IL FILM La scheda La vicenda Il genere OLTRE IL FILM La grande

Transcript

IL FILM La scheda La vicenda Il genere OLTRE IL FILM La grande
LA GRANDE GUERRA
IL FILM
●
La scheda
●
La vicenda
●
Il genere
OLTRE IL FILM
●
La grande guerra al cinema
●
“Letterati al fronte”
●
“Un illetterato al fronte”
LINKS
APPENDICE
●
●
Guerra “all'italiana”, intervista a Mario Monicelli”
“Monicelli e il milite noto”
SCHEDA DEL FILM
Regia: Mario Monicelli
Sceneggiatura: Age & Scarpelli, Vincenzoni, Monicelli
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Scenografia: Mario Garbuglia
Costumi: Danilo Donati
Musica: Nino Rota
Montaggio: Adriana Novelli
Prodotto da: Dino De Laurentiis Cinematografica
Luogo e anno: Italia; 1959
Durata: 135'
PERSONAGGI PRINCIPALI E INTERPRETI
Oreste Jacovacci: Giovanni Busacca: Costantina: Bordin: Capitano Castelli: Alberto Sordi
Vittorio Gassman
Silvana Mangano
Folco Lulli
Bernard Blier
LA VICENDA
Siamo nel 1916, il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), ed il milanese
Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) sono due scansafatiche che fanno di
tutto per evitare di partire per il fronte. I due si incontrano una prima volta
quando Oreste raggira Giovanni sottraendogli dei soldi con la promessa di
farlo riformare. Successivamente, falliti tutti i tentativi di imboscarsi, i due si
ritrovano arruolati e mandati al fronte. Nonostante l'iniziale rancore di
Giovanni, tra loro nasce un'intensa amicizia, cementata soprattutto dalla
comune lotta per sopravvivere il meglio possibile nelle difficili condizioni in cui
si trovano tutti i soldati al fronte.
Insieme i due vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce
forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino
un'avventura con una prostituta (Silvana Mangano). Pur trovandosi spesso in
circostanze che rivelano la loro disastrosa ingenuità i due sono maestri
nell'evitare le grane, piccole o grandi che siano. e così riescono a farla franca
tutte le volte.
Partecipano a tutte le vicende belliche, vivono la disastrosa ritirata dopo
Caporetto e sono fra le truppe che tentano di resistere all'avanzata austriaca
lungo la linea del Piave.
Le forze armate italiane affrontano il nemico con gravi sforzi e subendo
numerose perdite. Incaricati di portare un messaggio, Gianni ed Oreste si
distaccano dalla loro squadra sulla via del ritorno e, perdutisi, cercano riparo
in un casolare, dove vengono individuati da un ufficiale austriaco che li
cattura scambiandoli per spie. Il colonnello nemico promette che li salverà se
riveleranno alcune informazioni decisive per la battaglia in corso. I due
inizialmente decidono di parlare per salvarsi, ma poi il colonnello austriaco
dice la frase sbagliata e proprio l'arroganza dell'ufficiale farà venir fuori la
dignità dei due italiani.
È Gassman il primo a reagire: "... visto che parli così, mì a tì te disi propri un
bel nient, faccia di merda...".
Saranno entrambi fucilati, portando con sé i segreti da cui dipende la vittoria
degli Italiani.
LA COMMEDIA ALL'ITALIANA
“Commedia all'italiana” è il termine
con il quale viene indicato un filone
cinematografico nato in Italia negli
anni cinquanta e sessanta del
Novecento.
Più
che
un
genere
dalle
caratteristiche ben definite, come
potrebbero essere il western o il
thriller, il temine può essere utilizzato
per indicare un periodo in cui in Italia
venivano prodotte principalmente
commedie brillanti, che avevano in
comune però un approccio satirico ai
cambiamenti in atto nell'Italia del
periodo e una costante amarezza di
fondo che stemperava sempre i
contenuti comici.
Le principali ragioni di successo delle ”commedie all'italiana”
sono probabilmente da rintracciare sia nella presenza di una
intera generazione di grandi attori, con la loro capacità di
incarnare vizi e virtù degli italiani dell'epoca, sia nell'attento
lavoro di registi e sceneggiatori, che inventarono un vero e
proprio genere, completamente nuovo, riuscendo a trovare
prezioso materiale per i loro film fra le pieghe di una società in
rapida evoluzione e dalle molte contraddizioni.
Pur con i limiti connessi alla comune
appartenenza di classe di gran parte di autori e
spettatori del genere – quella piccola e media
borghesia che spesso si identificava con i
personaggi rappresentati, mostrandosi fin
troppo indulgente con i loro vizi e stemperando
così gli intenti satirici delle pellicole – la
commedia all'italiana probabilmente è stata il
genere che meglio ha dato conto
dei
cambiamenti in corso nella società italiana
dell'ultimo mezzo secolo, conseguendo spesso
esiti mirabili anche sul piano artistico.
Rappresentanti principali tra gli attori sono indiscutibilmente
Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Ugo
Tognazzi, Raimondo Vianello, Nino Manfredi, e, qualche anno
più avanti, Giancarlo Giannini, Claudia Cardinale, Monica Vitti,
Sofia Loren, Stefania Sandrelli, oltre a un'infinità di caratteristi.
Tra i registi, oltre a Germi, vanno ricordati Mario Monicelli, Luigi
Comencini, Steno, Vittorio De Sica ,Antonio Pietrangeli, Nanni
Loy, Lina Wertmuller, Ettore Scola, Luigi Zampa e Dino Risi,
A buon diritto inventore della
“commedia all'italiana” può
essere considerato proprio
Mario Monicelli, ecco come il
regista definisce il genere in
una sua intervista di qualche
anno fa:
La commedia “all’italiana” fu chiamata così, per disprezzo,
dai critici e veniva fuori da un film bellissimo di Germi,
Divorzio all’italiana, in cui si raccontava una truffa: un uomo
faceva in modo di essere tradito per uccidere la moglie e fare
quello che gli pareva. Ebbene la commedia all’italiana è
proprio questo: tratta argomenti che sono drammatici,
qualche volta tragici, con umorismo, con satira. Usa la satira
e il grottesco, ma gli argomenti sono sempre drammatici: è la
maniera di trattarli che provoca questa “comicità” che
sappiamo fare solo in Italia e che è una cosa che viene da
molto lontano, che non abbiamo inventato noi nel
dopoguerra. [...] la commedia dell’arte fa ridere sempre
giocando sulla miseria, sulla fame; Arlecchino è servo non di
uno, ma di due padroni. Questa è la commedia all’italiana,
che forse viene da ancora più lontano, dalle atellane, dal
teatro romano, da Plauto: un teatro fatto di truffatori, di servi
che rubano, di bisogni umani.
