Numero 12 - Newsletter di Sociologia

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Numero 12 - Newsletter di Sociologia
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Sociologia e Ricerca Sociale
Mensile del Corso di Laurea in Sociologia e Ricerca Sociale, Dicembre 2004. Anno 1. Numero 12. Direttore Mario Cardano. Redazione Mario Cardano, Michele Manocchi
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numero della Newsletter di Sociologia e Ricerca Sociale.
Dillo anche ai tuoi amici, perché la Newsletter è dedicata a voi
ed è grazie a voi che può crescere e migliorare.
Alla realizzazione di questo numero hanno contribuito con articoli o segnalazioni:
Donatella Simon, Paolo Gilli,
Michele Manocchi e Mario Cardano
Sommario
Ricerca Sociale: intervista a Franca Balsamo
2
Ricerca Sociale: La ricirca-azione
5
Professione Sociologo: intervista a Lorenzo Venturini
8
Sociologie: L’Europa cristiana di Habermas
11
Sociologie: Giunge in porto il codice deontologico su privacy e accesso
ai dati per scopi scientifici.
Sociologie: IL TEMA DELL’ASSEDIO (PRIMA PARTE)
di Paolo Gilli
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Dicembre 2004, Anno 1, Numero 12
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Ricerca Sociale
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Intervista a Franca Balsamo
La professoressa Balsamo insegna Sociologia della famiglia e Sociologia delle
relazioni interetniche presso la nostra Facoltà. L’abbiamo intervistata sulle
sue numerose attività di ricerca.
D: Buongiorno professoressa. Possiamo delineare
per i nostri lettori il quadro all’interno del quale si
delineano le sue attività di ricerca?
R: Buongiorno a lei. Da molti anni io mi muovo
all’interno di quell’ambito di ricerca che è stato definito
da alcune Women Studies, mentre altre studiose
preferirebbero il termine Gender Studies.
D: Possiamo delineare le differenze tra i due
approcci?
R: Diciamo che i Women Studies hanno preceduto
l’approccio dei Gender Studies. Sono nati negli Stati
Uniti ed erano prevalentemente legati al momento in cui
la prospettiva femminista è entrata a far parte anche
del mondo accademico, negli studi e nelle ricerche. I
Gender Studies sono successivi, nascono nelle
università e dall’opera di studiose in varie discipline.
Esiste però un distacco dall’orientamento femminista,
nel senso che mettono di più a fuoco la questione di
genere in termini sia di prospettiva epistemologica e di
critica alla “neutralità” della scienza, e mettendo in
campo la questione della soggettività del ricercatore /
studioso ecc., sia di assunzione della rilevanza delle
relazioni di genere appunto tra uomini e donne, nello
studio dei fenomeni sociali. La prospettiva quindi non è
più prevalentemente politica ma scientifica. Qui a Torino
questo filone è stato sviluppato da un gruppo al quale
anche io appartengo, e di cui ha fatto parte, ad esempio, Chiara Saraceno, un’antesignana in questo campo
di studi e di ricerche. La caratteristica principale del
gruppo di Torino risiede nell’interdisciplinarietà degli
studi e dei lavori affrontati.
D: Un esempio?
R: A me è capitato di fare molti anni fa una ricerca
concernente il parto e la nascita, e il gruppo di ricerca
era formato da me in qualità di sociologa, e poi da due
ricercatrici di area storica e da un’epistemologa di
formazione scientifica. E così, anche in ricerche successive, una delle caratteristiche era questa: il punto di
vista del genere si integra e sviluppa in una prospettiva
interdisciplinare.
L’altro orientamento che seguo nelle mie attività, e che
non riguarda tutti gli studi di genere ma è comune
anche ad altre ricercatrici che hanno fondato il CIRSDe,
Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne
(vedi nostro articolo sul numero di aprile e visita il sito
http://hal9000.cisi.unito.it/wf/CENTRI_E_L/C -I-R-SDe/) riguarda la “contaminazione” della ricerca da parte
dello stesso “oggetto” in studio.
D: In che senso?
R: Tendo a fare delle ricerche diciamo “non pure”, cioè
ricerche che coinvolgono nel lavoro anche i soggetti che
operano nel sociale e, al limite, le stesse persone verso
le quali la ricerca era stata pensata. Non sempre, ma il
più delle volte ho cercato di seguire dei progetti in cui
c’erano ricercatrici appartenenti al mondo accademico o
della scienza insieme alle associazioni, agli enti esterni
al mondo accademico e con scopi principalmente operativi di trasformazione e di sviluppo sociale in particolare
delle relazioni tra uomini e donne. Mi colloco quindi
nell’area della ricerca-azione o ricerca-intervento,
mantenendo però sempre molta attenzione all’aspetto
scientifico e dell’interazione. La mia soggettività etica e
politica esiste e voglio salvaguardarla, ed è perciò che
ho sempre tenuto in gran considerazione la possibilità di
coinvolgere le persone, su cui in teoria avrei dovuto fare
ricerca, come soggetti con cui fare la ricerca.
D: Ci può descrivere alcune ricerche che hanno
seguito questa impostazione?
R: Un lavoro di cui vorrei parlare è la ricerca che ha
portato alla pubblicazione del volume “Da una sponda
all’altra del mediterraneo. Donne immigrate e
maternità” (L’Harmattan, 1997, Torino). Faccio una
premessa. Tempo fa ho trascorso un anno in Africa con
l’obiettivo di fare ricerca. Non sono riuscita però a
raccogliere molto materiale, perché la situazione che ho
trovato (ero in Kenia), la dimensione che ho incontrato
mi ha un po’ sconvolta. Alla fine ho fatto più azione che
ricerca. Però quello che ho portato qui è stata
un’esperienza che ho poi sviluppato anche all’interno del
CIRSDe. Il testo che ho citato è il risultato di una ricerca
che è stata promossa all’interno dell’associazione
interculturale Almaterra, ricerca alla quale hanno
collaborato donne italiane e donne immigrate dal nord
Africa. Lo scopo dell’iniziativa era quello di sostenere le
donne immigrate dal Maghreb nei loro percorsi di
maternità, dalla gravidanza al parto e nei primi giorni
del dopoparto, attraverso l’inserimento di mediatrici
culturali in alcuni servizi dell’area materno-infantile e
presso il centro di Almaterra. Contemporaneamente il
progetto voleva realizzare uno scambio tra esperienze e
pratiche diverse di cura del corpo, della gravidanza e
dell’allattamento, per favorire, anche nei servizi, lo
sviluppo di relazioni e di saperi che vadano oltre
l’orientamento prevalentemente clinico che accompagna
oggi la riproduzione.
D: Su quali materiali ha potuto lavorare?
R: Ho raccolto e rielaborato i diversi contributi provenienti da varie fonti, come registrazioni di discussioni,
diari, rapporti intermedi, cercando di ritrasmettere nel
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modo più fedele possibile lo spirito delle riflessioni
collettive. Ma non mi è stato possibile distinguere i
diversi apporti, che si fondevano, nella pratica della
comunicazione verbale, in un unico flusso. Il risultato
finale è perciò un testo, solo apparentemente a una sola
voce. Mi auguro che esso conservi i colori delle altre
voci, senza risultare, in questa operazione di melting
pot discorsivo, troppo confuso. Io ho scritto il testo, ma
questo sottolinea, se vogliamo, il limite dello stato della
situazione attuale: non abbiamo ancora una formazione
di ricercatrici a livello universitario che provengono
dall’area dell’immigrazione, considerando anche tutte le
difficoltà ad esempio del riconoscimento dei titoli.
Tuttavia, queste donne hanno tutta una serie di risorse
conoscitive che sono state attivate nella ricerca, in un
costante lavoro interattivo tra tutte le persone
coinvolte.
D: So che si è occupata anche di un progetto sulle
minoranza etniche femminili in Europa: di che si
tratta?
R: Questa ricerca, che ancora una volta ho condotto in
collaborazione con l’associazione Almaterra, è stata
realizzata in contemporanea in diversi paesi europei.
L’obiettivo generale era quello di raccogliere informazioni per tentare di realizzare un’analisi comparativa
sulle risorse e sulle competenze delle giovani donne
immigrate, sulle sfide che affrontano e sulle autopercezioni della propria situazione sociale, della propria
identità culturale, e della loro integrazione nella
comunità, nella società locale e in Europa. La ricerca si
poneva anche come stimolo a promuovere il ruolo di
queste giovani nella società e a favorire lo sviluppo di
politiche e progetti che tengano conto delle loro
aspirazioni e dei loro interessi. Non abbiamo utilizzato
un vero e proprio metodo della ricerca-intervento
perché l’esigenza di un certo grado di omogeneità del
materiale raccolto nei vari paesi per una confrontabilità
del dati così ottenuti ci ha portate verso forme più
tradizionali di ricerca sociale. Abbiamo quindi utilizzato
un questionario, comune per tutti i paesi coinvolti.
L’aspetto che voglio anche qui sottolineare è che le
coordinatrici a livello locale del progetto erano tutte
persone provenienti dall’area dell’immigrazione, anche
se non tutte avevano una formazione universitaria.
