di un
“nido” pascoliano,
in cui la moglie
possa dare sicurezza, lo inibiscono
nella sua pulsione
di odio: di nuovo
la malattia strappa
al suo odio per Guido la colpa delle sue
azioni. L’inettitudine di Zeno è responsabile
della sua paralisi di fronte ad un eventuale
annullamento del suo rivale e il dolore alla
gamba ne è la testimonianza.
Un anti-eroe pendulo fra lotta e contemplazione. Zeno è presentato ancora
una volta come un malato, che esterna la
sua malattia fino a renderla psico-somatica
ed altalenante fra atteggiamenti ossessivi e
nevrotici (come la riflessione sull’eventuale
omicidio di Guido). La sua incapacità di
portare a termine gli studi o di smettere di
fumare, la sua inferiorità nei confronti del
padre (rimarcata dall’ultimo schiaffo), che
confluiscono nell’inettitudine, lo trasformano in un anti-eroe, liminare fra “quell’uomo occhialuto” e l’essere umano rimasto
contemplatore che schiaccerà il “lottatore”
Guido e si farà beffa della sua morte, non
partecipando al suo funerale. In questo suo
antagonista, che paradossalmente è un eroe
rispetto ai canoni letterari, Zeno vede riflesso il rapporto edipico con suo padre.
Il suo “compiacimento” nei confronti
dell’alter-ego deriva da un latente desiderio
di emulazione della figura che, riprendendo
la fase positiva del rapporto edipico con il
padre, incarna tutto ciò che Zeno non è.
Il suo accento
toscano, la maestria nel suonare
il violino, uniti
al nobile nome
che porta, sono
in netto contrasto con il triestino, in bilico fra il
suo aspro nome
e il dialetto che
parla, che cerca
di aggrapparsi alle sue nozioni scarse di
musica per contrastare il suo alter-ego.
Le qualità che l’inetto non potrà mai
avere accendono fra i due una rivalità, che
porta all’esplosione in Zeno delle pulsioni
di “Thanatos”. L’odio prevale nel momento
in cui Zeno medita l’uccisione del suo rivale, facilitato dalla posizione liminare sul
muricciolo. L’Io cerca di giustificare le azioni
dell’Es, trovando un movente nel carattere
indifferente di Guido nei confronti della sua
vittoria su Zeno in campo sentimentale.
La vera rivale: la malattia. Zeno è
costretto a vedere la bellezza di Ada, che
per contrappasso sarà distrutta dal morbo
di Basedow, trascurata dall’atteggiamento
misogino di un marito, che è ora distante
dalla superiore autorità del padre di Zeno.
L’Io è complice dell’Es per aver sollevato il
“coperchio” che contiene le pulsioni di morte, ma il Super-Io riesce a richiuderlo perché
facilitato dall’aspirazione di Zeno a “dormire”
quella notte con la sana Augusta.
La colpa, in cui l’inetto “contemplatore”
è immerso, non deriva tanto dal prevalere
del Super-Io, che blocca il gesto
omicida: esso, esploso dalla
rivalità sentimentale fra i due,
che solo nella mente di Zeno si
contendono Ada (perché è già
promessa a Guido), è spento
proprio dalla figura di Augusta,
altalenante fra essere l’alterego della madre e il sostituto
del padre (per alcuni atteggiamenti oppressivi), simbolo
della sanità e della protezione,
che Zeno non vuole violare. La vera colpa
ha un carattere universale per Zeno, che,
pur avendo agito correttamente, si scaglia
contro la sua vera rivale, la malattia.
La realtà plurima: un topos della Modernità. L’inconscio, protagonista della vita
di Zeno, che si articola in comportamenti da
esso dettati, crea all’interno del malato una
69
parte che non cambia mai: la sua inettitudine, il suo vittimismo, il rapporto edipico
con i rivali, l’aspirazione ad un “tetto” in
cui domini la tranquillità della vita quotidiana sono costanti negli episodi della sua
storia. Come il “fanciullino” di Pascoli, che,
nascondendosi in un “angolo di anima”, è
l’unico che può svelare la verità di una realtà
mistificata, così il “ragazzo” che si cela dietro
Zeno, è l’unico che, secondo la dialettica di
Schopenhauer, da “lottatore” può salvarsi. E,
allo stesso modo, l’arte per gli Espressionisti
come Munch è l’unico mezzo per esprimere
questo ed altri lati della personalità, che per
Pirandello è “una, nessuna e centomila”.
Antonio Boccia
III B - Liceo Classico
Questo scritto è la trascrizione fedele di un compito in classe, assegnato in base alle consegne
tipiche della Prima Prova scritta di Italiano (Tipologia A – analisi del testo)
Lyceum Maggio 2010
Percorso
La Sezione si apre con una riflessione sulle condizioni indispensabili per garantire la pace
politica e sociale nell’Italia di oggi ed evitare il rischio di oltrepassare il limite tra democrazia reale
e democrazia apparente. Problema attualissimo ma che sembra richiamare il senso dell’Orazione
sulla pace di Isocrate, senso identificabile con la forte esigenza di garantismo democratico atto
a salvaguardare un bene inestimabile quale la pace, così come invocato da tanti altri autori del
mondo greco: infatti, cambiano le epoche ma lui, l’uomo, si presenta di volta in volta con le sembianze della preda o del cacciatore.
Pertanto, pur essendo la pace un concetto metafisico universale, si avverte in certi momenti ed
in certi luoghi la chiara percezione della sua mancanza e della sua fragilità, tanto che la Dichiarazione
per una cultura della pace dell’ONU prevede un grande disegno in cui rientrano valori quali libertà,
giustizia, solidarietà, tolleranza, in nome di quel sentimento di fratellanza che pervade l’Inno alla
Gioia del genio di Bonn, inno che simboleggia l’Unione Europea. Impegniamoci, dunque, sempre più fiduciosi, in un progetto di educazione alla pace, forti del monito di un grande filosofo, I.
Kant, che ha precorso i tempi con un testo che apre la strada al pacifismo politico, e memori delle
pennellate rapide, fulminanti ed uniche con cui Emily Dikinson ha toccato temi universali come
la pace, aspettando il giorno in cui cessi ogni conflitto e la vita riprenda lasciando libero sfogo alle
mani intrecciate di milioni di persone.
L’argomento del prossimo Percorso è
Speciale: Giovanni Amendola
Il tema sarà dibattuto in un Convegno di Studi, organizzato
dal Liceo “T. L. Caro” e dall'Università degli Studi di Salerno,
con il patrocinio della Provincia di Salerno e del Comune di Sarno.
Il programma è pubblicato a p. 116.
STORIA DELLE IDEE
L’esperienza storica mostra come
la libertà e il benessere dei cittadini dipendano essenzialmente
dalla capacità con cui i governi
sono in grado di decidere, in un
lavoro congiunto di maggioranza ed opposizione, se e come
migliorare e rettificare le scelte
politiche, le tecniche amministrative, ma soprattutto il modo
di guardare al paese reale. Così
da garantire la pace sociale.
T
ra emancipazione ed insidie
L’età moderna si è orientata,
in modo sempre più deciso, verso
un’idea-forza inarrestabile, destinata a penetrare gradualmente in vaste aree delle
relazioni umane, da quelle civili,
politiche e sociali a quelle morali
e giuridiche, determinando così il
passaggio all’età contemporanea,
volta a garantire e valorizzare una
condizione all’insegna dell’emancipazione fondata su diritti-doveri
indiscutibili, a partire dal rispetto
della dignità umana e dell’autonomia delle singole istituzioni.
Ma il corso della storia, negli
ultimi decenni, ha spesso minato
questo equilibrio, a tal punto da
rendere sempre più corrosa ed
invivibile la realtà politica, economica, sociale e culturale.
Infatti, il passaggio verso una
società fondata sugli ideali democratici, che costituisce il segno
Pax
eST
Tocqueville
tranquilla
libertas
distintivo e la prova più decisiva di un’epoca
nuova, liminare, nel senso di posta a mo’ di
confine tra un ideale di comunità ed il reale
affermarsi dello stesso grazie ad esperienze
umane e sociali significative, non è esente da
gravi pericoli che possono compromettere
proprio il valore dell’uomo come persona e
73
della società come polo aggregante. Tanto,
soprattutto quando ci si concede a mode
del momento o a motivi contingenti di
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
schieramento, distogliendo lo sguardo dai
problemi più urgenti del paese che meriterebbero, invece, costante attenzione da
parte della sfera politica nelle sue molteplici
sfaccettature.
Le strade dell’emancipazione, anche
quando questa è un dato di fatto, sono
insidiate da pericoli che nascono quando
la democrazia assolutizza i suoi miti e si
affida senza garanzia alla loro logica illogica,
che impedisce di addentrarsi a fondo nei
meccanismi della società odierna la quale,
se da un lato gode di un grande benessere
tecnologico e materiale, dall’altro è segnata da grosse sperequazioni e da laceranti
squilibri, e sulla quale incombono rischi
permanenti di conflitti sociali di fronte alla
crisi di progetti alternativi e correttivi di una
realtà che non offre sufficienti garanzie ad
una pacifica convivenza.
I pericoli sono, da un lato, l’eccessivo spi74
rito individualistico ed edonistico, dall’altro,
il piacere di uniformarsi a pseudo-regole,
che generano fatalmente forme latenti di accentramento del potere e che ripropongono
tutti i rapporti politici e sociali in termini
di dipendenza dalla volontà indiscussa di
uno o più soggetti, di una o più istituzioni.
Queste due minacce sono congiunte: sono
estremismi che si rincorrono di continuo,
purtroppo anche in democrazia. Perciò,
l’interesse di ognuno deve essere finalizzato
alla ricerca di strumenti atti a potenziare e,
laddove necessario, a ri-fondare garanzie
reali, capaci di prevenire e/o arginare processi degenerativi e, soprattutto, capaci
di restaurare fra lo Stato, le istituzioni e la
società civile, ovvero fra le varie componenti
della vita associata, una regola di diritto, un
sistema di controlli reciproci e di reciproche
esigibilità. Quando parliamo di democrazia,
non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale
concezione della vita. Nella democrazia siamo
impegnati non solo come cittadini aventi certi
diritti e certi doveri, ma anche come uomini
che debbono ispirarsi ad un certo modo di
vivere e di comportarsi con se stessi e con gli
altri (Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica, 8
gennaio 2008). Modo di vivere e di comportarsi all’insegna del rigore morale per tutti, e
soprattutto per coloro che operano a livello
politico, amministrativo e finanziario.
Un valido insegnamento
Bisognerebbe, per questo, trarre insegnamento da pensatori quali J. Locke,
(1632-1704), che, nei Saggi sulla legge naturale, redatti fra il 1661 e il 1664, afferma che
il mondo è guidato da leggi che fondano
armonia e ordine, cioè la legge naturale, e
l’uomo, in quanto parte di quest’ordine, è
sottomesso e vincolato moralmente a questa legge naturale lungo il cammino che lo
porterà allo stato di diritto; ma anche Charles Louis de Secondat Montesquieu, (16891755), il quale, ne Lo spirito delle leggi, ovvero
il rapporto che le leggi devono avere con la
costituzione di ogni governo, con i costumi, il
clima, la religione, il commercio ecc., redatto
fra il 1735 e il 1747, afferma che la libertà di
cui i cittadini godono in uno Stato dipende dalla limitazione c h e
l’ordinamento dello stato
garantisce; e,
sicuramente,
Benjamin Henri Constant de
Rebecque,
(1767-1830),
che, in Corso
di politica costituzionale,
re d a t to n e l
1819, sostiene che la libertà positiva si
esprime come libertà di contribuire alle decisioni collettive che la vita sociale richiede,
e come esercizio di controllo sull’operato dei
pubblici poteri.
Insegnamento da rivivere, oggi, con una
più profonda e consapevole preoccupazione morale e con una più spiccata sensibilità
civile e civica; consapevolezza e sensibilità
operanti in tutte le direzioni, ad evitare il
rischio che si possano manifestare processi
di disgregazione e di accumulo di potere
arbitrario cui la democrazia è continuamente esposta.
Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti
fatalmente progressiste dell’umanità: è questa, secondo Norberto Bobbio, una sintesi
efficace delle dieci regole da osservare se si
vuole tutelare un bene inestimabile quale la
democrazia e, di conseguenza, salvaguardare la pace politica e sociale.
Nella conciliazione tra i diritti razionali
dell’uomo e i doveri in essi implicitamente
racchiusi, tra l’espansione individuale e il
valore della comunità, tra la logica dell’eterogeneità e la logica dell’integrazione vanno
rintracciati i presupposti di una filosofia pubblica che, contro ogni forma di populismo,
impedisca alla democrazia di degenerare
sia in atomismo sociale, sia in monismo statualistico: è questo il chiaro convincimento
che è possibile rintracciare anche nell’opera
di Alexis de Tocqueville, (1805-1859), La
democrazia in America; opera che, sfrondata
di quelle idee che sono condivisibili solo
se contestualizzate, andrebbe rispolverata
per il suo essere sempre attuale soprattutto
per il problema del rapporto maggioranzaopposizione.
In quest’opera, la cui prima parte fu
pubblicata a Parigi nel 1835, dopo un lungo
viaggio in America, mentre la seconda, ispi-
rata da un soggiorno in Inghilterra, apparve
nel 1840, Tocqueville studia il sistema politico e sociale di un paese che gode dei frutti
della Rivoluzione democratica che ha avuto
luogo in Francia, senza avere attraversato
tale rivoluzione. L’analisi dettagliata delle più
importanti istituzioni statuali (dall’ordinamento dei comuni fino alla corte suprema di
giustizia) è legata all’esigenza di capire quale
sia lo specifico atteggiamento culturale che
assicura il funzionamento della democrazia
americana, ma anche quali siano gli effetti
negativi dell’onnipotenza della maggioranza,
che ormai nel nostro paese si fregia di un
record che non ha precedenti: ben ventotto
decreti sui quali è stata posta la fiducia del
governo; e, sempre guardando alla nostra
realtà politica, potremmo aggiungere, di
un’opposizione poco compatta per orientamenti e schieramenti dalle radici storiche
troppo diverse che ne snaturano la funzione
75
primaria e, quindi, non sempre coesa e determinata a livello propositivo.
È facile comprendere come lo studio
condotto dall’autore non sia fine a se stesso ma serva alla fondazione di una nuova
scienza della politica, avente la funzione di
aiutare la democrazia a purificare i propri
costumi e a sostituire i ciechi moti dell’animo
con la conoscenza del vero vantaggio per
tutti, contribuendo in tal modo ad evitare
che la libertà politica rischi di soccombere
ad interessi particolari.
Il ripiegamento, la chiusura partoriscono
interiori conflitti e lacerazioni difficilmente ricomponibili se non si interviene in
modo tempestivo e con serietà d’intenti,
soprattutto in ragione di continui tentativi
di svuotamento dello Stato sociale, con il
conseguente prevalere del privato sul pubblico e, ciò che preoccupa maggiormente,
annullando secoli di lotte finalizzate proprio
allo stato di benessere!
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
Un monito
che non va sottovalutato
Pe rc h é, t r a
le tante opere
del passato, più
o meno recente, rispolverare
proprio questa?
Guardiamoci intorno, sembra
di vivere in uno
stato di guerra
perenne: uomini
politici che, calpestando ogni
forma di pluralismo, impiegano
gran parte del loro tempo ad attaccarsi,
rimbeccarsi, offendersi, dimentichi che
hanno un mandato da rispettare e che tra le
76
loro dispute eternamente irrisolte l’opinione
pubblica è disorientata, ancor più perché,
intanto, il paese va a rotoli, come nave senza
nocchiero in gran tempesta (Dante Alighieri,
Purgatorio, Canto VI, v. 77).
Esiste ancora il Parlamento, con tutta la
forza del potere sancito dalla Costituzione?
Quali le leggi varate per risollevare le sorti
del paese? Quale la politica per salvaguardare l’occupazione? (proviamo ad immaginare
come si sentono i milioni di lavoratori che
dall’oggi al domani vengono licenziati: la
loro tranquillità economica e morale lascia
il posto alla disperazione, alla frustrazione
e, in moltissimi casi, alla solitudine per la
conseguente rottura della pace familiare).
Quali i provvedimenti per l’inserimento dei
giovani nel mondo del lavoro e per il sociale
in genere?...Quali le riforme del sistema? O
meglio, quali i contenuti convincenti laddo-
ve riforme ci siano? È difficile tentare
di colmare questo grande buco nero
con conoscenze certe in merito a
progetti di intervento ponderato nei
pochi ambiti menzionati. Una cosa
però è certa: è arrivato il momento di
dire basta.
Basta con la politica urlata, basta
con gli insulti, basta con la demagogia!