LA GRANDE GUERRA AL CINEMA
NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
Interpreti: Lew Ayres, Louis Wolheim
ORIZZONTI DI GLORIA
Regia: Lewis Milestone
Interpreti: Kirk Douglas, Ralph
Meeker, Adolphe Menjou
1930 - Bianco e Nero
Regia: Stanley Kubrick
Il film segue abbastanza fedelmente il
capolavoro di Erich Maria Remarque dal
titolo omonimo e riesce perfettamente a
catturare tutta la tragicità e l’angoscia
espressa nel romanzo.
1957 - Bianco e Nero
ADDIO ALLE ARMI
Interpreti: Rock Hudson, Vittorio De
Sica,Alberto Sordi, Jennifer Jones
Regia: Charles Vidor
1957 - Colore
Dal celebre romanzo di Hemingway che,
all’inizio della sua carriera di scrittore, si
trovava proprio di stanza sull’Isonzo, a
seguito delle truppe italiane, in qualità di
autista volontario della Croce Rossa.
Inizialmente vietato dalla censura
francese, il film svela la natura di
"macchina logica" della guerra e
dell’esercito, il loro carattere di
meccanismo impermeabile a qualsiasi
infiltrazione di buon senso.
UOMINI CONTRO
Interpreti: Gian maria Volonté,
Giampiero Albertini, Mario Feliciani,
Regia: Francesco Rosi
1970 - Bianco e Nero
Liberamente ispirato al romanzo di
Emilio Lussu "Un anno sull'Altipiano",
si tratta di un lungometraggio di chiara
impronta pacifista e antiautoritaria, che
mette alla luce la follia della guerra.
LETTERATI AL FRONTE
Alla prima guerra mondiale parteciparono anche numerosi intellettuali italiani. È
interessante leggere la loro testimonianza, nella forma del diario, del romanzo, della
poesia oppure del pamphlet politico.
Si tratta di documenti preziosi per comprendere la qualità e l'intensità della partecipazione
al conflitto da parte di una categoria che, per sua stessa natura, era portata a riflettere
sugli eventi ai quali partecipava.
Si tratta di una produzione molto diversificata, che tuttavia presenta tratti comuni.
Innanzitutto si trova in queste pagine una descrizione dall'interno degli aspetti sociali della
guerra: l'incontro e lo scontro delle provenienze geografiche, dei dialetti, dei mestieri; la
divisione di classe rispecchiata fedelmente dalla rigida gerarchia dell'esercito; la durezza
della vita nelle trincee e la lotta per la sopravvivenza quotidiana; il formarsi spesso di una
solidarietà che nasceva dalle difficili condizioni di vita sofferte quasi da tutti allo stesso
modo.
In secondo luogo, si tratta di fonti utilissime per capire le motivazioni della partecipazione
alla guerra da parte di un ceto intellettuale che da sempre si era considerato separato
dalla nazione e che aveva visto nella letteratura un'attività fine a se stessa, separata dalla
vita e non modificabile dagli eventi esterni. I motivi che spingono a partire per il fronte
sono spesso estranei alla letteratura, ma anche alla politica: in genere si tratta della
volontà di far parte del corpo nazionale, di riallacciare solidarietà spezzate, di vivere per la
prima volta veramente condividendo uno sforzo collettivo. La guerra diventa una sorta di
catarsi, di riscatto dalla propria esistenza borghese, attraverso il contatto con gli umili. La
guerra come mezzo per restituire dignità ad una vita altrimenti vuota, senso ad una
quotidianità scialba.
Indipendentemente dalle motivazioni con cui si va in guerra, però, nella maggior
parte dei casi l'insegnamento che si trae dall'esperienza bellica è lo stesso e la
riflessione sulla guerra si concentra sull'orrore per l'incredibile massacro,
sull'insensatezza della disciplina militare, sull'ignoranza diffusa delle finalità del
conflitto, sulle prevaricazioni odiose.
Non mancano però posizioni diverse: se la maggior parte dei letterati scopriva nelle
trincee la solidarietà con i propri simili, c'era anche chi viveva la guerra come pura
esperienza stetica. È il caso di Filippo Tommaso Marinetti: ciò che lo attrae della
guerra sono la velocità futurista, i rumori che diventano onomatopee, la possibilità di
giocare, rompendo le regole costituite e facendo valere il proprio coraggio,
l'esplosoione erotica favorita dalle condizioni di vita eccezionali. Ecco allora che i
combattimenti diventano amplessi e le macchine da guerra “alcove d'acciaio”.
LETTERATI AL FRONTE
Poi sentiamo la danza furibonda e il ta-ta-ta-ta-tà capriccioso, spietato, ironico, femminile della mitragliatrice S.
Etienne che, sei metri a destra, sputa come una andalusa fuoco di passione e garofani rossi dal suo bacone
mascheratio di fogliami. È lei la leggendaria Dama al Balcone della Brigata Casale. [...] La bella Dama d'acciaio
respira golosamente l'eccitante miscela diodori notturni: vaniglia, violette, acacie e menta selvaggia, tutti
pepati dall'odore aspro dominatore della balistite. Sembra balllare pazza di gioia la sua strana danza a schiena
curva. Fumano i suoi capelli sciolti. Il mitragliere le stringe i fianchi e l'ombra ingigantita della coppia bizzarra
danza [...] Ben lontano dai Bergson seduti nelle cretine poltrone universitarie trovo nel momento più pericoloso
d'una battaglia la soluzione di molti problemi che i filosofi non potranno mai scoprire nei libri, poiché la vita non
si svela che alla vita. Il segreto amplesso del passato e del futuro nella stesa coscienza si rivela a coloro che
tutto il passato hanno vissuto, sudato, pianto baciato, morso e masticato e che vogliono fra le carezze o le
gomitate della morte vivere, baciare,masticare e soffrire il loro futuro.