Inolte, ognuna di queste coordinatrici, direttamente
impegnate sul campo, aveva una supervisora
universitaria, anch’essa quasi sempre immigrata o
proveniente da famiglie immigrate. Nel caso italiano
abbiamo coinvolto donne provenienti dalla Nigeria e
dalla Somalia. Queste coordinatrici, che svolgevano
anche le funzioni di ricercatrici, sono poi state coinvolte
in gruppi di discussione sorti per l’analisi del materiale
raccolto, sempre con l’obiettivo di renderle il più
possibile parte attiva del progetto.
D: Adesso di cosa si occupa?
R: Sto ancora lavorando su una ricerca-azione molto
recente, una ricerca difficile, incentrata sulla violenza
contro le donne. Questo lavoro rientra in un pool di
ricerche promosso dal Dipartimento per le pari
opportunità del Ministero. Coinvolge le aree Urban delle
città.
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D: Cosa si intende per aree Urban?
R: È un progetto europeo, che il Dipartimento per le Pari
Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, ha promosso in Italia, che coinvolge ventisette
città o zone di esse in un programma volto alla
creazione di una rete antiviolenza tra le città italiane.
Qui a Torino la zona Urban è stata indicata nel quartiere
Mirafiori Nord, quartiere vicino alla grande fabbrica, che
sta vivendo ormai da anni un momento storico molto
delicato, di grandi stravolgimenti.
D: Qual era l’obiettivo?
R: La rete antiviolenza si propone di studiare la
percezione sociale e gli atteggiamenti culturali sul fenomeno della violenza contro le donne fuori e dentro la
famiglia, da parte di un campione significativo di donne,
uomini, operatrici e operatori di diversi sevizi e
testimoni privilegiati.
Abbiamo quindi proceduto ad una mappatura del
contesto territoriale, con una survey su un campione
piuttosto consistente, ricorrendo alla tecnica delle
interviste telefoniche. In un secondo tempo, abbiamo
anche condotto delle interviste in profondità tra le
donne che, attraverso le interviste telefoniche,
dichiaravano di aver subito violenze di qualunque
natura, dalle molestie in famiglia e fuori casa, alle
violenze economiche, al mobbing, ai maltrattamenti.
D: Non ho mai sentito parlare di “violenze
economiche”: cosa si intende?
R: In effetti qui in Italia se ne parla abbastanza poco.
Dalla definizione dell’OMS (Organizzazione Mondiale
della Sanità) sul concetto di violenza emerge sempre di
più questo fatto, questa “carenza economica”. Ad
esempio, una studentessa che si è laureata con la
professoressa Saraceno aveva analizzato come vengono
gestiti i fondi in famiglia e aveva rilevato come possa
capitare che le donne si trovino in situazioni di forte
privazione economica: pur lavorando, danno tutto al
marito, il quale gestisce autonomamente i conti di casa.
Qui in Italia non ci si è occupati molto poco di questo
tema. Recentemente abbiamo avuto un seminario di
confronto all’interno di un progetto europeo tra le città
di Torino, Haifa e Gaza nell’ambito di un progetto anche
in questo caso di rete. Il seminario era incentrato sulla
questione della salute riproduttiva delle donne e sulla
violenza. Ascoltando i ricercatori di Haifa e Gaza
emergeva la rilevanza di questa dimensione. Uno dei
progetti nei quali attualmente sono coinvolta è proprio
questo.
D: Ce ne parli...
R : Anche questo è una ricerca-azione. Coinvolge il
Comune di Torino e altre Associazioni di Torino, le
comunità di Haifa e di Gaza con altre associazioni locali.
Lo spirito è cercare di avvicinare queste comunità e
associazioni, eliminando i conflitti che spesso sono
anche interni alla stessa realtà. Il progetto è di tipo
operativo e prevede la costituzione ad Haifa di un centro
polifunzionale indirizzato alle donne e ai bambini; ma è
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anche un progetto di ricerca incentrato sulla ridefinizione del concetto di violenza. Noi utilizziamo delle
definizioni che sono istituzionali oramai, e il punto di
riferimento è costituito dall’OSM; ma è una sintesi che
fa riferimento a certe culture, a certe dimensioni, anche
se dieci anni fa a Pechino ci fu un tentativo di
definizione più “globale”. Però in questo seminario
abbiamo visto che noi in Italia diamo poca rilevanza alla
violenza economica perché evidentemente ci sono meno
rapporti di dipendenza di quanto ci siano in altre
situazioni. Si lavorerà quindi su questa ridefinizione
interculturale, sul confronto e sulla comparazione delle
definizioni culturali del concetto di violenza di genere,
cioè quelle in cui sono implicate delle relazioni tra uomo
e donna, senza seguire necessariamente una
prospettiva totalmente vittimistica dal lato delle donne.
Si indagherà la dimensione dell’interazione, quindi
anche di una corresponsabilità reciproca del contesto
socio-culturale che in qualche modo influisce sulle
definizioni stesse di violenza.
D: Abbiamo detto che anche nel caso della ricerca
nell’ambito della rete antiviolenza tra le città
Urban si tratta di una ricerca-azione: quali sono le
ricadute sui soggetti oggetto della ricerca?
R: In questo caso il lavoro di ricerca è confluito in una
serie di seminari dedicati agli operatori del territorio e a
coloro che entrano in contatto con queste donne. Gli
effetti si sono avuti di più sul piano istituzionale. Una
cosa che risulta è la totale mancanza di formazione, e
quindi la poca sensibilità da parte degli operatori che
sono in prima linea nel raccogliere questi disagi nei
quartieri periferici, come ad esempio Urban. La città al
centro è ricca di associazioni, ma chi è in periferia
conosce appena l’associazione “Telefono rosa” e ha
come punto di riferimento soprattutto il servizio sociale.
Tuttavia, gli operatori in prima linea che accolgono la
domanda sono soprattutto infermieri e medici dei pronto
soccorsi e le forze dell’ordine. In alcuni casi abbiamo
assistito a sforzi verso la formazione degli operatori. Ad
esempio all’ospedale Sant’Anna, dove adesso c’è un
centro di accoglienza per chi è vittima di violenza
sessuale. Ma rimane il fatto che mancano progetti
formativi coerenti del personale. L’ospedale di
riferimento per la zona Urban di Torino, Mirafiori Nord, è
l’ospedale Martini, dove le infermiere e gli infermieri non
hanno alcun tipo di formazione in questo campo
specifico. Le forze dell’ordine poi sono quelle che più di
altre accolgono le situazioni di disagio e violenza, e non
sanno proprio come cavarsela.
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D: Cosa è stato fatto?
R: Il Prefetto di Torino ha deciso che era venuto il
tempo di fare qualcosa. A livello istituzionale dunque
l’effetto è stato importante: ora c’è un tavolo di lavoro.
Si è deciso di mettere a disposizione dell’università gli
archivi, proprio per costruire un modello di archiviazione
delle denunce di segnalazioni di violenze e mantenere
una memoria su questo. In prospettiva, ci sarà quindi
un riscontro a livello di servizi. Inoltre, il Comune ha
altre iniziative di intervento, credo che istituirà un’unità
mobile.
D: Facciamo il punto. Abbiamo parlato di molte
ricerche e progetti. Qual è il suo modo di
rapportarsi ad esse?
R: Io penso che gli strumenti di una ricerca debbano
sempre essere adeguati alla situazione. Il metodo di
lavoro non è altro che una sequenza di scelte che si
fanno e che porteranno verso alcune direzioni,
escludendone delle altre. È per questo che è importante
ridiscutere lo stesso metodo con le persone verso le
quali il lavoro verrà svolto. È importante che ci sia
condivisione, che non sia un “calare dall’alto”, ma che si
contribuisca a sgretolare il mito del ricercatore che
risolve con la bacchetta magica ogni problema. A me
piace pensare di essere da una parte un “raccoglitore” e
dall’altra una guida. La propria presenza non può e non
deve essere ignorata, ma dagli altri si possono
raccogliere anche degli strumenti utili. Spesso nelle
realtà dove faccio ricerca scopro che ci sono delle
possibilità non sfruttate, degli strumenti molto
interessanti, già in uso ma sottoutilizzati o non
valorizzati, e il mio compito può essere visto come
riconoscimento e sviluppo di questi strumenti, facendo
cogliere alle persone le potenzialità delle risorse già
presenti.
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Pubblichiamo di seguito un testo incentrato sulla ricerca-azione, tratto da Cardano,
Meo, Olagnero, Gruppo di ricerca Acli-Torino, “Discorsi sulla povertà. Operatori sociali
e volontari a Torino”, Milano, Angeli, 2003: pp. 142-147.