Si faccia Politica! Quella che non
ha bisogno di aggettivi per essere
connotata. La Politica è tale quando
non ricorre a orpelli e belletti, a ridondanze ed ornamenti, a lusinghe e false
promesse.
Ecco perché l’opera di cui sopra
andrebbe rispolverata: essa può essere estremamente utile ancora oggi
in quanto, oltre che acuta indagine sociologica, è monito affinché non si oltrepassi il
confine tra democrazia reale e democrazia
apparente. Affinché si sia sempre pronti non
solo a mettere in discussione, ma anche e
soprattutto a mettersi in discussione, in un
confronto pacato, rispettoso, costruttivo.
In un clima all’insegna della fecondità
dell’antagonismo, in cui poter affermare
che Pax est tranquilla libertas (Cicerone,
Filippiche, 2, 44, 113), appropriandoci in tal
modo di un motto che riteniamo essere
sempre valido a livello concettuale, ovvero
oltre ogni coordinata spazio-temporale e,
naturalmente, al di là della situazione contingente in cui è maturato.
Ma che è anche L’armonia delle armonie
che placa la turbolenza distruttiva e completa la civiltà, ovvero, una società civile che si
adorna delle cinque qualità di verità, bellezza,
avventura, arte e pace (Whitehead, Adventures of Ideas, XX, 2).
Angelina Rainone
LETTERATURA GRECA
L’orazione Sulla
Pace di Isocrate:
êthos e politéia
éOrÈ ga#r tou#v me#n th#n aèdiki@an protimÈntav kai# to# labei^n ti tÈn aèllotri@
wn me@giston aègaqo#n nomi@zontav oçmoia
pa@scontav toi^v deleazome@noiv tÈn zw©@
wn, kai# kat è aèrca#v me#n aèpolau@ontav
w§n aòn la@bwsin, oèli@gw© d èuçsteron eèn toi^v
megi@stoiv kakoi^v oòntav, tou#v de# met è
euèsebei@av kai# dikaiosu@nhv zÈntav eòn
te toi^v parou^sin cro@noiv aèsfalÈv dia@
gontav kai# peri# tou^ su@mpantov aièÈnov
hédi@ouv ta#v eèlpi@dav eòcontav. Kai# tau^t
è e ié mh# kata# pa@ n twn ouç t wv eiò q istai
sumbai@nein, aèlla# to@ g è wév eèpi# to# polu#
tou^ton gi@gnetai to#n tro@pon. Crh# de# tou#v
euù fronou^ntav, eèpeidh# to# me@llon aèei#
sunoi@sein ouè kaqorÈmen, to# polla@kiv
wèfelou^n, tou^to fai@nesqai proairoume@
nouv. Pa@ntwn d è aèlogw@taton pepo@nqasin, oçsoi ka@llion me#n eèpith@deuma nomi@
zousin eiùnai kai# qeofile@steron th#n dikaiosu@nhn th^v aèdiki@av, cei^ron d èoiòontai
biw@sesqai tou#v tau@th© crwme@nouv tÈn
th#n ponhri@an proh©rhme@nwn.
Lo squarcio del finissimo e longevo retore ateniese affronta il dilemma etico dell’‘utile’ e del ‘giusto’ sullo sfondo di una proposta
politica allettante e rivoluzionaria: sulla base
dei principi stabiliti dalla pace di Antalcida,
Isocrate invita l’Ecclesia e i giovani (in realtà
un’Ecclesia fittizia che adombra i discepoli
del maestro, ossia i filo@sofoi precursori
77
del più alto modello paideutico dell’Umanesimo occidentale) a stipulare la pace con
gli alleati. La pace deve scaturire da una
profonda riforma morale: la talassocrazia
imperialistica di Atene non è giusta (66-68),
non è realizzabile (69), non è utile (70-89).
La serrata argomentazione della nocività
dell’Impero, che si dipana dal paragrafo 64
al paragrafo 105, è dialetticamente sostenuta dal confronto tra la generazione delle
guerre persiane e l’attuale classe dirigente,
che impiega sconsideratamente truppe
mercenarie. Il rifiuto del relativismo utilitaristico di marca sofistica equivale al biasimo
di radicalismi e di demagogie: la norma etica
presiede alla norma istituzionale, il dialogo
pacifico diventa nostalgica utopia della pa@
triov politei@a nell’architettura coreutica
di una prosa ritmica trascinante, sia per
isocolie sintattiche sia per salienze lessicali
etico-politiche.
La pace è, dunque, per Isocrate garan-
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
tismo democratico da non confondere con
clientelismo demagogico-radicale; la pace si
realizza solo in una forma di governo democratico ben organizzato, che vede l’onestà
degli uomini al potere. Una democrazia ben
organizzata è da Isocrate associata alla pa@
triov politei@a prepericlea: si tratta di una
democrazia che, in maniera sorprendente
diremmo, coincide per molti versi con il
modello dell’organizzazione statale spartana (Areopagitico 61), ma, data la sostanziale
impossibilità di restaurare il glorioso archetipo pericleo, si può ipotizzare che il modello
di democrazia ‘ben organizzata’ per Isocrate
coincida con la breve parentesi moderata
di Teramene nel 411. Vero è che, dopo i
rivolgimenti oligarchici del 411 e del 404,
la democrazia istituzionalmente intesa non
può più essere messa in discussione: i nuovi
moderati utilizzano il lemma in maniera
ambigua, per mascherare la necessità di una
78
riforma istituzionale di grossa portata.
La riforma ‘pacifica’ diventa in realtà l’aspirazione a una democrazia oligarchica: nel
Panatenaico (131, 153) la democrazia viene
riformulata come «dhmokrati@a aèristokrati@
a© memigme@nh», ossia come forma di governo
che, pur riconoscendo al popolo la facoltà
di assegnare le magistrature, ne riduce le responsabilità dirette, demandando la gestione della res publica agli eletti per doti morali
e culturali, oltre che per il censo. L’abolizione
della misqofori@a e del sorteggio, vagheggiata nell’Areopagitico per ampliare l’elettorato
passivo, viene eufemisticamente ridefinita
nel Panatenaico, alla luce delle implicazioni
meritocratiche e classiste di un’ ièsonomi@a che
è ièshgori@a e non demagogica parrhsi@a. La
conclusione, ancora più classista, è che non
tutti possano indiscriminatamente partecipare al governo: è necessario possedere dei
meriti, ma soprattutto una paidei@a calibrata
sul lo@gov. Gli unici, allora, a poter sostenere
la causa pubblica sarebbero platonicamente i saggi, i filosofi, ma per Isocrate anche
questo è mera utopia: lontano dalla politica
attiva, come sappiamo, Isocrate fondò una
scuola di eloquenza nel 392 a. C., i cui insegnamenti non erano spendibili in un’aula di
tribunale o in un’assemblea, ma solo nella
vita privata. La retorica, quale discorso mirante all’ aèlh@qeia, è una scienza autonoma,
non instrumentum regni, perché non può
prescindere da fini etici. Il retore-politico,
ibridazione talora demagogicamente emergente dalla crisi della po@liv, è già in declino
con Isocrate, tramonta definitivamente
con Aristotele: il retore non può essere né
un filosofo né un politico, è solo colui che
possiede gli strumenti della persuasione in
maniera trasversale e apolitica.
Il discorso etico-pragmatico dei paragrafi
34-35 rinvia al tema dell’orazione, ossia l’imperialismo ateniese, causa di decadenza morale: ma a quale imperialismo Isocrate allude?
A quello pericleo o a quello dell’ultima fase,
rappresentata dalla II Lega navale? In realtà,
a differenza degli altri discorsi deliberativi,
impostati sulla cogenza delle dimostrazioni
entimematiche aristoteliche (Panegirico, 2122, Panatenaico, 35), la tessitura argomentativa del discorso Sulla Pace non è sempre
simmetrica, anche perché il retore non si
accontenta di impostare il suo discorso sulla
contrapposizione dei topoi tipici del discorso
epidittico (ossia il possibile e l’impossibile in
prospettiva futura, luogo ‘comune’ che pure
si riscontra nell’orazione al paragrafo 69).
Risulta allora arduo stabilire a quale periodo
della storia politica ateniese Isocrate faccia
riferimento, anche perché, se da un lato
l’impero del V sec. è elogiato come migliore
di quello voluto dalla recente democrazia
radicale, lo stesso Pericle è collocato sullo
sfondo di una decadenza già inoltrata. Per
quanto le strategie comunicative di questo
discorso rientrino nella prassi epidittica, non
possiamo non considerare la sua destinazione e il suo uditorio, nonché tutti gli elementi
di devianza rispetto alle caratteristiche del
discorso persuasorio ed alle sue singole parti,
delineate da Aristotele (Retorica II, 1, 1377b1378a). Isocrate non si sta rivolgendo alla
città, ma ai suoi allievi: ed è per questo che avverte la necessità di parlare della pace politica
in termini etici, per sostanziare i contenuti e
il lessico della sua paidei@a. Come sappiamo,
lo spazio privilegiato dei lo@goi isocratei
non è di certo l’orizzonte politico coevo, né
tanto meno quello logografico-deliberativoassembleare: il discorso che Isocrate finge
di indirizzare alle panhgu@reiv panelleniche
si presta, a converso, ad una lettura elitaria
e lontana dalla scena politica, in quanto
frutto di un’altissima elaborazione formale.
La rinuncia alla dimensione cittadina, che
spalanca orizzonti panellenici sul piano ideologico – Isocrate vagheggia un’integrazione
fra tutti i popoli della Grecia – sfocia invece
nell’adozione di un angolo prospettico molto più ristretto, il pubblico della scuola, una
scuola aperta a tutti i discepoli della Grecia e
che accoglie i personaggi più eminenti.
Il modello formale-pedagogico isocrateo, nel clima culturale di perdita d’identità
della po@liv e nell’aspirazione al recupero
dell’individualità, s’impone al mondo romano, all’Umanesimo ed a tutta la cultura
odierna di matrice classica, che privilegi
l’humanitas, le virtù dello spirito e i più alti
valori morali. Un modello che trova perfetta corrispondenza nel periodare ampio e
complesso dello stile isocrateo: l’architettura
sintattica del paragrafo 34 è tutta giocata
sull’accumulazione, per omoteleuto, di participi (gli stessi sono epifore, se disposti iconicamente in clausole ritmiche), incastonati
nella cornice più ampia della correlazione
antitetica. All’alta incidenza dei participi esti-
mativi e sentiendi, che delimitano il campo
semantico dell’ingiustizia, del sommo bene
utilitaristico e delle lusinghe dell’ingiustizia (la metafora dei pesci adescati è, in tal
senso, molto pregnante) subentrano, nella
terna correlativa dei participi, le strutture
modali della concretezza, a circoscrivere il
polo semantico della pietas, della giustizia
e della speranza dei giusti per la vita eterna,
con esplicita allusione orfica alla ricompensa degli iniziati ai misteri eleusini. La
prassi dell’utile paideutico e non sofistico è
veicolata da icone verbali che ribadiscono
l’urgenza pragmatica del vivere secondo
giustizia e in vista del futuro.
Il paragrafo 35, che nella prima parte
viola l’amplificazione, tipicamente isocratea, mediante antitesi ed epistrofi (ma che
presenta comunque una certa simmetria
nella doppia prolessi del dimostrativo e
nella sovrapposizione concettuale, oltre
79
che fonica, tra il perfetto risultativo di
consuetudine e il presente copulativo),
aggancia l’utile paideutico all’utopistica
gestione politica di una classe di filosofi: la
scelta dell’utile da parte dei ‘benpensanti’,
ossia dei ‘saggi’, circoscrive, sul piano della
disposizione iconica dei sintagmi, ciò che è
vantaggioso in senso lato, in una fantasiosa
figurazione chiastica (euù fronou^ntav […]
sunoi@sein […] to# polla@kiv wèfelou^n […]
proairoume@nouv). La gnw@mh finale veicola la
norma isocratea del bello, del buono e del
giusto, mediante due nessi antitetici scanditi
dagli stilemi comparativi del ‘meglio’ e del
‘peggio’: ricercare l’utile, inteso come bene
interiore, non significa rientrare nelle grazie
degli dei, solo perché chi pratica la giustizia
‘è più caro agli dei’ di chi pratica l’ingiustizia;
né chi segue la giustizia vive necessariamente peggio di chi ha scelto la slealtà di vita e
di comportamenti. Se è vero che sono pochi
i virtuosi, per cui corrono il rischio di essere
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
isolati e giudicati male, è pur vero che non
bisogna scoraggiarsi: allora, adoperarsi per
il bene comune e per la pace, in un contesto
più ampio e politicamente connotato, può
sempre risultare ‘vantaggioso’ e non per ottenere ricompense o meriti divini (polemica
antisofistica), ma solo ed esclusivamente per
operare bene e con misura, liberi da condizionamenti e da meschini opportunismi.
Potranno sembrarci concetti scontati, ma
il lettore attento e colto coglierà di certo la
portata rivoluzionaria dell’umanesimo di Isocrate: l’uomo di Isocrate è l’uomo nella sua
80
totalità di cittadino, di filosofo (secondo la
particolare accezione di filosofia isocratea),
di retore-politico, e non valgono ideologie e
partiti a farne un modello concreto di virtù,
ma una solida formazione, un magistero
trasversale, un approccio completo all’arte e
alla vita, un’interculturalità panellenica.
Gabriella Carrano
Liceo Classico ‘M. Galdi’
Cava de’ Tirreni
e Università degli Studi di Salerno
(Dipartimento di Letteratura,
Arte e Spettacolo)
LA CASA
DELLA PACE
L
e radici di un problema
Che la pace sia un concetto (metafisico) universale della cui presenza
si senta assoluta necessità in ogni tempo e
a tutte le latitudini, è un fatto scontato. Ma,
altresì, è acclarato che la percezione della
sua mancanza, l’inquietudine per la sua
fragilità, almeno in occidente, sia correlata
alla conflittualità tra l’occidente di tradizione giudaico-cristiana e il mondo orientale
e islamico, almeno per quanto riguarda i
nostri travagliatissimi tempi.
Eppure, ebrei, musulmani e cristiani sono
oramai, anche in termini “nazional-popolari”
-come si dice in linguaggio televisivo-, i
“Popoli del Libro”, le Nazioni della Bibbia,
nell’immaginario di tutti. Qual è, dunque,
la radice comune a questi tre grandi rami
dell’unica famiglia vetero e neo-testamentaria? Se è indubbio che Abramo (in quanto
padre di Isacco e nonno di Giacobbe) era il
STORIA
Si va alla ricerca della “Causa”
della Pace. Della sua negoziazione, dei suoi simboli: ma è
possibile individuarne anche
una “casa”, “abitazione” materiale? Una semplice (e velleitaria) riflessione a margine di un
problema secolare.
capostipite del popolo ebraico, è altrettanto vero che lo fosse anche di quello arabo.
Sua moglie Sarah, infatti, incapace di dargli
un erede maschio, acconsentì a che suo
marito giacesse con la sua schiava egiziana
Agar, dalla cui unione nacque Ismaele (diffusissimo tra i mussulmani il nome Ismail),
81
capostipite del popolo arabo e per questo,
detto anche “ismaelita”: ad Agar disse ancora
l’Angelo del Signore: “Moltiplicherò la tua
discendenza e non si potrà contarla per la
sua moltitudine”. Soggiunse poi l’Angelo del
Signore: “Ecco sei incinta: partorirai un figlio e
lo chiamerai Ismaele” (Genesi 16, 10-11).
Gerusalemme d’oro, di rame e di luce
Quale gioia quando mi dissero “andiamo alla casa del Signore” e ora i nostri piedi
si fermano alle tue porte, Gerusalemme
(Salmo 122, 1-3).
Sarebbe banale cercare nella casa del Signore anche la Casa della Pace: Gerusalemme non può essere così; è la città distrutta
dagli Assiri, conquistata dai babilonesi, rasa
al suolo dai Romani; è la città del Muro del
Pianto, della Cupola della Roccia, del Santo
Sepolcro, “d’oro, di rame, di luce”. È la città di
Davide, del monte di Sion, del Tempio di Sa-
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Percorso/La cultura della Pace
lomone, di quella Moschea
di Omar, della Cupola della
Roccia, pietra su cui Abramo preparò il sacrificio
non consumato di Isacco
ma anche lo stesso sasso
da cui il profeta Maometto
salì al cielo.
E poi è la città della
via dolorosa, del Golgota,
della Croce, della Passione,
del sepolcro, della Resurrezione di Gesù Cristo.
Quattordici generazioni dopo Abramo,
Davide fa grande Gerusalemme, nel fasto e
nel sangue. Quattordici generazioni dopo
Davide, i babilonesi la distruggono;
quattordici generazioni ancora dopo
arriva l’uomo-Dio (Matteo 1, 1-17). E
poi, ancora, la distruzione romana.
