la valle dei templi tra archeologia e paesaggio
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la valle dei templi tra archeologia e paesaggio
progetto scuola museo “la valle dei templi tra archeologia e paesaggio“ testi di Aurelio Burgio Giuseppe Barbera e Maria Ala foto in copertina di Giò Martorana regione siciliana assessorato bb.cc.aa. e p.i dipartimento bb.cc.aa. ed e.p. progetto scuola museo “la valle dei templi tra archeologia e paesaggio” testi di Aurelio Burgio Giuseppe Barbera e Maria Ala regione siciliana assessorato beni culturali ambientali e pubblica istruzione dipartimento beni culturali ambientali ed educazione permanente Agrigento 2008 Progetto Laura Cappugi Segreteria di redazione Patrizia Di Giovanni Progetto grafico Tommaso Guagliardo Copia omaggio - Vietata la vendita scheda cip Premessa Rosalia Camerata Scovazzo Presidente del Consiglio del Parco Fra le varie problematiche affrontate da Consiglio del Parco, un posto importante ha costituito il tema della didattica e dei servizi da offrire alle scuole, per il quale sono stati individuati diversi strumenti: dalla realizzazione di laboratori didattici, alla pubblicazione di una piccola guida fatta apposta per i bambini e, infine, all’attuazione del progetto Scuola-Museo finanziato dal Dipartimento Beni Culturali dell’Assessorato Regionale Beni Culturali e Ambientali sull’esercizio finanziario 2007, di cui questa piccola pubblicazione costituisce l’esito finale, mentre gli altri sono ancora in fase di realizzazione. Con il progetto Scuola Museo, che l’Amministrazione Regionale manda avanti, ormai, da diversi anni si intende, fra l’altro, offrire ai docenti strumenti efficaci per la conoscenza specifica del Parco e per la fruizione degli itinerari archeologici e naturalistici al suo interno. La varietà e la complessità culturale dei molteplici aspetti della Valle dei Templi ci hanno indotto a scegliere come prime tematiche di carattere generale da sviluppare sul piano didattico, quelle che costituiscono gli elementi fondanti del Parco stesso: l’ archeologia e il paesaggio. I due contributi - “Il contesto storico-topografico, il circuito difensivo, l’evoluzione urbanistica ed architettonica della città greca” e “Riscoprire il paesaggio agrario della Valle dei Templi tra miti, storia, letteratura e tradizione” – 3 redatti dagli stessi specialisti che hanno effettuato le lezioni, forniscono in maniera sintetica gli elementi fondamentali per la comprensione dei grandi temi culturali che rendono la Valle celebre in tutto il mondo. Ringrazio le Scuole e i Docenti che ci hanno voluto seguire in questo percorso, gli autori dei testi per i loro esaustivi contributi, la Direzione e gli Uffici del Parco che si sono adoperati per la realizzazione di questo progetto redatto dalla dott.ssa Laura Cappugi, che da anni si occupa di didattica per conto dell’Amministrazione Regionale, cui va il mio più vivo ringraziamento insieme alla dott.ssa Assunta Lupo, nostro referente presso il Dipartimento Beni Culturali, per la fiducia concessa. Il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento ha costituito un’area didattica con il preciso intento di richiamare l’attenzione e l’interesse della Scuola alla conoscenza della Valle e di stabilire rapporti continuativi di collaborazione con esse, nelle forme e nei modi possibili, per promuovere esperienze formative finalizzate alla conoscenza e alla fruizione del patrimonio archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi, che darebbero attuazione anche ad una forma di turismo scolastico di grande rilevanza. Nell’ambito delle proprie attività istituzionali dedicate alla didattica, ha organizzato un modulo formativo rivolto ai docenti delle Scuole di Agrigento e Provincia, che per la rilevanza del progetto e le sue peculiari finalità conferma la strategia di educazione ai beni culturali, caratteristica della Regione Siciliana. Destinatari di tale attività didattica sono stati circa 70 docenti, ripartiti tra scuole elementari, medie e superiori, visti come “mediatori”, anche nella verifica di aspettative, bisogni formativi e informativi, tra il Parco, gli educandi e le famiglie. I temi sviluppati nell’ambito di tale attività hanno riguardato l’archeologia e la storia di questo territorio, nonché gli aspetti paesaggistici, che costituiscono la secolare attrattiva di esso. La pubblicazione, oggi, degli argomenti trattati nel corso della suddetta attività, vuole essere un ulteriore contributo allo sviluppo dei rapporti ParcoScuola, nella consapevolezza che possa costituire un utile strumento di conoscenza della Valle e di suoi beni. Pietro Meli Direttore del Parco 5 Introduzione Laura Cappugi Chi opera nel settore della cultura e dell’educazione è perfettamente consapevole del forte bisogno culturale da parte della società civile, che oggi reclama sempre di più una condivisione della conoscenza delle tracce e dei documenti materiali del proprio passato. L’archeologia spesso viene percepita da non pochi cittadini come una proprietà privata degli addetti ai lavori, un complesso di testimonianze non sempre decifrabile, accattivante e ricco di stimoli. Per questo motivo l’approccio ad un sito archeologico non può fondarsi sulla mera contemplazione di frammenti del passato, ma piuttosto sul valore e sui significati delle strutture riemerse dal sottosuolo, viste come documenti leggibili ed eloquenti di antiche civiltà. I giovani che si recano a visitare un qualsiasi sito archeologico, spesso si limitano a percorrere gli ambienti e a esplorarne le diverse strutture che lo compongono senza viverne la potente seduzione. Talvolta cercano di fare anche uno sforzo di immaginazione per cercare di ricostruire la vita degli antichi abitanti, le funzioni precise degli edifici, i riti e i costumi sociali. Ecco perché ritengo che sia estremamente significativo offrire un monumento il meno possibile sclerotizzato e avulso dalla realta’ quotidiana, proponendo innanzitutto una lettura storica e antropologica, corredata da informazioni dettagliate sui manufatti dal punto di vista archeologico e artistico. Per gli studenti l’archeologia così può assumere pertanto un valore didattico di notevole importanza, il cui scopo principale sarà quello di facilitare l’apprendimento dell’arte, della storia, e delle culture antiche, ma soprattutto di suscitare nuovi motivi di interesse, che possono dare luogo ad ulteriori approfondimenti. Il progetto elaborato per il Parco della Valle dei Templi ha come finalità più evidente la realizzazione di strumenti efficaci di mediazione e informazione. Ma non è l’unico obiettivo, né il più importante. 7 La mia esperienza didattica maturata negli anni con bambini e ragazzi ha dimostrato che l’approccio ai temi della storia antica e dell’archeologia è maggiormente efficace quanto più viene sollecitata la naturale curiosità. E’ la curiosità tipica che si riserba a quanto ci è lontano e sconosciuto e che del resto è il motivo per cui il documentario storico divulgativo, il cinema e la letteratura di genere fantasy abbiano così tanto successo. La stessa storia antica che tanto annoia, quando è codificata in un libro di testo, può incuriosire e affascinare dopo la visita ad un museo o ad un sito archeologico, in cui si trovino idonei elementi di mediazione (apparati didascalici, guide, operatori) e la possibilità di partecipare ad attività in laboratori didattici. Questa pubblicazione quindi si presenta come il primo necessario strumento per una efficace conoscenza del sito, per sensibilizzare e rafforzare il legame col territorio, promuovere attenzione per la realtà ambientale e scoprire le componenti storiche naturali e antropiche. E’ la prima risorsa documentaria di tipo didattico attraverso cui il Parco intende aprirsi al mondo della Scuola ed è rivolta soprattutto ai docenti, affinché trovino valido supporto per le attività propedeutiche 8 alla visita del sito e per l’approfondimento di temi nell’ambito dei programmi curriculari. te sti di Aurelio Burgio A kr a ga s. Il contesto storico-topografico, il circuito difensivo, l’evoluzione urbanistica ed architettonica della città greca. Il sito e le vicende storiche Il sito dell’antica Akragas, culminante a Nord con i due rilievi della collina di Girgenti (m 326 s.l.m.) e della Rupe Atenea (m 351), entrambe delimitate da alte pareti a strapiombo (fig. 1), si distende su un altipiano calcarenitico in dolce pendio, chiuso a Sud dalla c.d. collina dei Templi, una ripa marina del Quaternario inferiore che si sviluppa per circa 2 km da Est ed Ovest (fig. 2). Ad Oriente e ad Occidente i limiti dell’area urbana seguono le alte balze rocciose che sovrastano due modesti corsi fluviali, rispettivamente l’Akragas (oggi S. Biagio) e l’Hypsas (oggi Drago), quest’ultimo alimentato sulla sinistra dal torrente delle Cavoline. I due principali corsi d’acqua confluiscono a Sud, all’esterno dell’antica città, nell’attuale fiume S. Leone, che solca un’ampia fascia alluvionale del Quaternario recente (Piano S. Gregorio), ai cui margini orientali si elevano i dolci rilievi culminanti in Poggio Muscello (m 117). Ad Ovest della foce del S. Leone si distende infine la bassa e stretta collina di Montelusa, o Maddalusa (m 76), nei cui pressi era collocato l’emporion della città. Il contesto paesaggistico nel quale è inserita Akragas è circondato da altre colline, molte delle quali furono in antico sedi di insediamenti umani: subito a Nord si trova la lunga cresta rocciosa di Serraferlicchio (m 316), ad Est Fig. 1 – La Rupe Atenea, veduta aerea da NE (da MERTENS 2006). 11 la collina di Poggio (o Cozzo) Mosè (m 178), mentre ad Ovest la lunga e stretta dorsale di Monserrato (m 317) che sovrasta il corso dell’Hypsas. Pochi km a Nord-Est si eleva la collina di Caltafaraci (m 533), anch’essa occupata da un piccolo centro abitato. Le più antiche testimonianze di vita di questo territorio – che attrasse l’interesse di Paolo Orsi, Pirro Marconi e Jole Bovio Marconi, fino alle più ampie e sistematiche ricerche di Pietro Fig. 2 – La collina dei Templi, vista da Est (da DE MIRO 1994). Griffo, Ernesto De Miro e Graziella Fiorentini, di recente presentate in una articolata visione d’insieme da parte di Domenica Gullì – risalgono alla più antica storia della Sicilia. L’età neolitica è documentata sia attraverso un saggio stratigrafico sulla collina dei Templi, subito ad Ovest del tempio di Zeus, sia attraverso rinvenimenti di superficie in contrada Maddalusa ed a Serraferlicchio. Villaggi dovevano avere sede in tutte queste aree, come pure, nelle età successive, a Serraferlicchio, Poggio Mosè e Monserrato. All’Eneolitico ed alla prima età del Bronzo si data il deposito in grotta (probabilmente un luogo di culto) di Serraferlicchio, nei cui pressi si trovava anche un abitato, ed alla prima età del Bronzo le necropoli ed i villaggi dislocati sia ad Est di Agrigento, sulla lunga cresta di Poggio Mosè (dal c.d. S. Calogero Bianco al nucleo più antico dell’attuale villaggio Mosè), sia ad Ovest, a Monserrato; qui, di recente, sono state localizzate anche tombe risalenti alla media e tarda età del Bronzo. A questo stesso periodo 12 sembrano riferirsi le capanne del settore più occidentale della collina dei Templi (sempre nelle immediate vicinanze del tempio di Zeus), e nei pressi del poggio di S. Nicola. Una lunga frequentazione dall’Eneolitico al tardo Bronzo caratterizza l’area intorno al santuario rupestre di S. Biagio, mentre dal Bronzo antico all’età del Ferro si datano le numerose tombe a grotticella e a camera identificate sui versanti settentrionale e orientale della Rupe Atenea. Se poi ci si sposta alle pendici sud-occidentali della città antica, si noterà che l’ampia zona compresa tra il tratto finale dell’Hypsas, le contrade S. Anna e Pezzino, fino all’estremità della collina dei Templi, sembra essere stata occupata in modo stabile in età pre- e protostorica. Di estremo interesse sono le attestazioni di relazioni commerciali transmarine con il mondo egeo documentate nella piana di Cannatello, a Sud-Est di Poggio Mosè, dove già sul finire dell’800 fu identificato un abitato preistorico: è possibile che da questa area provenga l’anforetta a staffa micenea, acquistata da Paolo Orsi presso la “marina di Girgenti” agli inizi del ’900, mentre a partire dagli anni ’80 è stato portato alla luce parte di un vero e proprio “emporio”, con forte caratterizzazione miceneocipriota, frequentato tra la media età del Bronzo e la prima età del Ferro. Non sono documentate finora tracce di villaggi riferibili alla prima età del Ferro nell’area della città di Akragas e nelle sue immediate vicinanze, segno forse che gli indigeni dovevano abitare già in centri posti un po’ più all’interno, quando agli inizi del VI sec. a.C. coloni di Gela, con il concorso di genti rodiocretesi, diedero vita alla nuova città. La presenza indigena è comunque forte, espressa forse – come ha sottolineato E. De Miro – attraverso la presenza di piccole sedi di culto; tra queste, un ruolo importante poteva avere il santuario extraurbano di contrada S. Anna, posto forse non a caso poche centinaia di metri a Sud-Ovest della città, proprio di fronte a quel settore della collina del Templi del quale è stata segnalata l’occupazione stabile in età preistorica e protostorica. Nel santuario di S. Anna, di età arcaica (ma non mancano reperti dell’età del Bronzo), è stata rinvenuta ceramica di produzione indigena a decorazione impressa, attestata anche sulla collina di Maddalusa, nei cui pressi si trovava l’emporio stabilito probabilmente dai primi coloni: dalla necropoli proviene ceramica di produzione indigena a decorazione impressa e incisa, ceramica di importazione ionica e corinzia, ed alcuni sarcofagi, uno dei quali, in marmo, decorato a metope e triglifi, è oggi esposto al Museo Archeologico di Agrigento. Nel 582 a.C. dunque, sotto la guida dei due ecisti Aristonoos e Pystilos (i loro nomi ci sono tramandati da Tucidide), Geloi e Rodio-Cretesi fondarono Akragas. Il territorio doveva essere noto almeno in parte, se si pensa alle numerose testimonianze coeve ad Ovest di Gela, in particolare nei dintorni dell’attuale Palma di Montechiaro, là dove un importante nodo di transito è rappresentato dalla strettoia morfologica chiusa tra i rilievi del Castellazzo e di Piano della Città, sedi di due importanti insediamenti. Ciò suggerisce l’interesse dei Geloi per tutta la fascia costiera occidentale, tanto più che già alla metà del VII secolo coloni di Megara Hyblaea avevano fondato, molto più