La ricerca-azione
di Vincenzo Buttafuoco e Valeria Zaffalon
Il primo passo da percorrere nel trattare la ricerca
azione (A.R.), ma soprattutto la ricerca azione
partecipata (P.A.R.), consiste nel problematizzare i
concetti di «azione» e «partecipazione», per poi
individuare alcune caratteristiche che rendono questo
approccio originale. È bene precisare, però, che non
esiste un unico approccio codificato e definito di A.R. e
di P.A.R., ma più approcci che evidenziano aspetti
diversi anche in relazione ai contesti in cui si sono
sviluppati. Alla pluralità di approcci corrisponde una
pluralità di definizioni, di etichette verbali concepite per
denotare questo specifico stile di ricerca che riflette da
un lato una presunta criticità e debolezza metodologica,
ma dall’altro rimarca una estrema «versatilità di questo
approccio alla ricerca» (Nigris 1998). Si parla infatti di
ricerca azione, ricerca partecipatoria, ricerca azione
partecipatoria, ricerca azione partecipata, scienza
azione, inchiesta azione e sociologia dell’azione
(Bortoletto, 2001), ma anche di critical action research,
classroom action research, action learning, soft system
approaches e industrial action research (Kemmis e
McTaggart 2000). Navigando all’interno di questi
differenti confini, possiamo tuttavia individuare alcune
caratteristiche fondamentali e provare a descriverne più
approfonditamente i contenuti, senza la pretesa di
affrontare in modo completo e sistematico tale
approccio, e coscienti anche di tralasciarne gli aspetti
più controversi.
Le principali caratteristiche della ricerca azione, comuni
ai diversi approcci, possono essere raccolte in tre
rubriche: interdipendenza e circolarità tra azione e
conoscenza; centralità / rilievo del cambiamento; enfasi
sul processo di ricerca come momento prioritario
rispetto alla diagnosi.
Quando si parla di ricerca azione molti studiosi ne
rintracciano le origini nei lavori dello psicologo prussiano
Kurt Lewin nella prima metà del Novecento. La sua
field-theory e i concetti di «dinamica di gruppo» e action
research influenzeranno non poco l’evoluzione di parte
della sociologia, della psicologia e della pedagogia
seguente. Il nodo centrale del pensiero di Lewin è
rappresentato dall’analisi del rapporto tra le motivazioni
dei soggetti e la loro azione. Nell’esposizione di questo
particolare nodo, l’autore si serve del concetto
di
«campo», uno spazio in cui i fattori cognitivi e affettivi
della persona si intrecciano con l’ambiente sociale, in un
continuo scambio e interdipendenza (Amerio 1995). Ciò
che a noi preme sottolineare nell’apporto di questo
psicologo, è proprio la centralità dell’azione come anello
di congiunzione tra il soggetto e l’ambiente sociale. Il
rapporto tra questo contributo e la ricerca azione è
illustrato con particolare efficacia da Floris:
Ogni problema (e ogni ipote si di farvi fronte)
esiste in quanto i soggetti che lo esprimono si
trovano immersi in un insieme di relazioni,
dipendenze, interdipendenze, dinamiche tra
gruppi, processi di inclusione e esclusione a
livello di conoscenze, saperi, rielaborazioni
dell’esistere nella complessità. L’intento della
ricerca azione è entrare in un dato campo sociale
per toccare con mano le dinamiche sociali e
culturali che lo attraversano. (Floris 2001).
Il ricercatore impegnato in una ricerca-azione entra
quindi in un campo sociale, ma vi entra per agire. La
ricerca azione è, quindi, una ricerca per agire 1. E il
concetto di azione indissolubilmente legato alla ricerca,
è proprio la caratteristica che rende questo approccio
particolarmente significativo e interessante. È un
approccio che ci porta verso una «sociologia applicata
orientata all’azione2». La caratteristica principale è il
superamento della tradizionale dicotomia tra teoria e
pratica, per giungere ad un approccio che coniughi il
momento teorico con il momento dell’azione. La teoria e
l’azione sono due momenti indissolubilmente connessi,
all’interno di un percorso ricorsivo, circolare, a spirale,
dialettico e dialogico (Kemmis, Mc Taggart 2000). Agire
e conoscere per agire nuovamente con maggior
consapevolezza e incisività. E quindi da un lato agire per
ri-conoscere e dall’altro agire per cambiare. Come
sottolinea L’Abate
dal conoscere per operare di comtiana memoria,
che privilegia il momento conoscitivo su quello
operativo,
dobbiamo
passare
all’operare
conoscendo – conoscere operando, che riconosce
come base della conoscenza sia la prassi che la
teoria, senza privilegiare nessuna delle due.
Appare chiaro a questo punto che coniugare ricerca e
azione vuol dire anche mettere in discussione la
neutralità delle scienze sociali (Park 1988). La ricerca
azione si contrappone alla nozione di ricerca sociale
come attività esclusivamente descrittiva, contesta la
neutralità di questa prospettiva e soprattutto la sua
rilevanza, per privilegiare invece i valori e le istanze
riformiste proprie di una sociologia militante, non avulsa
dai valori, una sociologia politica. Anzi alla base del
lavoro del sociologo, non solo i valori vengono
riconosciuti come ineliminabili, ma, per dirla con
Myrdal3, le valutazioni su dete rminati eventi vengono
«portate in piena luce».
1
Non a caso alcuni sviluppi di tale ricerca si possono rintracciare nelle tecniche di problem solving e di risoluzione endogena ad un gruppo di
determinati problemi. È una ricerca che si orienta alla soluzione dei problemi. Come scrive Martini (1995) «aiuta a ric ostruire le capacità
delle persone di essere attori creativi del loro mondo», per risolvere i problemi delle loro comunità.
2
S. Savini parla di sociazione, o societing, ovvero «interventi orientati alla società per mezzo di un complesso di attività metodologicamente
integrato e ispirato a tecniche sociali di ricerca e azione».
3
G. Galtung, in L’Abate, Introduzione ai metodi di ricerca sociale, Dispense del corso 2000.
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Fine ultimo di una sociologia applicata orientata
all’azione è quindi il cambiamento, la modificazione
delle relazioni sociali. Come scrive Galtung «il processo
scientifico non finisce con un prodotto scritto, nel quale
si sia raggiunta la consonanza verbale. Si conclude solo
quando è mutata la realtà e si ottiene una consonanza
empirica»4.
Se ricerca azione vuol dire cambiamento, quest’ultimo
non può prescindere dall’azione politica5, o come
sottolinea Floris «l’azione di rottura». Secondo l’autore
la caratteristica fondamentale della ricerca azione è:
non reiterare l’esistente ma praticare il nuovo, con
tutto quello che comporta di rottura di equilibri
esistenti, immersione in modi di agire-relazionarsi
con la realtà che non solo coinvolgono, ma
provocano, e dunque lasciare toccare con mano
mondi altri. (Floris 2001).
Se allora la ricerca azione è intreccio tra teoria e azione,
ovvero prassi, se è cambiamento e azione di rottura,
l’alto valore di tale approccio non risiede soltanto nel
momento dell’analisi o nella valutazione dei risultati, ma
nell’intero processo. L’originalità sta non nei singoli
momenti della ricerca ma nel percorso continuo di
analisi, riflessione, azione, è un percorso in continua
evoluzione e sviluppo sia dei singoli individui che della
organizzazione e della comunità (Reason e Bradbury
2000). L’importanza nel percorso ci porta ad una
riflessione sulla coerenza tra i fini e i mezzi utilizzati per
raggiungere tali fini. In questo orizzonte non possono
non tornarci in mente le riflessioni di un grande uomo
politico indiano: «i mezzi possono essere paragonati al
seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo
stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e
l’albero.” (Gandhi 1973).
Gli attori che decidono di intraprendere un processo di
ricerca non possono prescindere dalla scelta di
determinati strumenti, coerenti con lo scopo dell’azione.
E il relativo successo della ricerca intrapresa non sarà
decretato dal raggiungimento dell’obiettivo ma
viceversa dall’analisi di tutto il processo (Kemmis,
McTaggart 2000).
La seconda dimensione da esplorare è, come anticipato,
la «partecipazione». L’aggettivo ‘partecipata’ declina la
ricerca azione (A.R.) sottolineando principalmente
l’aspetto partecipativo. Inoltre, come sottolinea
Bortoletto la P.A.R. (partecipatory action research)
vuole essere una versione «più critica» della ricerca
azione, esplicitando maggiormente lo stretto legame
che intercorre tra la metodologia e le ricadute sociali
della ricerca (Bortoletto 2001). Alcuni autori parlano
infatti di ricerca «emancipatoria» (emancipatory
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research). Alle caratteristiche presentate precedentemente, si aggiungono allora altri nodi: la P.A.R. è una
ricerca collettiva, con la possibilità di confrontarsi,
comunicare e socializzare; l’enfasi sul sapere comune
quale fonte di conoscenza principale; la P.A.R.
rappresenta un processo di empowering.
La P.A.R. è, per riprendere una considerazione
precedente, un processo di ricerca e azione collettiva,
uno scambio continuo di socializzazione e di conoscenza
(Kemmis e McTaggart 2000, Martini 1995). Ciò significa
soprattutto che la conoscenza e i saperi non sono più
prodotti da «esperti ricercatori» esterni alla comunità
che hanno indagato alcuni «oggetti sociali», bensì sono
gli attori sociali, che agiscono nella comunità, che con
alcuni soggetti esterni, coordinatori o facilitatori,
producono loro stessi conoscenza, diventano ricercattori6. La ricerca azione è una con-ricerca. Dalla ricerca
basata su un rapporto asimmetrico tra il soggetto
(ricercatore)-oggetto (ricercato), si passa ad un
rapporto simmetrico tra soggetto-soggetto (Fals Borda
1987). I soggetti coricercatori parteciperanno allora
anche ad altre fasi della ricerca, tradizionalmente ad
appannaggio degli esperti-studiosi. In quest’ottica i
partecipanti devono poter controllare l’intero processo di
conoscenza e azione. Per questo motivo, la ricerca è
anche un processo di apprendimento collettivo, di
«apprendimento dall’esperienza» (Whyte 1984), un
processo formativo ed educativo (Reason e Bradbury
2000).
