Presentazione alla 3 edizione

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Presentazione alla 3 edizione
Presentazione
alla 3a edizione
La storia dei tumori del sistema neuroendocrino diffuso costituisce uno dei capitoli
più affascinanti della patologia neoplastica. Questa storia è cominciata in modo assai modesto, sebbene per via di una brillante intuizione. Nel 1914, Pierre Masson,
allora un giovane assistente anatomopatologo all’Istituto Pasteur di Parigi, ebbe la
fortunata idea di studiare certi tumori di
piccole dimensioni, primitivi dell’appendice e dell’ileo che, forse perché così piccoli,
erano stati chiamati carcinoidi da Oberndorfer qualche decade prima. Dopo avere
accertato la loro argentaffinità e la somiglianza delle loro cellule con quelle delle
“cellule argentaffini” di Kultschitsky, localizzate alla base delle cripte di Lieberkuhn
della mucosa intestinale, Masson ebbe il
coraggio di dare al suo breve saggio sull’argomento, apparso nella “Presse Medicale”, il titolo breve ma definitivo di Tumeurs endocrines de l’appendice.
Ci vollero degli anni per realizzare il
fatto che tumori con caratteristiche simili
potessero insorgere non solo in altre sedi
del tratto digerente, ma praticamente in
tutti gli organi dotati di un epitelio, come
polmone, laringe, timo e colecisti. I tumori
in queste sedi, pur avendo molte cose in
comune, tuttavia non erano identici. Le
loro differenze furono dapprima correlate
con la topografia delle lesioni da Williams
in un classico articolo, e più tardi con il
tipo specifico della cellula endocrina che li
costituiva, stabilito in base al suo secreto
peptidico. Ne emerse una grande famiglia,
che venne giustamente considerata come
l’equivalente neoplastico del sistema neuroendocrino diffuso o paracrino, proposto
anni prima dall’anatomopatologo tedesco
Feyrter, considerato da molti il padre dell’endocrinologia gastroenterica.
Una svolta drammatica in questa saga
avvenne quando Pearse, il famoso istochimico inglese, arditamente propose non
solo una unicità fisiologica per il sistema
(ufficializzata con l’acronimo APUD) ma
anche una unicità embriologica, nel senso
che tutte queste cellule avrebbero avuto
origine dalla cresta neurale, indipendentemente dalla loro sede definitiva e il loro
specifico secreto ormonale. Un concetto
affascinante, forse un po’ troppo grandioso per resistere nel tempo. Esperimenti
con vari modelli, specialmente quelli embriologici fatti a Parigi da Nicolle Le
Douarin con la sua ingegnosa chimera di
pollo e quaglia, hanno praticamente distrutto l’ipotesi dell’origine neurale per
tutte le cellule endocrine del tratto gastroenterico, pancreatico e polmonare,
ammettendola solo per le cellule C della
tiroide (sebbene anche per queste siano
insorti dei dubbi in questi ultimi anni), ol-
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Presentazione alla 3ª edizione
tre che logicamente per le cellule neurali
dei plessi gastroenterici ed i melanociti.
Da questi esperimenti si deduce che non
vi è alcuna origine neurale per le cellule
neuroendocrine gastroenteropancreatiche,
bensì una genesi in loco, dalle stesse cellule basali che danno origine a tutte le altre
cellule epiteliali proprie di quella mucosa.
Un fatto che non nega però l’unicità fisiologica del sistema e l’impressione che qualcosa di neurale comunque ci sia nel suo
modo di funzionare e di utilizzare molecole a questo fine. È per questo che il nome
di sistema neuroendocrino rimane, ma facendo ora riferimento al fenotipo e alla
funzionalità e non più all’embriogenesi.