ad Ovest, la subcolonia di Selinunte. La fase più antica della storia politica di Akragas, già nella prima metà del VI sec. a.C., è dominata dalla figura del tiranno Falaride, la cui politica di espansione si indirizzò in modo deciso sia verso l’interno della Sicilia, a spese dei Sicani, sia lungo la fascia costiera. Fu probabilmente a partire da questi anni che la città cominciò ad acquisire una sempre crescente floridezza economica, di cui può essere espressione, sul finire del secolo, la costruzione del c.d. tempio di Eracle, il più antico tra gli edifici di culto. La storia ricorda un secondo tiranno, Terone, della famiglia degli Emmenidi, che resse le sorti di Akragas tra il 488 ed il 471 a.C., continuando la politica espansionistica di Falaride: l’interesse della città si spinse in modo ancor più deciso verso l’interno della Sicilia, mirando ad una dimensione tirrenica, nella direzione della calcidese Himera. In questa prospettiva si 13 inseriranno l’intervento cartaginese e lo scontro tra Cartaginesi e Sicelioti, che culmineranno con la battaglia di Himera del 480 a.C. La vittoria che i Greci di Sicilia ottennero ad Himera sui Cartaginesi, e su quei Sicelioti loro alleati, rappresentò per alcune poleis greche – e Akragas fu tra queste – una fase di notevole ricchezza, in particolare quando dopo la morte di Terone e la cacciata del figlio Trasideo (471 a.C.) venne istituito un governo democratico che si manterrà fino alla fine del V secolo. Le risorse economiche (il bottino di guerra) ed umane (schiavi) convenute nella città dopo la vittoria di Himera furono probabilmente alla base del notevole sviluppo edilizio, che vide la collina dei Templi infittirsi di edifici sacri. Si ricordi che Diodoro Siculo (XI, 25, 3) riferisce che i prigionieri di guerra venivano sfruttati sia per la costruzione di templi e per la realizzazione del complesso sistema di acquedotti e della Kolymbethra, sia come forza lavoro nella città e nei campi. Il clima di ricchezza ed il favore di cui godettero in quel periodo – non certo in modo disinteressato – le lettere e le arti, è ben espresso dalla presenza ad Akragas di Simonide e Pindaro, il quale celebrò nelle sue Odi (II e III Olimpica, VI Pitica, III Istmica) proprio le vittorie di Terone e della sua corte, mentre nella XII Pitica celebrava la bellezza della città. Nel corso del V secolo, il controllo politico-territoriale, diretto e indiretto, di Akragas si ampliò a buona parte della Sicilia centro-meridionale, giungendo fino alla zona di spartiacque tra l’alta valle del Platani (l’antico Halykos) e l’Imera Meridionale, dove tra gli altri spicca il grande centro abitato di Terravecchia di Cuti, sede di un santuario extraurbano ricchissimo di statuette fittili di tipo agrigentino. Più tardi, alla fine del V sec., il nuovo intervento cartaginese in Sicilia produsse il progressivo annientamento di quasi tutte le poleis siceliote, a partire da Selinunte: nel 406, dopo un lungo assedio, Akragas venne occupata, ed ai suoi cittadini fu consentito di rientrare l’anno successivo in una città il cui impianto difensivo era stato in buona parte smantellato, economicamente ridotta a città tributaria di Cartagine. Gli scavi archeologici condotti in alcune aree della città, anzitutto il c.d. quartiere punico, hanno documentato trasformazioni di destinazione d’uso rispetto all’età precedente la distruzione cartaginese. Una fase di oscurità, per quanto noto attraverso le fonti, attraversa la prima metà del IV secolo ed oltre. Bisogna infatti attendere gli anni di Timoleonte, che tra il 344 ed il 338 a.C. condusse la lotta contro i Cartaginesi, per assistere ad una ripresa di Akragas, e proprio in quegli anni sotto la guida degli ecisti Megillo e Feristo giunsero in città nuovi coloni provenienti dalla lucana Elea. Questo episodio fu celebrato come una nuova fondazione, ed è forse all’origine di un massiccio intervento che riguardò sia le mura, che certo dovettero essere restaurate, ma forse in alcuni luoghi ristrutturate secondo le più moderne tecniche di poliorcetica, sia l’impianto edilizio ben riconoscibile nel c.d. quartiere ellenistico-romano ed in quello ad Ovest del Tempio di Zeus. Sul finire del IV secolo Akragas provò ad assumere via via un ruolo autonomo rispetto alla città che aveva assunto la guida della Sicilia, Siracusa, e tale scelta potrebbe essere stata indotta dalla sua posizione, a contatto con l’epicrazia cartaginese estesa nella parte più occidentale della Sicilia. Infatti, intorno al 310, mentre il tiranno siracusano Agatocle si trovava impegnato in Africa in una spedizione militare, gli Akragantini cercarono di dare vita ad una federazione di città greche, che tuttavia avrà una durata limitata, ed anzi nel 307 e 306 Akragas fu due volte sconfitta da Siracusa. Circa un trentennio più tardi, alle soglie dell’affermazione di Roma nella Sicilia, fu il tiranno Finzia (287-279 a.C.) a reggere le sorti della città: il suo territorio si amplia fino a quella che un tempo era stata la madrepatria, Gela, che fu distrutta ed i cui abitanti furono spostati in una città cui il tiranno diede nome, Finziade, sulla collina che sovrasta l’attuale Licata. Pochi anni dopo, nel 276, sarà Pirro, re dell’Epiro, a conquistare nuovamente Akragas. Con la prima guerra punica si apre un lungo periodo Fig. 3 – Akragas. Planimetria della città antica (da SCHMIEDT-GRIFFO 1958). 14 particolarmente difficile: nel 262 la città si arrende dopo circa sei mesi all’assedio dei Romani; un decennio più tardi, nel 255, sono i Cartaginesi a porre l’assedio, finché riescono a conquistarla, sconfiggendo la guarnigione romana che aveva provato l’ultima resistenza nel Tempio di Zeus, trasformato in fortezza. Infine, schieratasi contro Roma durante la seconda guerra punica, viene assediata e saccheggiata nel 210 dai Numidi alleati dei Romani, cessando di essere città autonoma. Topografia generale della città greca La prima completa presentazione d’insieme della città, impostata in modo scientificamente corretto, si deve allo Stato Maggiore Italiano, che nel 1863 realizzò una carta in scala 1:10.000, pubblicata nel 1867. Questa carta venne rielaborata da Giulio Schubring, che nel 1870 pubblicò la Historische Topographie von Akragas, stampata nel 1887 nella traduzione italiana (Topografia storica di Agrigento), curata da G. Toniazzo, con il corredo di una carta archeologica in scala 1:15.000. Risale al 1958 la successiva planimetria della città, ancora valida nel suo impianto d’insieme, elaborata in scala 1:10.000 da Giulio Schmiedt e Pietro Griffo (fig. 3) attraverso le fotografie aeree, ma che oggi richiede puntualizzazioni ed aggiornamenti. L’area della città, ampia circa 450 ettari, chiusa dalle due cime della collina di Girgenti a Nord-Ovest e della Rupe Atenea a Nord-Est, si sviluppa su un pendio inclinato da Nord a Sud fino alla cresta della c.d. collina dei Templi, mentre i versanti Est ed Ovest sono delimitati dal corso dei due fiumi e da alte pareti rocciose, interrotte in alcuni punti da vallette che si incuneano parzialmente all’interno del perimetro urbano, sul fondo delle quali in genere si aprono le porte urbiche. Nel tratto a valle della più ampia depressione morfologica che spezza all’estremità sud-occidentale la collina dei Templi, tra le aree sacre dell’Olympieion e del c.d. tempio di Vulcano, si trovò il modo di raccogliere le acque che vi confluivano tramite i valloni ed una serie di condotti, i c.d. acquedotti di Feace: qui ebbe sede la celebre Kolymbethra (fig. 4). Infine, la posizione delle necropoli Fig. 4 – La Kolymbethra ed il santuario delle Divinità Ctonie (da DE MIRO 2000). 15 conferma che fin dall’inizio fu selezionata l’intera area descritta, dal momento che all’interno del perimetro urbano non sono note sepolture. Polibio (Storie, IX, 27), nel descrivere Akragas (che egli vide probabilmente negli anni 212-210 a.C.), sottolinea la differenza rispetto a molte altre città del suo tempo, rilevandone inoltre sia la posizione strategica, sia la bellezza delle costruzioni, sia la distanza dal mare (18 stadi, pari a circa 3,2 km), tale da apportare benefici alla città ed ai suoi abitanti; evidenzia quindi le caratteristiche delle mura e la posizione della città rispetto ai fiumi che la circondano. Passa quindi a indicare l’acropoli, che “sovrasta la città dal lato che guarda l’oriente estivo, limitata all’esterno da un inaccessibile burrone, e avente dalla parte interna una sola strada che vi conduce dalla città. Sulla cima c’è un santuario di Atena e di Zeus Atabyrios, come anche a Rodi”. Si sofferma quindi sulla ricchezza e opulenza degli edifici sacri e pubblici: la città è infatti “magnificamente ornata di templi e di portici, e benché il tempio di Zeus Olimpio non abbia avuto compimento, per invenzione e per grandezza non sembra essere inferiore a nessuno di quanti sono in Grecia”. La descrizione di Polibio permette quindi di collocare l’acropoli sulla Rupe Atenea, la collina a Sud-Est, quella che “guarda l’oriente estivo”, ipotesi più che verosimile, che tuttavia non incontra il favore di tutti gli studiosi, a partire già dallo Schubring, il quale preferiva porre l’acropoli sul colle di Girgenti. D’altra parte sulla sommità della Rupe sono state portate alla luce quasi esclusivamente strutture a carattere militare, opere di terrazzamento e di fortificazione pertinenti a fasi distinte, due ascrivibili al V secolo (una forse all’assedio cartaginese del 406), una terza al IV ed un’altra ancora al III secolo sec. a.C. Da segnalare anche la presenza di un complesso artigianale (oleificio) attivo tra la seconda metà del IV ed il III sec. a.C. Quanto al colle di Girgenti, non c’è dubbio che dovesse essere parte integrante dell’antica città, e non solo perché vi si trova un tempio della prima metà del V secolo, inglobato nella chiesa di S. Maria dei Greci (tempio di Atena), ma anche per la sua posizione fortemente strategica. D’altra parte non sono pochi gli esempi di città greche (Locri Epizefiri) che hanno incluso all’interno della cinta muraria le più alte colline, senza che ciò implicasse la fitta e capillare occupazione delle aree più impervie. Le fortificazioni La conformazione morfologica dell’area su cui sorse la città condizionò anche lo sviluppo del sistema difensivo, che si attestò sulle due cime del colle di Girgenti e della Rupe Atenea, sull’orlo dei valloni che delimitano l’area urbana ad Est e ad Ovest, ed ancora lungo la cresta della collina dei Templi. Il risultato fu un circuito che si sviluppava per circa 12 km, definendo così il solo spazio che presentava confini fisici ben marcati, tali da poter essere rinforzati con opere di fortificazione che non richiedevano, almeno in una prima fase, particolari accorgimenti. Polibio (IX, 27), ricorda che le fortificazioni “si stendono su una roccia alta e scoscesa, in parte così per natura, in parte per mano dell’uomo”, chiarendo in poche parole che la linea difensiva appare ai suoi occhi come coronamento e potenziamento di una situazione naturale. Seguendo il tracciato difensivo, lungo il costone roccioso in più luoghi la roccia appare oggi intagliata, talora si individuano blocchi in situ ovvero si distingue la superficie levigata, destinata alla messa in opera dei blocchi, talvolta accompagnata da consistenti tracce di bruciato, ciò che rimane della distruzione per effetto del fuoco. Il dissesto idrogeologico che contraddistingue la collina, più accentuato lungo il ciglio, ha determinato in più punti frane e smottamenti. L’aspetto attuale è però condizionato anche dalla realizzazione di cave lungo il 16 circuito difensivo, insieme all’apertura di tombe ad arcosolio di età paleocristiana e bizantina, soprattutto nel tratto compreso tra i templi detti di Hera e della Concordia, segno che le fortificazioni avevano ormai perduto la loro funzione. A questo sistema di adeguamento alla morfologia e di potenziamento delle difese naturali – elemento per nulla legato alla cronologia dell’impianto – si associano vere e proprie opere di fortificazione, soprattutto là dove si presentano particolari situazioni sfavorevoli per la difesa, e presso le porte, strutturate secondo il principio della porta scea (la porta è dotata di un rientrante obliquo rispetto alle mura, difeso da strutture più massicce sulla destra dell’attaccante, che poteva in tal modo essere colpito sul lato di norma non protetto dallo scudo). Tutte le porte si aprono di norma in corrispondenza di naturali vie di accesso, depressioni o valloni tributari dei due fiumi che circondano la città, ovvero nelle vicinanze dei principali edifici sacri. Nell’insieme, sono nove le porte che si aprono lungo il circuito difensivo, alle quali si affiancano alcune postierle. Numerose sono le postierle identificate: una ai piedi del tempio di Demetra, due tra le porte IV e V (una in corrispondenza dell’angolo SO dell’Olympieion), una poco oltre la porta V, una ad Ovest del tempio di Vulcano. Alcune porte (II, III) recano nettissimi i solchi lasciati in antico dal transito dei carri, forse approfonditi nel tempo dagli agenti atmosferici. Fig. 5 – Porta I ed il baluardo a tenaglia (da MARCONI 1930). Talvolta, interventi sia di età antica che moderna (un frantoio a fianco della porta II) hanno ulteriormente contribuito a trasformare la struttura, mentre non mancano (porta III, V) resti murari e tracce riconducibili alla presenza di torrioni di difesa. Nicchie scavate sulle pareti, destinate ad accogliere pinakes votivi, sono presenti nei pressi di più di una porta (II, IV, IX). G. Schubring e P. Marconi, rispettivamente alla fine dell’800 ed intorno al 1930, prospettano ipotesi differenti per il tratto lungo la Kolymbethra: Schubring non osservò qui tracce del muro di cinta, e ritenne che la linea difensiva scendesse verso valle sbarrando con una diga il letto dell’Hypsas, per poi continuare lungo il suo corso. Marconi segnala invece uno spesso strato di conci nella parte inferiore della Kolymbethra, ma anche spezzoni del muro e conci sparsi sul costone in alto, ritenendo che il muro di cinta e la diga fossero un tutt’uno. Griffo ritiene invece che la struttura di fondazione segnalata dal Marconi sia troppo avanzata verso valle. Osservazioni tecniche condotte lungo il circuito hanno fatto ipotizzare a Marconi che il muro fosse in alcune zone (per esempio sul versante occidentale, tra il tempio di Vulcano e Poggio Meta) articolato in salienti e rientranti, e che la larghezza fosse pari a m 1,25/1,30, pari ad un blocco disposto per testa ed uno