Per riprendere un termine di Freire (2002), è un
processo di «coscientizzazione», un percorso di
educazione per le persone coinvolte, volto a sviluppare
le loro capacità di ricercare e agire individualmente e
collettivamente, di essere «attori creativi del mondo»
(Martini, 1995). Appare evidente che questo aspetto
della P.A.R. rimanda ad una attenzione verso tecniche di
ricerca che siano aperte ai contributi provenienti dai
soggetti interessati. Si utilizzano prevalentemente
tecniche qualitative, ma anche approcci più originali
quali per esempio il teatro degli oppressi7 (Boal 1977) o
i giochi cooperativi (L’Abate 2001). In comune si
osserva un’attenzione alla dimensione del gruppo 8 quale
luogo privilegiato di relazioni, confronto e scambio9.
Il sapere che viene prodotto dal processo di ricerca è un
sapere che viene dai soggetti coinvolti. La conoscenza
non è più soltanto quella accademica ma anche quella
che si tramanda attraverso storie, leggende, fiabe,
aneddoti: al centro del processo si trovano culture,
simboli e vissuti delle persone. In questo caso all’interno
delle comunità, tra le persone, sono presenti risorse e
capacità che permettono di sopravvivere e
4
G.Galtung, in L’Abate, Introduzione ai metodi di ricerca sociale, Dispense del corso 2000.
Intendiamo politica in senso ampio come un insieme di azioni e orientamenti volti al cambi amento sociale della situazione corrente.
6
Utilizzare la parola «ricerc -attori» permette di sottolineare due aspetti interessanti: da un lato la soggettività del ricercatore, ora ricercattore, e dall’altro la produzione di conoscenza e quindi di società degli attori sociali, ora ricerc - attori.
7
Il teatro dell’oppresso è un metodo teatrale fondato dal brasiliano Augusto Boal durante gli anni Sessanta. Questa forma di teatro nasce
con una chiara impronta «politica» e una attenzione alle condizioni socio politiche del Brasile prima e di tutta l’America Latina in seguito. Gli
scopi principali, come vengono descritti dal fondatore sono «conoscere» attraverso la sperimentazione teatrale del proprio corpo, della
propria mente e delle proprie emozioni e «trasformare» teatralmente la situazione di oppressione, sia a livello corporeo (la «maschera
sociale»), sia a livello psicologico e sia a livello socio politico (impedimento a soddisfare i propri bisogni, assenza di potere, negazione dei
diritti, ecc.).
8
Per contro l'inchiesta campionaria è una tecnic a di ricerca individuale, dove non viene richiesta la compresenza e il confronto di più persone
(Fals Borda, 1987).
9
Fals Borda (1987) scrive in proposito «La ricerca collettiva è l'uso sistematico di informazioni raccolte e sistematizzate in gruppo, quale
fonte di dati e conoscenza oggettiva di fatti risultante da incontri, sociodrammi, assemblee pubbliche, ricerche sul campo. Questo metodo
collettivo e dialogico non solo produce dati che possono essere immediatamente corretti o verificati, ma fornisce inoltre una validazione
sociale della conoscenza oggettiva che non potrebbe essere raggiunga attraverso metodi individuali basati su indagini e rilevazioni sul
campo».
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risolvere i problemi (Martini 1995) e quindi conoscenze
ed esperienze che permettono alla comunità di produrre
altra conoscenza e indurre il cambiamento. In
quest’ottica la P.A.R. è un processo di attivazione e
animazione territoriale 10 che «restituisce alla gente
comune il potere di partecipare nel processo di
creazione della conoscenza» (Martini 1995).
L’ultimo aspetto da analizzare, infine, è lo stretto
legame tra conoscenza e potere, (Reason e Bradbury
2000). Se la conoscenza è partecipata, allora anche il
potere non potrà che essere tale. Infatti risulta
fondamentale lo stretto legame che si instaura tra
P.A.R. e processi di empowering (Zimmerman 1999).
Indichiamo con empowering un «processo, ovvero una
serie di azioni attraverso le quali certi soggetti siano in
qualche misura empowered», ossia, sempre secondo
Zimmerman, il processo attraverso il quale i soggetti
acquisiscano controllo (capacità percepita o attuale di
influenzare le decisioni), la consapevolezza critica
(comprensione del funzionamento delle strutture di
potere e dei processi decisionali) e la partecipazione
(operare per ottenere risultati desiderati).
La P.A.R. diventa quindi «uno degli aspetti fondamentali
dell’empowerment», di emancipazione da situazioni di
oppressione. Particolarmente significative e intense
sono le lotte contro l’oppressione delle classi sociali
emarginate dell’America latina, descritte da autori quali
Paulo Freire, Augusto Boal e Orlando Fals Borda, così
come dell’India di Rajesh Tandon, senza però
Tablella 2 Caratteristiche della P.A.R.
Aspetti
Gli attori coinvolti
Contesto
Tecniche
utilizzati
e
-
metodi -
Le finalità e gli scopi
-
dimenticarsi che anche in altre parti del mondo si
verificano situazioni di carenza di partecipazione democratica.
Un ultimo spunto di riflessione riguarda, infine, il
significato di concetti quali lo spazio e il tempo rispetto
all’impostazione presentata. La P.A.R. ci sembra possa
recuperare e valorizzare le due dimensioni soprattutto
in relazione a due aspetti in parte accennati precedentemente: la comunità e il percorso.
Nel precedente paragrafo abbiamo parlato di questo tipo
di ricerca come un «processo di coinvolgimento,
partecipazione e connessione di attori sociali presenti
nella comunità» (Martini 1995). Lo spazio riacquista una
sua importanza nella centralità della comunità , locus di
incontro, scambio e azione: punto di partenza e punto
di arrivo per conoscere, cambiare, riconoscere, agire. La
P.A.R. diventa quindi strumento di riflessione e
creazione di comunità (Park 1988). Ma anche il tempo
riacquista un ruolo fondamenta le. La ricerca è processo,
percorso di riflessione e partecip-azione. Ed essendo un
percorso necessita di tempi più lenti, condivisi e
negoziati con i soggetti in ricerca: non è più soltanto
una fotografia del presente ma rappresenta un ponte tra
il passato di una comunità e il suo futuro.
In conclusione, possiamo rielaborare gli aspetti trattati
schematizzando le caratteristiche di questo approccio in
relazione agli attori coinvolti, al contesto o ambiente, ai
metodi e alle tecniche utilizzate, e alle finalità
perseguite e/o perseguibili (tab. 2).
Caratteristiche
soggetti che con-ricercano
ricerc-attori (animatori territoriali)
si pone il problema della comunicazione tra questi
due tipi di soggetto
importanza del rapporto con la comunità
sensibilità rispetto alle condizioni locali
sensibilità rispetto alle condizioni storiche
si basano sulla negoziazione e su processi decisionali
collettivi
evitano la pratica e il vissuto di espropriazione
si riconosce che nella comunità esistono modalità non
codificate di raccolta di informazioni, che servono
quotidianamente per decidere, e che vengono
valorizza
cambiamento sociale (contenuto di emancipazione)
processo di empowering
Bibliografia
Amerio P. (1995), Fondamenti teorici di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna.
Boal A. (1977), Il teatro degli oppressi, Feltrinelli, Milano (ed. or. 1974).
Bortoletto N. (2001), La ricerca- azione: un breve excursus storico bibliografico, in www.spbo.unib o.it/pais/minardi.
Fals Borda O. (1987), The application of partecipatory action research in latin america, in "International Sociology", 2, n.4, pp. 329-347.
Floris F. (2001), Dalla progettazione dialogica alla ricerca- azione, in "Animazione Sociale", n.5.
Freire P. (2002), La pedagogia degli oppressi, Ed. Gruppo Abele, Torino.
Gandhi M.K. (1973), Teoria e pratica della non violenza, Einaudi, Torino.
Kemmis e Mc Taggart (2000), Participatory Action Research, in N. K. Denzin and Y. S. Lincoln (eds.), Handbook of qualitative research, Sage
publication, London.
L'Abate A. (2001), Giovani e pace. Ricerche e formazione per un futuro meno violento, Pangea Ed., Torino.
Martini E.R. (1995), La ricerca-azione partecipata, in "Animazione sociale", n.11.
Park P. (1988), Toward an emancipatory sociology, in "International Sociology", n.3, 161-170.
Reason P. and Bradbury H. (2000), Inquiry & participation in search of a world worthy of human aspiration, in Hand - book of action research,
Sage Publications, London.
Whyte W. F. (1984), Learning from the field, Sage Publication, London.
Zimmerman M. A. (1999), Empowerment e partecipazione della comunità, in "Animazione Sociale", n.2.