Città santa per cristiani, ebrei e mus82
sulmani, Gerusalemme è segno di
contraddizione e non luogo di pace,
che ci piaccia o no. Qui la pace può
avere solo l’apparenza della convivenza, ma non la sua abitazione.
Sulla tomba dei Patriarchi
I tre popoli della Bibbia, però, hanno in
comune il riconoscimento della loro origine
e identità religiosa nel retaggio dei Grandi
Patriarchi che, da Abramo in poi, sono seppelliti ad Hebron (Genesi 23, 1-20).
Oggi Hebron è un piccolo borgo della
Cisgiordania palestinese, in
cui la convivenza pacifica fra i
diversi elementi etnici e religiosi
è garantita da un non eccessivamente folto contingente
dell’ONU, cui partecipano anche
i nostri carabinieri. Raramente si
sono consumati in esso atti di
violenza terroristica o settaria,
almeno recentemente. È possibile, davvero, che il riconoscimento comune dei “Padri”, sul
luogo del loro riposo definitivo
possa, in qualche modo, avere almeno parzialmente preservato questa cittadina dal
dramma globale del medio oriente?
Non è possibile dirlo.
Ma se la tanto agognata
Pace avesse scelto la sua
abitazione fisica, credo
che Hebron ne sarebbe
il giusto e naturale indirizzo. Si facciano qui i
negoziati, si cerchino qui
le soluzioni perché si dia
una possibilità al futuro.
Le menti e i cuori devono essere disponibili,
ma per mettere nero su bianco occorre un
luogo fisico che, però, significhi molto.
Ripartiamo da qui: Hebron è un simbolo.
Da sempre.
Guido Iorio
Università degli Studi di Salerno
Dipartimento di Latinità e Medioevo
STORIA GRECA
A Gabriele
Eirene e il piccolo Pluto, statua votiva, ca. 370 a.C.
La pace
nel mondo
greco
È
molto difficile proporre un’etimologia
per il greco Εἰρήνη (pace), in quanto
la parola ci si presenta in quantità
davvero sorprendente di forme diverse per
le quali è impossibile presupporre una forma
originaria: ionico-attico e omerico εερώνη;
dorico, beotico e arcadico ἐράνα; cretese
ἑράνα; tessalo ἐρείνα. Da ciò l’impossibilità di sovrapporre le varie forme dialettali:
sembra quindi da accettare l’ipotesi di una
serie di imprestiti dalle varie aree dialettali,
e, benché non dimostrabile, non è da escludere, in mancanza di una credibile base
indoeuropea a cui risalire, la provenienza del
termine da una lingua di substrato. La mancanza di un’etimologia credibile impedisce
anche di definire l’esatta appartenenza del
termine a un determinato ambito semantico
originario: possiamo soltanto dire che certo
non appartiene originariamente né al lessico
politico né al lessico diplomatico.
In Omero il tema della pace ha uno spazio relativamente esiguo: il carattere stesso
dei poemi impedisce che lo si affronti in
modo profondo. Nell’Odissea la parola compare solo in un passo (Od. XXIV 486 ), mentre
nell’Iliade la parola compare nell’espressione “in tempo di pace” (Il. II 797; IX 403; XXII
156). Di qualche rilievo sono solamente i
versi che, all’interno della descrizione dello
scudo di Achille, raffigurano una città in
83
pace e una città in guerra, e si insiste con
un certo compiacimento nella descrizione
delle opere della pace.
L’importanza assunta successivamente
dalla parola è mostrata dalla sua divinizzazione in Esiodo (Th. 902), ove Eirene è
ricordata tra le figlie di Zeus e Temi. La
superiorità della pace rispetto alla guerra
è presente nelle tragedie di Eschilo: nei
Persiani si ricorda con nostalgia il vecchio
sovrano Dario, che “procurò pace a tutti gli
amici”, ed è chiaro che, essendo in questo
contesto l’opposizione non tanto con l’idea
della guerra quanto con quella del disastro
e del lutto, nuovamente alla parola si collegano nella coscienza del parlante le idee
di serenità e di benessere. Questo motivo
viene poi ulteriormente sviluppato nelle
opere composte durante gli anni angosciosi
della guerra del Peloponneso: intere opere
di Euripide e Aristofane tendono a esaltare
la pace o a descrivere in modo cupo e tor-
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Percorso/La cultura della Pace
mentato gli orrori della guerra. Ma vi è un
passo di Erodoto che vorremmo richiamare
come particolarmente significativo. Sono
le parole con cui Creso risponde a Ciro, che
gli domanda quale follia lo abbia spinto a
muovere guerra a lui e al suo impero, così
più potente da non permettere nessuna
illusione circa l’esito del conflitto: “Nessuno è
così stupido da preferire la guerra alla pace:
nella pace i figli seppelliscono i padri, invece
in guerra i padri seppelliscono i figli”.
Dunque, la pace
come situazione di
normalità, contrapposta alla guerra,
che è invece situazione in cui si ha
un rovesciamento
dell’ordine naturale.
Nell’età elleni84
stica poi la speculazione filosofica, sia
epicurea sia stoica,
mettendo sempre
più in ombra il valore politico e sociale
della parola, le conferisce un valore soprattutto spirituale, e la considera come una
conquista dell’individuo: è la condizione
del sapiente che ritrova nel profondo di sé
le condizioni per raggiungere la serenità o
l’imperturbabilità.
Se non che il mondo greco del periodo
arcaico e classico era dominato dalla guerra.
E la statistica conferma tale affermazione:
nello spazio di tempo fra la rivolta ionica
e l’affermarsi dell’egemonia macedone
sono attestati circa 56 conflitti armati; la
sola Atene nel corso di questo tempestoso
secolo e mezzo fu impegnata in una qualche
attività militare in media ogni due anni su
tre: di modo che la città più importante della
Grecia continentale dal punto di vista sia
politico che culturale non visse nemmeno
un periodo di pace che durasse anche solo
10 anni.
Tuttavia quanto onnipresente era la
guerra come possibilità e pericolo, tanto
diffuse e molteplici erano le lagnanze intorno alle sue conseguenze, e l’idea di pace
è continuamente svolta negli stessi generi
letterari in cui la guerra appare così in primo
piano. Naturalmente anche le orazioni “ sulla
pace “ di Andocide e Isocrate, per quanto diverse
e problematiche possano
risultare, possono essere
lette in questo senso, ossia
come arringhe contro la
guerra in quanto male e
in favore della pace. Per
Platone e Aristotele, poi,
la guerra è sì una realtà,
ma anche nei loro scritti
si trovano ovunque considerazioni sulla pace come
obiettivo e ideale.
Al desiderio di pace,
diffuso già molto presto, corrispondevano
molteplici regole, procedure e istituzioni
politiche e diplomatiche, intese appunto
a instaurare e quindi ad assicurare la pace.
Già in epoca arcaica sono continuamente
attestati tentativi di comporre i conflitti fra
poleis attraverso il giudizio di arbitri neutrali,
in modo da porre fine per questa via alle
guerre oppure evitarle.
Di norma una guerra veniva in primo
luogo interrotta da una tregua che poteva
essere di durata molto differente: le pause
del conflitto, assicurate immediatamente
dopo la battaglia su richiesta dell’araldo
della parte sconfitta, duravano talvolta solo
poche ore. Altre tregue duravano giorni oppure settimane e talvolta anche anni. Nella
cosiddetta “pace del Re” del 386, per la prima
volta si stabilì concretamente che la pace
doveva regnare fra tutti i Greci e dunque
non solo fra le parti che firmavano il trattato.
Ma proprio qui, cioè nell’imporre e realizzare
nella realtà dei fatti un ordinamento di pace
tanto complesso e generalizzato, stava il
problema. La stipulazione con giuramento
solenne di questi trattati, infatti, in nulla
modificava la realtà sul piano dei rapporti
di forza politici e militari: la “pace comune”
non era un dato di fatto politico quanto
piuttosto una proclamazione di una condizione ideale, in cui si esprimeva, già a partire
dal concetto stesso, una programmatica
proposizione d’intenti, proposizione che
però, almeno fino al 338, non ebbe alcuna
possibilità di realizzazione effettiva e duratura. Solo l’avvento dell’egemonia macedone
e la fondazione della lega corinzia, dotata
per la prima volta di un organo deliberativo
generale e di un comandante supremo, dischiusero una speranza in questo senso (ma,
appunto, sotto la guida macedone).
Quanto l’idea della “pace comune” fosse
inizialmente lontana dalla realtà è dimostrato già dai frequenti rinnovi della pace del Re.
In modo paradossale fu proprio la mancanza
di una vera e propria potenza garante, e
cioè di una potenza egemonica con una
volontà di affermazione e il corrispondente
potenziale necessario, non solo a rendere
impossibile fino al 338 ogni duraturo ordinamento di pace ma, addirittura, a generare
una particolare instabilità e turbolenza dei
rapporti fra poleis: causando, dunque, in
ultima analisi sempre nuove guerre.
In primo luogo, tuttavia, la nascita e
la successiva elaborazione di questa idea
nei trattati di pace costituì una reazione a
quell’instabilità. Il concetto di “pace comune” si presenta infatti né più né meno come
un tentativo, certo serio, se pur anche inizialmente vano, di dominare tale instabilità
eliminando le radici del male. Il fatto che
fino al 338 simili tentativi rimanessero inutili
o risultassero addirittura controproducenti
non ha a che fare con la concezione della
pace in sé, ma con la realtà sul piano delle
forze politiche, e in particolare con le rivendicazioni e con l’ininterrotto interventismo
delle potenze egemoniche di volta in volta
85
protagoniste. Casomai, proprio questa
idea attesta invece il fatto che il bisogno di
pace, stabilità e sicurezza, all’interno come
all’esterno, era molto diffuso: anche se la
guerra nel IV secolo divenne più che mai
la condizione normale -o forse proprio per
questo-, essa non rappresentava comunque
certamente (più) la condizione ideale.
Francesco Sarno
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
musica e poesia
Un inno moderno
alla pace:
il War Requiem
di Britten
B
enjamin Britten, compositore e pianista inglese (1913-1976), fu “fanciullo
prodigio”: iniziò a comporre a 5 anni
e a 19 era già famoso in tutta l’Inghilterra per
l’elegantissima Sinfonietta per orchestra da
camera. Tra il 1935 e il ’39 si dedicò soprattutto al cinema, scrivendo musica per 19
documentari e lungometraggi. Dal 1939 si
fece poi conoscere in Canada e a New York.
Nel ’42 tornò in Inghilterra e si dedicò alla
86
composizione del “dramma marino” Peter
Grimes, rappresentato a Londra nel giugno
1945. È considerato la migliore opera tragica
del teatro inglese moderno, con molti richiami allo stile di Berg. Negli anni successivi
Britten compì numerosi viaggi all’estero e
creò un grande numero di composizioni,
sia da camera sia per orchestra, con il frequente e originalissimo impiego delle voci
soliste e del coro. Da ricordare l’opera Il giro
di vite (1954) tratta da Henry James e Morte a
Venezia (1973) da Thomas Mann, composte
con uno stile eclettico (ma, volutamente,
mai apertamente sperimentale), teso tra
il recupero di echi musicali del passato
(Purcell, Dowland) e la sintonia con i grandi
“moderni” (Mussorgski, Berg, Stravinski). Nel
1948 Britten aveva fondato, per diffondere
le opere dei musicisti inglesi contemporanei, il festival annuale di Aldeburgh; da
varie università inglesi (Londra, Oxford e
Cambridge) ottenne il prestigioso titolo di
“Doctor of Music” e nel ’64 la Royal Philharmonich Society lo premiò con la medaglia
d’oro. Nel 1976 Elisabetta II lo nominò Pari
d’Inghilterra.
La fama di Britten è sicuramente legata
al Peter Grimes e ad altre opere in cui il compositore, molto sensibile al dolore esistenziale dell’uomo, tratta la tematica a lui molto
cara della compassione e della pietà, opere
come Albert Herring , Billy Budd, la già citata
Giro di vite e i grandi affreschi sinfonicocorali della Cantata Misericordium e del War
Requiem (requiem di guerra). Quest’ultima
composizione, composta per soli coro e
orchestra, e rappresentata per la prima volta
nella cattedrale di Coventry il 30 maggio
1962, è uno dei migliori lavori di Britten,
forte testimonianza, nei suoi passaggi ora
lirici ora drammatici, della profonda fede
pacifista del musicista inglese. L’immagine
atroce della guerra e dei suoi orrori viene
contrapposta a passaggi di grande dolcezza. Il testo liturgico della Missa pro defunctis
del rito cattolico latino, che esplode con un
linguaggio musicale potente e terribile nella
sequenza del Dies irae (risalente a Tommaso
da Celano, XIII secolo), è intercalato con
liriche del poeta-soldato Wilfred Owen,
caduto giovanissimo nel ’18 sul fronte francese, una settimana prima dell’armistizio.
La composizione si snoda su tre differenti
piani: un’orchestra da camera con il tenore
e il baritono solisti, riservati alle poesie di
Owen; la grande orchestra con il coro e il
soprano solista, per l’esecuzione dei brani
in latino della Messa; infine un coro di voci
bianche e un organo, per esprimere l’innocenza attraverso quel
timbro di voci infantili
ai quali Britten è ricorso
spesso per esprimere
contemporaneamente
turbamento e “atmosfere angeliche”. Può
sembrare strano che
un pacifista che non
voleva avere niente
a che fare (neanche
indossandone la divisa) con il militarismo,
scegliesse le poesie di Owen, che trattano
delle esperienze nelle trincee così come
l’autore stesso le aveva vissute fino alla sua
morte in combattimento. Ed è ancora più
strano che Britten le abbia descritte così
vivamente attraverso i “suoni della guerra”:
il sibilo dei proiettili (con le note acute dei
fiati), i colpi dei fucili e dei cannoni (con le
frequenti e ossessive percussioni), i richiami delle trombe e il suono delle campane
a morto (con l’impiego “funebre” delle
campane tubolari). Ma egli era prima di
tutto un musicista e sapeva che mettere
in musica quelle poesie era ciò che gli era
necessario per rendere più comprensibile
il suo messaggio. Si appropriò delle parole
di Owen, scrivendole già nell’intestazione
della partitura, per trasformarle nel motto
del War Requiem: “ Il mio tema è la guerra e
la pietà della guerra. La poesia è nella pietà.
Tutto quello che un poeta può fare oggi è
ammonire”. Vale la pena di ricordare anche
e soprattutto qualche passo di “commento”
alla liturgia latina del Requiem espresso
proprio dall’uso cameristico-musicale delle
poesie di Owen. Dopo l’introduzione corale
Requiem aeternam si ascoltano i versi di
Anthem:
“Quali campane a morto per costoro
che muoiono come bestie? / Solo la furia
orrenda dei cannoni, / Solo
il rapido balbettio crepitante
dei fucili / Possono biascicare
in fretta le preghiere”. Dopo
l’esplosivo coro del Dies irae è
ancora Owen che commenta il
Giudizio universale: “Le trombe
87
hanno suonato, rattristando
l’aria della sera, / Hanno risposto le trombe, con suono
doloroso. / Sulla riva del fiume
si udivano voci di ragazzi, /
Il sonno li copriva lasciando
triste il crepuscolo. / Sugli uomini pesava
l’ombra del domani. / Voci del vecchio
sconforto tacevano, / Piegate dall’ombra del
domani, dormivano”. E, successivamente,
dalla poesia The next war ascoltiamo: “Da
buoni amici siamo andati là, verso la morte,
/ Ci siamo seduti a tavola con lei, fredda e
cortese, / Scusandola per averci versato la
gavetta sulle mani. / Abbiamo annusato lo
stesso odore verde del suo alito, / Gli occhi
ci lacrimavano ma non mancava il coraggio”.
Dopo il Sanctus ascoltiamo ancora i versi di
The end che ci interrogano sul senso della
vita e della morte: ” Dopo il balenare del
lampo da oriente, / La squillante fanfara delle
nuvole, il Trono del Carro, / Dopo il rullo e il
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
silenzio dei tamburi del tempo, / Quando
a lungo gli ottoni d’occidente avranno
suonato la ritirata, / La vita rianimerà questi
corpi? Davvero / Egli sconfiggerà la morte,
asciugherà tutte le lacrime?”.
Anche alla fine del Libera me il compositore sottolinea la profonda crudeltà e inutilità della guerra, usando i versi di Strange Meeting. La lirica parla dell’assurdità di essere
nemici. È la descrizione della morte che nella
struggente musica di Britten accompagna i
versi dolorosi e rassegnati di Owen:
“Io sono il nemico che tu hai ucciso, amico mio. / In questo buio ti ho riconosciuto
perché anche ieri / Mi squadravi così accigliato, mentre mi colpivi e mi uccidevi. /
88
Mi sono difeso, ma le mani erano fredde
e riluttanti. / Ora dormiamo”.