per taglio. In altre zone (si veda il tratto individuato a Nord del tempio di Hera), l’affioramento di tratti murari permette di osservare la tecnica costruttiva dell’impianto difensivo. Porta I si apre ai piedi della cresta sulla quale si trova il tempio di Demetra (fig. 5): si conserva soltanto la fronte destra (riferita a chi guarda), di cui rimane la parte iniziale di uno sperone obliquo, aggettante dal muro di cinta. Poche decine di metri a SudOvest si trova il c.d. baluardo a tenaglia, scavato da Ettore Gabrici nel 1925: si tratta di una sofisticata opera difensiva costituita da due strutture murarie, disposte in modo obliquo rispetto alla linea delle mura e convergenti verso un torrione aggettante ampio m 8,30 x 6,80. Il baluardo è stato eretto sul fondo di una valle attraverso la quale si entra in modo agevole nel cuore della 17 città antica, ed è verosimile che sia stato costruito proprio per rinforzare questo versante, particolarmente esposto, e che non appartenga alla fase più antica del sistema difensivo. Poco oltre si trova Porta II (detta anche Porta di Gela), all’estremità sud-orientale della Rupe Atenea, là dove il costone roccioso che sovrasta il corso del fiume piega nettamente verso Ovest. Il sistema difensivo di Porta II, descritto già da G. Schubring e indagato con alcuni saggi da P. Marconi, si articola in un lungo corridoio naturale, incassato tra pareti di roccia artificialmente intagliate in modo pressoché verticale e potenziate con opere murarie. La strada, ricavata nel banco roccioso, corre ad una profondità media di 6 m rispetto al terreno sovrastante, raccordandosi al vallone S. Biagio, e da qui ai percorsi che procedono verso Oriente, seguendo forse la direttrice che passa alle spalle di Cozzo Mosè. Sulle pareti che fiancheggiano la strada si trovano alcune nicchie, destinate all’inserzione di pinakes votivi, segno della presenza di un santuario rupestre cui si riferiscono anche alcune piccole fosse ed un recinto quadrangolare; ceramiche ed altri oggetti qui rinvenuti attestano che l’area sacra fu attiva tra il V ed il I sec. a.C. Porta III, subito ad Ovest del tempio di Hera. La porta vera e propria si trova al termine di un breve corridoio (m 7 x 2,5), preceduto da uno slargo quadrangolare di m 10 x 6; essa era dominata sul fianco destro dal maestoso rilievo sui cui sorge il Tempio, e sulla sinistra da una torre, i cui resti P. Marconi riconosceva nella roccia ed in una serie di tagli destinati all’alloggiamento dei blocchi. Porta IV, o Porta Aurea, doveva essere in corrispondenza della via più importante, che conduceva dalla città all’Emporio, ma è anche la porta che oggi si presenta più danneggiata, a causa del notevole approfondimento della carreggiata stradale. Studi recenti propongono di individuare questa porta poche centinaia di metri più a oriente, tra il tempio di Eracle e Villa Aurea, là dove sono visibili, sul fianco di un’ampia lacuna (m 9) del costone roccioso, una serie di nicchie, proprio come nei pressi di altre porte agrigentine (Porta II); come è stato osservato, tale squarcio nel costone roccioso, coincide con l’incrocio tra la plateia M-L e lo stenopos che delimita ad Est l’area del Ginnasio. La porta V, anch’essa oggetto di interventi di scavo in anni recenti, è la struttura meglio conservata del sistema di fortificazione. E’ ben visibile il baluardo sul fianco destro, un rientrante obliquo lungo oltre 25 m, articolato con quattro muri disposti a ventaglio, ad altezze crescenti; il baluardo consente al difensore di dominare l’avversario sul suo fianco destro, sicché la porta appare strutturata sul principio della porta scea. La porta V si innesta sulla via che conduceva al santuario delle Divinità Ctonie, raccordandosi quindi alla plateia Est-Ovest che limita il santuario di Zeus. Porta VI si trova al fondo di una piccola valle, subito a Nord di Poggio Meta. Essa si apre al centro di una lunga e poderosa linea difensiva (m 62 di lunghezza), ed è rafforzata da due torri, quella di SE lunga m 15,60 ed aggettante oltre 3 m rispetto al filo del muro. La porta vera e propria è un corridoio largo m 8,60 e lungo m 11,90. La Porta VII si trova alcune centinaia di metri a Nord, lungo il torrente delle Cavoline, ed è l’unica ad essere dotata di un apprestamento difensivo a valle (c.d. Ponte dei Morti): ad una distanza di ca. 120 m si trova infatti un baluardo avanzato, ampio m 15,20 x 12,60, alto quasi 7 m, collegato ad un lungo e robusto muro disposto ortogonalmente alla linea difensiva della porta. Questa articolazione si spiega bene se si considera che il vallone si incunea all’interno dell’area urbana, nella direzione dell’acropoli, e che tutto questo versante è sovrastato 18 dall’estremità della cresta di Monserrato. Ancora più avanti, poco prima del campo sportivo, il Marconi aveva individuato uno sbarramento difensivo nel quale doveva aprirsi la Porta VIII; poco oltre, sulle pendici che salgono verso la sella che separa la Rupe Atenea dalla collina di Girgenti, si trovava la Porta IX. La cronologia dell’impianto non è del tutto chiara, benché in genere si intenda collocarla, in modo pressoché unitario, nel corso del VI secolo, piuttosto che farla risalire già al momento della fondazione, come preferiva P. Marconi. D’altra parte in alcuni settori, specie là dove sono stati condotti saggi stratigrafici, sono state messe in evidenza tecniche murarie differenti (struttura piena in blocchi squadrati; paramento di blocchi ed emplecton di pietrame), e ricavati più precisi dati cronologici. Quanto noi oggi vediamo è nell’insieme frutto di un continuo lavorio, che prende le mosse dalla realizzazione del regolare impianto urbanistico (intorno al 500 a.C.), con il quale certo il sistema difensivo doveva integrarsi, per attraversare l’intero V secolo, culminante nell’assedio cartaginese del 406, in vista del quale si dovette intervenire in alcuni settori (per esempio sulla Rupe Atenea); numerose sono le opere successive, riconducibili alle età di Timoleonte (sulla cima, e nella zona sud-orientale della Rupe Atena, non lontano da Porta II) e di Agatocle (zona sud-orientale della Rupe, non lontano da Porta II). L’impianto urbanistico L’impianto urbanistico si presenta assai organico, articolato secondo assi in prevalenza ortogonali (alcuni già notati da Pirro Marconi, soprattutto nella zona meridionale della città), e verosimilmente è stato realizzato in modo unitario. Dopo le acute osservazioni formulate da F. Castagnoli nel 1956, la sua ricostruzione si fonda sulla fotointerpretazione effettuata nel 1958 da P. Griffo e G. Schmiedt (fig. 3), ma solo in poche aree sono state effettuate mirate indagini di scavo. La città si distende dalle pendici della Rupe Atenea, a partire da quota 190 ca. (zona dello Stadio-via Petrarca, e, più ad Est, dell’attuale Villa Genuardi, “Albergo” nella planimetria di Schmiedt-Griffo 1958) fino alle estreme propaggini della collina dei Templi (quota 100 ca.), occupando quasi per intero l’area compresa entro le mura di fortificazione. L’assetto morfologico generale si rivela abbastanza omogeneo: il pendio, modesto, è rivolto prevalentemente a Sud-Ovest e frazionato da piccole balze, alcune con orientamento estovest (a NE di Poggio Meta, e a valle di Villa Genuardi), altre invece disposte in senso NE-SO, vale a dire il medesimo orientamento delle vie principali dell’impianto urbano. Due valloni solcano la città, confluendo nella Kolymbethra: il principale scorre da NE a SO, articolando l’area urbana in due settori dalle caratteristiche leggermente differenti. Infine, circa al centro della città antica emerge il poggio di S. Nicola (m 125 s.l.m.), area cardine del tessuto morfologico e urbanistico, dove oggi sorge il Museo Archeologico; gli scavi qui condotti per la sua realizzazione – tra il 1959 ed il 1963 – hanno portato alla scoperta di un ampio complesso di carattere sacro e politico, che a seguito degli scavi più recenti (a partire dal 1983) si è rivelato parte essenziale della più generale sistemazione urbana. L’impianto urbano si fonda su sei vie principali (plateiai), orientate sulla direttrice NE-SO (denominate A-B, C-D, E-F, G-H, I-L, ed M-N, a partire dalla più settentrionale), distanti tra loro circa 300 m. Le plateiai sono tagliate ortogonalmente da circa trenta vie secondarie (stenopoi), che procedono in modo pressoché rettilineo nonostante le pendenze, probabilmente regolarizzate in alcuni punti da rampe. L’aspetto complessivo è dunque quello di una città articolata in terrazze, leggermente digradanti da NE a SO. La disposizione regolare dell’impianto non è però rigida: solo le due plateiai meridionali (I-L ed M-N) e la quarta da Sud (E-F) appaiono – nella planimetria di Schmiedt e Griffo – perfettamente parallele per tutta la loro estensione, mentre la terza da Sud (G-H) muta orientamento nel tratto più occidentale, al di là del vallone che alimenta la Kolymbethra. Qui infatti l’orientamento ruota leggermente verso Ovest, forse a causa di una più contrastata morfologia del terreno, interessando gli isolati definiti tra il muro di fortificazione e le due plateiai più settentrionali 19 (A-B e C-D). Tra Poggio Meta e la collina di S. Nicola non tutti gli assi viari sono al momento perfettamente leggibili, ed alcuni stenopoi sembrano procedere secondo linee spezzate. Le plateiai principali sembrano essere la seconda e la quarta da Sud (I-L ed E-F). La E-F mette in diretto collegamento la zona della porta I con la collina di S. Nicola, probabilmente l’area più importante dal punto di vista politico. La plateia E-F sembra essere più larga delle altre (ca. 11 m, contro una media di 7 m), ed è l’unica che per un buon tratto ha mantenuto inalterata nel tempo la sua funzione, al punto da essere ricalcata, a Nord del c.d. quartiere ellenistico-romano, prima dal decumanus maximus della città romana, ed oggi da un rettilineo della SS 115 (sia pure con una leggera declinazione verso Nord). La plateia I-L collega invece le porte II e V, lambendo sul lato settentrionale l’isolato in cui è inserito il tempio di Zeus. Anche di questo asse è possibile riconoscere a tratti forme di continuità nel paesaggio attuale, limitate a partizioni agrarie. Quanto agli stenopoi, distanti tra loro ca. 35 m, sono noti per lo più solo attraverso la fotointerpretazione, e là dove è stato possibile misurarne l’ampiezza sono risultati larghi m 5. E’ verosimile che, come in altri centri antichi (Naxos per esempio), alcuni stenopoi abbiano svolto un ruolo più importante, concretamente espresso dalla maggiore ampiezza. Si tratta di un aspetto documentabile solo in presenza di scavi archeologici, che potrebbe tuttavia essere indiziato da forme di sopravvivenza e di continuità funzionale: si noterà che il rettilineo della attuale SS che conduce al Poggio di S. Nicola ricalca uno stenopos (del quale è verosimilmente più ampio), e che quando nel 210 a.C. Akragas fu presa dai Romani (Livio, XXVI, 40, 9) questi attraversarono Porta Marina marciando in colonna verso il Foro, collocato in media urbis, quasi certamente nello stesso luogo dell’agorà greca. L’incrocio tra plateiai e stenopoi suddivide dunque l’area urbana in isolati di m 300 x 35 ca., frazionati nel senso della lunghezza da un canale di drenaggio (comunemente definito ambitus secondo la denominazione adottata per l’urbanistica di età romana) largo in media 40 cm. Gli isolati dovevano essere in prevalenza regolari nonostante la contrastata morfologia del terreno, ma è verosimile che in più luoghi sia stato necessario ricorrere a scale e gradinate per superare i dislivelli, come è bene evidente per esempio nella zona a valle del quartiere ellenisticoromano. Proprio tale differente struttura morfologica potrebbe avere condotto alla scelta di un orientamento leggermente declinante verso Ovest per il settore nord-occidentale della città, a monte del ruscello che alimenta la Kolymbethra. Ma si può andare forse ancora oltre: lo schema regolare offerto dalla restituzione fotogrammetrica, le cui tracce si leggono talora nella attuale partizione dei lotti e nelle stradelle interpoderali, potrebbe celare più ampie e diffuse differenze di orientamento, ancora tutte da indagare, sia tramite mirate indagini di scavo, sia per mezzo del puntuale rilevamento a terra delle tracce visibili in foto aerea. Quartieri di abitazione dovevano inoltre sorgere anche all’esterno della zona organicamente pianificata, come è bene dimostrato nel c.d. quartiere punico, un quartiere “artigianale” (vi sono stati rinvenuti infatti anche pani di argilla cruda, ed ambienti chiaramente destinati a magazzini e depositi) portato alla luce alla metà degli anni ’80 nei pressi di Porta II. Si tratta di una zona interessata dalla presenza di un’area sacra frequentata già alla fine del VI sec. a.C., sui cui resti si impiantò dopo la distruzione cartaginese del 406 un quartiere attivo fino alla metà del III sec. a.C., quando si datano le strutture in crollo. L’orientamento dell’isolato si discosta notevolmente dal resto della città, e tuttavia anch’esso è ampio m 35 e diviso in senso longitudinale da un ambitus di drenaggio largo ca. 50 cm; anche lo stenopos individuato a Sud-Ovest, largo m 5,5, presenta le misure consuete. La tecnica edilizia qui adottata non si fonda sull’uso dei conci squadrati documentati nelle strutture edilizie di età classica; è stata adottata invece la tecnica detta “a telaio”, ben nota e diffusa in Sicilia in ambiente punico (Selinunte, Mozia), ed è per tale ragione che l’area viene anche definita quartiere “punico”. Particolarmente significativo è il dato cronologico: la ricostruzione del IV sec. a.C. non alterò l’impianto preesistente, anteriore al 406 a.C., mentre la presenza di uno strato di crollo e incendio dimostra che gli edifici furono distrutti intorno alla metà del III sec. a.C., verosimilmente in rapporto agli eventi della prima guerra punica. Non è possibile allo stato attuale riconoscere con certezza quale sia stato lo sviluppo della città già nella Fig. 6 – Il quartiere ad Ovest dell’Olympieion (da DE MIRO 2000). 