10
Interessanti sviluppi della ricerca azione partecipata si sono avuti nelle esperienze di sviluppo locale partecipato e di attivazione delle
risorse dal basso (bottom up). Si pensi agli esempi delle comunità rurali gandhiane o all’interessante esperienza del bilancio partecipato di
Porto Alegre. Ma anche ai tavoli di sviluppo locale, laddo ve la ricerca azione viene chiamata anche «ricerca sociale attivante».
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Intervista a Lorenzo Venturini
Il dottor Venturini è al termine del suo percorso di dottorato di ricerca, presso il Dipartimento di Scienze
Sociali. Lo abbiamo intervistato, così come altri negli ultimi numeri, per raccontarvi la sua esperienza.
D: Ciao Lorenzo. Qual è stato il tuo percorso di
studi?
R: Ho frequentato l’università ad Alessandria, dopo un
anno di Politecnico a Torino.
tema che mi sono trovato ad affrontare era molto
generico e si sarebbero potuti affrontare molti argomenti. Ho deciso di parlare di flessibilità del lavoro,
tema sul quale non ero molto solido.
D: Come mai hai cambiato idea?
R: Ho scoperto che il Politecnico non aveva nulla a che
fare con me e con le cose che mi piacciono; inoltre,
parlando con il direttore dell’oratorio nel quale ho fatto
per un po’ di anni volontariato, mi sono avvicinato alla
sociologia – lui si era laureato in sociologia alla Sapienza
di Roma – e ho intuito che mi sarebbe piaciuta. Ho
guardato dov’era il posto più vicino per studiarla e mi
iscrissi ad Alessandria.
D: E com’è andata?
R: Sono arrivato ottavo dopo lo scritto: ero fuori dai
posti con borsa di studio. Allora mi sono messo sotto,
anche perché se non avessi fatto il dottorato sinceramente non avrei saputo cosa fare. Mi sono allora preparato bene per l’orale e alla fine sono arrivato quarto,
penultimo dei posti con borsa.
D: Perché, tu non sei di Torino?
R: No, sono di Asti.
D: E come è andata?
R: I primi tre anni avevo molte altre cose da fare e poi
la facoltà era di Scienze Politiche, per cui c’erano molti
esami non sociologici, e non sono rimasto folgorato,
anche se le cose andavano abbastanza bene. Quando
poi sono arrivati gli esami d’indirizzo, mi sono
appassionato. L’università di Alessandria era molto
piccola, con pochi studenti, per cui, nei corsi di indirizzo,
si faceva lezione in otto dieci persone più il docente e
tutto questo ha favorito uno scambio più profondo e
ricco. Qui ho conosciuto il professor Cardano. Questo ha
contribuito molto al crescere della mia passione, e
soprattutto mi ha fatto sentire la sociologia e la ricerca
sociale molto più vicina: la possibilità di continuare col
dottorato mi pareva più abbordabile.
D: Ti sei laureato con il professor Cardano?
R: Sì.
D: E su cosa hai fatto la tesi?
R: Ho studiato gli effetti della riforma del servizio
sanitario nazionale sulle organizzazioni ospedaliere. Era
una ricerca etnografica condotta in quattro ospedali
piemontesi, individuati a partire da una tipologia. In
ognuno ho passato circa otto mesi facendo osservazione
scoperta. È stato un lavoro lungo, circa due anni e
mezzo. Quando poi il professor Cardano si è trasferito
qui a Torino, abbiamo discusso della possibilità di fare il
dottorato di ricerca: ho partecipato al concorso e sono
passato.
D: Come ti ricordi la giornata in cui hai dato il
concorso?
R: Non troppo felicemente. L’esame è composto da un
tema scritto e da un orale. Di solito ci si prepara su
alcuni temi fondamentali della sociologia e della ricerca
sociale, perché si sa che potrebbero capitare. Io non mi
ero preparato adeguatamente, non so bene perché. Il
D: Il primo anno di dottorato...
R: Se escludiamo il fatto che è stato l’anno in cui mi
sono trasferito qui a Torino, per cui ero solo, non
conoscevo nessuno, per la prima volta in una grande
città e che l’impatto è stato dure? Se mettiamo questo
tra parentesi, il primo anno di dottorato è stato l’anno
più bello della mia vita.
D: Perché?
R: Quello che deve fare un dottorando è studiare,
andare a lezione, lavorare su un progetto di ricerca ed
era la prima volta che venivo pagato per imparare,
senza fare null’altro. Nel primo anno la didattica è
intensa: ci sono lezioni tre o quattro volte la settimana
e non sono lezioni come quelle a cui ero abituato io. Si
tratta di seminari, per cui occorre arrivare preparati,
avendo letto i materiali indicati dai docenti; insomma
lavoravo sodo ma avevo anche tempo per me.
D: Non pensi che il fatto che ti paghino per
studiare costituisca un ulteriore sprone a fare
bene, a impegnarsi più di quanto probabilmente ci
si impegna nel corso di studi tradizionale?
R: Assolutamente sì. Prima di tutto perché vivi questa
cosa come un lavoro per cui ne senti la responsabilità;
poi perché puoi permetterti di non fare nient’altro, non
devi cercarti un altro lavoro perché ti mantieni con la
borsa, e questo non è poco. Per cui il primo anno è
stato veramente molto bello. Alla fine del mese di aprile
del primo anno di dottorato, la professoressa Saraceno
mi ha inoltrato una e-mail che arrivava dal professor
Berghman di Leuven in cui il professore parlava di un
Master e le chiedeva se aveva qualche studente da
mandare.
D: Cosa hai fatto?
R: A me interessava molto, avevo voglia di fare
un’esperienza all’esterno, che non avevo potuto fare
durante l’università. Inoltre, attraversavo un particolare
momento della mia vita e cambiare aria ero certo che
mi avrebbe fatto bene. Qua a Torino, a parte la vita in
dipartimento e il dottorato, non mi trovavo bene, c’era
la prospettiva di stare via un anno, parte in
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Lussemburgo parte in Belgio, e frequentare un Master di
alto livello, in cui avrei imparato molto bene tecniche di
analisi statistica avanzata e avrei imparato molte cose
teoriche che poi ho potuto spendere nella mia tesi di
dottorato. In più avrei condiviso l’esperienza con altri
studenti, provenienti da tutte le parti del mondo, nella
mia stessa condizione. Mi sono preso una settimana per
decidere e alla fine ho accettato.
D: Raccontaci questa esperienza.
R: A metà agosto sono partito e sono stato via fino al
giugno dell’anno successivo. È stato un Master molto
intenso: ho sostenuto venti esami. Un’esperienza
umana eccezionale: come compagni avevo cinesi,
turchi, belgi, ungheresi, tedeschi, francesi, spagnoli,
ecc. Tutta gente molto motivata. Inoltre, stare in paesi
stranieri per un anno mi ha allargato le vedute. Anche
dal punto di vista professionale ho acquisito molto e mi
sono portato dietro una cosa, che forse non è molto
comune tra gli accademici italiani, ovvero che la
comunità scientifica di riferimento non è quella italiana
ma quella mondiale, per cui se si scrive in inglese è
meglio: occorre imparare a usare questa lingua.
P r o f e s s i o n e
S o c i o l o g o
D: Poi sei tornato, e hai proseguito la tesi di
dottorato...
R: Sì. In realtà l’anno di Master non mi ha consentito di
portare avanti anche la tesi, per cui ho dovuto
rimboccarmi le maniche. Inoltre, sono tornato proprio
nel periodo in cui occorreva presentare alla commissione lo stato di avanzamento dei lavori della tesi, ed io
non avevo neanche il progetto! Per cui ho presentato il
progetto, che mi è stato decisamente criticato, e ho
ripresentato il lavoro a fine dicembre. Nel frattempo, la
tesi del Master di I.m.p.a.l.l.a. (International Master in
Social Policy analisys by Luxembourg Leuven and
Associate institutes – www.impalla.ceps.lu), risistemata,
è stata inserita nei Quaderni di Ricerca del dipartimento,
risultando quindi come pubblicazione. Confrontandomi
con la professoressa Saraceno, abbiamo deciso di
sfruttare l’esperienza che ho fatto, non solo dal punto di
vista delle conoscenze teoriche e metodologiche
acquisite, ma anche per quanto riguardava i contatti
avviati all’estero. Inoltre, ci è sembrato opportuno
continuare l’utilizzo della lingua inglese, l’unica usata
durante l’anno di Master. La mia tesi è quindi in lingua
inglese e rientra in un progetto di co-tutela. La co-tutela
è un contratto stipulato tra rettori di università, che si
inserisce in una convenzione più ampia stipulata tra i
rettori delle università dell’Unione Europea, e assegna al
dottorando due tutor, uno per università. Formalmente
si è iscritti a entrambi i dottorati, per cui si ricevono due
titoli alla fine. La tesi si deve scrivere in una delle due
lingue e nell’altra occorre presentare un riassunto. Però
le tasse si pagano ad una sola delle due università e si
cerca di mediare tra il carico di lavoro di un dottorato e
dell’altro. A Leuven esiste un sistema di crediti anche
per il dottorato, e i crediti si possono acquisire in vari
modi: ho inviato un elenco di tutto quello che avevo
fatto e loro mi hanno abbonato un po’ di crediti. Inoltre,
occorre adempiere alle richieste tassative che
l’università belga chiede ai propri iscritti. Nel mio caso,
occorreva che io tenessi a Leuven un seminario di fronte
ad alcuni professori della commissione didattica del
dottorato e altri studenti di dottorato e presentassi il
mio progetto, con due discussant, uno di pari grado e
un professore. Questa presentazione va ripetuta a pochi
mesi dalla conclusione della tesi. Inoltre, occorre pubblicare un articolo su una rivista scientifica internazionale e presentare un lavoro a un convegno internazionale.