L’opera si conclude con il coro latino
Requiescant in pace che fa ancora una volta
eco al verso “Ora dormiamo”.
Il War Requiem è un’opera potente e
originale, intrisa di spiritualità e fonte di profonda commozione. È soprattutto un inno
contemporaneo alla pace, contro l’eterna
stupidità dell’umanità in guerra.
Ruggero Prospero
Stipendium Bayreuth 1992
Docente di Filosofia e Storia
Liceo “G. Bruno”
Mestre - Venezia
MUSICA
L’ultimo messaggio
di BEETHOVEN
Solitario, sognatore, per alcuni misantropo, Beethoven è
senza dubbio una delle personalità della musica che hanno
lasciato un notevole segno nella memoria collettiva. Ma
questa fama gli deriva da una grandezza d’animo comprensibile solo grazie alla sua musica.
R
icordo quando, da bambino, vidi per la prima
volta il ritratto di Beethoven. Il celebre dipinto (di J. K.
Stieler) raffigurava un uomo dai
capelli scarmigliati, sguardo possente e profondo, un’espressione
seria e di leggero disgusto per
ciò che è volgarmente comune.
Allora pensai che dietro quel volto non potesse nascondersi altro
che un grande animo. Confesso
che ne rimasi profondamente
colpito. Per l’impressione che mi
fece quel dipinto e, lo ammetto,
per l’alone di mistero che ancora oggi circonda la figura del
musicista, la sua biografia fu, tra
quelle dei compositori, la prima
che andai a studiare. La trovai
incredibilmente interessante.
La sua vita fu piena di intoppi ed
imprevisti del destino: un padre
troppo autoritario, il pessimo carattere, una salute precaria e una
sordità famosa almeno quanto
lui stesso. Eppure Beethoven,
sebbene fosse stato vicino al
suicidio, riuscì a trovare una pace
89
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
interiore. Mi sono sempre chiesto come
fosse possibile. Ma andiamo con ordine, e
per farlo dobbiamo chiamare in causa la
sua musica.
Non è un’operazione indolore, perché
tra i musicisti travisati da uomini di cultura
Beethoven è certamente il primo, tanto da
far affermare in pieno XX sec. al compositore
russo Igor Stravinskij: Ciò che conta è solo la
musica. […] È ora che ci si renda conto di questo. Si deve salvare Beethoven dalla tirannia
ingiustificata degli “intellettuali”. Purtuttavia,
la figura del compositore si presta assai
bene, per le sue caratteristiche innovative
di uomo intriso di cultura, ad interpretazioni
extramusicali, soprattutto delle sue sinfonie.
D’altronde a tali interpretazioni allude egli
stesso, come fa notare Paul Mies, nell’Eroica
e nella Pastorale. A queste due aggiungerei
la Nona: l’uso del coro, e quindi di un testo
(il famoso Inno alla gioia di Schiller), non può
90
non rimandare ad un contesto extramusicale.
Di tali lavori, dunque, ci serviremo per capire
la personalità del compositore tedesco.
La Terza sinfonia è, indubbiamente, il
capolavoro orchestrale dell’età giovanile di
Beethoven (giovanile rispetto all’esperienza
sinfonica del musicista, che si accostò a questo genere solo a trent’anni). Il titolo di Eroica
deriva dalla grandezza della sua musica. Non
a caso il compositore usa un terzo corno, che
serve a dare maggiore sostegno armonico
al suono dell’orchestra. In essa è descritta
la guerra nelle sue titaniche proporzioni.
Ma qui guerra è intesa in senso lato, come
scontro derivato da materiali opposti. Questo è un processo di forma molto utilizzato
da Beethoven. Per meglio far comprendere
al lettore, basti dire che in un certo senso
le composizioni beethoveniane possono
essere paragonate alla dialettica hegeliana:
la tesi e l’antitesi sono i due temi esposti, di
carattere contrastante come prevedeva la
forma-sonata, e la ripresa ne è la sintesi. Lo
sviluppo, invece, rappresenta il momento
dialettico per eccellenza. Esso, tuttavia, è
tale che il tema riproposto alla fine del pezzo
non è mai percepito dall’ascoltatore uguale
all’inizio, come se fosse del tutto originale. Il
materiale è lo stesso, ma l’effetto completamente diverso. In questo modo Beethoven
ci rappresenta un universo musicale in
continuo divenire, esattamente come fece
Hegel con il suo sistema filosofico. Per questo l’artista crea un mondo – e questa volta
possiamo dire anche extramusicale – fatto di
idee eroiche che generano idee eroiche, laddove tale termine sta ad indicare senza compromessi, e questo bene si adatta alla personalità del musicista, che in quest’età giovanile vedeva un mondo senza vie di mezzo.
Dalle vicende personali del compositore, caratterizzate da conflitti titanici tra lui
e il destino, nasce la Sesta Sinfonia, detta
Pastorale, l’unico esempio di musica a programma lasciatoci da Beethoven. Il lavoro
orchestrale descrive i ritmi e i suoni della
natura (non a caso è scritto in Fa maggiore,
la tonalità della terra). Comprendere tale
lavoro ci è indispensabile per analizzare la
Nona, la summa degli ideali musicali e non
del genio di Bonn. È il rifugio nella natura,
infatti, che permette a Beethoven di astrarsi
da un mondo pieno di quella guerra da lui
descritta nella Terza sinfonia. Sono quegli gli
anni in cui iniziava a manifestarsi la sordità
del musicista, forse il peggiore dei malanni
che il destino abbia stabilito per lui. È quindi
chiaro quanto fosse necessaria la creazione
di un mondo parallelo al reale, e cioè quello
della natura. Si noti l’estasi contemplativa
del primo movimento, la piacevolezza del
canto degli uccelli imitati nel secondo movimento dai flauti, dagli oboi e dai clarinetti,
o invece l’impotenza dell’uomo di fronte alla
tempesta del quarto movimento. Non è un
caso che questa musica sia stata scelta da
Walt Disney per il film d’animazione Fantasia. Beethoven, però, non voleva che il suo
lavoro descrivesse soltanto la natura in genere, quanto la sua natura, le emozioni che
lui provava dal contatto con la stessa. Questo
è un dato molto importante per la comprensione dell’animo del
compositore. Egli,
infatti, a causa della
sordità e del pessimo
carattere, fu costretto
ad isolarsi sempre
più dal mondo, tanto
da essere additato
come misantropo.
Gli effetti più sorprendenti di questo
cambiamento sono
riscontrabili nell’ultimo lavoro sinfonico di Beethoven, la
Nona Sinfonia.
Composta esattamente dieci anni
dopo l’Ottava Sinfonia, l’ultima composizione per orchestra di
Beethoven è uno dei capolavori indiscussi
del genere sinfonico per il suo sperimentalismo. La sinfonia si apre con un movimento
in forma-sonata, titanico e maestoso, com’è
scritto in partitura. È il legame che Beethoven ha con la sua prima musica e con la sua
prima personalità. Subito dopo il primo movimento, scritto nel suo stile eroico, segue
lo Scherzo, che nelle sinfonie precedenti,
invece, è sempre stato il terzo movimento,
a cui segue un Adagio. L’inversione genera
confusione nell’ascoltatore, abituato, nel
genere sinfonico, alla successione allegroadagio- scherzo- allegro. Il quarto movimento, invece, l’ultimo della sinfonia, inizia con
una sorta di recitativo tra orchestra e bassi
(violoncelli e contrabbassi). I temi che esegue l’orchestra sono spezzati dai bassi, come
se essi si rifiutassero di suonarli. L’orchestra
allora propone tutti i precedenti temi della
sinfonia, senza successo. L’insieme si ricompone solo quando viene suonato il celeberrimo tema dell’Inno alla Gioia, esposto dalla
compagine strumentale e
poi (per la prima volta nel
genere sinfonico), sviluppato anche da un coro e
quattro solisti. Il testo usato è una poesia di Schiller,
che invita alla fratellanza
tra gli uomini. È chiaro che
questo è un lavoro monumentale, soprattutto
per le proporzioni dell’organico. Ma questa non è
monumentalità fine a se
stessa: essa rappresenta
91
infatti l’universalità del
messaggio del compositore e la sua grandezza.
Nella Nona sono riassunti
tutti i temi di Beethoven
come uomo e come artista: essa si apre con
un movimento di proporzioni classiche e
si chiude addirittura con la denaturazione
del canonico organico sinfonico. Questo,
naturalmente, perché il compositore non si
accontenta più dell’orchestra, ma la supera
per esplicitare a tutti il messaggio di fratellanza, quasi fosse un inno globale. Non
a caso l’Inno alla Gioia è l’inno dell’Unione
Europea.
Il pezzo è scritto in Re maggiore, la tonalità del trionfo e degli Alleluia. È la vittoria che
l’artista ha riportato nelle guerre celebrate
nei lavori sinfonici precedenti, l’affermazione di una necessità di pace. Pace che l’artista
raggiunge in un suo mondo ideale, nel suo
distacco dal reale (ed è qui il legame più pro-
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
fondo con la Sesta Sinfonia). Non a caso il testo dell’Ode di Schiller, e in molti punti anche
la musica, hanno un che di trascendente, di
qualcosa che va al di là di questo mondo (si
pensi all’accordo quasi mistico prima della
sezione Alla Marcia alla parola Gott [Dio]). È
questo l’ultimo messaggio che Beethoven
vuole mandare al mondo per accomiatarsi
da esso. D’altronde, il compositore era cresciuto nel clima illuminista, e l’anno della
prima della Nona (il 1824) si era in piena
Restaurazione. L’universo all’insegna degli
ideali della rivoluzione francese che l’artista
(ma soprattutto l’uomo) aveva sognato si era
frantumato per sempre.
Le testimonianze dell’epoca ci dicono
che la Nona fu un incredibile successo, e
che Beethoven, sordo, fu costretto a vedere
il pubblico in tripudio per capirne la portata.
Probabilmente anche le persone presenti in
sala condividevano il messaggio universale
dell’artista. Fatto sta che dopo la prima esecuzione della sua ultima sinfonia, il genio
di Bonn fu dimenticato; sarà ricordato solo
il giorno dei suoi funerali, quando le strade
di Vienna erano affollate da più di ventimila
persone che salutavano un grande artista e
un grande uomo. Quell’uomo si era spento
tre giorni prima trovando la pace che in vita
aveva sempre cercato.
Pasquale Occhinegro
II C - Liceo classico
92
Si ringrazia il M° Michele Salerno per la consulenza musicale
Consigli per l’ascolto:
Non posso fare a meno di citare l’interpretazione di H. von Karajan con i Berliner Philarmoniker
(edito da Deutsche Grammophon in un cofanetto) di tutte le sinfonie di Beethoven, considerate
pietre miliari per chiunque voglia accostarsi ai lavori orchestrali del compositore. Interessanti spunti
sono forniti anche dalle versioni di C. Abbado (sempre con i Berliner Philarmoniker, anch’esse in un
cofanetto di Deutsche Grammophon), di sir G. Solti per la terza sinfonia (con i Wiener Philarmoniker,
edito da Decca Records), di A. Toscanini per la sesta sinfonia (con la NBC orchestra, di RCA) e di W.
Furtwangler per la Nona sinfonia (con l’Orchester der Bayeuther Festspiele, edito da EMI classics). Si
trovano ottime interpretazioni (oltre a quelle citate) anche su Youtube.
LA POESIA
La vita deve
riprendere…
Un vento gelido accarezza il profilo indefinito di quel che resta
Gli ultimi boati in lontananza colorano di rosso l’orizzonte
I volti tumefatti dei superstiti affondano tra le mani insanguinate
La disperazione si disperde nell’urlo soffocato del silenzio
Il sudore asseconda le rughe sulla fronte del dottore di frontiera
Che si accinge ad estrarre l’ennesimo proiettile dalla carne tenera
Il sangue si raggela nel ricordo quotidiano delle amputazioni
Le mani tremano mentre stendono un altro lenzuolo bianco
Un’aria statica opprime le anime esterrefatte incapaci di respirare
A piè polmoni senza avvertire l’aspro sapore della polvere da sparo
Le lacrime si sono asciugate nella conta impazzita dei morti innocenti
Macchiati da un unico peccato: l’appartenenza ad un territorio
La luna non risplende, è opaca, malinconica, disperata e sola 93
Sommessamente si ritira nascondendo con poca convinzione le lacrime
Il sole con un sorriso forzato inizia ad emanare gelidi raggi in bianco e nero
La vita deve riprendere…
…per chi ha deciso che con la guerra si sarebbero risolti i problemi
Ai poveri innocenti è stata tolta
O restituita con ricordi eterni di brutture indicibili
Che ti segnano come la lama affilata che affonda sfregiando…
Un bambino piange disperato alla ricerca della mamma
Una mamma disperata piange mentre cerca il proprio piccolo
Le mani si uniscono mentre con fatica si incamminano verso l’orizzonte
Una fragile speranza…
… lo sfondo si colora di immacolato
Anime palpitanti guardano oltre
Infuocate di rabbia di vita.
Lo scettro del potere in giacca e cravatta
Che si arroga il diritto di giocare con le vite altrui
Deve farsi da parte e lasciare libero sfogo
Alle mani intrecciate dei milioni di persone
Amanti del vero senso della vita
Che ansima respiri di pace…
Lyceum Maggio 2010
Nello Agovino
Percorso/La cultura della Pace
LETTERATURA AMERICANA
The concept of peace
according to
Emily Dickinson
94
E
mily Dickinson is considered one of the
most original 19th Century American
poets, and one of the most important
female writers of all times. She was a deeply
sensitive and unconventional woman who
questioned the puritanical background of
her Calvinist family and soulfully explored
her own spirituality, often in poignant,
deeply personal poetry. She showed a contradictory and complex nature, tinged with
an unyielding pride. There has been much
speculation and controversy over details of
Dickinson’s life including her sexual orientation, romantic attachments, her later reclusive years, and the editing and publication
of various volumes of her poems.
“I many times thought Peace had come
When Peace was far away - As Wrecked Men
- deem they sight the Land - At Centre of the
Sea – And struggle slacker - but to prove
As hopelessly as I - How many the fictitious
Shores - Or any Harbor be –“ Dickinson, an
enigmatic artist, is remembered today for
her undeniable talent, her unconventional
life decisions and her extraordinary uniquely
ability to touch universal themes, such as
peace, with rapid and fulminating strokes.
In these lines she analyzes the concept
of peace, its importance for human beings,
her desire for quietness. The poem, written
in unconventional broken rhyming metres,
is tinged with a deep pessimism. The fourth
verse is the beginning of a letter written to
Susan during the Emily Dickinson sojourn
in Cambridge to cure her eyes problems.
In the manuscript there is an alternative to the
last verse: “Before the Harbor be” - that seems
to significantly modify the meaning of the
final poem. The substitution of “The illusory
the Rive - / O ports are any -” with “The illusory
the Rive - / Before the doors are -” could in fact
transform the overall pessimism of the first
draft (the banks are illusory and there is no
port to welcome) in a journey with many illusions / delusions, but also with a final destination, and maybe a success. But if we interpret
that the “Port” as a metaphor for the landing
end of life or death, the apparent flicker of
hope fades. Life sometimes seems to give us
peace, serenity, but then we realize that is just
an illusion, like the drowning man, far from
his own land, who seems to see everywhere
the banks that exist only in his imagination.
Shaken by empty hopes, he sees the collapse
of his illusions. In the same way, man desperately looks for peace in every place, because
he does not find it in himself.
Luisiana Levi III B - Liceo Classico
E
Il concetto di pace
secondo
Emily Dickinson
mily Dickinson è considerata tra i più
originali poeti americani del 19° secolo, e una delle scrittrici più importanti
di tutti i tempi. Donna profondamente sensibile e fuori dagli schemi, mise in discussione
il contesto puritano della sua famiglia calvinista ed esplorò la propria spiritualità in maniera profonda, commovente, ed assolutamente
poetica e personale. Dimostrò un carattere
contraddittorio e complesso, venato da un
orgoglio inflessibile. Ci sono state molte speculazioni e polemiche sui dettagli della vita
della Dickinson, tra cui il suo orientamento
sessuale, i legami romantici, i suoi ultimi anni
in solitudine e reclusione, la redazione e pubblicazione dei vari volumi delle sue poesie.