20 Fig. 7 – Il settore centrale ed occidentale della collina dei Templi (da MERTENS 2006). prima fase, per quanto la pianificazione di un centro urbano nella sua interezza appartenga alla tradizione dell’urbanistica greca coloniale. D’altra parte, gli scavi stratigrafici condotti in alcune zone della città antica, come nel quartiere ad Ovest dell’Olympieion, hanno documentato strutture di età classica perfettamente aderenti alle insulae della fase ellenistico-romana (fig. 6). Come in altre città greche, gli isolati già nel V sec. a.C. si riempiranno di case, dotate di vani che di norma si aprono a Sud su un cortile (intorno al quale sono a volte disposti ad L); l’ampiezza standard della case sembra essere di m 17,40/17,80 x 13,00/13,70 (rispettivamente in senso E-O e N-S). Una situazione analoga è stata riscontrata nel quartiere punico presso Porta II, dove è stata ricostruita una sequenza di lotti quadrangolari di m 17,5 x 17,5 alternati a lotti rettangolari di m 17,5 x 9,5. In definitiva, va messa in rilievo non solo la sostanziale unitarietà dell’impianto originario, ma anche la sua forza cogente, poiché esso viene rispettato attraverso l’età ellenistica e imperiale, ed ancora oltre, fino ai tracciati della strada statale e di numerose strade rurali, oltre che nella attuale lottizzazione agraria, fenomeno comune a molti centri antichi. La cronologia dell’impianto urbanistico si lega a quella del tempio di Zeus (Olympieion), realizzato probabilmente a partire dal 480 circa, che rappresenta il terminus ante quem. Il santuario è infatti inserito in modo perfetto nel tessuto viario, ed è dunque ad esso successivo (fig. 7): si noterà che è marginato a Nord dalla plateia I-L, e che il medesimo orientamento hanno gli edifici della prima metà del V secolo portati alla luce nel quartiere ad Ovest dell’Olympieion; inoltre, sia il tempio di Zeus che il vicino tempio L, a differenza di tutti gli edifici sacri più antichi presenti in questa area (dal tempio di Eracle al c.d. tempio dei Dioscuri), hanno il medesimo allineamento della pianta urbana. Ciò è stato interpretato – già da F. Castagnoli, ed accolto dalla stragrande maggioranza degli studiosi successivi – come obbedienza ad una pianificazione urbanistica che coinvolgeva l’intera città, piuttosto che come esigenza di culto, esattamente come è stato verificato nella polis magnogreca di Metaponto. Anche il terminus post quem per la realizzazione dell’impianto urbano sembra essere legato 21 agli scavi condotti nel settore occidentale della collina dei Templi, oltre ad una serie di saggi stratigrafici eseguiti in contrada S. Nicola. Su tali basi E. De Miro propone una datazione alla fine del VI sec. a.C., mentre P. Griffo riteneva che le condizioni economiche favorevoli alla realizzazione di un impianto così vasto e articolato dovessero essere successive alla vittoria di Himera del 480. In definitiva, l’impianto urbano di Akragas è anteriore alla edificazione dell’Olympieion e del tempio L, e va datato non oltre la fine del VI sec. a.C., trovando confronti con altri impianti per strigas noti in colonie siceliote e magnogreche. All’interno dello schema descritto trovarono posto le aree pubbliche, sia quelle sacre, sia quelle destinate all’esercizio delle attività politiche. L’ubicazione dell’agorà è stata oggetto, in particolare negli anni più recenti, di studi e ricerche che hanno condotto ad ipotizzare l’esistenza di due distinte agorai (“superiore” ed “inferiore”), localizzate nel settore centrale della città, ipotesi che tuttavia non vede d’accordo tutti gli studiosi (si veda in particolare MERTENS 2006). E’ bene evidente in ogni caso l’esistenza di una vasta zona pubblica, ancora non del tutto chiara nelle sue articolazioni, di raccordo tra il temenos dell’Olympieion e la collina di S. Nicola, con ampie aree destinate alle attività politiche, soggetta a profonde trasformazioni tra il IV-III sec. a.C. ed il I sec. d.C., e nella quale sono pure attestati pochi altri interventi in età costantiniana. La c.d agorà superiore viene collocata nei pressi della collina di S. Nicola (fig. 8), in posizione centrale e di cerniera tra le diverse aree della città, agevolmente raggiungibile attraverso la plateia E-F, come si è detto la più ampia tra tutte, che in età romana costituirà (ma con un dislivello di ben 8 m) il decumanus maximus. Le trasformazioni monumentali che hanno interessato questa zona ne hanno mutato in parte fisionomia e funzione, poiché agli edifici sacri di VI-V secolo (riconosciuti attraverso le tracce dei cavi di fondazione di un temenos, sulla terrazza più alta del poggio), succedono tra IV e III secolo edifici pubblici civili, dopo un’imponente opera di sbancamento e di regolarizzazione del versante sud del poggio. Il c.d. ekklesiasterion ed il bouleuterion appartengono infatti ad età ellenistica: entrambi furono realizzati probabilmente alla fine del IV secolo, ma non si può escludere che in precedenza funzioni analoghe fossero svolte in questa stessa area (a Metaponto e Poseidonia sono note infatti in età arcaica e classica strutture simili all’ekklesiasterion; proprio il confronto con Poseidonia ha fatto ipotizzare che la struttura circolare dell’ekklesiasterion, dotata di banchine ricavate nella roccia, potesse costituire il luogo centrale dell’area pubblica, tanto più che esso si trova esattamente al centro dello spazio delimitato dalle plateiai E-F a Nord e G-H a Sud, che potevano così definire l’agorà). Sull’ekklesiasterion fu eretto tra II e I sec. a.C. un tempietto prostilo, il c.d. Oratorio di Falaride, mentre il bouleuterion, dopo una fase di abbandono, fu trasformato in odeion in età imperiale. In definitiva, la sistemazione monumentale dell’area pubblica sulla collina di S. Nicola definì in età ellenistica una vasta area terrazzata, larga quattro isolati e lunga uno (circa m 160 x 300, strade comprese). Una “agorà inferiore” è stata localizzata nei pressi dell’Olympieion, subito ad Fig. 8 – L’agorà superiore (da MERTENS 2006). 22 Nord-Est del santuario, servita dalla strada che uscendo dalla attuale Porta Aurea collegava la città al mare. In questa area (attualmente destinata a parcheggio) P. Griffo aveva individuato intorno al 1950 un piazzale con pavimentazione a lastre. Il reticolo stradale è costituito dalla plateia I-L (che margina a Nord l’area pubblica) e da quattro stenopoi, ciascuno bipartito da un ambitus di drenaggio: lo stenopos più occidentale corre sulla fronte dell’Olympieion, collegandosi proprio a Porta Aurea, mentre quello più orientale è allineato con il complesso monumentale del Ginnasio, individuato nell’isolato a Nord della plateia I-L. Negli isolati pertinenti all’agorà inferiore lo scavo archeologico ha documentato l’esistenza di edifici pubblici, prevalentemente di età ellenistica, ma nei quali sono attestati anche livelli di età tardo-arcaica e classica: un edificio a pianta rettangolare nell’isolato 3, un complesso di ambienti disposti ad L intorno ad un cortile centrale nell’isolato 1, e due grandi edifici rettangolari eretti tra VI e V sec. a.C. lungo l’asse della plateia I-L. Inoltre, proprio negli isolati a Nord di questa, sono state portate alla luce una serie di strutture murarie, una delle quali si sviluppa con orientamento NO-SE (parallelamente agli stenopoi) per circa 200 m, costituendo probabilmente un muro di terrazzamento della metà del V sec. a.C. circa. Su tale struttura è stato messo in luce il basamento di un portico di età ellenistica, identificato con un Ginnasio già intorno al 1950 per la presenza di un lungo sedile iscritto con dedica di Lucio ad Hermes ed Herakles. A questi dati si affianca la più recente scoperta in situ di due distinte file di sedili affrontati, ad una delle quali appartiene l’epigrafe già nota; di estremo interesse è la scoperta di iscrizioni sulla spalliera dei nuovi sedili, che attestano la dedica ad Augusto da parte del gimnasiarca Lucio, mentre il rinvenimento di frammenti di tegole con iscrizione “GYM” prova la destinazione funzionale dell’edificio. L’ipotesi di associare il ginnasio di età romana alla posizione del Foro, il quale avrebbe potuto occupare lo stesso luogo dell’agorà di età classica (situazione che si presenta con una certa frequenza nelle città antiche), si fonda tra l’altro anche su un passo di Cicerone, il quale nelle Verrine (II, 4, 94) riferiva che il Foro della città romana era posto nei pressi del tempio di Ercole. Tuttavia, è stato notato che l’attribuzione ad Eracle dell’edificio sacro che sovrasta Porta Aurea è di natura erudita, fondata proprio sul passo ciceroniano, il che significa che la stessa associazione ginnasio-agorà (inferiore)-Foro romano è un’ipotesi ancora da dimostrare. Ha dunque forse maggior credito l’ipotesi che l’agorà fosse collocata nei pressi della collina di S. Nicola, agevolmente raggiungibile attraverso lo stenopos posto in asse con la posizione di Porta IV, che secondo una recente proposta andrebbe collocata più ad Est. Come già osservato, la notevole importanza di questo stenopos può d’altra parte spiegarne la continuità funzionale fino ai nostri giorni. Tale ipotesi è peraltro più confacente al citato passo di Livio sulla presa di Agrigento ad opera dei Romani. La suddivisione urbana descritta è stata talvolta riferita allo schema “ippodameo”, in modo improprio tuttavia: è infatti nella tradizione dell’urbanistica siceliota e magnogreca (si vedano i casi di Selinunte e Metaponto, ma anche Himera, Naxos e Camarina) l’elaborazione di piani urbanistici regolari contraddistinti da isolati allungati (si parla, mutuando un’espressione latina, di impianti per strigas). Inoltre, le caratteristiche dell’impianto di Akragas sono ben diverse dai moduli dell’urbanistica ippodamea, che peraltro, sul piano cronologico, trova la sua espressione alcuni decenni più tardi, in città pianificate tra la metà e la fine del V secolo (Thurii, Pireo, Rodi). Ulteriori considerazioni riguardano la distribuzione funzionale all’interno dell’area urbanizzata. I santuari occupano sempre luoghi rilevanti, vicini alle mura ed alle porte più importanti, in assenza delle quali potevano essere serviti da una postierla che li metteva in comunicazione con l’esterno (si veda quella presso il tempio detto della Concordia), evidentemente anche per ragioni di culto. Per quanto riguarda i quartieri di abitazione, le informazioni in 23 nostro possesso sono ancora frammentarie per le fasi più antiche, a causa della lunga continuità di vita attraverso le età ellenistica e romana. Intorno al 1920 P. Marconi portò alla luce, sulle pendici meridionali di quota 192, nel settore nord-occidentale della città, un quartiere di abitazioni, databile tra il VI ed il IV sec. a.C., caratterizzato da case disposte a schiera, dotate di cortile in comune, pozzo o cisterna. Le case erano tutte di piccole dimensioni (larghe 2/3 m e profonde 2/4 m, di rado fino a 6,25 m), di norma con un solo ambiente (raramente a stanza doppia); l’altezza non doveva superare i 2,5 m, ed i tetti erano a doppio spiovente. Gli scavi condotti a partire dal 1970 nel settore posto tra l’Olympieion ed il santuario delle Divinità Ctonie hanno rivelato l’esistenza di un quartiere con case disposte a blocchi, dotate di cortile ad L ed ambienti che si aprono su di esso, realizzate con blocchetti di pietrame. Le aree sacre L’aspetto più caratteristico, davvero peculiare per la città di Akragas, è la collocazione dei santuari urbani in luoghi particolarmente rilevanti, per lo più presso le mura ed in vicinanza delle principali porte. Oltre al santuario di località S. Anna, sono stati identificati il c.d. Santuario Rupestre, ai piedi del tempio di Demetra, e, al centro del Piano S. Gregorio, quello dedicato ad Asclepio. Le più antiche aree sacre della città greca, dedicate alle Divinità Ctonie (Demetra e Kore), si trovano – già alla metà del VI secolo a.C. – nella parte più occidentale della collina dei Templi, in particolare tra il tempio di Zeus e la Kolymbethra, di fronte al santuario extraurbano di località S. Anna, anch’esso dedicato alle Divinità Ctonie. Il santuario urbano sorge dunque all’estremità della collina, in una vasta area frazionata in tre terrazzi, che vedranno sorgere via via altari e tempietti, e nella prima metà del V secolo due edifici peripteri (c.d. tempio dei Dioscuri e tempio L), oltre a due fondazioni sovrapposte relative a due templi non portati a compimento. Ulteriori rifacimenti interessano l’area fino ad età ellenistica, quando sulla più alta delle tre terrazze che scandiscono l’area fu eretto un portico ad L, che si sovrappose al muro di temenos e alla lesche arcaica, ed un edificio circolare (tholos). Altri edifici di età arcaica sono noti sia al di sotto dell’attuale tempio di Vulcano, dunque sullo sperone roccioso che sta di fronte S. Anna, sia nell’area del tempio di Zeus, sia più ad Occidente, nei pressi di Villa Aurea. Quello sotto il tempio di Vulcano è un tempietto in antis (?) di m 13,25 x 6,50, dotato di terracotte architettoniche policrome datate alla metà del VI secolo, mentre al 530 a.C. circa è riferito l’edificio rettangolare vicino Villa Aurea, caratterizzato da una pianta allungata (m 31,55 x 10,35), di cui rimangono in vista poco più delle fondazioni. Un altro temenos è stato individuato, si è detto, sotto l’ekklesiaterion. Ma, come è stato notato, è il V secolo il momento in cui Akragas assume un ruolo di particolare rilievo nell’evoluzione dell’architettura templare siceliota. Dopo il c.d. tempio di Eracle vengono costruiti il tempio di Zeus (Olympieion) e quello dedicato a Demetra; quindi, uno dopo l’altro, i templi peripteri agrigentini posti in fila lungo la cresta meridionale, dal c.d. tempio di Giunone Lacinia al c.d. tempio di Vulcano, cui si affiancò il tempio di Atena sulla collina di Girgenti. Proprio tale sequenza ha suggerito l’esistenza di una scuola di architetti, tesi al perfezionamento delle proporzioni tra il volume complessivo del tempio e le singole membrature architettoniche, confermato in anni recenti da puntuali rilevamenti strumentali. L’edificio più antico è il c.d. tempio di Eracle (tempio A), eretto alla fine del VI sec. a.C. Ha una pianta rettangolare allungata (m 25,33 x 67) grazie allo pteron profondo due interassi alle due estremità, dotato di una peristasi di 6 x 15 colonne, e pronao ed opistodomo distili in antis; la cella è piuttosto larga (quasi 12 m), con la conseguenza che gli ambulacri laterali risultano alquanto stretti. L’Olympieion (tempio B) fu forse realizzato a seguito della vittoria di Himera del 480, e di esso una suggestiva e puntuale descrizione ci è stata 24 tramandata da Diodoro (XIII, 82, 2), che riteneva che si trattasse di un edifico mai portato a compimento; opinione oggi non più da tutti condivisa. Costruito su poderose fondazioni (alte fino a 6,70 m) e crepidine piuttosto elevata (5 scalini), misurava m 56,30 x 112,60/70, dunque con un quasi perfetto rapporto 1:2 tra larghezza e lunghezza. Lo sviluppo in