D: Arriviamo al tuo progetto di ricerca. Cosa
concerne?
R: Il tema generale è quello della povertà minorile nei
paesi dell’Unione Europea.
D: Che cosa ti ha spinto a scegliere questo tema?
R: Mah..., credo la mia storia, e il fatto che abbia fatto
per un sacco di tempo animatore di gruppi e abbia
lavorato con i minori, vivendo anche alcune esperienze
nei campi profughi dell’ex Jugoslavia e in Sud America
con i ragazzi di strada. Inoltre, se devo scegliere
un tema su cui spendere le mie energie voglio
che sia un tema socialmente rilevante, su cui
valga la pena spendere delle parole, verso cui il
mio lavoro possa dare un contributo, per quanto
piccolo, per cambiare una situazione che non funziona.
Le questione delle politiche sociale, delle disuguaglianza
e della povertà, sono temi rilevanti, per i quali il mio
contributo poteva favorire la ricerca di soluzioni ad un
problema.
D: In cosa consiste il disegno della tua ricerca?
R: Nella tesi cerco di ricostruire il contesto macro di
ciascuno dei quindici paesi dell’Unione Europea preallargamento prestando attenzione alla struttura del
regime di welfare, all’intensità delle diseguaglianza dei
redditi e al livello di ricchezza nazionale.
D: e poi?
R: L’idea è che in questo contesto “macro”, fatto in un
certo modo, con certi meccanismi di ridistribuzione delle
risorse e certi livelli di disuguaglianza dei redditi, ci sono
degli attori “micro” che si muovono, ovvero gli individui.
Questi possono incappare in una serie di rischi, come il
rischio di essere tagliati fuori dal mercato del lavoro, di
essere poveri o socialmente esclusi, di essere mamme
sole con figli a carico, e così via. Di fronte a questi rischi
li individui, o le famiglie come aggregati d’individui
reagiscono. La loro reazione è funzione delle
opportunità che hanno a disposizione, diciamo delle
risorse che il contesto macro mette loro a disposizione,
data la loro età, il loro genere, le loro credenziali
educative, dei loro desideri e delle loro credenze. Tanto
più efficacemente sono in grado di far fronte al rischio
tanto meno è probabile che l’evento sfavorevole si
verifichi. Per semplificare la questione, un esempio:
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immagina una famiglia di tre persone: padre lavoratore,
madre casalinga e figlio minorenne. Se il padre viene
licenziato, la famiglia è esposta al rischio di
deprivazione economica e il figlio è esposto al rischio di
sperimentare un periodo di povertà. Le opportunità, le
credenze e i desideri che li caratterizzano sono le tre
cose che i tre individui, forse dovremmo dire i due
genitori, mettono in gioco per allentare l’eventualità che
l’evento negativi si verifichi o per fare in modo che sia il
più breve e meno intenso possibile.
Sembrerà curioso, ma l’idea centrale, mi è venuta
guardando Tomb Rider. Cosa fa Lara Croft? Cammina
fino a quando le succede qualcosa; allora apre il suo
zainetto e trova l’elemento che le serve per far fronte
alla situazione. Entra in una grotta ed è buio, apre lo
zainetto e trova le torce, le accende e ci vede. Se poi
arrivano gli orchi che la vogliono mangiare, lei apre lo
zainetto, trova le pistole e li uccide, e così via. Da qui mi
è venuta l’idea di utilizzare il concetto di endowment, in
italiano è “dotazione”.
opportunità che arrivano dall’essere danese: ad esempio
ci saranno asili nido gratuiti, forme di sostegno al costo
dei figli, certi sussidi di disoccupazione.
Per cui di fronte allo stesso rischio l’outcome definito
come “probabilità per un bambino di sperimentare
povertà economica” è differente perché le dotazioni, gli
zainetti che hanno sulle spalle e nei quali possono
cercare le cose per affrontare le situazioni, sono
differenti.
D: Ce lo illustri meglio?
R: Ritorniamo all’esempio della famiglia. Tanto più lo
zaino della famiglia è ricco di cose, tanto più è probabile
che la famiglia la scampi. Come puoi ben intuire, il
problema è capire cosa c’è nello zaino. Alcune cose le
ho accennate prima: ci sono i desideri, le credenze e le
opportunità. Diciamo che nel mio zaino c’è quello che
vorrei, quello che posso, e quello che mi aspetto
succeda. L’aspetto rilevante è che quello che posso
dipende dalle mie caratteristiche ma anche dal luogo e
dal tempo in cui vivo. Se la famiglia del nostro esempio
è italiana, il padre avrà accesso a certi sussidi di medio
bassi disoccupazione, date le sue abilità e il suo titolo di
studio avrà possibilità più o meno scarse di rientrare nel
mercato del lavoro, eccetera. Poi avrà delle preferenze,
magari non sarà disposto ad a fare qualsiasi lavoro pur
di lavorare. E avrà delle attese: potrà ad esempio
pensare che per lui ormai è finita. In modo analogo la
madre avrà cose nella sua dotazione. In qualche misura
le due dotazioni e il modo in cui sono spese
determinano il destino del bambino. Sarà povero o no?
Quanto intensamente? Per quanto?
Dal mio punto di vista, se vogliamo, anziché discutere
sul modo in cui i rischi sono distribuiti all’interno della
popolazione, varrebbe la pena discutere e riflettere su
quali sono le dotazioni che hanno la caratteristica di
proteggere maggiormente gli individui rispetto ai rischi
sociali e, in particolare quali caratteristiche devono
avere le dotazioni dei genitori per proteggere i figli dal
rischio di povertà economica.
D: Quindi ognuno dà il proprio contributo...
R: Sì, ma questa comunione non ha conseguenze
scontate. Ad esempio, da alcune ricerche emerge che se
il reddito principale è portato nella famiglia dalla madre,
gli outcome scolastici dei figli sono più elevati rispetto a
quelli dei figli di famiglie nelle quali il reddito principale
è portato dal padre. Questo suggerisce che i
meccanismi di redistribuzione intra-familiare delle
risorse sono tutt’altro che scontati.
D: Puoi farci un esempio di una dotazione
“protettiva”?
R: Ad esempio, immaginiamo che ci sia una famiglia
danese composta da madre professoressa universitaria,
padre ingegnere altamente specializzato e quattro figli
tra gli 1 e i 10 anni. Qui però sia il padre sia la madre
lavorano, e supponiamo che si trovino ad affrontare lo
stesso rischio che abbiamo definito prima, ovvero
deprivazione economica conseguente alla perdita
dell’impiego da parte di uno solo dei due genitori. La
dotazione in questo caso è diversa, c’è una risorsa in più
che è il reddito del secondo genitore che lavora. Ci sono
altre credenziali educative che faciliteranno il padre
nella ricerca di un nuovo lavoro remunerativo. Ci sono
poi sono anche le persone con cui puoi spendere il tuo
tempo libero e divertirti. Inoltre, è la via che ti apre
all’insegnamento universitario, che ha me piace molto,
per cui c’è anche questa opzione futura.
Difetti. La prospettiva nostra, come prossimi giovani
ricercatori, in Italia è terribile. È una vita assolutamente
precaria, una vita molto poco remunerativa dal punto di
vista economico e questa è una cosa che dispiace.
Insomma è un lavoro che richiede altissima
professionalità ma è fortemente sottopagato. Adesso
stiamo attendendo gli sviluppi della riforma. L’unica
cosa che ti salva è la passione.
D: Qual è il tuo obiettivo?
R: Una delle cose che cercherò di fare è capire quali
sono gli elementi della dotazione dei bambini e dei
genitori che risultano maggiormente protettivi di fronte
al rischio di cadere in povertà. Ho detto di bambini e
genitori perché la dotazione dei bambini è in parte loro
in senso stretto: hanno desideri, predisposizioni,
credenze, capacità; ed ovviamente si evolve nel corso
della loro crescita. Tuttavia, in parte, impiegano la
dotazione dei genitori.
D: Concludiamo con una domanda che abbiamo
fatto anche ad altri. A tuo giudizio, quali sono i
pregi e difetti del dottorato?
R: Iniziamo dai pregi. I pregi che percepisco io.
Innanzitutto il fatto che sia un lavoro molto molto
creativo. Ti poni di fronte a un problema, che molto
spesso sei tu a scegliere, per cui è una cosa che ti
piace, ti interessa, ti attira, e lo scomponi, lo pensi, lo
studi, raccogli dati, li analizzi, cerchi risposte...