F. T. Marinetti, Alcova d'acciaio
Hanno detto che l'Italia può riparare, se anche manche questa ocasione che le è data; la potrà
ritrovare.Ma noi, come ripareremo? Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino.
[...] Perchè eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano
trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice. [...] Purché si vada! Dietro di me
son tutti fratelli quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene. Mi contento di quello
che abbiamo in comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare
insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo,
per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore goccia a goccia
dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci
sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza
entusiasmarsi; è così naturale fare quello che bisogna.
R. Serra, Esame di coscienza di un letterato
“Se non hai paura – disse il generale Leone rivolto al caporale – fa quello che ha
fatto il tuo generale. Signor sì – rispose il caporale. E, appoggiato il fucile a terra
montò sul mucchio di sassi. [...] Bravo! - gridò il generale – ora puoi scendere.
Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e
cadde su di noi. Io mi curvai su di lui [...] Anche il genrale si curvò. I soldati lo
guardavano con odio. È un erore – commentò il gnerale - Un vero eroe. Quando
egli si drizzò, i suoi occhi, nuovamente, si incontrarono con i miei. Fu un attimo.
In quell'istante mi ricordai d'aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al
manicomio della mia città, durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro
professore di medicina legale”.
E. Lussu, Un anno sull'altipiano
“UN ILLETTERATO AL FRONTE”
“Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora
provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura
domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il
padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e
senza penzare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da
campare e per darece ammanciare”.
Così comincia l’autobiografia postuma di Vincenzo Rabito, contadino semianalfabeta, nato a
Chiaramonte Gulfi (Ragusa) nel 1899.
Chiuso nella sua stanza dal 1968 al 1975 Vincenzo Rabito ha scritto, utilizzando una vecchia
Olivetti, più di mille pagine, senza margine superiore ne inferiore e inserendo, come punti di
interpunzione, il punto e virgola dopo ogni parola. Il pubblicato è di circa 400 pagine. Rabito ha
scritto in una lingua sicul-italiana, insomma in una lingua ammiscata fra l’italianu e il sicilianu.
Nel suo diario racconta la sua vita rocambolesca, la prima e la seconda guerra mondiale, il
fascismo, l’emigrazione e la storia della Sicilia, il brigantaggio, il contrabbando, la fame, la povertà,
l’arte di arrangiarsi, le speranze, i sogni, tutte le sue avventure, le sue esperienze, le sue peripezie
Rabito è stato, quindi, un ragazzo del 99, uno di quei desgraziate strappati dalle famiglie, dai
campi, dai paesi, e mandati, dopo la disfatta di Caporetto, a combattere la prima guerra mondiale
sul Piave. A soli 18 anni, insieme a tanti suoi coetanei, Rabito incontra dunque la "Grande Storia",
e la racconta così come l'ha vissuta: con disincanto, mescolandovi le mille storie personali. Così la
prima guerra mondiale sul Piave è spogliata di ogni retorica, cinico e disincantato Vincenzo pensa
solo a dormire e mangiare. L’orrore dell’evento emerge privo di enfasi nel momento in cui Rabito
ricorda di essere stato decorato perché ammazzava come un vero assassino. È moderatamente
felice della vittoria, ma al terzo giorno senza rancio nota: "Abbiamo vinto la guerra ma abbiamo
perso il manciare". Poi passa molto tempo in Slovenia, a Gorizia, sul Piave a sotterrare morti e
ricostruire case fra l’ostilità degli italiani "liberati" dalla guerra appena finita. Tornerà in Sicilia solo
nel 1922 e attraversando l’Italia assisterà ai disordini e ai moti sociali di quegli anni.
Poi c’è di nuovo la miseria, anche se è "salito su" il fascismo. Un certo Ignazio Patata pare che lo
raggiri: Vincenzo si trova come camicia nera in Libia, poi in Abissinia. Non se ne dispiace troppo:
"perché se all’uomo di questa vita non ci incontra aventure non ave niente derracontare". Tornato
al paese trova moglie e non smette più di biasimare il giorno in cui si è deciso al grande passo. Nel
luglio del ’43, mentre lavora come fattore nel mulino di Mazzaronello gli giunge la notizia che a
Gela sono sbarcati gli americani. Subito viene a sapere che questi hanno liberato i mafiosi dalle
galere e che ci sono incendi nei municipi per bruciare "le carte". Lui stesso si dà alla borsa nera,
sostiene e insieme teme l’esercito di liberazione della Sicilia, ha a che fare col banditismo e, negli
anni Cinquanta, trova un posto da cantoniere grazie a raccomandazioni e raggiri politici. Lui si
destreggia e si arrangia sempre fra tedeschi e americani, fra mafiosi e carabinieri, fra contrabbando
e legalità. Solo con la suocera e la moglie non ce la farà mai.
«È un capolavoro assoluto dice la curatrice Evelina
Santangelo - Oltre alla
straordinarietà
dei
fatti
narrati, il punto di forza della
autobiografia è l'invenzione
di una lingua originale, che
non somiglia a nessuna altra
sperimentata prima. Parole
siciliane e italiane, talora
trasfigurate, per raccontarsi.
Non c´è nulla di artificioso,
ma solo la necessità di
trovare un modo espressivo
per rievocare i fatti vissuti.
Ne scaturisce un vigore che
né la lingua comune né il
siciliano letterario e cinematografico
utilizzati
finora
possiedono
appieno.
Io
definisco questo impasto, dal
nome del suo autore,
"rabitese"».
“UN ILLETTERATO AL FRONTE”
Così, ci hanno portato nella provincia di Verona. Recorso che erino le prime ciorne del
settempre. [...] E tutte noi ci abbiamo quardate in faccia sentendo che erimo nella “zona
di querra”. Ni ha cominciato la paura. E comincianto da me, diceva: “Ma allora siammo in
querra!?” [...]
E così, il bravo cenerale di bricata ci ha detto: - Ragazze del 99, fate attenzione che
questa notte si parte per la prima linia. E quanto siammo lì, non ci antiammo per stare
bene o pure per lavorare e stare bene, ma ci antiammo per un solo scopo, per defentere la
nostra Madre Patria. [...]