altezza è ancora incerto, poiché per le colonne sono state ipotizzare altezze variabili (tra 19,20 e 21,57 m); quasi 6,50 m era l’altezza della trabeazione. Si tratta di un tempio pseudoperiptero, dotato di 7 x 14 semicolonne all’esterno, cui corrispondono pilastri all’interno, scandito in modo pressoché perfetto in tre navate nel senso della lunghezza. I muri della cella sono sostenuti da robusti pilastri, aggettanti sia all’esterno che, in misura maggiore, all’interno; tripartita in pronaos, naos ed opistodomo, è dotata di unico pilastro centrale sulla porta del naos, mentre pronaos ed opistodomo sono privi di sostegni in antis. Il naos era ipetro, cioè privo di tetto, mentre le due navate laterali, attraverso le quali si accedeva da Oriente all’interno dell’edificio, erano coperte da tetti a doppio spiovente, con kalypteres dalle decorazioni policrome; la sima era dotata di gocciolatoi a protome leonina, il cui unico esemplare noto viene datato all’ultimo quarto del V secolo. Le pareti esterne erano decorate con i telamoni, collocati circa a metà altezza, forse elementi strutturali oltreché estetici, destinati anche a reggere il peso della trabeazione. I due frontoni, infine, erano alti al centro circa 6 m, e decorati con Gigantomachia ad Est ed Ilioupersis ad Ovest. Il tempio di Demetra (tempio C), in età normanna trasformato in chiesa, dedicata a S. Biagio, si trova nella zona sud-orientale della Rupe Atenea. Databile intorno al 480-470 a.C., è un edificio ampio m 13,30 x 30,20, distilo in antis, cioè dotato di due colonne inquadrate tra le ante della cella, non circondata da un colonnato (peristasi); il tetto era coronato da una sima (cornice) in calcare con gocciolatoi a protome leonina. Dell’edificio antico è oggi visibile il vespaio di fondazione, a graticcio, e parte dell’elevato in blocchi isodomi inglobato nelle strutture della chiesa. La presenza di due altari subito a Nord del tempio, insieme al rinvenimento di offerte votive, statuette e busti fittili, ha indotto ad attribuire il tempio a Demetra e Kore. Ai piedi di questo edificio, all’esterno della linea delle fortificazioni, si trova il c.d. santuario rupestre delle Divinità Ctonie, nel quale al momento della scoperta furono rinvenuti busti fittili femminili. Si tratta di un complesso dalla struttura particolare, attivo probabilmente dal VI agli inizi del III secolo; esso comprende due grotte ed un “vestibolo” sulla fronte, di pianta rettangolare allungata, collegato tramite un canale ad una serie di vasche. Sulla collina di Girgenti è il tempio di Atena (tempio E), come si è detto inglobato nei livelli inferiori della chiesa di S. Maria dei Greci, databile poco dopo la metà del V secolo. Quasi nulla rimane (ma doveva essere un periptero di 6 x 13 colonne) del tempio L, identificato nel settore più occidentale della collina dei templi, ad Ovest dell’Olympieion. Ma ciò che colpisce di più l’orizzonte è la sequenza di edifici sacri sulla c.d. collina dei Templi, eretti in massima parte tra il 460 e la distruzione cartaginese del 406. Il tempio di Hera, o di Giunone (tempio D), è un dorico periptero dotato di 6 x 13 colonne (m 16,95 x 38,13), eretto su un alto basamento in posizione enfatica (fig. 9), all’estremità orientale della collina del Templi, ben visibile per chi proveniva da Est. Sulla fronte si trova l’altare, monumentale, ampio quanto l’edificio sacro. Il c.d. tempio della Concordia (tempio F) rivela caratteri analoghi al precedente, dal possente basamento su cui è eretto, alle dimensioni, al numero delle colonne. Costruito poco dopo il tempio di Hera, Fig. 9 – Il tempio di Hera (veduta da NO). 25 deve il suo stato di conservazione all’essere stato trasformato in basilica cristiana alla fine del VI secolo dal vescovo Gregorio, episodio che pure ha prodotto alterazioni nella struttura originaria (realizzazione di arcate nei muri della cella). Infine, oltre i templi di Eracle e di Zeus, si apriva l’ampia area santuariale prossima a Porta V, dove oggi svetta il tempio periptero detto dei Dioscuri, anch’esso con peristasi di 6 x 13 colonne. Realizzato nella prima metà del V secolo (probabilmente intorno al 470450), sono state risollevate in tempi moderni quattro colonne d’angolo, peraltro utilizzando elementi diversi dall’area del santuario. Chiude la serie, sulla piccola terrazza che domina la Kolymbethra, il c.d. tempio di Vulcano (tempio G), della fine del V secolo, sempre dotato di una peristasi di 6 x 13 colonne (m 20,66 x 42,82). La presenza di bugne sulle colonne e sulla crepidine suggerisce che il tempio non sia stato portato a compimento, forse a seguito degli eventi culminati con l’assedio cartaginese. Bibliografia essenziale AA.VV., Da Akragas ad Agrigentum: le recentissime scoperte archeologiche nel quadro della storia amministrativa e culturale della città, Atti del Colloquio di Agrigento del 28 ottobre 1996, in Kokalos XLII, 1996, pp. 3-90. L. BRACCESI, E. DE MIRO (a cura di), Agrigento e la Sicilia greca. Atti della settimana di studio (Agrigento, 2-8 maggio 1988), Roma 1992. E. DE MIRO, La valle dei Templi, Palermo 1994. E. DE MIRO, Agrigento, I. I santuari urbani. L’area sacra tra il temenos di Zeus e Porta V, Roma 2000. D. DEORSOLA, Il Quartiere di Porta II ad Agrigento, in Quaderni di Archeologia dell’Università di Messina 6, 1991, pp. 71-105. P. GRIFFO, Akragas-Agrigento. La storia, la topografia, i monumenti, gli scavi, Agrigento 1997. D. GULLÌ, Agrigento prima dei Greci, in Quaderni di Archeologia dell’Università di Messina 3, 2003, pp. 5-83. M. LOMBARDO, E. DE MIRO, s.v. 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Studi in onore di Ernesto De Miro, Palermo-Roma 2003, pp. 685-691. te sti di Giuseppe Barbera e Maria Ala Riscoprire il paesaggio agrario della Valle dei Templi tra miti, storia, letteratura e tradizione Giuseppe Barbera, Maria Ala La Valle dei Templi, per i monumenti archeologici e per il paesaggio agrario e naturale che li contiene e li conserva, è inserita dall’Unesco, tra i “patrimoni dell’umanità”, il che conferma non solo il suo straordinario valore culturale, ma rafforza anche il convincimento che costituisca una risorsa da valorizzare in quanto paesaggio culturale, espressione di una interazione dinamica tra l’uomo e la natura e testimonianza di una lunga, ininterrotta evoluzione biologica e culturale (Barbera, Di Rosa, 2000). La creazione, con la L.R. 20 del 2000, di un Parco della Valle dei Templi dichiaratamente denominato “archeologico e paesaggistico”, non fa che confermare l’accresciuta consapevolezza dei valori della Valle e del suo paesaggio che è ascrivibile, secondo la classificazione proposta da Meeus (1995) per i paesaggi agrari europei, alla tipologia della “coltura promiscua”: nei terreni migliori pianeggianti o subpianeggianti il mandorlo e l’olivo prevalgono sui seminativi e sulla vite, mentre il carrubo, il pistacchio e il ficodindia sono presenti nei terreni più poveri o con rocciosità affiorante. Nelle aree dove maggiore è la disponibilità di risorse idriche, non mancano “giardini” di agrumi e frutteti irrigui. Importanti sono anche i lembi di macchia, di comunità rupicole e, seppure fortemente degradate, di comunità ripariali in alcuni tratti di fiumi. In questi ultimi anni poi il paesaggio si è arricchito di porzioni di rimboschimento, realizzate soprattutto con pini ed eucalipti. Il paesaggio della Valle è il risultato dell’incontro tra i caratteri naturali e l’ingegno dell’uomo, della lenta evoluzione del rapporto tra natura e cultura, di un progetto collettivo che ha misurato la necessità di produrre con le risorse disponibili e con i caratteri dell’ambiente. Un paesaggio agrario tradizionale i cui caratteri fondanti appaiono molto remoti: già nel 480 a.C., Diodoro Siculo riporta la presenza di vigneti e alberi da frutto e le attività agricole rappresentarono insieme al commercio la base principale 29 dell’economia durante il periodo greco. Alla base del successo agricolo del territorio agrigentino è la sua fertilità, caratteristica che colpisce l’attenzione di Al-Idrisi, geografo arabo alla corte normanna, che nel 1138 visita la città ormai arroccata sulla collina che “possiede orti e giardini lussureggianti, nonché un’ampia varietà di prodotti frutticoli... Numerosi sono i suoi giardini, ben note le sue derrate” e si conferma nei resoconti dei viaggiatori del Grand Tour che giunti per i resti archeologici scoprono una ricca agricoltura in un paesaggio di straordinaria fertilità (Barbera, 2003). Per J. H. von Riedesel (1767) “il declivio dalla città fino al mare... è coperto di vigneti, di olivi, di mandorli, di superbe biade, di legumi eccellenti, insomma di tutte le produzioni che può somministrare la terra, piantate alternativamente con la più graziosa varietà, dove le possessioni dei diversi proprietari sono separate da siepi di aloe e di fichi d’India... è un paesaggio di delizie, vero e proprio Eden”. Fig. 1 – Tête d’un géant du Temple de Jupiter Olimpien en Agrigente. Peint par Hubert. Per P. Brydone (1770) “la campagna... produce grano, vino ed olio in grande abbondanza e allo stesso tempo è ricolma di frutta magnifica di ogni qualità: aranci, limoni, melegrane, mandorle, pistacchi... gli occhi ne gioivano quasi altrettanto che a rimirare le rovine da cui germogliano”. Swinburne, baronetto di antica famiglia cattolica che visita Agrigento nel 1777, scrive: “le rovine della città antica appaiono distintamente tra la verde campagna... Nessuno può rendere giustizia alla bellezza della valle... rigogliosamente coltivata a sempreverdi e alberi di mandorli in fiore”. Al di là delle descrizioni del vasto paesaggio punteggiato dalle rovine, in Swinburne si coglie con maggiore interesse, il rapporto tra le rovine e gli elementi vegetali. Per la Tomba di Terone, egli scrive che è “circondata da antichi alberi di olivo che proiettano una selvaggia e irregolare ombra sulle rovine”. Si tratta di un’attenzione che sarà ricorrente nel nuovo spirito. Del Tempio di Giunone Münter (1785) dirà: “Questa rovina è inesprimibilmente bella e pittoresca. Ne ho viste poche che facciano una impressione così sublime, poiché tutto, i giardini profumati, gli alberi che si intrecciano tra i ruderi... tutto contribuisce a riempire l’animo di un sentimento di pace solenne…”. Questa sensibilità verrà evidenziata, da Hoüel in poi, nell’iconografia Fig. 2 – Rovine di Agrigento. Gustavo Strafforello, 1891. 30 dei templi che accompagna la letteratura dei viaggiatori. Nel 1794 Friedrich Leopold conte di Stolberg, di aristocratica famiglia danese, amico di Münther e di Goethe, realizza il sogno del viaggio verso sud. Questi trova proprio ad Agrigento l’atmosfera ideale per la sua sensibilità di poeta studioso e innamorato del mondo classico. Allo spettacolo delle rovine del Tempio di Giove resta colpito dalla forza della natura: “La distruttiva mano dell’uomo demolisce in un unico ammasso; il potente abbraccio della natura soltanto ha potuto scagliare questi ingombranti massi in tanta caotica mescolanza. Sempre giovane, sempre vittoriosa, essa (la natura) sorride sotto le rovine di un’arte superba, ma imponente: tra questi pilastri la terra fa spuntare un boschetto verdeggiante di fichi e alberi di mandorle. Il primo albero di pistacchio che io vidi fu nel Tempio di Giove Olimpo, ed era un tempo coperto di fiori e di rossi frutti appena apparsi”. Della Valle scrive che “è ripartita in fertili campi di grano, vigneti, alberi di fico, e melograni. Questi frutti sono tutti eccellenti nella loro specie: non potrò mai scordare il piacere che ho provato sotto un albero di gelso di straordinaria grandezza. Infatti, sebbene sopraffatti dalla grande calura, noi potemmo sopportarla, andando di rovina in rovina, talora cavalcando e talora camminando, rinfrescati da questi frutti paradisiaci. Le coltivazioni di mandorlo sono altrettanto estese e le mandorle si mangiano ancora acerbe, e a me sembrano molto più gustose di quando sono mature; oltre a ciò sono ritenute molto salutari. Alberi di olivi e fertili campi di grano deliziano la vista d’ogni parte”. Ed è significativo che Stolberg concluda il suo resoconto su Agrigento e, insieme, il terzo volume delle sue “lettere” con entusiastica descrizione della “ferula o finocchio gigante selvatico” di cui esalta le qualità prodigiose e che ricollega ai più antichi miti cantati dai più grandi poeti greci, citando brani di Esiodo, Eschilo ed Euripide. “Ho conosciuto qui la ferula o finocchio gigante, una pianta che produce un fiore ad ombrello o ciuffo. I Greci lo chiamavano nardex. Esso raggiunge l’altezza di un uomo e assomiglia al finocchio che qui cresce altrettanto alto, e lo stelo è cavo e ripieno di una sorta di essenza che si accende come un fiammifero e a lungo continua a brillare. Da ciò gli antichi immaginavano che Prometeo portò il fuoco dal cielo nello stelo di questa pianta...”. Ancora più celebri le parole di Goethe che soggiorna ad Agrigento dal 23 al 27 aprile 1787. “Girgenti, martedì 24 aprile 1787. Una primavera splendida come quella che ci ha sorriso stamane al levar del sole, certo non ci è stata mai concessa nella nostra vita mortale. ... Dalle nostre finestre abbiamo contemplato in lungo e largo il lieve declivio della città antica, tutto rivestito di orti e di vigneti, sotto la cui verzura non si supporrebbe nemmeno la traccia di quartieri urbani un tempo così vasti e così popolosi. Il tempio della Concordia si vede appena spuntare all’estremità meridionale di questo piano tutto verde e tutto fiori...”