Insomma, c’è molto di tuo in questa cosa di due o tre
cento pagine che produci alla fine. Inoltre, è un lavoro
molto flessibile: puoi scrivere a casa, in ufficio, puoi
leggere in biblioteca, al parco, puoi studiare e lavorare
di pomeriggio e di notte e non al mattino... Ti organizzi
la giornata, a parte il primo anno, che è dedicato alla
didattica per cui è scadenzato dall’organizzazione del
dottorato. È un lavoro che ti mette a contatto con
persone che più o meno hanno la tua stessa età e che
D: Grazie Lorenzo e in bocca al lupo per tutto.
R: Crepi!
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Sociologie
Sociologie
11
Articolo segnalato da
Donatella Simon
L’Europa cristiana d Habermas
di Marina Corradi
da Avvenire del 10 novembre 2004
“Dialogo su Dio e il mondo”, è il titolo di uno dei capitoli
dell’ultimo saggio di Jürgen Habermas Tempo di
passaggi, Feltrinelli (pagine 152, euro 15). Tema a dir
poco impegnativo, dove ad affrontare uno dei massimi
filosofi contemporanei è il teologo della liberazione
Eduardo Mendieta. L’appartenenza dell’intervistatore
spiega una domanda come questa: “Professor
Habermas, lei parla di una missione dell’Europa in
favore del mondo, di una chanche che potrebbe
storicamente toccare a un’Europa unificata. Ma forse
che questa prospettiva non è compromessa dalla stretta
relazione con il cristianesimo intrattenuta dall’Europa
stessa?” Il professore, tuttavia, non ci sta. Risposta:
“Guardi, sulla famigerata trinità di colonialismo,
cristianesimo e eurocentrismo abbiamo finito di litigare.
(...) Il regime di Pol Pot, Sentiero Luminoso in Perù, a
dittatura di miseria in Nord Corea mostrano come dopo
il fallimento dell’esperimento in Unione Sovietica la
società capitalistica mondiale non consenta più nessuna
‘exit-option’, più nessuna via d’uscita all’indietro.
Qualunque trasformazione del capitalismo globale che
voglia neutralizzare i rischi di una sempre più accelerata
‘distruzione creatrice’ sembra ormai possibile solo
dall’interno”. Insomma, alla Scuola di Francoforte la
“stretta relazione” fra cristianesimo e Europa non pare
un impaccio grave pee la sua eventuale missione. Anzi,
esemplifica il filosofo, “prendiamo l’esempio dei diritti
dell’uomo. Nati in Europa oggi essi rappresentano
l’unico linguaggio con cui anche nel Terzo Mondo gli
oppositori e le vittime dei regimi tirannici e guerre civili
possono alzare la voce contro violenza e persecuzione,
contro l’offesa portata alla loro dignità umana”. Ma va
oltre il laico Habermas, spiegando come questa identità
cristiana che l’Europa del Trattato ha voluto
misconoscere sia nella stessa struttura portante della
cultura occidentale: “qualcosa di più di un precedente, o
di un catalizzatore”. “In Occidente – dice il professore –
il cristianesimo non ha soltanto soddisfatto i presupposti
cognitivi di una moderna struttura di coscienza, ma
anche favorito quelle motivazioni che sono state
studiate da Max Weber nelle sue indagini di etica
economica. L’universalismo egualitario – da cui sono
derivate le idee di libertà e convivenza solidale,
coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e
democrazia – è una diretta eredità dell’etica ebraica
della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore. A
tutt’oggi non disponiamo di opzioni alternative.
Continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il
resto sono chiacchiere postmoderne”. Anche questo si
dice, alla Scuola di Francoforte, a proposito di
cristianesimo e Occidente.
E a che punto è l’elaborazione del pensiero filosofico in
questo momento storico? Habermas: “La filosofia si
applica a elaborare il dogma della ‘umanizzazione di
Dio’, riflettendo seriamente sulla incondizionatezza del
dovere morale di fronte alla radicalità del male, sulla
finitudine della libertà umana, sulla fallibilità dello spirito
e caducità della vita individuale”.
Lei – viene posta la domanda – si considera erede di
quella prima Scuola di Francoforte che con Adorno
aveva percepito l’olocausto alla luce di una critica
sociale enfatizzante gli elementi barbarici e totalitari
dell’epoca? Habermas: “I saggi di Adorno muovono dalla
intuizione per cui una soggettività scatenata, quando si
ponga come assoluta e trasformi tutte le cose
circostanti in semplici oggetti, finisce per scontrarsi con
ciò che è veramente assoluto (...) Sottraendosi a ogni
controllo, la oggettivizzazione non porta rispetto a quel
nucleo sostanziale dell’individualità altrui, che rende
ogni creatura ‘immagine di Dio’”.
Ultima domanda per un filosofo tedesco nato nel 1929,
la cui adolescenza ha coincisa con lo sfacelo del Terzo
Reich: “È stato il secolo del ‘male radicale’. C’è qualcosa
che da questo ‘male radicale’ possiamo imparare –
ammesso che se ne possa imparare qualcosa?” La
risposta di Habermas è, ancora una volta,
sorprendente: “L’Olocausto non era qualcosa di
immaginabile prima del giorno in cui fu messo in atto:
dunque anche il male radicale ha un suo indice storico
variabile. Con ciò intendo sottolineare una peculiare
asimmetria nella conoscenza del bene e del male. Non
sappiamo fin dove gli uomini sono capaci di giungere nel
male. E tanto più cresce la malvagità, tanto più
evidente diventa anche il bisogno di rimuovere e
dimenticare la colpa”.
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Dicembre 2004, Anno 1, Numero 12
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Sociologie
Giornale del Sistan (Sistema Statistico Nazionale)
Settembre/Dicembre 2004
Giunge in porto il codice deontologico su privacy e
accesso ai dati per scopi scientifici.
di Ugo Trivellato
È stato definito il Codice di deontologia e buona
condotta per il trattamento dei dati personali utilizzati
per scopi statistici e scientifici. Lo hanno sottoscritto,
presso il Garante della privacy, i rappresentanti della
Conferenza dei rettori delle università italiane e di dieci
società scientifiche. È stato pubblicato nella G.U.
numero 190 del 14 agosto 2004, e il 1° ottobre è
entrato in vigore.
Un lungo cammino. Al codice deontologico si è giunti
attraverso un percorso lungo e accidentato. Il nome non
deve, infatti, trarre in inganno. Non è uno strumento di
autodisciplina. È, invece, un testo di legge, sia pure
secondaria ed elaborata con il coinvolgimento dei
soggetti interessati.
A valle della legge n. 675/1996 sulla tutela della
privacy, la comunità scientifica è stata attivamente
presente nella definizione della normativa sui
trattamenti per scopi scientifici, con un gruppo di lavoro
promosso dal Consiglio italiano per le scienze sociali,
che ha riunito i rappresentanti delle maggiori società
scientifiche. Il codice deontologico è la tappa conclusiva
di questo impegno: l’ultimo tassello, ma imprescindibile,
perché la disciplina più favorevole dettata per i
trattamenti per scopi scientifici diventa operante
soltanto quando il codice è efficace.
Le scelte fondamentali. Il codice deontologico si apre
con un preambolo, che ne mette in evidenza finalità e
logica ispiratrice. La funzione del codice è individuata
nel contemperamento di valori e diritti diversi. A fronte
del diritto alla privacy, sono messe in luce le necessità
della ricerca scientifica e le ragioni che ne sono alla
base:
il
principio
della
libertà
della
ricerca,
costituzionalmente garantito, e le esigenze di sviluppo
della ricerca per migliorare le condizioni della società.
Del codice, almeno tre punti meritano di essere messi a
fuoco. Innanzitutto, ne è definito l’ambito di
applicazione. Devono valere due presupposti: quanto al
soggetto, deve trattarsi di un’università o altro ente di
ricerca o società scientifica, oppure di un ricercatore che
operi in tali ambiti; quanto alla materia, si richiede al
ricercatore responsabile di predisporre un progetto,
redatto secondo gli standard dei protocolli di ricerca del
pertinente settore disciplinare.
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In secondo luogo, il codice traccia una chiara distinzione
fra dati personali e dati anonimi. La nozione di dato
personale è sensatamente circoscritta: sono considerati
tali solo i dati che consentono l’identificazione di una
persona con l’utilizzo di mezzi ragionevoli. Buona parte
delle basi di dati utilizzate nella ricerca scientifica sono
dunque da considerarsi anonime; quindi, non
interessate dalla normativa sulla privacy, che si applica
ai dati personali.
In terzo luogo, il corpo centrale del codice completa la
normativa sui trattamenti per scopi scientifici secondo
un principio di parsimonia e, nello stesso tempo, con
spirito
ragionevolmente
liberale. Quando siano
sufficienti per gli scopi di una ricerca, saranno utilizzati
dati anonimi. Altrimenti, si utilizzeranno in maniera
oculata dati personali: senza eccessive bardature
burocratiche e, insieme, assicurando un’adeguata
protezione della privacy.
L’entrata in vigore del codice ha, inoltre, un importante
effetto indiretto: rende operanti le disposizioni del
parallelo codice deontologico per i trattamenti effettuati
nell’ambito del Sistan (vigente dall’agosto 2002) sulla
comunicazione dei dati personali al di fuori del Sistan.