E così, amme, tutta la paura che aveva mi ha passato, che antava cercando li morte magare
di notte, che deventaie un carnefice. Impochi ciorne sparava e ammazzava come uno
brecante, no io solo, ma erimo tutti li ragazze del 99, che avemmo revato piancendo,
perché avemmo il cuore di picole, ma, con questa carneficina che ci ha stato, deventammo
tutte macellaie di carne umana.
Così, avemmo visto milliaia di ferite che credavino e correvino come li pazze, con il
tando dolore che sentevino, poverette, e ce n'erano che moreva nella barella e mentre che
correva. [...]
E poi che li austiece per 2 ciorne non ci l'hanno voluto fenire più di terare cannonate
sopra Mont Fiore. E per tre ciorne fuommo abandunate del Padre Eterno, senza rancio e
senza dormire, perché li mule che dovevino portare la spesa erino morte pure, e poi che
la strada era tutta voltata sotta e sopra con li cannonate. Ed erimo tutte strapate e
piene di fanco. E il nostro elimento era la bestemia, tutte l'ore e tutte li momente,
d'ognuno con il suo dialetto: che butava bsteme alla siciliana, che li botava venite, che
le butava lompardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie
era il vero conforto.
Vincenzo Rabito, TERRA MATTA, Torino 2007
LINKS
Altre informazioni sul film
http://it.wikipedia.org/wiki/La_grande_guerra
Siti sulla Prima Guerra Mondiale
http://www.grandeguerra.com/
http://www.lagrandeguerra.net/
http://www.primaguerramondiale.it/
http://it.wikipedia.org/wiki/Prima_guerra_mondiale
Un sito dedicato alle rappresentazioni artistiche della Prima Guerra Mondiale (in inglese)
http://www.art-ww1.com/gb/index2.html
MONICELLI: GUERRA “ALL'ITALIANA”
a cura di Daniela Basso
Come è nata l’idea de La grande guerra?
Da un soggetto che mi ha presentato il figlio di Cervi e che era stato scritto da
Vincenzoni, il quale l’aveva ripreso, anzi “fiutato”, da un racconto di Guy de
Mauppassant, che s’intitola Deux amis. La storia ripercorre la guerra del 1870, tra
Napoleone III e la Prussia. Il soggetto mi piacque molto e mi misi in contatto con
Vincenzoni per farlo. Lui lo vendette a De Laurentiis, che volle farne un film e
scelse me come regista e Sordi e Gassmann, che avevano un contratto con lui, come
protagonisti.
Perché ha voluto rappresentare la guerra?
Io sono sempre stato antifascista: ho avuto la fortuna di esser nato in una famiglia
antifascista. Mio padre era giornalista, ex-direttore dell’Avanti, aveva fatto il
corrispondente di guerra, aveva diretto dei giornali e, in seguito, era stato cacciato,
perché aveva scritto degli articoli contro il fascismo. In casa mia c’era questo
risentimento verso il fascismo, era il mio ambiente naturale. Io sono nato nel 1915 e,
quando avevo 3 o 4 anni e la guerra stava per finire, vedevo mio zio che ogni tanto
tornava a casa in licenza e si metteva a parlare con mio padre, che già faceva il
corrispondente di guerra. Tutta la mia famiglia era contro il fascismo, quindi sono
cresciuto in questo clima e, durante gli anni Trenta, ho avuto la percezione che di
tutta questa guerra, di cui sentivo raccontare, se ne stesse facendo un mito, dal
fascino incredibile. Sapevo che cosa fosse la guerra e il fascismo ne era
l’esaltazione: esaltazione delll’Italia, della guerra d’indipendenza, della conquista di
Trieste, dei soldati italiani accorsi alle armi contro il nemico austriaco. Beh, non era
vero niente: era tutto falso e io volevo dirlo. Non lo si poteva fare durante il
fascismo, ma caduta la dittatura e perduta la guerra, che anch’io ho combattuto,
volevo in qualche modo raccontarla, cancellare questo “mito”, questo “tabù”, anche
perché c’erano dei libri di Lussu che raccontavano come erano andate veramente le
cose. I suoi libri non circolavano molto, ma io li avevo letti, perché a casa mia se ne
parlava.
Quindi, quando finalmente ho potuto, ho raccontato la mia versione, in termini
graffianti e umoristici. Io ho sempre cercato di raccontare tutto quello che volevo in
termini umoristici, qualunque ne fosse l’argomento. Così mi misi a tavolino,
insieme a Vincenzoni, Age e Scarpelli, “rubando” un po’ qui un po’ lì, situazioni,
personaggi… specialmente da Lussu, dal quale sono andato con l’intenzione di
ripagarlo, perché ci aveva fornito del materiale, ma lui era così divertito dalla
commedia all’italiana – che all’epoca era considerata “spazzatura” – che non volle
niente. Poi quando uscì la notizia che avevo fatto un film sulla grande guerra
mondiale usando la commedia, che io e i miei amici-compagni di nefandezze
c’eravamo uniti per sfatare questo “mito”, questo tabù, allora ci fu la rivolta della
stampa italiana, all’avanguardia della retroguardia.
A un certo punto sembrava che la cosa stesse per saltare e invece De Laurentiis
tenne fede alla sua volontà: il film si fece, ebbe un successo clamoroso e ancora
oggi se ne parla. Finalmente si parla in maniera diversa di quello che è accaduto: di
Trieste, della guerra d’indipendenza; se ne parla per come se ne deve parlare, come
di una truffa, di una tragedia. Alcuni milioni di giovani, di ragazzi analfabeti –
perché l’Italia del 1915 era per il 70% fatta di analfabeti – furono trascinati sotto la
neve, sotto la pioggia, sotto il sole cocente, sotto le bombe, malnutriti, male armati,
mal equipaggiati, mal guidati e sono rimasti lì. Ebbene, quando milioni di giovani
stanno insieme, anche se c’è la guerra, nascono delle cose: o giocano o pensano alle
fidanzate… ma comunque nascono delle cose che sono divertenti e tenere. È così
che volevo raccontare la guerra e così, alla peggio, siamo riusciti a fare.
Sordi e Gassman nel film ripetono “amor di patria e disprezzo del pericolo” e
anche altri episodi ricordano la retorica fascista.