. Con precisione scientifica Goethe, scrive ancora: “Girgenti, giovedì 26 aprile 1787. ... Per piantar le fave usavano il sistema seguente: praticano buche nel terreno a giusti intervalli, vi gettano un pugno di letame, aspettano la pioggia e poi seminano... L’ordine in cui avvicendano le colture è: fagioli, grano, tumenia; al quart’anno il terreno viene lasciato a maggese. Per fagioli qui s’intendono le fave. Il grano è meraviglioso. La tumenia, il cui nome deriverebbe da bimenia o da trimenia, è un bellissimo dono di Cerere, una specie di grano 31 estivo che matura in tre mesi. Lo seminano da Capodanno fino a giugno ed è sempre maturo alla data stabilita. Non abbisogna di pioggia abbondante, ma di forte caldo; all’inizio la foglia è molto delicata, ma poi cresce insieme col grano e alla fine si rafforza assai. La semina del grano avviene in ottobre e novembre, e a giugno è maturo. Ai primi di giugno è anche maturo l’orzo seminato a novembre... Le superbe foglie dell’acanto si sono aperte. La Salsola fruticosa cresce abbondante... I fichi avevan messo tutte le foglie e cominciano a spuntare i frutti... I mandorli erano carichi; da un carrubo potato pendevano baccelli a non finire. L’uva da tavola viene tesa su pergolati sorretti da lunghi pali. A marzo piantano i poponi, che a giugno sono maturi: crescono prosperosi in mezzo alle rovine del Tempio di Giove, senz’ombra di umidità. Il vetturino mangiava di buon appetito carciofi e broccoli di rapa crudi; bisogna dire che sono più dolci e succulenti dei nostri. Quando si attraversa un campo i contadini lasciano per esempio mangiar fave a volontà”. Charles Didier, ventiduenne tormentato ed inquieto, giunge in Sicilia nel 1829 e vi soggiorna per sei mesi. Durante la sua visita ad Agrigento rimane particolarmente colpito dal Ficodindia e così scrive: “i templi si nascondono in parte, qui sotto la pallida ombra dell’olivo, là tra il fogliame spesso e cupo del carrubo. Il colore giallo e ardente delle colonne contrasta col verde dai mille riflessi, dalle mille tonalità. Il fico d’India si impadronisce di ogni angolo e spande sulle pietre le sue foglie grasse e immobili; insensibile al soffio della brezza, non si piega mai su se stesso; è rigido, inerte, lo si crederebbe più un finto arbusto, metallico, anziché una pianta con linfa e vita; accanto a lui, al contrario, il mandorlo muove i suoi rami leggeri e flessibili al minimo soffio di vento...”. Profetiche, rispetto alle recenti vicende urbanistiche, sono le parole dell’economista Laugel (1872): “La natura è meglio di quanto siano gli uomini; con quale manto meraviglioso avvolge questi grandi simulacri di una religione antica! Il fogliame argentato degli ulivi, i fiori rosa dei mandorli, i verdi germogli dei fichi, l’erba alta, i fiori di campo stendono un meraviglioso manto sul grande cimitero”. Frances Elliot Minto, nel suo fortunato Diary of an idle woman in Sicily, pubblicato a Londra nel 1881, descrive così la Città dei Templi: “Girgenti, la magnifica, Akragas dei greci, Agrigentum dei romani, è una città luminosamente bianca, arroccata su di un’altura di fronte al mare. La storia si dimentica dinnanzi allo stupendo panorama, secondo in bellezza solo a quello di Taormina. La squisita armonia delle coltri di verdi spighe e di vigneti in germoglio che si rincorrono con le onde purpuree dei boschi: qui e lì un fico o un carrubo delimitano i campi di grassa erba cosparsi di fiori, giù fino alle mura greche, cintura d’oro sul mare cobalto e turchese, a fasce digradanti nell’azzurro più tenero fino all’incontro col cielo... Quando al mio arrivo diedi uno sguardo al panorama, dai luridi vetri della mia finestra, appena realizzai che cosa mi stava di fronte ricaddi in un estatico rapimento che non riesco ancora a dimenticare... Cerchiamo di immaginare, e non è difficile, un giovane greco senza pensieri, sdraiato lungo l’argine, con la faccia al sole, in attesa di una Lesbia o di una Cloe, mentre respira l’arte nella natura intorno. …le divinità fluviali inseguono le ninfe tra gli alti canneti; le baccanti col capo adorno di pampini d’uva battono il ritmo esasperato delle danze della Lidia: ogni cosa, invitante, parla ai suoi sensi. La terra ricca offre frutti, selvaggina, pesci, subito preparati nelle piccole capanne sotto le palme, dove i pastori zufolando conducono le greggi dal vello soffice all’ombra dei pergolati, mentre i flauti di Pari risvegliano echi di motivi pastorali nel folto dei giardini”. Nel 1896 Gastone Vuillier giunto ad Agrigento scrive: “La notte era dolce ed io feci tardi sul balcone dell’albergo, addossato alla città. Da quell’altezza mi pareva quasi librarmi nello spazio; la luna splendeva nel cielo, ove qualche stella filava ancora... Tutto il piano dormiva in un diafano mistero, e in lontananza, attraverso i pallidi ulivi e i neri carrubi, intravedevo, come in un sogno, colonnati dei templi antichi. Il paesaggio era grandioso... La natura s’è nuovamente 32 impadronita di quell’antico sepolcro d’un popolo e fiorisce sulla terra cruenta e stilla profumi nelle ceneri dei morti... giunsi presto al Tempio di Concordia... Esso domina selve d’ulivi, di messi ed infine il mare...”. Il milanese Luigi Vittorio Bertarelli segna, invece, l’inizio di un nuovo modo di affrontare il viaggio, più vicino ai nostri canoni, sempre meno circondato da suggestioni e miti. Bertarelli viaggia in bicicletta raggiungendo la Valle dei Templi che descrive in questa maniera: “La strada è completamente deserta, il terreno in qualche parte incolto, coperto di palme nane (Chamaerops humilis), i campi bordati di lunghe righe di agavi spinose, il cui scapo fiorito si alza in fusti sottili e graziosi fino ad otto metri. Nell’aria ardente, che brucia le fauci, tutto oscilla: dove una tumefazione del terreno porta la strada un pò’ in su e l’occhio corre tangente alla curva che sale, ivi il tremolìo dell’aria calda è così vivo, che un fiume invisibile si direbbe scorra sulla terra. L’arsura traspare dalle foglie anelanti, di legni screpolati, dal suolo pieno di fenditure, dai colorì, dal silenzio, dal cielo infuocato. E’ un paesaggio africano”. Attraverso questo excursus è possibile confrontare le immagini del paesaggio descritto o disegnato con quelle del paesaggio esistente; confronto dal quale si può constatare la verosimiglianza delle stesse immagini e dedurre che esso non è sostanzialmente cambiato da quando la Valle dei Templi è diventata anche “paesaggio culturale” (Barbera, Di Rosa, 2000). Il paesaggio dell’arboricoltura asciutta: il “bosco di mandorli e ulivi” Il paesaggio agrario della Valle dei Templi riconosce nel mandorlo e nell’olivo la sua componente vegetale più caratterizzante. E’ un paesaggio che ricorda una pagina importante nella storia dell’agricoltura siciliana: quella che, a cavallo tra il XVIII e XIX secolo, ha visto la valorizzazione attraverso gli alberi da frutto delle colline dei latifondi prima dominate dal pascolo e dai seminativi. Il mandorlo, che fiorisce nel pieno inverno da dicembre a marzo con colori che vanno dal bianco candido alle varie gradazioni di rosa, è uno degli elementi che più alimentano il mito dell’eterna primavera del sud, coprendo le colline della Sicilia interna, come quella di Aragona che scrive Bartels (XVIII secolo) ha “tanti mandorli quante stelle ha la via Lattea”. Insieme all’ulivo dà vita al paesaggio definito dell’arboricoltura asciutta, per sua resistenza all’aridità, e al “bosco di mandorli e ulivi” della Valle così come definisce Luigi Pirandello nel suo romanzo “I vecchi e i giovani”, il paesaggio asciutto del mandorlo e dell’ulivo della Valle dei Templi. Il mandorlo, non ha particolari necessità nei confronti dell’acqua tradizionalmente scarsa nell’isola e si adatta a suoli con rocciosità affiorante e, come nessuna altra specie da frutto, ai terreni calcarei, entrambi molto diffusi. Ha, inoltre, necessità di investimenti ridotti e di limitate cure colturali, risultando così idoneo a sistemi agricoli marginali come sono quelli delle aree interne collinari. Il frutto, prodotto tipico dell’economia dì sussistenza, ma allo s tesso tempo richiesto dai mercati internazionali, si conserva facilmente a lungo, sopportando trasporti disagevoli anche per lunghi viaggi (Barbera, 2000). Il mandorlo, originario delle regioni montagnose dell’Asia centrale, arriva nel bacino mediterraneo in epoca e in circostanze ignote. Certamente dall’Asia Minore, come dimostrano alcune considerazioni linguistiche e le connessioni con i miti greci, che spesso lo citano, e più antichi miti orientali. Il mandorlo, in Sicilia sembra essere presente già nel V millennio a.C., come evidenzia una recente esplorazione paleobotanica condotta nella Grotta dell’Uzzo nei pressi di San Vito Lo Capo (Trapani), che ha portato al rinvenimento di alcuni semi carbonizzati già in quel periodo. La tradizione vuole, però, che sia giunto con i Fenici o, anche più tardi, tramite la dominazione greca. Catone (che per primo impiega il termine utilizzato dagli scrittori latini nux grecae), Plinio e Columella sono testimoni della sua diffusione nel mondo latino e decisi propugnatori, con indicazioni di carattere agronomico ancora attuali, della sua espansione in coltura (Barbera, 2000). L’esportazione dall’isola appare già attiva nel IV secolo a.C., come dimostrerebbero alcune mandorle di origine siciliana, Fig. 3 – La Valle dei Templi imbiancata dai mandorli in fiore, 1920 ca. (Fototeca Museo Civico di Agrigento). 33 rinvenute in un relitto al largo dell’isola di Maiorca. Per quanto riguarda la Sicilia, sono particolarmente interessanti le testimonianze del viaggiatore arabo Al Idrisi (XII secolo), che ricorda l’esportazione da Carini, e la diffusa presenza nei frutteti promiscui della Conca d’Oro. E’ però tra il XVIII e il XIX secolo, che i mandorli vengono diffusi ampiamente nell’isola, soprattutto nei pressi dei centri abitati dove vi è disponibilità di lavoro contadino e si ha la diffusione di contratti di enfiteusi che minano la grande proprietà latifondistica. Viene impiantato insieme all’ulivo, spesso seguendo la vite, nei territori interni a dimostrare insieme evoluzione tecnica, nuova organizzazione territoriale e certezza del possesso. Alla diffusione della specie molto contribuisce l’opera di Paolo Balsamo, primo agronomo siciliano moderno, convinto assertore degli alberi e in modo particolare del mandorlo. Agli inizi dei XIX secolo, infatti così si pronuncia: “... non dubito di riputare il mandorlo, come uno dei più utili, e pregevoli alberi tra quelli, che vi sono in Sicilia, ed Fig. 4 – Il “bosco di mandorli e ulivi” della Valle dei Templi (Foto di A. Pitrone). 34 oso pronunziarlo uguale, o superiore in merito all’istesso ulivo. Certo che questo dura di più, e negli anni più fertili dà assaissimo, ma quello è più presto a dar frutto, lo somministra quasi regolarmente ogni anno, e chiunque sa di raccolto delle mandorle è incomparabilmente meno costevole che quello delle ulive”. Dal XVIII secolo la diffusione della coltura è rapida in tutta l’isola, con un incremento delle superfici particolarmente avvertito negli anni a cavallo dei secoli XIX e XX, quando la specie si estende a scapito dei vigneti distrutti dall’invasione della fillossera. E’ a partire dagli anni ‘60, con l’espansione della mandorlicoltura californiana e spagnola e l’affermarsi di quei sistemi colturali intensivi, che inizia il regresso economico e tecnico della specie in Sicilia. La coltura del mandorlo nella Valle dei Templi, e in generale nel territorio agrigentino, ha fatto registrare il crollo delle produzioni, come riflesso della concorrenza esercitata da colture ritenute più remunerative e di un progressivo abbandono che giunge, oggi, fino alla mancata esecuzione delle operazioni colturali più elementari (Barbera e Monastra, 1989). A ciò si aggiunge il triste fenomeno della morìa dei mandorli, con conseguente diradamento dell’arboreto, dovuto al propagarsi di diverse malattie fungine (gommosi parassitaria, cancro dei rami e delle gemme, carie dei tronchi ecc.) che lentamente, com’è nei caratteri propri di queste patologie, si diffondono in tutte le parti della pianta causandone la morte in breve periodo. Diverse superfici risultano completamente prive di alberi e nelle altre, la densità di impianto è scesa dalle 150-200 piante ad ettaro di un buon mandorleto tradizionale, alle 50-80 attuali. Il danno maggiore prodotto da questo grave fenomeno, è la scomparsa di parte delle varietà, o meglio di eco-tipi, di mandorlo che spesso sono proprie della Valle e non si ritrovano altrove. Tra queste sicuramente le piante con la suggestiva fioritura dicembrina (Lo Pilato, 1995). Fig. 5 – Il Museo Vivente del Mandorlo “Francesco Monastra”. 35 Nel 1997, un’azione volta a salvare e conservare la biodiversità del mandorlo, si è concretizzata nella realizzazione del Museo Vivente del Mandorlo intitolato al Prof. Francesco Monastra, con il supporto della Soprintendenza BB.CC.AA di Agrigento e della Provincia Regionale di Agrigento. Un campo collezione che conserva circa 300 varietà tradizionali dell’antica mandorlicoltura siciliana, recentemente arricchito dalle collezioni varietali siciliane di pistacchio, carrubo, olivo. Il disegno ricalca l’aspetto di un mandorleto tradizionale dove frammisti ai mandorli, si trovano olivi, carrubi, pistacchi, gelsi, sorbi e arbusti caratteristici della frutticoltura non irrigua della Sicilia. Un mandorleto, oltre che a conservare la biodiversità, ha anche la funzione di mostrare, con finalità didattiche, le tecniche colturali dell’agricoltura tradizionale. Servirà, come banca di germoplasma, a valutare le varietà in funzione del loro valore paesaggistico fino a diffonderle in modo, ad esempio, da offrire fioriture continue da dicembre ad aprile, bianche o colorate con tutti i toni del rosa, e potrà stimolare la promozione di produzioni artigianali, come quelle pasticciere, legate al mandorlo e ai suoi prodotti. Dovrà, in definitiva, non solo conservare le risorse genetiche della specie, ma costituire, anche, un’utile indicazione per la salvaguardia del paesaggio agrario tradizionale della Valle, un originale esempio di musealizzazione all’aperto (Barbera, 2000). Fondamentale per lo studio della biodiversità e per il recupero paesaggistico dei sistemi agrari e naturali degradati e, nell’accezione più ampia, per la tutela e valorizzazione del paesaggio culturale della Valle dei Templi, è un laboratorio attrezzato per la caratterizzazione e la conservazione di germoplasma, recentemente realizzato in un antica masseria ottocentesca nota come “Case Fiandaca”, grazie a un’azione comune del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi e il Dipartimento di Colture Arboree di Palermo. Nell’antica casa rurale è prevista anche una sezione etno-antropologica che raccoglierà testimonianze materiali della storia e della cultura e che considererà non solo la fase agricola ma anche quella di lavorazione e trasformazione, comprendendo, così, anche le produzioni artigianali pasticciere. Dovrà, in definitiva, non solo conservare le risorse genetiche della specie ma costituire, anche, un’utile indicazione per la salvaguardia del paesaggio agrario tradizionale e dei suoi valori (Barbera, 2003). Tradizionalmente per far cadere i frutti dei mandorli della Valle, i rami venivano “bacchettati” con delle lunghe canne secche che provenivano dal Giardino della Kolymbetra. Qui gli agricoltori dopo aver raccolto le canne dal fiume, le facevano asciugare al sole poggiate