“Molte volte pensai che la Pace fosse arrivata
Quando la Pace era tanto lontana - Come i
Naufraghi - che credono di avvistare la Terra
- Al Centro del Mare - E lottano stremati - solo
per scoprire Tanto disperatamente come me Quanto illusorie le Rive - O un qualsiasi Porto
siano –“ Artista dal fascino enigmatico, Emily
Dickinson, è oggi ricordata per il suo talento
indiscutibile, le sue decisioni di vita alquanto
particolari e per la straordinaria capacità di
toccare temi universali, come la pace, con
pennellate rapide, fulminanti ed uniche. In
questi versi è analizzato il concetto di pace, la
sua importanza per l’intero genere umano, il
desiderio di tranquillità della scrittrice. Scritto
in rime non convenzionali con metro spezzato, la poesia è costellata da un profondo
pessimismo. Il quarto verso è all’inizio di una
lettera a Susan scritta durante il soggiorno
di Emily Dickinson a Cambridge per curare i
suoi disturbi agli occhi. Nel manoscritto c’è
un’alternativa per l’ultimo verso: “Before the
Harbor be -” che sembra modificare sensibilmente il senso del finale della poesia. La so95
stituzione di “Quanto illusorie le Rive - / O un
qualsiasi Porto siano -” con “Quanto illusorie
le Rive - / Prima del Porto siano -” potrebbe
infatti trasformare il totale pessimismo della
prima stesura (le rive sono illusorie e non
c’è nessun porto ad accoglierci) in una sorta
di viaggio con molte illusioni/delusioni, ma
anche con un arrivo e un successo finale. Se
però interpretiamo quel “Porto” come metafora dell’approdo ultimo della vita, ovvero la
morte, l’apparente guizzo di speranza svanisce. La vita sembra donarci talvolta la pace, la
serenità, ma poi ci accorgiamo sempre che
questo non è altro che un’ulteriore illusione,
come quella del naufrago, lontano dalla sua
terra, che sembra scorgere ovunque rive che
esistono soltanto nella sua immaginazione.
Agitato da vuote speranze assiste inerme al
collasso delle sue illusioni. Nello stesso modo,
l’uomo cerca disperatamente la pace in ogni
luogo, non trovandola dentro di sé.
Luisiana Levi III B - Liceo Classico
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
R
IDEE
aggiungere una condizione all’insegna della Pace è cosa tutt’altro
che semplice, ma, nonostante ciò, è
indiscusso il bisogno di molti uomini di lottare perché tanto avvenga. Questo perché
la Pace è un valore universale e, forse, uno
dei pochi che, a ragione, viene
definito tale.
Molti di noi, da bambini, vengono sommersi da bellissime
massime propinate dai familiari,
atte a farci credere che la vita
sia fatta di rose e fiori, e che tutti
amino la Pace. Ma crescendo e
confrontandoci con la vita reale,
ci basta poco per capire che non
è tutto così semplice: esiste il
dolore, esiste la guerra, e ci sono
persone immerse in questo in96
ferno senza via di uscita. Perfino in famiglia
si vive al limite del conflitto intestino. Così
viene spontaneo pensare che, se non si riesce a essere in pace con i propri parenti, è
quasi impossibile esserlo con gli altri, emeriti
sconosciuti. Eppure quale condizione, per
realizzarsi individualmente e nella società,
è migliore di quella all’insegna della libertà, della giustizia, della solidarietà, della
tolleranza, del rispetto dei diritti umani e
dell’uguaglianza?
In fondo, sono proprio questi i valori universali che rientrano in quel grande disegno
definito cultura della pace. Questa espressione, nata nel 1989 in seno al Congresso
Internazionale sulla Pace in Costa d’Avorio,
è l’emblema della necessità di moltissime
persone di poter condurre la propria esistenza lontano dalla violenza, e nel rispetto
di individui diversi per razza, religione o
ideologie. Non a caso, il 13 settembre 1999,
l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la
Pacem te
poscimus
omnes
Dichiarazione per una Cultura della Pace,
nella quale erano sanciti i principi sui quali
essa si basava, tra cui: il rispetto per la vita, la
cessazione della violenza e la promozione e
la pratica della non violenza tramite l’educazione, il dialogo e la cooperazione; il rispetto
e la promozione del diritto di ognuno alla
libertà di espressione, di opinione e di informazione; il rispetto della pluralità, della
diversità culturale, all’insegna del dialogo
e della comprensione a tutti i livelli della
società. Sicuramente bellissime parole, ma
che tali sono rimaste.
Nulla salus bello: pacem te poscimus
omnes (“Nessun bene dalla guerra: tutti
agogniamo la pace”). Così scrive Virgilio
nell’XI libro dell’Eneide, e questa frase è un
chiaro segnale di come l’animo umano,
in qualunque periodo storico ci si trovi,
sopporta a fatica il dolore perpetrato da un
conflitto. Eppure la guerra è un dato di fatto,
così diventa altrettanto evidente che essa è,
in qualche modo, insita in ogni individuo.
Guerra e Pace diventano due facce di una
stessa moneta, e, una volta lanciata, nessuna
persona può sapere quale delle due prenderà il sopravvento. D’altra parte, sarebbe bello
pensare che in gioco entri esclusivamente
l’istinto di sopravvivenza.
Ma guardando i modelli politici che hanno dominato la storia, ed anche quelli del
nostro secolo, capiamo che, a determinare
la guerra, sono fattori ben più materialistici:
la brama di ricchezze, di potere, di dominio.
E a tal proposito mi torna alla mente una
frase di Paul Lèautaud (scrittore francese
1872-1956): Tutti i popoli sono per la pace,
nessun governo lo è, e la spiegazione è molto
semplice. Non sono i capi di Stato ad andare
in guerra, a vivere in condizioni miserevoli
e precarie. E’ il popolo, è la povera gente a
sentire tutto questo sulla sua pelle, indurita
dal troppo strazio e dalla troppa paura. Così
capiamo che è facile parlare quando si è in
una posizione privilegiata, e riempirsi la bocca con belle parole illusorie e meschine.
La pace come valore universale
Tanti dicono di volere la pace, ma dichiarano guerra. Perché allora? Nell’Etica nicomachea Aristotele affermava che facciamo
la guerra per poter vivere in pace. Il filosofo mi
trova in pieno disaccordo, per il semplice motivo che nessuna guerra può essere definita
giusta. E’ risaputo che
la violenza genera altra
violenza, ed entrati in
questo circolo vizioso,
le alternative sono due:
la distruzione totale
dell’altro o la distruzione totale di se stessi.
Questo perché la
pace non è soltanto una condizione sociale
o relazionale. La pace è anche una condizione psicologica. Se non si sta bene con se
stessi, non si può stare bene con gli altri, e
si inizia a morire dentro. D’altra parte questi
concetti non sono affatto nuovi. Già ai tempi
dei filosofi antichi nacque la cosiddetta pace
interiore, seppur chiamata da ognuno con
un nome diverso: eutimìa per Democrito
(460 a.C.- 360 a.C.), aponìa per Epicuro (341
a.C.-271 a.C.), o atarassia per gli Stoici. Per
nessuno di loro il raggiungimento di questo stato era cosa semplice, ma per tutti,
una volta raggiunto, la vita poteva essere
definita tale. Tanti secoli li separano da noi,
eppure possiamo vedere quanto attuale sia
il loro pensiero. Non a caso, si sa, la filosofia,
per poter servire davvero e aprire la mente,
deve farsi portatrice di valori universali e
sempre attualizzabili. La Pace è proprio uno
di questi, e, tra le altre cose, anche il più
97
discusso e di difficile interpretazione.
Sicuramente, oggi se ne parla più che in
passato, ma credo che questo sia anche il
frutto di convenzioni sociali e politiche. In
quasi tutte le campagne elettorali è presente
il proposito di cessare ogni tipo di guerra.
E il popolo, stanco di lottare, quasi sempre
ci crede, e sempre rimane deluso e deve
dirsi che si è fatto ingannare, ancora. La
Pace, purtroppo,
è una condizione
temporanea, ed
è estremamente difficile, come
proponeva anche
Immanuel Kant
((Königsberg,
1724 –1804) in
Progetto per una
pace perpetua
e duratura del
1795, creare un
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
patto di pace che ponga fine per sempre ai
conflitti. Arriverà un momento in cui qualcuno, scioccamente, inizierà a rivendicare
la sua superiorità rispetto ad altri. Infatti
non basta essere un Paese avanzato e ricco
per dirsi felice e pacifico, anzi. Spesso sono
proprio questi a dichiarare guerra ai paesi
più deboli, etichettandola come giusta per
dare senso alle proprie azioni.
Potremmo fare tanti esempi, come
l’America, che si giustifica asserendo di
voler portare la democrazia nei Paesi orientali. Non entriamo in quelli che potrebbero
essere i veri motivi, ma, senza dubbio, il
sangue di troppi soldati e civili ha bagnato
e bagna tuttora queste nobili intenzioni. Così
98
si dovrebbe fare un passo indietro, a partire
dal governo, che deve far chiarezza una
volta per tutte sulle proprie intenzioni e non
nascondersi più dietro menzogne. In fondo,
l’uomo è artefice del proprio destino, e se
è vero, come sosteneva Giambattista Vico
(1668-1744), che egli può conoscere (nel
senso di prendere consapevolezza) ciò di cui
è artefice, ovvero la storia, basterebbe poco
per cambiare le cose. Infatti, oggigiorno, i
mezzi e i propositi per godere della Pace ci
sarebbero, bisognerebbe solo metterli in
pratica. E che questa sia la cosa più difficile,
è tutta un’altra faccenda.
Loredana Gaudino
II C - Liceo Classico
LETTERATURA ITALIANA
L’ideale di Pace per Petrarca
F
Pace vo cercando
rancesco Petrarca è ge neralmente
considerato poeta
intimista e personaggio dilacerato,
scrittore sublime e
raffinato, anticipatore dell’Umanesimo. In questi aspetti
egli è sicuramente
moderno, anzi universale per la sua
disperata tensione verso un’armonia mai
raggiunta. Ma altrettanto disperata, e
dunque struggente, è la sua ricerca della
Pace. Vediamone innanzitutto l’aspetto
ideologico-politico.
Egli fu vicino a Cola di Rienzo, il quale
tentò di instaurare una repubblica a Roma
ispirata al modello antico. Il progetto politico di Petrarca era, come quello di Dante,
uno Stato unitario. Questo, però, si presentava come un progetto utopistico, in
quanto legato ad una realtà ormai passata.
A tale proposito Petrarca scrive la canzone
All’Italia, indirizzata ai signori dell’epoca, in
cui denuncia la disgregazione della realtà
italiana, umiliata e lacerata dall’assenza di
un governo effettivo.
Petrarca in essa indirizza un chiaro messaggio ai Signori: essi devono deporre le armi
affinché la pace possa essere realizzata. Per
rendere più icastico il suo messaggio l’Italia
viene personificata, prendendo le sembianze
di una donna la cui bellezza si è smaterializzata a causa delle ferite mortali. In tal modo
Petrarca assegnava a sé stesso, come intellettuale, ed alla letteratura la funzione di una
guida sociale, pubblica ed istituzionale, che
potesse esortare alla pace. Tale fine parenetico non solo non escludeva la cultura dalla
vita dello Stato, ma la proclamava addirittura
come valore superiore, capace di incidere sul
contesto politico- sociale.
Perciò egli grida accoratamente nella
sphraghìs della Canzone All’Italia: “Pace,
pace, pace”. La pace interiore. E’ questo a cui
99
Petrarca, come tutti noi, ambisce: essere in
pace con il suo Io interiore. Durante la sua
vita egli non fa altro che andar gridando ciò.
“Qualcosa” dentro di lui lo placa e lo agita, lo
tormenta e lo rende felice: non è altro che
un’altalena di passioni.
Allora, dove cercare le risposte, dove il
giusto modo di vivere? La risposta è difficile,
ma forse riesce a trovarla nella gnome di
Sant’Agostino In interiore homine habitat
veritas: il secretum è questo. Per questo
Petrarca comincia un lungo cammino verso
l’Amore, che potrebbe renderlo felice, che
potrebbe fargli trovare la pace. Ma l’iter è
tortuoso. I suoi passi tardi e lenti lo tradiscono: il passato diventa simbolo dell’errore
e il presente il suo incubo più grande, la
derisione. Per questo capisce che ciò che
desidera lui e tutti gli altri è solo breve sogno;
mentre è solo et pensoso, ecco che viene
trascinato, come smemorato, come “diviso”
dalla realtà, lì, in quel luogo felice dove ha
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
incontrato Laura. Lei, giovane donna con i
capelli a l’aura sparsi, è lì, seduta vicino ad un
ruscello. Quelle acque chiare e dolci e fresche
rendono l’aria sacra, serena e
allora Petrarca sogna di tornare lì, in quel locus amoenus,
il suo sogno.
Improvvisamente tutto
svanisce ed è di nuovo solo,
solo. A questo punto l’angoscia diventa paura e si rivolge
alla Vergine, la Vergine bella,
la Vergine saggia, la Vergine
100
pura, perché sia il tramite tra lui e Dio, gli
faccia ottenere il perdono e la pace interiore.
Ma per quanto provi a sfuggire, lui, l’Amore
è sempre lì: è il perturbante che
incarna le sue angosce. L’unica
soluzione è cristallizzare la
paura, imparare a convivere
con essa e continuare il proprio
viaggio alla ricerca della Pace.
Elisa Miranda
Marika Manna
I B - Liceo Classico
Un piccolo testo che
apre la strada al
pacifismo politico
del XX secolo
FILOSOFIA
Il progetto
per la “pace
perpetua”
Nelle pagine di Immanuel
Kant la possibilità giuridica
della conclusione di ogni
conflitto tra gli uomini e la
definizione della “universale ospitalità”.
“Così come noi consideriamo con profondo disprezzo l’attaccamento dei selvaggi
alla loro sfrenata libertà, che consiste nell’essere continuamente in lotta tra loro invece
che sottoporsi a una costrizione legale stabilita da loro stessi, e a preferire quindi una
libertà folle a una libertà ragionevole […]
verrebbe spontaneo di pensare che i popoli
civili dovrebbero affrettarsi per uscire al più
presto da una condizione così abbietta”.
Sono parole tratte dal “Per la pace
perpetua” di Immanuel Kant, un testo del
1795, che a più di duecento anni dalla sua
pubblicazione conserva la sua straordinaria
validità, anche se ci sembra che, ancora oggi,
101
la sua conoscenza sia scarsa quanto la sua
applicazione.
Con questo scritto cosa si proponeva il
grande filosofo tedesco?
Di indicare la strada che avrebbe dovuto
condurre l’umanità alla “pace perpetua”, ossia alla cessazione dello stato di belligeranza,
che il filosofo tedesco riteneva essere connaturato all’uomo. Egli, infatti, scrive che “lo
stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni
di fianco agli altri, non è uno stato naturale”.
Hobbesianamente, infatti, Kant credeva che
lo stato naturale degli uomini sia una sorta di
guerra di tutti contro tutti, una belligeranza
generale, dichiaratamente aperta o meno.
Gli accordi di pace, che vengono stipulati dagli Stati, si riducono a semplici e temporanee
tregue, dato che in essi sono già impliciti i
germi di futuri conflitti.
Poiché, dunque, la pace deve essere
indotta e quindi deve basarsi su principi
morali, i politici devono agire moralmente.
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
Kant parte dalla necessità della negazione
dei tre elementi su cui si fondava usualmente l’azione politica:
“Divide et impera” (dividi i tuoi nemici e
comanda più agevolmente);
“Fac et excusa” (prima agisci e poi trova
una giustificazione);
“Si fecisti nega” (se hai fatto qualcosa di
negativo, negane la responsabilità).
In seguito individua tre grandi prerequisiti fondamentali per l’attuazione di una
pace duratura:
- che tutti gli Stati del mondo siano
repubblicani;
- che accettino di entrare in una federazione tra di loro;
- che accettino gli stranieri sul loro territorio.
Per l’applicazione della prima condizione
Kant sembra decisamente ottimista: una volta nato uno Stato repubblicano, tutti gli altri
102
si renderanno conto della sua superiorità e
diverranno a loro volta repubblicani. Attenzione però alla definizione che Kant dà dello
Stato repubblicano: egli intende infatti uno
Stato in cui vi siano: a)
libertà determinata e
limitata da leggi (e non
la libertà sfrenata e folle
di cui accennato prima), b) uguaglianza di
tutti i cittadini dinanzi
alla legge, c) rappresentanza dei cittadini
negli organi di governo
d) divisione dei poteri
(già teorizzata da Montesquieu nel suo “Esprit
des lois”), mentre poco
importa se a reggere il
potere sia il popolo, un
gruppo di poche persone scelte o un singolo
individuo; anzi, Kant sembra disprezzare
la democrazia, in quanto secondo lui costituisce una dittatura della maggioranza
sulla minoranza, implicando così che venga
annullato il principio su cui essa si basa, ossia
il governo di tutti.
Ma perché l’istituzione repubblicana è
quella che favorisce la pace?