Il fatto che le cellule neuroendocrine
gastroenteropancreatiche abbiano un’origine endodermica comune alle altre cellule della mucosa in cui si trovano, dà una
spiegazione logica al fatto che la loro presenza sia così frequente come fenomeno
focale in tumori altrimenti tipici di quella
zona. Qualunque patologo che in passato
abbia fatto colorazioni argirofile o che al
presente esegua colorazioni immunoistochimiche per cromogranina o sinaptofisina
nei più banali adenocarcinomi gastrici, intestinali o pancreatici, ha avuto occasione
di stupirsi nel trovare non di rado una co-
spicua popolazione neuroendocrina in
questi tumori. Questo riscontro ha purtroppo complicato molto gli schemi classificativi. I limiti fra i “veri” tumori neuroendocrini e gli adenocarcinomi con una
componente neuroendocrina non sono più
netti come una volta, e i tentativi di nuove
classificazioni hanno ancora qualcosa di
artificiale e provvisorio. Ma c’è qualcosa
che va al di là dell’embriologia e della nosologia, e che per il clinico costituisce la
domanda più importante: che significato
ha il riscontro di differenziazione neuroendocrina in un carcinoma dal punto di
vista prognostico e terapeutico? È un fattore determinante della storia naturale o
solo un fenomeno secondario e irrilevante
che è stato troppo enfatizzato dai patologi
perché appare così spettacolare con le loro
tecniche? Costituisce una indicazione per
un tipo specifico di terapia o no? Queste
sono alcune fra le importanti domande
che questo splendido libro, alla cui stesura
hanno collaborato i massimi esperti italiani, pone al lettore e alle quali tenta di rispondere.
Prof. Juan Rosai
DIPARTIMENTO DI ANATOMIA PATOLOGICA,
ISTITUTO NAZIONALE PER LO STUDIO
E LA CURA DEI TUMORI, MILANO
Prefazione
alla 3a edizione
Anche se mi viene riconosciuta una buona
dose di fantasia, è comunque difficile trovare qualcosa di assolutamente originale
per presentare la terza edizione di un manuale chiamato a trattare un argomento
per il quale sono ormai stati versati fiumi
di inchiostro per dire quasi tutto.
Un manuale nato sotto il segno della
fortuna. La prima edizione uscì quando i
tumori neuroendocrini digestivi rappresentavano ancora una patologia di “nicchia”, di dubbio interesse scientifico e di
improbabile successo editoriale. Il libro
andò letteralmente a ruba.
La seconda edizione non si fece attendere molto, soddisfando l’attesa di non
pochi cultori della materia e dando a noi
conferma che il lavoro, fino a quel momento, era stato condotto bene. Talmente
bene, che oggi mi viene chiesto dalla Casa
Editrice Ambrosiana di curare la nuova
edizione di un testo che col tempo è diventato un vero e proprio cult nel suo genere.
Anche questa volta, l’obiettivo che ci
siamo posti è di fornire al lettore uno strumento di lavoro completo; 2000 voci bibliografiche, l’approfondimento di nuovi
argomenti (fra cui il trapianto di fegato e
la terapia radiometabolica) e soprattutto
la scrupolosa quanto indispensabile revisione critica di tutto il testo, impreziosito
da un nuovo progetto grafico.
La conferma della precedente linea editoriale, indirizzata a esaurire ciascun argomento nello spazio di un solo capitolo,
rende più semplice la consultazione di un
manuale destinato a confermare una delle
principali regole dello scrivere, avere qualcosa da comunicare. Pensiamo che questo
sia davvero importante, in un’era in cui
l’informazione on line offre di tutto e di
più, col rischio di ritrovarsi ad annegare,
piuttosto che a navigare, fra le onde di sitispazzatura che poco o nulla hanno da dire.
Crediamo, con una punta di motivata
presunzione, di essere riusciti anche questa volta a proporre qualcosa di utile, condividendo il risultato coi nostri lettori e
con chi ha avuto il merito di incoraggiare
questo oneroso progetto.
E allora, ancora per una volta, buona
lettura.
Fernando Cirillo