agli alberi di arancio, per poi venderle, riunite in fasci e divise per altezza, per la raccolta delle mandorle e delle olive, ma anche per la coltivazione della vite e di alcune specie da orto (Ala, 2005). Il frutto può essere consumato intero, dalla formazione (allegazione) all’indurimento del guscio. I semi si utilizzano sia allo stato fresco, a partire dal mese di giugno, quando i cotiledoni delle varietà a guscio premice e semipremice (mollesi) sono induriti, che secco. I semi allo stato secco sono impiegati per il consumo diretto e soprattutto in pasticceria per la produzione della pasta “reale”, che si ottiene macinando i semi e miscelandoli con lo zucchero. I frutti di “martorana” (dal nome di un vecchio convento palermitano), venduti come dolci tipici durante le feste dei morti, sono costituiti solo di 36 questa pasta, mentre gli “agnelli pasquali”, dolci a forma di agnello, ricoperti di glassa e confetti, sono preparati anche con un cuore di pasta di pistacchio. Tradizionale è anche la produzione di “latte di mandorla”, una emulsione di zucchero e mandorle pelate e pestate e filtrata più volte che, bevuta fredda in estate, rende plausibile ciò che scriveva un trattato francese di fitoterapia degli inizi dell’Ottocento circa i suoi benefici effetti “sugli ipocondriaci, sui romanzieri, sui poeti, il cui cervello affaticato dagli sforzi di un’immaginazione ardente cade talvolta in un vago delirio con l’avvicinarsi della notte” (Barbera, 2007). Oltre che come alimento, i semi sono impiegati in farmacopea. L’olio di mandorle, ottenuto per pressione a freddo, ha funzioni riconosciute di tipo analgesico ed antinfiammatorio, ed è utilizzato sia in medicina che in cosmetica. E’ tradizionalmente adoperato in Sicilia come “rinfrescativo e purgativo, adoprandolo in qualunque tempo, ora e momento ed in qualunque malattia” (Sestini, 1780). Dopo l’estrazione dell’olio, la farina residua può utilizzarsi tal quale o unita alla farina di frumento. I gusci, dopo l’estrazione dei semi, un tempo venivano utilizzati come combustibile solido. Il mallo veniva impiegato sia per l’alimentazione animale sia, dopo l’incenerimento, per la produzione di carbonato di potassio (lisciva o potassa) usato come fertilizzante e per la produzione di sapone molle che, Fig. 6 – Vecchi impianti di mandorli e ulivi promiscui, in consociazione con colture cerealicole, 1920 ca. (Fototeca Museo Civico di Agrigento). ottenuto con la cenere della bruciatura dei malli, mescolata ad olio o grasso animale, è stato impiegato per usi domestici fino agli anni ’50. Di questa antica usanza ne parla anche Goethe nel 1827, durante il suo soggiorno ad Agrigento: “I gambi delle fave vengono arsi, e ne ricavano una cenere che adoperano per il bucato. Non usano sapone. Bruciano pure i gusci delle mandorle e se ne servono in luogo della soda, lavando la biancheria prima con l’acqua e poi con questa lisciva”. La corteccia delle radici del mandorlo è stata usata come colorante naturale, mentre gli essudati gommosi del tronco, conosciuti come “gomma del paese”, come sostituti della gomma arabica (Barbera, 2000). Insieme ai mandorli, gli enormi “ulivi saraceni”, citati così da Pirandello nel romanzo “I vecchi e i giovani”, costituiscono il “bosco di mandorli e ulivi” della Valle, dando vita a “gruppi di meravigliosi alberi... a cui soltanto il magico tocco del Creatore potrebbe rendere giustizia”, come scriveva il letterato inglese Henry Swinburne nel 1777. Nei vecchi impianti di mandorli e ulivi promiscui e in consociazione, l’impalcatura era molto alta, fino a 2 m, per non ostacolare il passaggio di animali e consentire le colture erbacee. L’altezza più frequente è però intorno a 1,20-1,40 m e solo negli impianti più recenti scende al di sotto di 1 m. Per quanto riguarda le lavorazioni, tradizionalmente si operava 2-3 volte l’anno - in novembre, in febbraio dopo la fioritura e in aprile-maggio - ricorrendo al lavoro animale e all’aratro a chiodo (Barbera, 2000). L’olivo è l’albero che più di tutti ha seguito la natura e la storia dell’uomo, almeno da seimila anni. L’uso, invece dell’oleastro è ancora più antico. Dalla Mezzaluna fertile l’olivo si diffuse nel secondo millennio verso Occidente. Arriva nella Grecia antica dove sarà considerato l’albero della civiltà come la quercia era della mitica età dell’oro, quando gli uomini mangiavano le ghiande. Secondo la mitologia è dono della dea Atena che ottiene di governare sull’Attica perché, piantando il primo olivo sull’acropoli, ha regalato agli uomini “il dono migliore” e ha così vinto la disputa con Poesidone che aveva dato in dono un cavallo. L’albero di Atena che darà il nome alla città, era ancora venerato ai tempi romani; nei saccheggi cui fu sottoposta Atene gli 37 alberi sacri furono risparmiati dagli spartani. Per i Greci, del resto abbattere o bruciare olivi era un reato punito dagli dèi, ma non dai persiani che non riuscirono però a sopprimerli visto che subito riformarono, ricacciando dalle radici, nuove chiome (Barbera, 2007). Nel VI secolo a.C., l’olivo era ancora conosciuto in Italia, Spagna e Africa. Virgilio scrive nelle Georgiche: “Al contrario non c’è nessuna coltura per gli olivi. Essi non attendono la roncola ricurva e o rastrelli resistenti, quando hanno attecchito sui campi e sopportato le brezze. Da sola alle piante offre umore bastevole la terra se aperta con un dente adunco, e se arata con un vomere darà frutti pesanti. Perciò fai crescere il pingue olivo caro alla Pace”. Plinio, circa l’uso della specie, scrive: “I greci, promotori di ogni vizio, ne hanno indirizzato l’impiego alla mollezza, diffondendone l’uso nei ginnasi... La maestà romana ha riservato all’olivo un alto onore, perché con esso vengono incoronati gli squadroni di cavalieri...”. La Bibbia testimonia la coltivazione dell’olivo nelle terre della Palestina e molti sono i riferimenti a questa specie nella Genesi, nell’Esodo, nel Levitico, nel Deuteronomio. L’olivo sarà albero sacro per la religione ebraica, per quella cristiana e per quella islamica. L’innesto degli oleastri o le più antiche tecniche di moltiplicazione che utilizzano la capacità della specie di emettere radici da parte di porzioni della parte aerea, possono aver dato origine agli ulivi della Valle, classificati oggi come “monumentali”, perpetuando anche così e per il sovrapporsi nei secoli di storie, leggende, riti, il valore sacro della specie. “Alberi non a misura di vita umana e che hanno perciò a che fare con la fede e con la religione”, così scriveva Leonardo Sciascia riferendosi ad alcuni olivi siciliani. L’età di questi alberi è considerevole, ma impossibile a determinarsi ricorrendo alla conta degli aneli di accrescimento che si aggiungono uno sull’altro, anno dopo anno, a far crescere il tronco. Dagli ammassi di gemme che formano le forme globose conosciuti come ovoli che si trovano alla base del Fig. 7 – Mandorli in fiore e ulivi monumentali della Valle dei Templi. 38 tronco (il pedale o ciocco), infatti, si formano in continuazione nuovi tronchi che si sovrappongono nel corso dei secoli. Questo modo di crescere è all’origine della forma contorta e della sopravvivenza millenaria di alberi che Pirandello chiamava “saraceni”. In effetti, gli studiosi di olivicoltura, assegnano all’olivo addirittura la qualifica di albero perenne osservando che quando muore la parte aerea (per il taglio, un incendio, un fulmine), dal pedale riparte sempre un pollone pronto riformare l’albero. Nella Valle i monumentali ulivi saraceni, con le loro straordinarie forme e dimensioni sono ancora lì a testimoniare, insieme ai mandorli, il lento trascorrere del tempo. Il paesaggio dell’arboricoltura irrigua: il “Giardino della Kolymbetra” Accanto al paesaggio dell’arboricoltura asciutta del mandorlo e dell’olivo della Valle, laddove maggiore è la disponibilità di risorse idriche e solitamente in prossimità di edifici rurali, agrumeti e frutteti irrigui danno vita al paesaggio dell’arboricoltura irrigua. Tra i giardini di agrumi della Valle, quello della Kolymbetra si carica di un ulteriore e straordinario valore storicoarcheologico. Il “giardino”, così come si chiamano in Sicilia gli agrumeti tradizionali per sottolinearne l’utilità e la bellezza che essi racchiudono, è coltivato infatti in una piccola valle all’estremità occidentale della Collina dei Templi tra il Tempio dei Dioscuri e il Tempio di Vulcano, nel sito identificato con quello della piscina greca (kolumøqra= piscina, bagno, cisterna, peschiera) di cui scrive Diodoro Siculo nel I sec. d.C., a proposito dei lavori compiuti dagli schiavi cartaginesi dopo la battaglia di Himera (480 a.C.) (Barbera et al., 2005). Essi “abbellirono la città e il territorio... questi tagliavano le pietre con le quali non solo vennero costruiti i più grandi templi degli dei, ma vennero costruiti anche gli acquedotti per gli sbocchi delle acque della città... Fu sovrintendente di queste opere l’uomo, che avendo il soprannome di Feace, fece sì che, per la rinomanza della costruzione, da lui gli acquedotti venissero chiamati Feaci. Gli agrigentini costruirono anche una sontuosa piscina che aveva la circonferenza di sette stadi e la profondità di venti cubiti: in essa vennero condotte le acque dei fiumi e delle sorgenti, diventando così un vivaio, che forniva molti pesci per l’alimentazione e per il gusto; e poiché moltissimi cigni volavano giù verso di essa, la sua vista era una delizia. Ma in seguito trascurata, venne ostruita, e infine, distrutta per la quantità del tempo trascorso e gli abitanti trasformarono tutta la regione, che era fertile, in terreno piantato a viti, e densa di alberi di ogni tipo, così da ricavarne grandi rendite”. Quando all’orto ed alle piante da frutto si aggiunsero gli agrumi, prese la denominazione di giardino per sottolineare, come si usa in Sicilia, la coincidenza dell’utilità e della bellezza in un campo coltivato. Così avviene almeno dagli anni in cui furono introdotte, nei “sollazzi” dei re arabi e poi normanni, le più importanti specie agrumicole e anche quando, dalla metà del XIX secolo, si affermerà la monocoltura indirizzata ai mercati del nord. Ciò testimonia come ad essi siano riconosciute, non disgiunte dalle produttive, funzioni culturali fondate sul piacere estetico e sensoriale che deriva dalla forma degli alberi, dal 39 colore e dal sapore dei frutti, dall’appariscente e profumata fioritura della zàgara, dall’ombra e dalla frescura assicurata dalla chioma sempreverde. Nella Sicilia orientale, ancora gli agrumeti si definiscono “paradisi” e a Pantelleria si chiamano “giardini” imponenti edifici di pietra a secco che conservano un solo albero di arance o limoni. Non più coltivato negli ultimi venti anni, il giardino della Kolymbetra rischiava di scomparire e con esso, una cultura materiale e un paesaggio, ogni giorno sempre più minacciati. Finché nel 1998 il FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano - firma una convenzione con la Regione Sicilia, che concede l’area per 25 anni in cambio dell’intervento di recupero ambientale e paesaggistico del “giardino”. Portato a termine il progetto, il giardino della Kolymbetra è stato aperto al pubblico il 9 novembre del 2001 con l’obiettivo di restituire ai visitatori un paesaggio agrario, ma anche culturale di inestimabile valore (Ala, 2005). L’abbandono nascondeva una lunga storia produttiva fondata sulla fertilità del suolo alluvionale, sull’abbondanza delle acque e su un microclima che le pareti di calcarenite assicurano mite per l’intero anno. Nelle zone più acclivi, la gariga e la macchia mediterranea si presentavano con esemplari di mirto e terebinto di dimensioni eccezionali, mentre il degrado nascondeva, fino a soffocare, ciò che restava di un paesaggio Fig. 8 - Tempel des Castor und Pollux. G.F. von Hoffweiler, Sicilie, Leipzig, 1870. culturale di grande valore storico, agronomico e paesaggistico: nel fondovalle, al di là del piccolo e perenne fiume bordato di canne, un giardino mediterraneo nell’accezione di un ortofrutteto e in particolare di un agrumeto e, nelle zone non irrigue, l’arboreto asciutto del Fig. 9 - Il Giardino della Kolymbetra con il Tempio di Castore e Polluce sullo sfondo. 40 mandorlo e dell’olivo (Barbera et al., 2005). L’intervento di recupero è stato volto a conservare l’uso del suolo, le specie, le varietà, le tecniche agronomiche, il paesaggio dell’agricoltura tradizionale, favorendo con piccoli interventi (camminamenti, sedute, attraversamenti) la visita e la conoscenza di un “giardino” che mantiene i caratteri di un sistema e di un paesaggio agrario storico: quello dell’ortoagrumeto siciliano. Quando nel 2000 si è dato l’avvio al recupero, il primo intervento è consistito nell’eliminazione della flora infestante che copriva interamente il suolo fino a sommergere gli agrumi sopravvissuti. Solo allora è stato possibile leggere il giardino in tutti i suoi elementi costitutivi: l’originario sesto d’impianto degli agrumi, i manufatti del sistema irriguo tradizionale, la trama dei muretti a secco, i terrazzamenti, i sentieri, gli attraversamenti. Gli interventi hanno riguardato il ripristino delle colture agrarie tradizionalmente praticate, la cura degli spazi naturali, nonché il restauro dei muretti a secco e dei manufatti di particolare pregio, il recupero del sistema irriguo tradizionale, la pulizia e la riqualificazione del torrente, il recupero della rete di sentieri e la creazione di due attraversamenti del fiume per facilitare il percorso dei visitatori. Si è proceduto al ripristino delle fallanze dell’agrumeto, procedendo all’impianto dei portinnesti tradizionali (arancio amaro) e al successivo innesto con varietà della tradizione agrumicola siciliana (Barbera et al., 2005). L’abbandono pluriennale dell’agrumeto ha, in particolare, reso necessaria una potatura straordinaria di riforma e risanamento degli agrumi: per questa operazione si è ricorso ad alcuni potatori provenienti dalla Conca d’oro che, in possesso dell’antica Fig. 10 - Antica tecnica di potatura degli agrumi. 