Per Kant, in una repubblica è di fondamentale importanza il consenso dei
cittadini, che difficilmente sceglierebbero la
guerra, portatrice di morte e distruzione a
loro in primis. In uno stato dispotico, invece,
a decidere di muovere guerra è il despota,
che non sarà mai impegnato direttamente
nella guerra, ma si servirà, per perseguirla,
dei suoi sudditi.
Il secondo presupposto, la federazione
di Stati, è, forse, il punto più debole della
trattazione, nonché la parte su cui più si è discusso. Infatti con il termine “Federazione di
liberi Stati” Kant non intende un organismo
sovranazionale a cui tutti gli Stati devono
subordinarsi, bensì una sorta di “grande
fratellanza”, garantita da accordi inviolabili.
Per il pensatore tedesco lo “Stato dei Popoli”
(così egli chiama l’ipotetico ente sovranazionale) non è una realtà a cui si possa
giungere; non si può, infatti, paragonando
gli Stati ai singoli individui, pretendere che
questi rinuncino alle loro libertà per il bene
comune, costituendo contrattualmente un
organo superiore di controllo, come invece
hanno fatto gli individui istituendo la società
civile e gli Stati.
Hegel, in seguito, ribatterà a Kant che,
non essendoci un organo superiore agli
Stati, una sorta di giudice che possa vigilare
sull’osservanza dei trattati e che possa punire chi vi contravviene, i concordati sono
inutili. Nel paragrafo 333 dei “Lineamenti di
filosofia del diritto” di Hegel si legge infatti:
“Il principio del diritto internazionale […] è che
i trattati, come quelli dai quali dipendono le
obbligazioni degli Stati fra loro, devono essere
osservati. Ma poiché il rapporto tra essi ha
per loro principio la loro sovranità […] i loro
diritti hanno la loro realtà non in una volontà
universale costruita a potere al di sopra di essi,
bensì in una loro volontà particolare.”
La federazione degli Stati kantiana presuppone quindi “l’umanità degli Stati, che
dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o
di qualsiasi natura; in generale, sempre da una
volontà sovrana particolare, e quindi resta
affetta da accidentalità”. Ciò vuol dire che il
rispetto degli accordi presi dagli Stati riuniti
in federazione, in mancanza di un ente che
distribuisca pene a chi vi contravviene, è
legata alla volontà accidentale (ovvero alla
volontà che può esserci o meno) degli Stati
stessi di far avvenire la pace.
Il terzo presupposto necessario, il diritto
di ospitalità, esiste, per Kant, “in virtù del diritto al possesso comunitario della superficie della
terra, sulla quale, in quanto sferica, essi [gli
uomini] non possono disperdersi nell’infinito,
ma alla fine devono pur tollerarsi a vicenda,
mentre di essere in un luogo della terra nessuno
originariamente ha più diritto dell’altro.”
Il piccolo testo del filosofo settecentesco
103
è ancora di straordinaria attualità: secondo
Kant la pace tra i popoli non è un’utopia
ma un progetto concretamente realizzabile
attraverso istituzioni giuridiche; alla sua luce
nessuna guerra è necessaria e giustificabile.
Straordinariamente attuale ci è sembrata, poi, anche la politica dell’accoglienza
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
degli stranieri.
Leggiamo, infatti,
che lo Stato “può
mandarlo via, [il
cittadino straniero] se ciò non mette a repentaglio la
sua vita, (ma ben
sappiamo che
mandare indietro
un extracomunitario, che fugge
la povertà, la guerra, facendolo tornare nel
suo paese, spesso equivale a morte sicura)
ma fino a quando questo sta pacificamente
al suo posto non si deve agire verso di lui in
senso ostile.”
104
La dura politica
dei respingimenti
del governo italiano,
l’approvazione della
legge Bossi-Fini, contravviene a quanto il
filosofo di Konisberg
scrive nella sua opera. All ’ottimismo
settecentesco e illuministico di Kant, al
suo cosmopolitismo
e pacifismo è subentrato un radicale pessimismo, venato da egoismi irrazionali.
Ersilia Fiore
Carmine Secondulfo
II A - Liceo Classico
Educare alla
FILOSOFIA E PEDAGOGIA
pace
«Forse non è lontano il giorno
in cui tutti i popoli, dimenticando
gli antichi rancori, si riuniranno
sotto la bandiera della fraternità universale e, cessando ogni
disputa, coltiveranno tra loro
relazioni assolutamente pacifiche, quali il commercio e le
attività industriali, stringendo
solidi legami. Noi aspettiamo
quel giorno»
“D
Ernesto Teodoro Moneta
entro ognuno di noi, la pace è
come un seme che nel deserto
aspetta di poter germogliare”.
Ecco come Prem Pal Singh Rawat, pacifista
e leader spirituale indiano nato nel 1957 e
tuttora vivente, definisce il termine PACE.
Ma che cos’è davvero la pace? Proviamo a
chiedercelo e sicuramente leggeremo l’incertezza chiara sui volti di ognuno di noi.
Si sa che il termine pace derivi dal latino
pax e che è il contrario di bellum (guerra),
ed è davvero strano pensare che una parola
indicata come astratta sul vocabolario possa
avere un valore tanto grande. Anche se non
sappiamo dare una chiara definizione di
tale termine, pensandoci, è una parola che
conosciamo fin da piccoli, quando ancora
incapaci di parlare per bene, se litighiamo
con un amico pronunciamo quella fatidica
frase “Facciamo la pace?” Solitamente, con
questo termine, vogliamo indicare la pace
tra individui ma con il tempo questa parola
ha assunto anche altri significati, come quello di pace interiore. La pace è un qualcosa
105
che tutti dovrebbero assaporare, indipendentemente dal colore della pelle, dalla
religione, dallo stato sociale o per meglio
dire dal conto in banca. E’ un qualcosa che
dovrebbe essere garantito dallo Stato, dalla
Chiesa, dalla famiglia, dalla scuola; tuttavia,
non tutti riescono a trovare la propria pace
anche se per qualcuno spesso si identifica
come il fine ultimo della vita.
Peace in inglese, Bakè in spagnolo, Fridn
in tedesco, He Ping An Ping in cinese, Pais in
francese e, infine Pace in italiano: il termine
muta, ma il significato è sempre lo stesso,
la voglia di raggiungere questo traguardo
non muta da paese a paese, da persona a
persona. Ma se tutti amano la pace, se tutti
la vorrebbero, allora perché si fa la guerra?
Perchè esistono le guerre per la pace? Perchè
la guerra, secondo alcuni uomini, ha i suoi
vantaggi : 1) è un atto volontario; 2) la guerra
è facile da avviare; 3) la responsabilità della
guerra può essere attribuita ad altri (al ne-
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
mico); 4) la guerra crea coesione interna; 5)
la guerra sospende molte regole.
Molti popoli hanno provato a cercare la
pace, come possiamo capire dagli insegnamenti di Toda Josuei: egli insisteva sulla necessità di fondare una nuova filosofia universale
della pace. Infatti, voleva estendere il buddismo dal campo religioso al campo sociale.
La parola ai filosofi
La ricerca della pace è un problema senza tempo. Infatti, affonda le sue radici nel
passato. Non a caso molti filosofi, teologi e
giuristi si sono espressi sul concetto di pace.
Tra i filosofi spiccano maggiormente Kant,
Fichte, Shelling e Hegel. Secondo Fichte si
può arrivare alla pace solo attraverso l’autarchia. Ovvero, lo stato deve organizzarsi
autonomamente in tutto e per tutto e non
deve assolutamente avere contatti con altri
paesi. Ficthe proponeva la divisione dell’uni106
verso in tanti piccoli mondi, ognuno a se
stante. Quindi egli, nella sua opera Discorsi
alla nazione tedesca, individua un’identità
tra autarchia e pace o meglio un rapporto
di causa-effetto tra queste due condizioni di
contro a quanto sostenuto dagli illuministi.
Questi pensavano che la pace si potesse
ottenere attraverso l’apertura degli scambi
commerciali internazionali. Kant si distacca
dal livello economico e afferma che la pace
deve essere garantita da un organismo sopranazionale anticipando l’idea di ONU. Lo
stesso Kant nel suo Progetto per una pace
perpetua afferma che come siamo soliti
considerare irragionevole l’attaccamento
dei barbari alla loro cultura senza legge,
così dovremmo affrettarci ad uscire da una
situazione tanto degradante. La ragione,
strumento essenziale per Kant, condanna
la guerra come procedimento giuridico ed
eleva lo stato di pace. Per questo motivo,
diviene necessaria una particolare lega
foedus pacificum che va distinta dal pactum
pacis (patto di pace): mentre il pactum pacis
cerca di mettere fine ad una guerra, il foedus
pacificum si propone di mettere fine a tutte
le guerre.
Molto vicino al pensiero kantiano, è l’idealista tedesco Shelling, il quale considera la
pace per l’umanità garantita da una federazione planetaria. Hegel si oppone a tutti i
filosofi sopraccitati. Infatti, in lui non prevale
il concetto di pace ma quello di guerra. Nella
loro opera, Abbagnano e Fornero, scrivono
“Hegel dichiara che non esiste alcun giudice
o pretore che possa esaminare le pretese
degli stati. Il solo giudice è ..… la storia, la
quale ha come suo momento strutturale la
guerra.… Hegel attribuisce alla guerra non
solo un carattere di necessità e di inevitabilità ma anche un alto valore morale : “come
il movimento dei venti preserva il mare dalla
putredine… così la guerra preserva i popoli
dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe
una pace durevole e perfetta” (Hegel – Lineamenti di filosofia del diritto).
La parola ai pedagogisti
Tra gli educatori alla pace più noti vanno
ricordati: Maria Montessori, pedagogista,
filosofa, medico, scienziato ed educatrice, ha
compreso come l’educazione possa essere
un’ arma per la pace. Solo il sapere, infatti,
ci aiuta ad uscire da uno stato di minorità
e a comprendere meglio l’importanza di
quest’arma; Aldo Capitini, pedagogista e
divulgatore del pensiero di Gandhi in Italia
ha affermato la connessione tra azione
sociale e politica ed educazione come una
sorta di impulso che può far emergere il
senso di insoddisfazione per la realtà attuale
e che quindi può far nascere in ognuno il
desiderio di cambiamento attraverso una
cultura della pace.
Secondo Capitini, i principi dell’educa-
zione della pace nelle scuole sono: educare
alla diversità attraverso il dialogo, educare
alla disobbedienza, ovvero allo sviluppo
dello spirito critico ed educare alla non
violenza; Danilo Dolci, sociologo, educatore, poeta e attivista della non violenza, in
Sicilia ha attuato un percorso di educazione
alla pace globale come autoliberazione
dalla violenza che interessa gli schemi
psicologici e le strutture socio-politiche
per contrapporvi un’azione educativa non
violenta e costruttiva. Tale percorso si adatta
benissimo al problema
del fenomeno mafioso.
Tutto ciò a partire dalla
famosa maieutica socratica, che si serve del
dialogo per portare alla
luce le verità sedimentate nella coscienza dei
singoli per far superare
il senso di isolamento
dell’individuo attraverso
lo sviluppo di un senso
di responsabilità collettiva; Don Lorenzo Milani,
invece, cercava di collegare il senso di responsabilità del singolo
con l’azione sociale portando a combattere
ogni autoritarismo e conformismo (Lettera
ad una professoressa).
E’ proprio su questi esempi che gli insegnanti potrebbero attuare nelle scuole un
programma di educazione alla pace in un
intreccio naturale con i programmi curriculari. Come abbiamo già detto, la scuola è una
delle istituzioni che dovrebbe garantire la
pace e, invece, sappiamo, attraverso numerosi fatti di cronaca, che spesso nelle scuole
si manifestano atti di violenza.
È necessario allora che la scuola offra ai
giovani l’immagine coerente di luogo dove
i diritti e le libertà di tutti trovano spazio di
realizzazione, dove le aspettative dei ragazzi
ad un equilibrato sviluppo culturale e civile
non vengono frustrate.
Il testamento di Nobel
Il Premio Nobel per la pace è stato previsto nel testamento di Alfred Nobel del 1885
ed è stato assegnato per la prima volta nel
1901 a Jean Henri Dunant, fondatore della
Croce Rossa e ideatore della Convenzione
di Ginevra per i diritti umani.
Il Premio Nobel per la pace non è mai
stato assegnato ad un
italiano dal 1907 ad
oggi. Nel 1907 ad aggiudicarselo fu Ernesto Teodoro Moneta,
giornalista e patriota
italiano. Tra coloro che
hanno ricevuto questo premio vogliamo
107
ricordare: Theodore Roosveelt (1906),
Presidente degli Stati
Uniti; Louis Renault
(1907), professore di
diritto internazionale
alla Sorbona; Ferdinand Buisson (1927),
fondatore e presidente della Lega per i
diritti umani; Martin Luther King (1964),
Capo della Southern Christian Leadership;
Tenzin Gyatso (1989), XIV Dalai Lama capo
del Governo tibetano in esilio.
Non solo singole persone hanno ricevuto il Premio Nobel per la Pace ma anche
organizzazioni come le Nazioni Unite, in
particolare: il fondo per l’infanzia (1965), le
forze di peace-keeping (1988), l’Alto Commissariato per i rifugiati ( 1954 e 1981) e nel
2001 il segretario generale Kofi Annan.
Anche il presidente Barak Obama ha
recentemente rivenuto il premio Nobel
per la Pace. Ciò ha suscitato numerose di-
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
scussioni e la domanda principale è stata:
ma che cosa ha fatto finora per meritarsi
tale riconoscimento? La critica si divide in
sostenitori e scettici.
I primi affermano che sia stato giusto
premiare Obama perché questi ha mutato
completamente la politica imperante con
Bush, il dialogo con tutte le nazioni per
cercare di risolvere i conflitti ancora in atto
(a testimonianza di ciò valgono i mutati
rapporti con la Russia).
Gli scettici sottolineano come la politica
di Obama finora sia stata perlopiù teorica
108
e non pratica. Inoltre gli Usa hanno ancora
due sanguinosi fronti aperti: in Iraq e in
Afghanistan.
In effetti, è stato prematuro assegnare ad
un presidente di fresca nomina un premio
così importante. Bastava aspettare qualche
tempo e valutare il reale merito di Obama
e, soprattutto, il mantenimento delle sue
promesse. Solo il tempo darà ragione agli
uni o agli altri, a noi non resta che aspettare
e sperare…
Marika Ambrosio
II C - Liceo Classico
La pace
secondo
la fede
cattolica
“L
a carità nella verità, di cui Gesù
Cristo si è fatto testimone” è “la
principale forza propulsiva per il
vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità
intera”. Questo è l’incipit dell’Enciclica Caritas
in veritate. Parole semplici ma di grande
spessore, indirizzate al mondo cattolico e
“a tutti gli uomini di buona volontà”. Già
nell’introduzione il Papa, Benedetto XVI,
ricorda che “l’amore-caritas è una forza
straordinaria che spinge le persone a impe-
VISIONI DEL MONDO
gnarsi con coraggio e generosità nel campo
della giustizia e della pace”. Secondo la fede
cristiana, la pace è il dono offerto agli uomini
dal Signore risorto ed è il frutto della vita
nuova inaugurata dalla sua resurrezione.
Pertanto la pace si configura come un
profondo rinnovamento del cuore dell’uomo. È un dono da accogliere con generosità,
da custodire con cura, e da far fruttificare
con maturità e responsabilità. Per quanto
travagliate siano le situazioni e forti le tensioni e i conflitti, nulla può resistere all’efficace rinnovamento portato dal Cristo risorto.
Cristo è la pace di tutti gli uomini. Con la sua
morte in croce, Cristo ha riconciliato l’umanità con Dio e ha posto le basi nel mondo
di una fraterna convivenza fra tutti. Paolo
VI nella sua Enciclica, Populorum Progressio,
aveva già sottolineato che la pace è stretta109
mente legata alla giustizia, quindi bisogna
“promuovere il progresso dei popoli più
poveri” e “favorire la giustizia sociale tra le
nazioni” per “offrire a quelle che sono meno
sviluppate un aiuto
tale che le metta in
grado di provvedere
esse stesse e per se
stesse al loro progresso”, solo così si potrà
raggiungere la pax
Christi.
La stessa Enciclica
aggiunge più avanti
un altro importante
elemento: “Lo sviluppo
è il nuovo nome della
pace”. Infatti essa non
si riduce all’assenza di
guerra, ma si costruisce giorno per giorno
nel perseguimento
Lyceum Maggio 2010
Percorso/La cultura della Pace
dell’ordine voluto da Dio, che è la perfetta
giustizia tra tutti gli uomini. Pertanto ogni
buon credente deve promuovere il progresso umano e spirituale, dunque il bene
dell’intera umanità. Partendo dal messaggio
di Paolo VI, Benedetto XVI dichiara che la
Carità, Amore ricevuto e donato, è la via
maestra della dottrina sociale della Chiesa.