La retorica è qualcosa di fascista. Da quando sono nato a quando è caduto il
fascismo sono vissuto in un contesto, in un’ambiente, che era antiretorico, perché
era antifascista.
Ancora oggi c’è la guerra, ancora oggi la retorica per rappresentarla è sempre
la stessa. Si parla di “eroi”, di “caduti”.
La guerra è sopraffazione, occupazione, affermazione dell’individuo. La guerra è
incivile, è solo prevaricazione: trovare la maniera di migliorare la propria
condizione a scapito di quella degli altri, occupando terre, popolazioni,
schiavizzando le persone, così come hanno fatto l’Inghilterra o il popolo romano.
Sopraffare tutti e in questo modo conquistare l’autorevolezza di continuare a
sottomettere. Ora tocca agli Stati Uniti: sono diventati padroni del mondo perché
“sono stati bravi, perché hanno combattuto, perché hanno rischiato”. Adesso che
sono padroni del mondo, fanno sì che gli altri facciano quello che vogliono loro.
Nella sua commedia c’è uno sguardo pieno di tenerezza e di pietà per i suoi
personaggi.
Sono tutti così, sono gli stessi de I soliti ignoti o i componenti de L’armata
Brancaleone: sono gli oppressi, quelli che vogliono riscattarsi e non ci riescono mai;
quelli che sono costretti a essere vigliacchi e, quando non ne possono fare a meno,
non sono nemmeno vigliacchi, ma se lo sono, non si possono accusare. Sono i
sopraffatti e siccome i sopraffatti sono la grande maggioranza sono sempre loro, che
vengono a fare la guerra, che cercano di arrangiarsi rubando e che non riescono
nemmeno a fare quello.
Commedia ma non solo, lei ha sempre trattato temi sociali di grande
importanza e attualità.
La commedia “all’italiana” fu chiamata così, per disprezzo, dai critici e veniva fuori
da un film bellissimo di Germi, Divorzio all’italiana, in cui si raccontava una truffa:
un uomo faceva in modo di essere tradito per uccidere la moglie e fare quello che
gli pareva. Ebbene la commedia all’italiana è proprio questo: tratta argomenti che
sono drammatici, qualche volta tragici, con umorismo, con satira. Usa la satira e il
grottesco, ma gli argomenti sono sempre drammatici: è la maniera di trattarli che
provoca questa “comicità” che sappiamo fare solo in Italia e che è una cosa che
viene da molto lontano, che non abbiamo inventato noi nel dopoguerra.
continua
MONICELLI: GUERRA “ALL'ITALIANA”
a cura di Daniela Basso
A quando risale questo lato grottesco, dissacrante?
Certo non l’abbiamo inventato io, Risi o Germi. È sempre esistito. Ad esempio
Boccaccio: nel Decamerone ci sono dei racconti, delle novelle, che sono
addirittura feroci; però sono divertenti, hanno il tratto dell’umorismo. Sa qual è il
lato grottesco del Decamerone: c’è gente che, chiusa in una bellissima villa,
mangia, beve, dorme, fa l’amore e racconta storie, mentre fuori c’era la peste e la
gente muore. La mandragola è una farsa turpe; la commedia dell’arte fa ridere
sempre giocando sulla miseria, sulla fame; Arlecchino è servo non di uno, ma di
due padroni. Questa è la commedia all’italiana, che forse viene da ancora più
lontano, dalle atellane, dal teatro romano, da Plauto: un teatro fatto di truffatori, di
servi che rubano, di bisogni umani.Dissacrare attraverso l’umorismo è un segno
specifico secondo lei della cultura italiana?
Ci viene naturale. Gli altri dicono: ma come fate a ridere di questo? Perché ci
viene naturale, perché la morte diventa un tema di grande comicità, la fame lo
stesso, il dolore, tutto può diventarlo, se lo si sa trattare. Se uno lo ha dentro, lo sa
fare.
[...]
Lei ha avuto molta attenzione per l’attualità, chi sono oggi i registi che hanno
questa stessa attenzione?
Ci sono, ma qui nasce un altro problema: il cinema non è solo una forma d’arte,
seppure minore, è un arte minore applicata all’industria; se non c’è un’industria
forte alle spalle, il cinema non si fa. Ovviamente, finché c’è quest’industria, esiste
anche un’attività culturale, cinematografica, che fornisce talenti, scrittori, attori,
scenografi, ovvero tutto il caravan-serraglio di cui ha bisogno il cinema per fare
delle cose che abbiano un minimo di valore. Quando non c’è alle spalle l’industria,
la cosa diventa impossibile. Negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui c’era la
commedia all’italiana, con Germi, Risi, De Sica, Rosselini, Fellini, alle spalle
c’era un’industria che faceva trecento film l’anno, fra i quali tre o quattro potevano
essere dei capolavori. In quella stagione, il cinema americano entrò in crisi e
l’industria dello spettacolo, fatta nei teatri della Metro Goldwin Mayer o della
Columbia, venne messa in crisi dagli italiani, che non avevano bisogno di nulla di
tutto questo, perché facevano leva su una verità che non era solo nelle immagini,
ma nei rapporti tra le persone. Adesso, se un giovane vuole fare cinema, non trova
nemmeno le sale cinematografiche, perché sono occupate dai film americani, che
riscuotono grande successo.
Lei dice che la verità della commedia all’italiana si trovava nei rapporti tra le
persone, oggi i registi puntano l’attenzione sull’incapacità di questi rapporti.
Cosa è cambiato?
È cambiata la qualità della vita. Dopo la guerra, l’Italia ha avuto un momento che
credo non abbia mai avuto nella sua storia: per una decina d’anni gli italiani erano
fattivi, pieni di gioia, pieni di voglia di fare, non si lamentavano di nulla, erano
felici di vivere, di lavorare, di costruire, avevano la libertà, avevano finito la guerra
e quindi le cose si svolgevano in maniera molto concreta e gioiosa, ed erano vere.
Questa generazione, e non parlo solo del cinema, ha portato a un boom economico
e culturale: lì è stata la svolta che ci ha rovinato e che Pasolini, in maniera anche
troppo nostalgica, rimpiangeva. I giovani che sono nati dopo, e quindi i
sessantottini, che sono stati acculturati, hanno voluto, come sempre avviene,
rivoltarsi ai padri e si è imboccata una strada che era individualistica, di riflessione
su se stessi, di smarrimento, in cui si è perso il senso della collettività in cui
eravamo. Il cinema ad esempio: eravamo tutti amici, ci aiutavamo, io davo idee ad
altri sceneggiatori o registi, loro ne davano a me, non c’era competitività, tutti
lavoravamo, eravamo contenti, soddisfatti di quello che facevamo.