41 cultura materiale, erano in grado di recuperare le vecchie piante salvaguardandone il più possibile la forma originaria. Potature straordinarie hanno riguardato anche gli altri alberi da frutto e quelli della vegetazione naturale ricorrendo, ove necessario sulle pareti della valle e per gli esemplari di grandi dimensioni, ad interventi di tree climbing. L’esigenza di disporre di una cartografia informatizzata che consentisse di programmare gli interventi di manutenzione e risultasse utile alla fruizione, ha portato alla realizzazione di un SIT (Sistema Informatico Territoriale). Oggi la Kolymbetra riassume in sei ettari il paesaggio agrario e naturale della Valle dei Templi. Nelle zone più scoscese, le piante della macchia mediterranea: il mirto, il lentisco, il terebinto, la ginestra, la fillirea, l’euforbia, l’alaterno, la palma nana. Nel fondovalle, al di là del piccolo fiume alimentato dalle gallerie drenanti ancora perfettamente funzionanti e bordato da canne, pioppi, tamerici e salici, un agrumeto con limoni, mandarini, aranci rappresentati da antiche varietà e irrigato secondo le tecniche della antica tradizione araba. Dove l’acqua non arriva, gelsi, carrubi, fichidindia, mandorli e giganteschi olivi “saraceni”. La straordinaria bellezza del giardino della Kolymbetra viene ricordata nelle pagine dei diari dei viaggiatori del Grand Tour e in tanti altri racconti e immagini pittoriche. Gaston Vuillier nel 1896 descrive il senso di benessere che, allora come oggi, il giardino regala per i suoi colori, profumi, silenzi, forme, ombre e frescure: “Gli antichi templi mostrano le loro colonne attraverso gli alberi di arancio e al di là si scopre il mare infinito. Vi sono rimasto a lungo, debole per il caldo, con lo sguardo perso tra le foglie che tremano e luccicano ai soffi irregolari della brezza marina e il mio pensiero errante ha preso a risalire il corso degli anni. Lasciammo l’orlo del burrone e andammo a riposarci all’ombra Fig. 11 -Alberi di arancio in frutto del Giardino della Kolymbetra. 42 d’un folto carrubo; i massi del Tempio di Zeus Olimpio erano ammonticchiati intorno a noi, e di là dagli ulivi, stentati e sottili, si estendeva il mare infinito e fremente. Nessun rumore turbava quella solitudine; solo di quando in quando le cavallette, facendo del fruscio fra le erbe secche, richiamavano la nostra attenzione”. A esprimere il fascino del luogo impareggiabile è però Pirandello che ne “I vecchi e i giovani” da della Kolymbetra una descrizione prevalentemente morfologica “nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione su cui sorgono i Tempii è interrotta da una larga apertura” per riprendere le suggestioni del suo paesaggio scrivendo della tenuta Valsanìa che “restava di qua, scendeva con gli ultimi olivi in quel burrone, gola d’ombra cinerulea, nel cui fondo sornuotano i gelsi, i carrubi, gli aranci, i limoni lieti d’un rivo d’acqua che vi scorre da una vena aperta laggiù infondo, nella grotta misteriosa di San Calogero”. I vecchi agricoltori che in passato hanno coltivato il giardino, ricordano di grandi produzioni di frutti che, raccolti e messi dentro le coffe - borse realizzate con foglie intrecciate di palma nana - venivano trasportati dai muli fino al mercato di piazza Ravanusella, nel centro storico di Girgenti, per essere venduti insieme alle zucchine, alle melanzane, ai pomodori, ai peperoni e ai cavoli raccolti dall’orto che veniva coltivato al di sotto delle chiome degli agrumi e sulle terrazze. Affinché le piante crescessero rigogliose, all’intemo del giardino fu realizzato un complesso sistema d’irrigazione alla maniera araba, costituito da vasche di raccolta delle acque provenienti dagli ipogei, da tubazioni in terracotta e soprattutto da una meticolosa sistemazione del terreno che consentiva all’acqua, attraverso canali di terra, conche realizzate attorno agli alberi e piccoli argini, di raggiungere ogni pianta. L’orto, coltivato al di sotto degli aranci e dei limoni secondo antiche pratiche agronomiche, viene ancora irrigato secondo un preciso disegno e delle regole ereditate dalla civiltà islamica: l’acqua proveniente da alcuni ipogei, ancora perfettamente funzionanti dopo 2500 anni, viene accumulata nelle “gebbie”, antiche vasche di raccolta, e da queste passa nelle “saje”, condutture in muratura o in terra battuta a cielo aperto, per poi passare nei “cunnutti”, canali di terra che portano l’acqua nelle “casedde”, conche realizzate attorno al tronco dell’albero e da qui tra i “vattali”, arginelli di terra importanti per aumentare l’efficienza dell’irrigazione (Ala, 2005). Fig. 12 - Un antico ipogeo e una gebbia (vasca di raccolta d’acqua) del giardino della Kolymbetra. 43 “Tirare la terra” è una tipica espressione dialettale che descrive, questo meticoloso lavoro di zappa che il contadino deve effettuare periodicamente per sistemare il terreno, perché a ogni singola pianta possa arrivare l’acqua che, sfruttando anche le minime pendenze del suolo, trova il suo corso. Connessa alla pratica irrigua era la tecnica della forzatura dei limoni che consiste nel lasciare le piante prive d’acqua sino alla metà di luglio per poi irrigarle: i limoni producono, in questo modo, una straordinaria fioritura che consente la raccolta, nell’estate successiva, dei cosiddetti “verdelli”. L’agrumeto è costituito da piante disposte in quadro con sesti di 3,5 m, consociato in alcuni tratti del giardino, con specie da orto (cavoli, peperoni, carciofi, melanzane, pomodori, zucchine ... ). Gli alberi di agrumi oggi presenti sono circa 600, divisi in aranci dolci, aranci amari, limoni, mandarini e clementine. In generale ogni specie è rappresentata da antiche varietà (arancio “Vaniglia”, arancio “Vanglia sanguigno”, arancio “Tarocco”, arancio “Moro”, mandarino “Avana”, limone “Lunario”, limone “Monachello”...) (Barbera et al., 2005). La Kolymbetra è anche un antico giardino siciliano ricco di antiche varietà da frutto, ormai quasi del tutto scomparse dalle nostre tavole. E’ un giardino basato su tecnologie agronomiche e risorse genetiche non adeguate alle dominanti necessità del mercato globale e all’efficienza produttiva il cui interesse risiede non tanto nella funzione produttiva, ma Fig. 13 - Irrigazione dell’orto-frutteto della Kolymbetra con antiche tecniche irrigue. 44 piuttosto in quella ambientale. Per queste caratteristiche, si pone in antitesi con i moderni impianti da frutto monoculturali intensivi, magari più produttivi ed efficienti, ma privi di tutti quegli odori, sapori, colori e forme che invece caratterizzano i “giardini” dell’agrumicoltura tradizionale, testimoni anche di antichi saperi contadini e di una cultura materiale in via di scomparsa. Nonostante il gruppo più rappresentato sia quello degli agrumi, numerose altre specie da frutto sono presenti a testimoniare un’elevata biodiversità specifica: azzeruolo, banano, carrubo, cotogno, fico, ficodindia, gelso bianco, gelso nero, kaki, melograno, nespolo del Giappone, nespolo d’inverno, pistacchio, sorbo. In generale ogni specie è rappresentata da antiche varietà in gran parte non più in coltura nei sistemi frutticoli moderni. Alcune di queste piante (soprattutto i vecchi olivi) hanno un elevato valore paesaggistico. Gli ulivi, in particolare, per le straordinarie dimensioni raggiunte e per la bellezza delle forme del tronco, sono da annoverare, insieme ai mirti, tra le piante monumentali del giardino. Di particolare interesse naturalistico anche alcuni esemplari della flora spontanea: tra le piante arboree si distinguono gli olivastri tra gli anfratti della roccia calcarenitica, l’alloro con le sue foglie aromatiche dalle riconosciute proprietà antisettiche che un tempo venivano vendute, raccolte in mazzetti, come “addagaru” per bambini (alloro per bambini). Era pianta sacra ad Apollo e ha preso il nome greco da Dafne, la ninfa amata dal dio. Nel mondo classico l’alloro era usato come simbolo di gloria e fama: le corone da porre sul capo dei vincitori ne erano intrecciate (Ala, 2005). I carrubi con le loro grandi chiome sempreverdi regalano ombra e frescura. Come dimostra l’origine araba del nome, il carrubo arriva in Sicilia durante la dominazione islamica, insieme all’arancio amaro e al limone. E’ una specie longeva e a lento accrescimento. La polpa dolce e nutriente dei suoi numerosi frutti, costituì, un tempo, una parte importante del vitto delle popolazioni rurali. Nell’antichità i semi, di forma lenticolare, venivano usati come unità di peso dell’oro, da cui deriva il termine di “carato” (Ala, 2005). Sulle pareti di calcarenite del giardino, numerose sono le specie arbustive della macchia: il lentisco, la fillirea, l’alaterno, l’euforbia arborea, specie straordinaria per i colori, dal verde, al giallo al rosso, che nell’arco dell’anno si susseguono sulla stessa pianta, conferendo al paesaggio variazioni cromatiche uniche ed in continuo mutamento. Tra le specie della macchia, anche la palma nana occupa i versanti scoscesi del giardino. E’ rappresentante d’eccezione delle macchia ed è l’unica palma che cresce spontanea nel mediterraneo. Ha rivestito nella storia un ruolo importante, tanto che in antiche monete e medaglie siciliane sono stati Fig. 14 - La sistemazione del suolo, con i termini dialettali, per l’irrigazione degli agrumi (disegno di M. Ala). 45 rinvenuti i disegni delle sue foglie a ventaglio. Le sue fronde, fino a pochi anni fa, venivano utilizzate per lavori di intreccio ed il crine per imbottiture, per fare cordami o stuoie e scope, chiamate con il termine dialettale di “giummarre”. I mirti, chiamati in dialetto “murtedda”, che solitamente rientrano tra le specie arbustive della macchia, all’interno del giardino, per le eccezionali dimensioni e forme assunte nel tempo, sono da annoverare insieme agli “ulivi saraceni”, tra le piante monumentali della Kolymbetra. Producono bellissimi fiori bianchi dal profumo intenso e bacche, di colore nerobluastro o bianco che maturano in estate. Pianta sacra a Venere, prende il nome da Myrsine, fanciulla greca trasformata da Pallade in un arbusto di mirto. Nel mondo classico era usato come simbolo di trionfo: con i suoi rami si intrecciavano ghirlande per incoronare poeti ed eroi (Ala, 2005). Lungo il perenne corso d’acqua che attraversa il giardino, particolarmente abbondante è il canneto, della cui presenza si ha notizia già nel 1225 all’interno di un’antica pergamena che testimonia la concessione al Vescovo Ursone di Agrigento di una “terra in cui vi era un canneto in prossimità delle cave dei giganti” (l’attuale Tempio di Giove). Le canne un tempo venivano periodicamente raccolte dai contadini del giardino, divise per le diverse altezze e riunite in fasci che, poggiati agli alberi di arancio, erano lasciati al sole ad asciugare per poi essere vendute per la raccolta delle mandorle e per la coltivazione della vite e di alcune specie ortive, come la zucchina e il pomodoro. Allo scopo di favorire la fruizione è stata recuperata la viabilità originaria: le tracce rinvenute nel terreno e le interviste ai vecchi agricoltori che per ultimi si sono presi cura dei giardino, hanno permesso di ricostruire i tracciati originali. Alcuni nuovi sentieri in terra battuta sono stati tracciati allo scopo di collegare le diverse parti del giardino o di portare il visitatore in luoghi panoramici o significativi dal punto di vista culturale e paesaggistico (ipogei, piante monumentali, resti archeologici). Lungo i percorsi, per favorire la fruizione, sono state realizzate, in luoghi panoramici o ombreggiati, sedute con materiali naturali (blocchi di pietra di tufo e assi di legno). In legno e ferro sono i due ponti realizzati per l’attraversamento del torrente. Per una visita più ricca, dei pannelli didattici disposti lungo il percorso, danno informazioni sulla storia, il paesaggio e le antiche specie coltivate. Altri indicano la direzione verso manufatti di interesse archeologico, storico e paesaggistico: ipogei, latomie, muretti a secco, gebbie, piante monumentali, punti panoramici (Barbera et al., 2005). Per le classi di scuola primaria e secondaria un nuovo itinerario di visita del giardino è una sorta di “caccia al tesoro” dove i ragazzi diventano protagonisti 46 attivi dell’esperienza. Con l’aiuto di schede didattiche di osservazione e scoperta, gli studenti divisi in gruppi, approfondiscono alcuni aspetti del giardino legati alla storia, al paesaggio e alle tradizioni contadine, rivestendo ciascuno un ruolo diverso: alcuni hanno il compito di porre domande, altri di orientarsi sulla mappa, altri di controllare il tempo o di farsi portavoce del gruppo trasformandosi in ciceroni. Sotto la guida di un operatore didattico, ogni gruppo espone poi al resto della classe quanto scoperto. Di ritorno in aula, gli studenti possono poi completare il lavoro, utilizzando le schede di approfondimento scaricabili anche dal sito www.faiscuola.it. Numerose sono, inoltre, le manifestazioni organizzate all’interno del giardino come la “Scialata giurgintana”, una festa della tradizione con pranzo rustico ispirato alla cucina contadina, da consumare nell’area attrezzata all’ombra di alberi di arancio e di una grande alloro, la “Vapulanzicula”, una grande festa dedicata ai bambini cui vengono proposti i giochi dei loro nonni, la “Festa del pane”, una mostra di tradizionali forme di pane e dell’antico ciclo di produzione, la “Notte tra gli aranci”, una festa di metà agosto con cena e musiche eseguite dal vivo e la “Festa di S. Martino”, la festa del vino nuovo con degustazione guidate da esperti sommelier e incontri con cantine ed enoteche specializzate. Bibliografia AA.VV., 1994 – La Valle dei Templi tra iconografia e storia. Assessorato Regionale Beni Culturali e P.I. Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Agrigento. Prilla s.r.l., Palermo. ALA M. - 2005 - I paesaggi della Kolymbetra: il giardino di agrumi, la macchia mediterranea, la vegetazione di fiume, il bosco di mandorli e olivi . In Il Giardino della Kolymbetra (a cura di) Giuseppe Barbera. FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano, Milano, pp. 16-19. ALA M. - 2005 - Schede della biodiversità . In Il Giardino della Kolymbetra (a cura di) Giuseppe Barbera. FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano, Milano, pp. 20-31. BARBERA G., 1996. Per un museo vivente della coltura e della biodiversità del mandorlo nella Valle dei Templi. In Il Paesaggio della Valle dei Templi Analisi e proposte per la sua salvaguardia e valorizzazione (a cura di) G. Barbera e G. Lo Pilato. Atti del convegno di Studi 5 Maggio 1995 – Agrigento. T. Sarcuto s.r.l., Agrigento: pp. 81-98. BARBERA G., 2000 – Il sistema tradizionale del mandorlo nella Valle dei Templi e il “Museo vivente”. 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In Riscoprire il paesaggio della Valle dei Templi (a cura di) Manfredi Leone. Atti della giornata di Studio. Agrigento, 1 Aprile 2003. Tip. Alaimo, Palermo: pp. 71-87. stampa officine grafiche riunite, spa palermo, ottobre 2008