Ogni cristiano è chiamato alla caritas anche
attraverso una “via istituzionale” che incida
nella società. Infatti il Papa si sofferma sulla
giustizia e sul bene comune.
La giustizia (Ubi societas, ibi ius) induce a
donare all’altro ciò “che gli spetta in ragione
del suo essere e del suo operare. Chi ama
con carità gli altri è innanzitutto giusto verso di loro”. Accanto al bene personale vi è il
bene comune, che non è il bene ricercato
per se stesso, ma per tutti coloro che fanno
parte della società. Quindi impegnarsi per il
bene comune significa anche “avvalersi delle
110
istituzioni che strutturano politicamente,
civilmente e giuridicamente il vivere sociale”. Ritorna più volte, nella lettera enciclica
Caritas in veritate, l’attenzione al creato, alla
responsabilità verso la natura e il mondo.
“La creazione è l’inizio e il fondamento di
tutte le opere di Dio” e la sua salvaguardia
permetterebbe anche la pace dei popoli e
tra i popoli. “La desertificazione e l’impoverimento produttivo … sono anche frutto
dell’impoverimento delle popolazioni … e
della loro arretratezza”.
Per tale motivo la Chiesa deve rinnovare
e rafforzare quell’alleanza tra l’ umanità
e l’ambiente, specchio dell’amore di Dio,
che move il sole e l’altre stelle, verso il quale
siamo sempre in cammino. Inoltre la misericordia divina apre il cuore al perdono
verso i fratelli ed è anche e soprattutto con il
perdono offerto e ricevuto che si costruisce
la pace nella piccola comunità della famiglia
e in ogni altro ambiente di vita. Giovanni
Paolo II diceva: “La Chiesa non cessa mai di
proclamare la verità che la pace nel mondo
affonda le sue radici nel cuore degli uomini, nella coscienza di ogni uomo e di ogni
donna. La pace può essere soltanto il frutto
di un cambiamento spirituale, che inizia nel
cuore di ogni essere umano e che si diffonde
attraverso le comunità. La prima di queste
comunità è la famiglia. È la famiglia la prima
comunità ad essere chiamata alla pace, e la
prima comunità a ricercare la pace – pace e
amicizia fra gli individui e i popoli”.
Valeria Fortuna Gigi
Marialuisa Guidone
II B - Liceo Classico
Orientamento
La sezione “Orientamento” si apre con un interessante intervento sulla professione del
docente, che si muove tra l’Amarcord e la proiezione nella realtà presente e futura, e continua
con una panoramica sulla progettualità che è ormai il tratto peculiare del Liceo “Tito Lucrezio
Caro”. Due sono le iniziative: la prima è il Convegno di studi sulla prestigiosa figura di Giovanni
Amendola “tra politica e storia”, organizzato in collaborazione con l’Università degli studi di
Salerno; la seconda è costituita dall’intera attività dei PON, tra cui segnaliamo quella della
“Scuola di Giornalismo”, che nell’arco delle 50 ore previste ha preparato gli allievi alla stesura
di vari e articolati “pezzi giornalistici”, confluiti poi nell’esperimento della realizzazione di un
numero speciale della testata “Soci@l medium”, ospitata come inserto del qualificato e diffuso
periodico Eventi.
PROFESSIONE DOCENTE
Categorie di ieri, categorie di oggi
L’insegnante
è come un profumo
A
ll’età di quattordici anni, quando
frequentavo il ginnasio alla vecchia
sede in corso Giovanni Amendola,
mi sembrava, al mattino, di entrare in un
tempio: al suono della prima campanella,
che annunciava l’inizio delle lezioni, regnava
il silenzio e nei corridoi si camminava come
in chiesa, dinanzi agli occhi
vigili del preside-sacerdotestregone. Le ore trascorrevano
a ritmi lentissimi, perché i
professori, quelli di un tempo,
amavano prima interrogare e
poi spiegare, e le interrogazioni
erano un qualcosa da tramandare alle generazioni future: si
rimaneva fermi e ritti davanti
alla cattedra, e le domande che
venivano rivolte erano formule
di “giuramento”, in quanto ti assumevi tutta la responsabilità
di ciò che affermavi, sapendo
che, in caso di risposte errate,
al tre canonico seguiva anche
il rimprovero, quello che veramente ti procurava una grande
sofferenza interiore.
L’insegnante (alludo a quello degli anni ’80) era rispettato
e temuto, anzi nessuno mai di
noi alunni osava mettere in di-
scussione ciò che diceva: se una professoressa avesse parlato di un Dante torinese, noi
poveri disgraziati, avremmo corretto il testo,
togliendo Firenze e aggiungendo Torino (sul
mio vecchio manuale di filosofia ho ancora
un Socrate nato a Sparta!). È ovvio che non
erano infallibili! Non nascondo che viaggia-
Lyceum Maggio 2010
113
Orientamento
114
no ancora nei sogni notturni a distanza di
tanti anni. Vivono in noi, infatti auguravamo
loro di tutto: il sottoscritto aveva come insegnanti al liceo una “triade maledetta” (non
riporto i nomi in quanto alcuni sono ancora
in cattedra), per la quale si era anche fatto
ricorso alla poesia epigrammatica (epigramma nell’accezione greca!) per poter esprimere tutte le nostre opinioni e molti ritornelli
erano noti agli stessi docenti. Tuttavia, alla
mia età, posso testimoniare concretamente
che ho avuto davvero degli “insegnanti”,
senza demagogia alcuna, perché hanno
lasciato un’impronta nella mia vita e nel
carattere, mi hanno fatto sviluppare un’idea
di una cultura mai in vendita, ma oggetto di
ricerca assoluta per migliorare e migliorarsi.
La loro studiata cattiveria, paragonata alla
vita, è stata un vero oracolo di Delfi, mentre
la cultura posseduta da alcuni di essi è e
rimarrà una chimera per molti.
Ora, però, chi percorre gli stessi corridoi?
Chi entra in quelle aule, un tempo “altari”?
Oggi la classe insegnante può essere suddivisa in tre categorie: alla prima appartiene
il docente che parte dalla convinzione di
essere messaggero di Dio o di Zeus, per cui
tutto ciò che afferma è “rivelazione” (probabilmente è vero!); della seconda fa parte
il vip, ossia il signore alternativo e anticonvenzionale che veste come gli alunni e dei
quali si dichiara amico, quello che quando
spiega non sta facendo lezione frontale ma
un concerto, durante il quale vengono dette
cose condivisibili quasi da tutti i convenuti,
così non ci saranno nemici alla fine dell’ora
(anche questo è un rispettabilissimo metodo d’insegnamento per attirare l’attenzione
dei discenti delle nuove generazioni!); nella
terza categoria rientra il docente che ritiene
la lezione quotidiana un vero banco di prova, per cui bisogna agire per non procurare
danni e dare indicazioni chiare ai discenti,
magari alternando bastone e carota (questo
modus operandi è tradizionale, ma efficace).
Quale delle tre sia la migliore o la peggiore è
difficile da dire, perciò, servendoci dell’amato Manzoni, lasciamo “ai posteri l’ardua
sentenza”.
Un suggerimento, tuttavia, è d’uopo,
altrimenti si rischia di essere o dei qualunquisti o degli imbonitori: un alunno non
deve giudicare mai un insegnante nel corso
dell’anno né in modo positivo né negativo,
ma aspettare che termini il cursus studiorum.
Quando nel quotidiano ritroverà i “messaggi”
di certi insegnamenti, allora potrà vantarsi di
avere avuto un ottimo educatore.
È ovvio che qualche mia alunna un po’
maliziosa sorriderà nel sentir ripetere anche
in questa sede un mio aforisma, ma ritengo
appropriato concludere il ragionamento
intrapreso con una riflessione: “I professori
sono come la fragranza di un profumo: per
alcuni l’odore è splendido per altri insopportabile. Tuttavia c’è una certezza: alcuni
quell’odore lo avranno sempre sulla pelle, altri, dopo un po’ di tempo e una doccia, ricorderanno semplicemente che era sgradevole”.
Giuseppe Robustelli
115
Lyceum Maggio 2010
Orientamento
Università Di Salerno
Facoltà di Scienze Politiche
Liceo Classico, Scientifico
e Linguistico Maxisperimentale
“T. L. Caro” – Sarno (Sa)
Provincia di Salerno
Comune di Sarno
Convegno di studi
116
Giovanni
Amendola
Tra politica
e storia
29 aprile - 30 aprile 2010
Centro Sociale – Sarno
Giovedì 29 aprile 2010 – ore 16.30
Venerdì 30 aprile 2010 – ore 9.00
Presiede
Presiede
Prof. Elio D’auria
Prof. Luigi Rossi
Università della Tuscia – Viterbo
Preside della Facoltà di Scienze Politiche
Università di Salerno
Introduzione
Saluti dell’Amministrazione Provinciale
Prof. Giuseppe Vastola
Dirigente Scolastico del Liceo “T. L. Caro”
Relazioni
Saluti
«Giovanni Amendola e il suo epistolario»
Prof. Elio D’auria
Avv. Amilcare Mancusi
Università della Tuscia - Viterbo
Sindaco di Sarno
«Democrazia, liberalismo, socialismo
nel pensiero di Giovanni Amendola»
Prof. Giuseppe Cacciatore
Relazioni
«L’Istituto Nazionale di Previdenza
dei Giornalisti italiani “G. Amendola”»
Dott. Ermanno Corsi
Editorialista de “IL DENARO”
«L’attualità dell’Amendola liminare»
Prof. Franco Salerno
Liceo “T.L.Caro”- Docente a contratto Università di Salerno
«Amendola tra etica e politica»
Prof. Aldo Trione
Università di Napoli “Federico II”
Università di Napoli “Federico II”
«Giovanni Amendola e la rivista ‘Il Saggiatore’»
Prof. Giuseppe Palmisciano
Università di Salerno
«Giovanni Amendola e
l’idealismo di Benedetto Croce»
Prof. Alfonso Musci
Università di Pisa
«Le fonti archivistiche
nella Sarno del primo Dopoguerra»
Dott.ssa Raffaella Buonaiuto
Archivio storico del Comune di Sarno
Il Convegno fruirà anche delle riprese televisive di METROPOLIS TV
e dei servizi giornalistici di Metropolis/Quotidiano
Segreteria organizzativa:
Liceo Classico “T. L. Caro” - Liceo Scientifico “G. Galilei”
Liceo Maxisperimentale ad indirizzo Classico-Scientifico-Linguistico
C.so G. Amendola, 86 – 84087 Sarno (SA) – Tel. 081/5137321 Fax. 081/5137317
http:www.licei.org - e-mail: [email protected]
Prof.ssa Adriana Buonaiuto
Comitato tecnico:
Prof.ssa Patrizia Trapanese
– Prof. Guglielmo Caiazza – Prof.ssa Elsa Franco – Prof.ssa Angelina Rainone
Addetto stampa:
Dott.ssa Viridiana Myriam Salerno
Lyceum Maggio 2010
117
Orientamento
I CORSI PON
I
Le capacità
progettuali del
Liceo Classico
“T. L. Caro”
l Liceo Classico “T. L. Caro”, da ormai
un decennio conferma di anno in anno
le sue capacità progettuali, ottenendo
l’autorizzazione dall’Autorità di gestione
per dare vita al Piano Integrato FSE 2009,
brillantemente coordinato dal Prof. Egidio
Mazza. Una Scuola proiettata verso il futuro,
118 una Scuola che conserva i “valori” di un insegnamento tradizionale, ma che respira la
Cultura completa e moderna. Che l’Europa
“impone” e che serve per rispondere alle sollecitazioni previste nella “Raccomandazione
Europea” del 18 dicembre 2006.
Con L’Europa investiamo
nel nostro futuro!
Il Piano Integrato di Istituto è, infatti, cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo nell’ambito del Programma Operativo Nazionale
“Competenze per lo Sviluppo 2007- 2013”,
a titolarità del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e Ricerca – Direzione Generale. Per offrire una formazione completa
ai nostri studenti. Per formarli nel migliore
dei modi possibili. Per confermare il ruolo
del Liceo Classico “T.L.Caro” come punto di
educazione e di aggregazione della zona
vesuviana e dell’Agro sarnese-nocerino.
Il Collegio dei Docenti ha, pertanto, deli-
Unione Europea
2007-IT 161PO 004
Codice Identificativo B-1-F.E.S.R. 2007/2228
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per la Programmazione
D.G. per gli Affari Internazionali - Ufficio IV
Programmazione e gestione dei fondi strutturali europei
e nazionali per lo sviluppo e la coesione sociale
berato di indirizzare il Piano verso l’“Obiettivo C” che consta di due tipi di “Azione”:
- Azione 1: “Interventi per lo sviluppo delle
competenze chiave” (comunicazione nella
madrelingua, comunicazione nelle lingue
straniere, competenza matematica e competenza di base in scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad apprendere,
competenze sociali e civiche, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed
espressione culturale); - Azione 4: “Interventi
individualizzati per promuovere l’eccellenza”
e per indirizzare le risorse economiche sia
verso il recupero e l’innalzamento dei livelli
di conoscenze, di capacità e di competenze
degli alunni nelle aree di competenze (conoscenze in lingue, in matematica, in scienze
e tecnologia, problem solving, competenza
digitale, educazione alla convivenza civile e
democratica ed alla cittadinanza attiva), sia
verso la promozione delle eccellenze.
Nell’ambito dell’Obiettivo C – Azione
1 sono stati previsti i seguenti Progetti:
Parlare e scrivere correttamente; Scuola
di giornalismo; Matematica: pensiero
trasversale; Imparare a tradurre; Laboratorio di fisica; Le scienze, patrimonio per
il futuro; ECDL corel; ECDl advanced; Improving my English; Français pour tous.
Nell’ambito dell’Obiettivo C – Azione
1 sono stati previsti i seguenti Progetti:
Cogito ergo sum: la scuola in gara per
l’eccellenza in filosofia; Olimpiadi della
matematica; Discere ad Certamen.
Noi abbiamo discusso di questo e di
tanto altro con il Dirigente Scolastico del
Liceo, Prof. Giuseppe Vastola che, molto
preparato, preciso e puntuale, ci ha parlato in
modo appassionato e manageriale della sua
Scuola: “Oltre alla vastissima offerta di P.O.N.
che ci proietta in una dimensione europea di
Scuola, mettendoci al passo con le grandi aree
didattiche non solo italiane, il nostro Liceo ha
anche un’interessantissima carta d’identità
costituita dal P.O.F., vale a dire il Piano, in cui
vengono illustrate le linee distintive dell’istituto, l’ispirazione culturale-pedagogica che lo
muove, la progettazione curricolare, extracurricolare, didattica ed organizzativa delle sue
attività. Noi vogliamo far affermare una visione
119
diversa di Scuola, che diventa ambiente in cui
vivere, crescere, confrontarsi e imparare al di
là delle ore prettamente didattiche. La Scuola
deve essere vissuta a pieno dai nostri studenti:
per tutti questi motivi, è importante un lavoro
di sinergia costante con le famiglie e con le
Autorità che devono mettere al servizio della
Scuola tutte le loro forze in modo totale.”
Viridiana Myriam Salerno
Lyceum Maggio 2010
Orientamento
PON/SCUOLA DI GIORNALISMO
Entusiasmante viaggio
tra le parole
L
Un’esperienza sorprendente e altamente formativa
a Scuola di Giornalismo, promossa dai proff. Franco Salerno (come
Esperto), Giuseppina Di Filippo e
Michele D’Alessandro (entrambi Tutor), si
è rivelata un sorprendente successo. La
semplice iniziale curiosità che ci ha spinto
a partecipare si è trasformata in una vera e
propria determinazione. Il merito naturalmente ai professori che, con il loro supporto,
ci hanno spronato e aiutato a diventare
davvero dei piccoli giornalisti. Noi alunni
120
abbiamo profuso il nostro impegno, sì che
ci siamo rivelati, a nostra meraviglia, capaci
di una creatività nella formulazione delle
idee e nella stesura dei testi.
La creatività, in particolar modo, è sempre stata premiata nelle gare di gruppo,
gare in cui il podio ha visto come protagonisti tutti, nessuno escluso. Tra divertenti
competizioni e “struggenti” rompicapo,
noi ragazzi abbiamo imparato quanto sia
piacevole scrivere. Le parole non sono mai
state così divertenti, persino durante i test, i
quali, insieme alle numerose lezioni, hanno
contribuito ad ampliare il nostro bagaglio
culturale. Esperienza alquanto gradevole
è stata, senza dubbio, l’incontro con Maria
Buono, giornalista della RAI, la quale ci ha
permesso di entrare nel suo mondo, mostrandoci le meraviglie che si celano dietro
un giornale. Altrettanto formativa e rivelatrice la visita alla Redazione del quotidiano
“Metropolis”, effettuata il 4 maggio.