Poi è venuto il boom ed è finita, per cui i giovani si sono ritrovati soli. Nel cinema,
gli autori non avevano più la spinta: volevano solo contrastare i padri, non
volevano più fare il cinema; o meglio, volevano farne uno loro, ma il loro cinema
era di una realtà “personalistica”, non più aperta, ma chiusa in se stessa. Quelli che
avevano qualcosa da dire, una loro intelligenza, sono riusciti anche ad affermarsi –
vedi Bellocchio, Bertolucci, Moretti – però è un cinema che non ha nulla a che
vedere con quello nostro, che era un cinema complesso: il nostro cinema era fatto
di tanti personaggi, erano tante le persone, gli attori di cui avevamo bisogno. Loro
hanno fatto film sul proprio personale smarrimento e li facevano da soli: se li sono
scritti, interpretati, girati e rendendo tutto asfittico. Noi invece eravamo un gruppo:
il gruppo lavorava insieme e ci si aiutava l’un l’altro, in questo modo ci si
deresponsabilizzava o si ci responsabilizzava. Noi eravamo felici, mentre questi
sono degli infelici: hanno iniziato ad essere infelici e lo sono ancora adesso, ora
che le condizioni di certo non aiutano. Inoltre il cinema del dopoguerra non
riguardava unicamente l’amore; l’amore c’è, ma non è il punto centrale, è
secondario, i temi sono altri: sociali, economici o l’incomunicabilità, così come li
ha trattati Antonioni.
Che retorica oggi vorrebbe dissacrare?
La retorica del liberismo, dell’individualismo, del far sì che ognuno si arrangi, che
ognuno è padrone di sé stesso e chi è sconfitto peggio per lui, vuol dire che non ha
saputo vincere. Lo Stato non deve aiutare nessuno, anzi deve fare in modo di
eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono tra l’individuo che ha la forza e la
capacità di farsi da solo. Questa è una cosa, per esempio, assolutamente antiumana, feroce. È una cosa che bisogna combattere e che io combatto,
pacificamente, con la commedia. Coloro che praticano questa nuova retorica con
convinzione, gente convinta che bisogna far piazza pulita dell’italiano che chiede
aiuto – che muoia, ma non gli si facciano favori – adottano la filosofia generale di
chi è arrivato e dice “facciamo piazza pulita di quello che l’Italia è stata nei
secoli”, ovvero l’Italia del “o franza o spagna purché se magna”. Io ho una cultura
mia personale: sono per dare allo Stato le possibilità più ampie di aiutare il
cittadino. Pensi un po’, io sono comunista!
MONICELLI e il MILITE NOTO
di Elisa Uffreduzzi
Il confronto. In 50 anni di cinema, da La grande guerra a Le rose del deserto,
passando per L’armata Brancaleone, Mario Monicelli ha raccontato l’italiano in
guerra bilanciando umorismo e impegno. Cos’è cambiato e cosa è rimasto uguale in
mezzo secolo?
Realizzare un racconto che riguardasse un gruppo di soldati italiani sbattuti in mezzo
al deserto alla conquista della Libia, durante la seconda guerra mondiale. Un
racconto che rifuggisse però dalla mitizzazione, per ricercare una sorta di giustezza
della rappresentazione scenica: gli italiani infatti sono andati in guerra non “col petto
in fuori” – non è questa la loro indole, ci dice il regista – né da piagnucolosi… però
alla fine “si sono sempre arrangiati”.
Caratteristica del regista è una maniera di fare cinema – che è poi quella della
commedia all’italiana – basata sull’equilibrio tra comicità e impegno, alla ricerca di
un punto d’incontro tra cinema d’autore e istanze commerciali. Sono i modi della
farsa a fare da padroni nella sua filmografia, costituita da 65 apologhi, ognuno dei
quali di volta in volta ci fa prendere coscienza di un aspetto diverso dell’essere
italiani, tra senso critico e compiacimento patriottico.
In particolare, ad interessare il regista, tirando le somme della sua produzione,
sembra essere lo speciale modo di affrontare la vita dell’italiano: appunto “senza
petto in fuori, né piagnucolare”, proprio come va in guerra. “Come l’italiano
combatte la propria battaglia quotidiana”: questo è un po’ il leitmotiv della
filmografia di Monicelli. In Amici miei (1975) per restituirci il senso di questa presa
di coscienza sceglieva lo spirito goliardico dei quattro vecchi amici protagonisti;
della vita presa come perenne burla, per “stemperare” la paura del passato e del
futuro – come recita il Perozzi nell’ultimo monologo interiore. Ne I soliti ignoti
(1958) a simboleggiare il modus vivendi italico è “il furto perfetto e impossibile”,
più per paura del lavoro (inteso come emblema dell’affrontare la vita vera, fatta di
preoccupazioni e responsabilità) che per reale “spirito di delinquenza”.
Con quest’ultimo Le rose del deserto Monicelli torna però a raccontarci l’italiano in
guerra (la seconda guerra mondiale).
Lo aveva già fatto con La grande guerra (1959) e in certa misura con la saga di
Brancaleone (L’armata Brancaleone, 1966, seguito poi da Brancaleone alle Crociate,
1970), che ci racconta comunque una figura di guerriero italico. In queste tre
pellicole l’autore ricorre alla metafora militare per veicolare il caratteristico modo
italiano di combattere la propria battaglia quotidiana.
Ne La grande guerra (Italia/Francia 1959, b/n, 129’), con Alberto Sordi, Vittorio
Gassman e Silvana Mangano, un milanese e un romano finiscono nello stesso
battaglione dell’esercito, durante la prima guerra mondiale. Ad accomunarli è una
spiccata viltà in battaglia. Fino all’ultimo, sorprendente, atto di coraggio.
L’attenzione del regista si focalizza sul dettaglio contenutistico, tracciando tanti
bozzetti che, sommati, restituiscono l’immagine di un esercito straccione e
malandato, dove però c’è spazio per la solidarietà, l’amore e qualche volta il
coraggio. Il soggetto è tratto dal racconto di Maupassant Due amici.
Ne L’armata Brancaleone (Italia/Francia/Spagna 1966, col, 120’), con Vittorio
Gassman, Carlo Pisacane, Catherine Spaak e Gian Maria Volonté, una sgangherata e
improbabile compagnia di poveracci guidati da un altrettanto “traballante” cavaliere
(Brancaleone da Norcia), parte da Faleri alla volta di Aurocastro, nelle Puglie, dove
ad attenderli c’è un feudo, del quale vorrebbero impadronirsi, forti del possesso di
una pergamena imperiale. Dopo una serie di rocambolesche avventure incontrate
lungo il tragitto nonché all’arrivo nel feudo stesso, a salvarli dal rogo sarà l’eremita
Zenone, in nome della Guerra Santa.
Infine, ne Le rose del deserto (Italia 2006), con Giorgio Pasotti, Alessandro Haber e
Michele Placido, tratto dal libro Il deserto della Libia di Mario Tobino e dal brano Il
soldato Sanna in Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco, Monicelli narra le vicende
del Terzo Reparto della Trentunesima Sezione Sanità, spedito in Libia durante la
seconda guerra mondiale. Sullo sfondo di una guerra in realtà solo a tratti evocata,
l’autore traccia i contorni di un esercito ancora inadeguato a vent’anni di distanza
dalla prima guerra mondiale. Anche qui – nonostante l’intento dichiarato dal regista
di dare maggiore spazio al contesto – emerge prepotente la costruzione per piccoli
quadri, ritratti caratteristici a comporre l’atmosfera generale come in un puzzle.
In tutte e tre le pellicole protagonista è una compagnia di perdenti, di anti-eroi
tutt’altro che all’altezza della propria missione… eppure ogni volta, ciascuno in un
modo peculiare e poco ortodosso, ma pur sempre efficace, svolgerà il proprio
compito. Perché questo – ci dice il Maestro – è il modo italiano di battersi sul campo
della vita: non c’è reale prodezza, né d’altro canto autocommiserazione.
Magari un po’ di ostentata spavalderia – questa sì – come insegna la tradizione
plautina del Miles gloriosus. Così è per i due soldati de La grande guerra, pronti a
proporsi volontari per i battaglioni d’assalto solo per allontanarsi dal fronte con la
scusa del relativo corso di addestramento. Così è per Brancaleone, magnifica
versione medievale dell’anti-eroe plautino, valoroso cavaliere a parole, quanto
imbranato nella pratica militare. Così è per i soldati della Sezione Sanità accampati
nel deserto libico: prodighi nell’aiutare il prossimo, non si tirano mai in dietro di
fronte al loro dovere di medici… soprattutto quando si tratta della bella moglie di un
potente del luogo. Prontamente offrono il proprio aiuto, salvo poi rivelarsi inadeguati
all’occasione: come quando un oculista si trasforma magicamente in pediatra. Certo
poi però “si arrangiano sempre”…
De La grande guerra in Le rose del deserto ritroviamo la figura del soldato che scrive
alla propria amata in patria, la quale puntualmente si rivela non all’altezza delle
poetiche parole d’amore inviatele. Parimenti torna la figura del frate, seppure con
modalità diverse: più remissivo nel 1959, si fa più aggressivo nel 2006. Del resto
anche Brancaleone finiva per seguire un religioso. La spiritualità è dunque un
corollario della guerra, conseguenza questa del maggiore rischio di morte.
Di nuovo, in quest’ultimo film come in quello del 1959, soldati poco zelanti in
battaglia fanno da protagonisti, salvo poi redimersi in extremis con un’insospettabile
atto di prodezza, compiuto per una questione d’onore o comunque per un ideale da
salvaguardare.
continua
“MONICELLI e il MILITE NOTO” di Elisa Uffreduzzi
Ne La grande guerra era il dichiarato disprezzo per la loro vigliaccheria da parte dei nemici
austriaci a spingere i due protagonisti verso la morte, pur di evitare di tradire i compagni.
Ne Le rose del deserto è in certo qual modo di nuovo l’onore a spingere il comandante
(Alessandro Haber) in braccio alla morte. Difatti è per sottrarre all’avanzata nemica le lettere
d’amore della propria moglie, dunque per proteggere il proprio sentimento e in questo senso
la propria integrità di uomo, che nel finale torna sui propri passi, rimanendo così ucciso.
Anche ne L’armata Brancaleone il guerriero protagonista – stavolta per tutto il film – metteva
a repentaglio la propria vita per salvare l’onore – il proprio, di valoroso cavaliere (come
quando affronta un suo “collega” che non gli lascia il passo), o quello di una bella fanciulla.
Brancaleone da Norcia aveva inoltre per compagni di ventura ancora una volta personaggi
poco solleciti nel pugnare.
Di nuovo torna, sia nel ritratto della prima guerra mondiale che in quello della seconda o nelle
avventure di Brancaleone, il motivo del soldato che fantastica sulle fattezze femminili per
“tirare avanti” nella propria impresa. Ne La grande guerra le forme erano quelle di Silvana
Mangano nel ruolo della prostituta Costantina e quelle dell’irraggiungibile Francesca Bertini.
Per l’esercito della seconda guerra mondiale Monicelli modella la sagoma del soldato che si
sposa per procura; quella del comandante la cui principale occupazione è scrivere alla moglie
lontana; infine quella del giovane tenente-medico Salvi (Giorgio Pasotti), che “perde la testa”
per la moglie di un “signore” locale, finendo così per inimicare all’intero Reparto l’unico
alleato che aveva in terra straniera. Brancaleone sognava Matelda senza osare toccarla.
Tutte figure femminili fumose, oniriche, evocate quasi esclusivamente a parole e dunque
sfuggenti, ma sempre presenti nei sogni del soldato/guerriero protagonista di un’impresa
bellica, per dargli coraggio.