L’assidua frequenza e la collaborazione
sono state due componenti fondamentali,
che hanno cooperato alla realizzazione
(con la guida anche della Dott.ssa Viridiana
Myriam Salerno) del capolavoro finale: Soci@l
Medium, un giornale, il nostro giornale, il
mezzo tramite cui abbiamo potuto veicolare
sensazioni, visioni, idee, e dare una nuova interpretazione del mondo. Per questo, siamo
molto grati al Direttore del Periodico Eventi,
Livio Pastore, che lo ospita come inserto
nell’ambito di una testata, molto letta ed
autorevole. La Manifestazione conclusiva,
infine, a cui parteciperanno giornalisti e
studiosi dei media, avrà come suo clou la
performance “Come si fa un TG”: una Giuria di
esperti assegnerà Premi e stage ai vincitori.
Disse il grande Emilio Salgari: “Scrivere
è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”;
e noi abbiamo affrontato questo viaggio
a mani vuote, una penna per compagno,
per dar vita alle nostre creazioni, a volte
apprezzate, a volte criticate, ma pur sempre
speciali che ci hanno fatto sentire anche solo
per quell’attimo veri “scrittori”. Cinque mesi
sotto esame, ora tocca a noi dare un giudizio.
“La Scuola di giornalismo: promossa a pieni
voti!”. Si spera anche noi!
Melania Dolgetta
Marika Manna
Cristina Pastore
Morena Vastola
I B – Liceo Classico
Itinerari
Vari sono i progetti POF realizzati nell’anno scolastico 2009-10. Tra quelli che hanno continuità negli anni vi presentiamo il Progetto relativo all’Arte (teso a pervenire a veri e propri
prodotti artistici) e i due Progetti svolti dalle due Compagnie teatrali (L’Allegra Brigata del Liceo
Scientifico e la Nave dei Folli del Liceo Classico e Scientifico), impegnati nell’allestimento di due
nuove produzioni teatrali, con le quali la Scuola – con risultati eccellenti – si apre al territorio
e al mondo della cultura e dello spettacolo.
IN MEMORIA
In memoriam, al
profesor Gennaro Rispoli
Antonio Quartucci, alumno del profesor Gennaro Rispoli, colaboradorde esta revista, informa que ha fallecido el 10 de abril
de 2010. En su honor, se publica de manera extraordinaria un
problema Quincena del 1 al 16 de Abril de 2010.
Sevilla 12 de Abril de 2010. EXTRA
Problema 559
Sea P un punto del interior del triángulo ABC.
Sean D, E y F los pies de las perpendiculares
desde P a BC, CA y AB, respectivamente.
Si los tres cuadriláteros AEPF, BFPD y CDPE tienen
incírculos tangentes a los cuatro lados,
demostrar que P es el incentro de ABC.
Rabinowitz, S. (2004): Crux Mathematicorum,
Problem 2902. 30.1, (p.38)
Lyceum Maggio 2010
123
Itinerari
124
Fernando Palladino (IV MSB), Nefertari
Progetto Arte
I labirinti della
bellezza
DIARIO DI BORDO
S
embra incredibile essere già arrivati
alla tanto attesa mostra che sarà allestita nel plesso del Liceo classico al
Corso Vittorio Emanuele. Saranno esposte
al pubblico le nostre “piccole opere” per
l’evento che rappresenta la chiusura di un
progetto che è stato tanto a cuore al prof.
Ernesto Terlizzi e alla prof.ssa Adriana Buonaiuto e che ha coinvolto ed emozionato noi
ragazzi nell’arco di dieci incontri.
Prima di incamminarmi in questa nuova
esperienza, l’idea di dovermi confrontare con
persone a cui l’arte scorre nelle vene mi terrorizzava. C’è ora, invece, qualcosa di diverso
nel mio modo di vedere. Probabilmente, se
nulla fosse cambiato, non avrei mai avuto il
coraggio di scrivere questo trafiletto.
Il corso, presentato dal professore Terlizzi nel precedente numero di “Lyceum”, ha
voluto ripercorrere le diverse idee e forme
di bellezza che si sono affermate nel corso
dei secoli. Ognuno di noi, affrontando le
varie tematiche, ha rielaborato ed espresso
la propria idea di bellezza ed è stato emotivamente coinvolto in quei modi così diversi
di concepire l’Arte: la semplicità di qualcuno si è rispecchiata nell’immediatezza del
linguaggio primitivo; il tumulto interiore di
qualcun altro ha trovato espressione nella
rappresentazione della maestosa forza della
natura del Sublime.
Tutti abbiamo scoperto aspetti di noi
che meno conoscevamo, come la nostra
originalità per esempio. La timidezza di certi
(la mia in primis) nel mostrare ai compagni
i propri lavori è via via scomparsa. Ci siamo 125
ritrovati a consigliarci a vicenda o a stupirci
per il talento di alcuni. Abbiamo scoperto
che, al di là di ciò che si vede con gli occhi,
esiste qualcosa che si sente con le emozioni,
che ciò che conta non è l’apparenza, ma la
forza e l’efficacia del messaggio.
I nostri disegni, se non tutti dai valori
artistici inestimabili, rappresentano ciò che
siamo e, da quello che ho appreso frequentando il corso, la bellezza sta proprio in
questo: nell’esprimere sé stessi senza paura.
Realizzare la vera bellezza significa riuscire
ad emozionare l’osservatore, trasmettergli
le stesse emozioni che noi stessi abbiamo
provato nel comporre l’opera e trasfondere
in questa il nostro essere, la nostra personalità.
Luisa Marano - II MS
Lyceum Maggio 2010
Progetto Arte
Mario Vastola (V MSA), Figura
Emanuela Cratere (II MS), Laocoonte morente
Emanuela Cratere (II MS), Burqa
Mariassunta Robustelli (V MSA), Oriente
Progetto Arte
Salvatore Giordano (IV MSB), La canzone di Bacco
Itinerari
Progetto Arte
128
TEATRO/1
Le maree
dell’animo
femminile
R
ipercorrendo il testo La casa di
Bernarda Alba del drammaturgo
spagnolo Federico Garcia Lorca,
l’“Allegra Brigata” ha voluto trattare un tema
antico e moderno delle società contemporanee: “la donna e la propria emancipazione”.
La compagnia teatrale, cresciuta grazie
all’assiduo lavoro dei docenti referenti Antonella Esposito e Grazia Celentano e al valido
contributo dell’attore e regista Antonio
Avigliano, è riuscita a mettere così in scena
una tematica così attuale tratta da un testo
quasi centennale, creando le premesse per
un’attualizzazione dei temi e dei modi della
rappresentazione stessa.
In una cornice di severità e di lutto rigoroso imposto da Bernarda alle sue cinque
figlie, alle due serve e alla vecchia madre
pazza, emerge la figura di Adela, simbolo
del desiderio della libertà della donna, che
Il nuovo
Spettacolo teatrale
dell’Allegra Brigata
del Liceo Scientifico
evade, seguendo la fiamma dell’amore, più
129
forte di qualsiasi forma di oppressione. La
figura dell’uomo, invece, risulta marginale
nella trama, ma non per questo meno significativa nell’intreccio.
Il gruppo composto da ragazzi con una
fascia di età compresa tra i quattordici e
i diciannove anni, stimolato dalla forte
tematica, ha mostrato un grande senso
di coesione e tanta voglia di cimentarsi in
questa nuova esperienza. Questa nuova
faccia dell’Allegra brigata ha appreso ciò che
il progetto desidera raggiungere nelle sue
finalità e nei suoi obiettivi, vale a dire che
il teatro non è solo il “ridere di pancia” ma
soprattutto un intenso percorso culturale e
psico-educativo (mettersi in discussione),
volto a valorizzare quelli che sono i valori
morali della società.
Un altro scopo del laboratorio teatrale è
quello di mettere in scena non più la solita
“commedia scolastica”, ma uno spettacolo di
carattere che vuole l’attore vivo, che parla e
Lyceum Maggio 2010
Itinerari
che agisce scaldandosi al fiato del pubblico,
che ogni volta rinasce o rimuore fortificato
dal suo consenso o dalla sua ostilità, un teatro che sia un luogo di corpi in vita. Come in
tutte le attività di gruppo non sono mancati
né momenti di tensione, che hanno scosso
la compagnia, né momenti di discussione
130
collettiva che hanno rafforzato i rapporti
interpersonali e l’obiettivo finale.
La scuola ha mostrato grande interesse
verso questo progetto promuovendo ancora una volta tale attività formativa, dando
all’Allegra Brigata la possibilità di trascinare
tutti nel suo mondo fatto di battute, attori,
passione e amore... teatro. A questi piccoli
“dilettanti allo sbaraglio” il compito di dominare la paura e soddisfare le attese.
Vi aspettiamo l’11 giugno del 2010 per
questa nuova e originale sfida, anche se
quest’anno l’allegria cede il passo al dramma
e alla riflessione.
Christian Crescenzo - III F
Alfonso Dolgetta - III C
Liceo Scientifico
Antigone
non può
morire
TEATRO/2
Il nuovo Spettacolo de La
Nave dei Folli si configura
come un mélange tra mito
e storia, tra letteratura
greca e teatro tedesco, tra
musica classica e incursioni
nei ritmi moderni.
S
ullo sfondo di un mito greco, la
Compagnia teatrale La Nave dei Folli
si calerà quest’anno in una vicenda
particolarmente entusiasmante e coinvolgente. In un mix tra richiamo al mondo
classico e prospettiva moderna, lo Spettacolo Antigone non può morire si colorirà di
vicende misteriose. Gli uomini nella loro
positività errano per natura e da ciò scaturiscono i più gravi contrasti. Anche se questa
affermazione può sembrare pessimistica,
essa -nel corso del nostro lavoro- diviene
estremamente attuale, in quanto spinge a
superare difficoltà e ostacoli.
Eros e Thanatos, tradimenti e superstizioni sono alla base del dramma di Antigone,
in cui si dibatte l’antinomia fra Legge scritta
sulla carta e Legge scolpita nel cuore di
ognuno. Il testo dell’opera, che si inserisce
nel solco del “musical classico” (arricchito
dalle danze), è stato scritto dal prof. Franco
131
Salerno; la regia è stata curata dai proff.
Fulvio Montuori e Franco Salerno (aiuto regia: Francesco Mancuso e Viridiana Myriam
Salerno); l’arrangiamento e la direzione delle
musiche sono state realizzate dal prof. Ciro
Ruggiero che ha magistralmente ”contaminato” melodie artistiche e ritmi moderni.
Il duello all’interno dello Spettacolo sarà
simbolo della drammaticità delle guerre moderne, con l’eccezione che per il teatro sarà
lo spunto per la creazione di una commedia,
vista come prefigurazione della Speranza. Re
e regine si dimostreranno, sulla scena, deboli
e quasi inetti nei confronti dei veri problemi
della vita. Così alla prepotenza regale verranno contrapposti lo smascheramento del
Potere e la viltà dei potenti.
Il concetto di teatro come arte pura e
rara è difficilmente riscontrabile in una società che affonda le radici nella violazione
di tutte le regole morali. Il teatro nella sua
Lyceum Maggio 2010
Itinerari
132
totale integrità, rappresenta il connubio
esatto per chi, oltre al divertimento, vuole
aggiungere l’approccio a varie tradizioni
culturali: il plot dello Spettacolo, infatti,
risulta dal mélange personalizzato fra vari
tradizioni autorali (Sofocle, Seneca, Alfieri,
Brecht). Oscar Welles scrisse: ”Il teatro resiste
come un divino anacronismo: come l’opera
lirica e il balletto classico. Un’arte che è fonte
di gioia e di meraviglia”.
La realizzazione di questa pièce è stata,
perciò, anche il modo più simpatico di far vedere come noi studenti, oltre al regolare studio didattico, siamo in grado di far emergere
anche doti e creatività artistiche. Così noi
attori semi-professionisti portiamo in scena
la caducità della vita avvolta in un’ironia e in
un mistero, la cui verità resta celata e quindi
difficilmente percepibile a causa dell’omologazione massmediologica moderna.
Sofia Squillante
III B - Liceo Classico
EVENTI CULTURALI
Incontro
con la
scrittrice
Anilda Hibrahimi
Una giornata particolare, non è il titolo di un film
ma un’esperienza unica di vita, arte e letteratura
N
ell’ambito del progetto “Incontro
con l’autore”, in collaborazione
con la casa editrice Enaudi, il Liceo
scientifico “G. Galilei” di Sarno, l’11 aprile, ha
avuto il piacere di ospitare la giovane scrittrice di origine albanese Anilda Hibrahimi.
L’incontro è stato tenuto nell’Aula magna
del plesso, sottoposta, per l’occasione, ad
una preparazione acustico-visiva e ornata
da addobbi floreali, con tanto di 100 posti
a sedere. Hanno partecipato il responsabile di zona dell’Enaudi dott. Claudio Bartiromo, il Dirigente Scolastico prof. Giuseppe Vastola e la Prof. Antonella Esposito, che ha
moderato il dibattito e condotto la mattinata spiegando il senso e l’obiettivo di un
progetto che vive nella nostra scuola da ben
dieci anni, proponendo almeno tre volte
all’anno un confronto dialettico e concreto
con uno scrittore contemporaneo. Quest’anno è toccato alla scrittrice Anhilda Hibrahimi,
una delle voci narrative più coinvolgenti
degli ultimi anni, ma che rivela all’interno
della sua capacità di scrittura romanzata
133
anche una preparazione giornalistica che
le consente un mixage perfetto tra cronaca
e invenzione narrativa
“Sono molto emozionata”, queste sono
state le prime parole della scrittrice che hanno scatenato un caloroso applauso degli
alunni. Hanilda però si è subito messa a suo
agio di fronte all’entusiasmo degli uditori ed
ha iniziato a presentare il suo libro intitolato
“L’amore e gli stracci del tempo”, un racconto
di amori e di passioni frastagliati da un soffio
di malinconia e di tristezza che è piaciuto
molto a noi giovani lettori. L’autrice vive
ormai a Roma con il marito e la figlia, ma
dalle sue parole si evince il proprio coinvolgimento emotivo negli eventi che hanno
travagliato la sua terra d’origine, e, proprio
su questi, costruisce lo sfondo su cui si impiantano i parametri della narrazione.
Illustrati i punti cardini della vicenda, ha
poi cortesemente risposto alle domande poste dagli alunni, soddisfacendo pienamente
Lyceum Maggio 2010
Itinerari
la loro curiosità riguardo le
tematiche della narrazione e
sui motivi degli accadimenti
che la caratterizzano. L’attenta
organizzazione ha curato ogni
dettaglio e non è mancata, alla
fine, una sorpresa per la stimabile ospite. Le è stato consegnato un apprezzato omaggio
floreale insieme ad un astuccio
contenente tre segnalibro che
costituiscono non solo il logo
della nostra Scuola, ma anche
una testimonianza concreta
della volontà di tornare al
vecchio libro che può essere sempre il compagno ideale di ogni momento di piacevole
ozio nelle nostre giornate, ma è anche la
lettura il modo più efficace per tracciare la
rotta delle nostre scelte e dei nostri progetti,
in quanto un libro può cambiarti la vita e fare
134
delle cose di ogni giorno una meravigliosa
e nuova scoperta.
Il modo di ringraziare i ragazzi è stato
dolcissimo e professionale perché cortesemente si è resa disponibile a porre il suo
autografo sui libri e sui segnalibri degli
studenti. Sia la scrittrice che gli alunni sono
rimasti estasiati dal risultato
dell’iniziativa. Per Anhilda Hibrahimi è stata un’occasione
per constatare quanto è stato
recepito dai lettori, mentre i ragazzi hanno avuto la possibilità
di calarsi nel pensiero dell’autore del racconto e capire la
motivazione di determinate
scelte di percorso o di conoscere a fondo le peculiarità dei
personaggi.
I responsabili dell’iniziativa
si augurano che questo progetto possa avere seguito, in tempi
in cui la lettura è messa molto in discussione
ed è un settore sempre più soppiantato dalla
tecnologia. I dati sono molto preoccupanti.
Si parla addirittura di 4 italiani su 10 che leggono libri. E questi incontri mirano proprio
a risvegliare il piacere di una sana lettura,
soprattutto tra i giovani, la fascia che più si
discosta da questa attività e ignora i benefici
che da essa possono trarre. Un libro in fondo
deve appartenere più a chi lo legge che a
chi lo scrive.
Antonio Fiore III D - Liceo Scientifico