Il gioco linguistico funambolico dà colore a tutte e tre le opere cinematografiche: i vari dialetti
italiani contribuivano a caratterizzare protagonisti e figure di contorno, accompagnati dai
relativi luoghi comuni regionali ne La grande guerra; Brancaleone parlava una geniale forma
ibrida tra il latino e il viterbese; nel nuovo film il frate interpretato da Michele Placido
travolge la divisione medica dell’esercito e lo spettatore col suo torrenziale esprimersi in
dialetto siciliano, ricco di battute. Inoltre torna la macchiettistica caratterizzazione “regionaldialettale” dei vari militari, a suggerire una moderna Babele, nonché il fatto che la Morte è
poliglotta.
L’aspetto giocoso del linguaggio ricorda la saga surreale di Ubu roi di Alfred Jarry (1896),
opera teatrale che proprio sulle inusitate combinazioni del linguaggio previste dalla Patafisica
(“scienza delle soluzioni immaginarie” volta all’ironia sul pensiero accademico), basava la
parodia della tirannide.
Anche per i tre film qui esaminati c’è ogni volta un regime d’oppressione da sovvertire: una
monarchia, la dittatura fascista, il regime feudale; ciascuno dei quali per motivi diversi mette
di fronte al rischio della morte, che si tratti della conquista di un territorio per il cosiddetto
“bene superiore della nazione” o di un feudo del quale essere signori, per non essere dei
pezzenti senza identità in un altro. Inoltre il gioco parodico-linguistico è senz’altro volto a
destrutturare la mitologia del soldato a petto in fuori.
Francamente discutibile in Le rose del deserto è la trovata un po’ kitsch delle musiche odierne
che accompagnano momenti come l’arrivo dei signori libici nelle loro visite ai soldati. La
locandina del film ricorda la grafica dei titoli di testa e di coda de L’Armata Brancaleone, le
cui modalità “cartonate” di nuovo rievocano l’Ubu roi, nella messa in scena di Lugné-Poe
(con la collaborazione dello stesso Jarry) al Théâtre de L’Œvre (1896), per la figuratività
piatta funzionale alla parodia dei generi e dei contenuti narrati. Lì quel tipo di resa scenica
traduceva quella delle marionette, per le quali era inizialmente stato concepito questo dramma
grottesco. Per l’epopea di Brancaleone invece, l’immaginario “di cartapesta” appositamente
ricostruito grazie alla grafica dei titoli, nonché all’inventiva dei costumi (che “strizza
l’occhio” al costume tipico del samurai giapponese), è teso alla critica della visione
hollywoodiana del Medioevo: a petto in fuori e un po’ troppo inverosimilmente luccicante
(vedi The Adventures of Robin Hood, Usa 1938, di Michael Curtiz). Al contrario, se si
potesse riassumere in una sorta di mantra il pensiero dell’italiano medio, medievale e non,
questo reciterebbe più o meno così: «coraggio è: agire nonostante la paura».
Perciò niente busto proteso, sprezzanti del pericolo; né lacrime inutili. L’italiano d’ogni tempo
semmai “ci mette un po’” a rassegnarsi ad affrontare l’impresa che gli viene assegnata dalla
vita, ma poi “si rimbocca le maniche” e nonostante “la tremarella alle gambe” recita il suo
ruolo sulla scena. La soluzione visiva della nuova locandina vuole quindi richiamare alla
mente questo atteggiamento esistenziale. Atteggiamento del quale è emblematica una delle
ultime sequenze de La grande guerra: quando il romano soldato Jacovacci, pur gridando di
non voler morire perché è un vigliacco, si fa fucilare per non tradire i compagni.
Monicelli, intervistato, parla della sua nuova opera rivelandoci di essersi riproposto per
l’occasione un cambiamento di rotta nel linguaggio cinematografico, volendo trattare non più
dettagli o espressioni come in passato, ma grandi spazi; rinunciando a seguire gli attori in
modo particolare per definire in tal modo una sorta di gerarchia visiva tesa a privilegiare la
star, per costruire una vicenda di primi attori. Era questo il caso de La grande guerra, dove
emergevano con uno stacco molto netto rispetto alle figure di contorno, Gassman, Sordi e la
Mangano.
Nel 2006 il regista ci dice di aver tentato di tracciare – all’opposto – una vicenda collettiva, di
contesto, corale, fatta di ampi spazi. A questi suoi buoni propositi si potrebbe obiettare che
però anche per Le rose del deserto ha cercato tre grandi attori affermati, sui quali
principalmente puntare i riflettori: Giorgio Pasotti, Alessandro Haber e Michele Placido. Ha
poi fatto ricorso ad attori minori e non-professionisti solo per i ruoli secondari, di contesto
appunto, proprio come cinquant’anni fa. Inoltre non rinuncia alla dimensione affabulatoria del
bozzetto, della caratterizzazione del personaggio di tipo “macchiettistico” tipica della maniera
sua e della commedia all’ italiana in generale.
È però vero che come ne La grande guerra quando ci lascia orfani dei due soldati protagonisti,
così qui, alla morte del comandante nel finale, lo spettatore ha l’impressione che il film non
sia veramente finito. Gli rimane addosso una sensazione d’indefinito, di sospensione… la
domanda inespressa che lo incolla ancora per qualche attimo alla sua poltrona è: «e gli altri,
che fine fanno?». Segno che l’interesse della vicenda e quindi dello spettatore, non è centrato
esclusivamente sulle tre figure in primo piano, ma si è come espanso, disperso in tutto il
contesto, nel corso della narrazione. In questo senso di attesa dunque sta la dimensione
collettiva del film.
La regia in tutti e tre i casi evita accuratamente primo piano e primissimo piano televisivo,
preferendogli inquadrature meno ravvicinate come piano americano (inquadratura della figura
umana dalle ginocchia in su) e mezza figura (dalla vita in su), accanto a diverse misure del
piano d’insieme (comprensivo dell’ambiente); scelta questa, di nuovo funzionale ad una
visione collettiva. Nondimeno questo è valido per tutte e tre le pellicole.
Per La grande guerra il Maestro ricorreva al dettaglio (di oggetto) nelle inquadrature iniziali,
con sovrapposti i titoli di testa: si trattava ora di uno scarpone nel fango, ora della pentola del
rancio, ora di un bottone maldestramente cucito: metonimie della dura vita di guerra, a
delineare da subito il quadro situazionale generale.
Dunque, elementi costanti accanto a piccole varianti dello stile registico intervengono in tre
pellicole che raccontano come il modus vivendi italiano, dal Medioevo a oggi, non sia
cambiato.