Le due modalità di comunicazione lì previste,
“nell’ambito di specifici laboratori” (aree di lavoro
protette) e “nell’ambito di progetti congiunti”, sono
infatti riservate ai soggetti – istituzioni scientifiche e
ricercatori – ai quali si applica il codice in questione.
Dopo le norme, servono i fatti. L’entrata in vigore del
codice è una cruciale condizione permissiva perché
l’attività dei ricercatori si possa svolgere senza
irragionevoli ostacoli. Ma non è certo sufficiente. Al
codice vanno affiancate condizioni positive
di
disponibilità di basidi microdati per la ricerca: prodotte
in via corrente, mantenute e distribuite entro una
cornice organizzativa adeguata, accessibili a tutti i
ricercatori interessati.
Su questo terreno la situazione italiana è decisamente
insoddisfacente. La disponibilità di basi di microdati è in
sostanza limitata ai cosiddetti file standard, di dati
anonimi, rilasciati dall’Istat. I ritardi rispetto alle
pratiche di paesi avanzati sono preoccupanti. La
distanza da un’esperienza quale, ad esempio, quella
dell’UK Data Archive è vistosa al punto da rischiare di
essere scoraggiante.
Non è questa la sede per trattarne. Ma la produzione e
distribuzione di adeguate basi di microdati per la ricerca
è – a mio giudizio – il prossimo, non eludibile impegno
che attende le società scientifiche e l’intera comunità
scientifica.
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IL TEMA DELL’ASSEDIO (PRIMA PARTE)
di Paolo Gilli
Tre film, girati a quasi vent’anni di distanza l’uno
dall’altro, potrebbero, in base ad una moltitudine di
elementi, essere accomunati in una specie di trilogia
‘ideale’.
Si tratta di “Rio Bravo” (Un dollaro d’onore, 1959) di
Howard Hawks, “Assault on Precinct 13” (Distretto
13 - Le brigate della morte, 1976) di John Carpenter e
“Nid de Guepes” (Nido di Vespe, 2002) di Florent
Emilio Siri.
I film con al centro della trama un assedio sono quasi
un sottofilone dei normali film d’azione, in cui si può
notare come spesso l’ambiente è ‘storicizzato’ o ‘horrorfantascientifico’. Volendone citare alcuni esempi si
possono nominare “La battaglia di Alamo” e “Zulu”, ma
anche “Aliens - Scontro finale” o la trilogia di George A.
Romero “La notte dei morti viventi”, “Zombi” e”Il giorno
degli Zombi”.
Chiariamo subito che, per il film di Hawks è lecito
parlare di capolavoro assoluto del cinema e anche il film
di Carpenter è ormai considerato un classico. Il film di
Siri è ottimo, soprattutto se si considera lo stato
attuale, francamente desolante, dei film d’azione
(americani).
Questi tre film non sono dei remake ma, con le dovute
distinzioni, potrebbero essere considerati delle libere
varianti l’uno dell’altro con alla base il comune tema
centrale, per appunto l’assedio.
IL PROTOTIPO
Howard Hawks, uno dei più grandi registi americani di
sempre, ha frequentato tutti i generi, creando nel
Gangstermovie dei classici come “Scarface” o “Il grande
sonno”, dal romanzo di Chandler con la coppia BogartBacall. Fu importante anche per la fantascienza con “La
cosa da un altro mondo”, firmato da Christian Nyby, ma
in realtà co-diretto (e prodotto / sceneggiato) da
Hawks. Oppure nella commedia con “Gli uomini
preferiscono le bionde” interpretato da Marylin Monroe.
Il genere però al quale ha contribuito di più è stato
sicuramente il Western, con 5 film, tra cui spiccano “Il
fiume rosso” e l’ipotetico dittico “Un dollaro d’onore” ed
“El Dorado”. I primi due vengono considerati non solo
tra i migliori Western di sempre, ma anche tra i 100 film
americani più belli di tutti i tempi.
Nell’ottica di analisi proposta “Un dollaro d’onore” ed “El
Dorado” devono essere analizzati insieme perché sono
imprescindibili l’uno dall’altro.
Rio Bravo - Un dollaro d’onore (1959)
Dopo aver assassinato un uomo disarmato, Joe Burdette
(Claude Akins) viene arresta to dallo sceriffo John T.
Chance (John Wayne). Un gruppo di pistoleri, ingaggiati
dal fratello e ricco proprietario di bestiame Nathan
Burdette (John Russel), cerca di liberare il carcerato
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assediando lo sceriffo nella prigione ed isolando la città
per impedire qualsiasi tipo di aiuto esterno. A causa di
questo blocco rimangono intrappolati a Rio Bravo la
bella avventuriera Feathers (Angie Dickinson) che si
innamorerà dello sceriffo e Pat Wheeler (Ward Bond),
un vecchio amico di Chance. Wheeler è accompagnato
da Colorado (Ricky Nelson), un giovane dalla pistola
veloce. Gli uomini di Burdette controllano, sorvegliano e
spiano lo sceriffo e i suoi aiutanti ed amici, in attesa del
momento giusto per colpire. Wheeler cerca di trovare
aiuto per l’amico sceriffo, ma viene assassinato. A
questo punto, Chance può contare solo su tre persone
al suo fianco. Sul suo ex-aiutante Dude (Dean Martin)
ora alcolizzato in seguito ad una delusione d’amore, sul
vecchio brontolone Stumpy, magnificamente interpretato da Walter Brennan ed infine su Colorado che ha
deciso di vendicare la morte di Wheeler. Dopo un’infinità
di colpi di scena si arriverà alla lunga sparatoria finale
(all’aperto - in contrasto con il resto del film) ed al più
classico dei lieti fini.
”Un dollaro d'onore” racchiude in sé gran parte del
cinema di Hawks e dei suoi temi. Il gruppo isolato che
svolge con orgoglio la propria missione, le amicizie virili
e le schermaglie amorose tra i sessi, il ruolo degli
anziani. La prigione diventa luogo di rifugio, un luogo
‘illuminato’ in mezzo all’oscurità. Rappresenta il
baluardo umano conto le forze distruttive esterne.
Fondamentali rimangono l’amicizia, la cooperazione tra i
singoli e la solidarietà di gruppo. I ‘marginali’ in Hawks
sono professionisti del mestiere, con i loro codici, valori
ed un proprio linguaggio. In questo ristretto ’ambiente’
utopico tutti hanno il diritto ad una possibilità di
redimersi o di raggiungere l’egualianza sostanziale, ma
nel rispetto della propria individualità, come accade in
questo caso a Dude o a Feathers. Hawks ammette e
mostra i difetti e le debolezze dei suoi eroi e di
conseguenza dei personaggi d’identificazione per il
pubblico. Le caratterizzazioni accurate dei personaggi
risultano, aldilà della situazione ambientale in cui si
svolge la storia, i veri punti di tensione.
Una regia perfetta per un film pieno di ironia, tensione e
di scene leggendarie, che sono impossibili da nominare
tutte. Tra le cose più belle sicuramente i primi cinque
minuti con nessuno che pronuncia una parola, Dean
Martin che combatte i suoi personali fantasmi e canta
"With my rifle, my pony and me", ma naturalmente
anche i battibecchi tra Wayne e Brennan, che seguono
perfettamente gli schemi della commedia brillante e
dulcis in fundo le gambe di Angie Dickinson.
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Gli attori sono tutti in grande forma. Inoltre il film è
pieno di caratteristi ‘regolari’ del cinema di Hawks e
soprattutto dell’ amico regista John Ford. Oltre a
Brennan è da notare la presenza, in ruoli minori, di
Ward Bond e di Harry Carey Jr. Un classico è anche la
colonna sonora di Dimitri Tiomkin, con il famoso
“Deguello”, che ossessionerà talmente Sergio Leone al
punto di inserirne variazioni in tutti i suoi Western.
El Dorado (1966)
Nel 1966 Hawks ritorna sull’argomento con “El Dorado”.
L’idea di Hawks che fa il verso a sé stesso rivedendo il
suo capolavoro di otto anni prima è semplice, ma molto
efficace.
Quando Cole Thornton (John Wayne) giunge ad El
Dorado, su invito di Bart Jason (Edward Asner) un ricco
allevatore che l’ha assoldato come pistolero per
impadronarsi delle terre della famiglia MacDonald,
incontra il suo vecchio amico ed ora sceriffo della contea
Jimmy P. Harrah (Robert Mitchum). Informato da Jimmy
sulla reale situazione, Cole rifiuta l’incarico, ma per un
equivoco uccide uno dei ragazzi della famiglia
MacDonald. La sorella Joey (Michele Carey), non
convinta delle spiegazioni fornite da Cole, gli spara. Con
una pallottola ficcata vicino alla colonna vertebrale e
con il rischio di rimanere paralizzato, Cole lascia la
contea. Qualche tempo dopo conosce Mississippi (James
Caan), un giovane, veloce di coltello, ma totalmente
incapace con la pistola. Incontra anche il pistolero Nelse
McLeod (Christopher George), che Jason ha assoldato al
posto suo per eliminare definitivamente i MacDonald. Da
lui Cole apprende che lo sceriffo Harrah, in seguito ad
una delusione d’amore, è costantemente ubriaco e che
la cittadina di El Dorado è in mano agli uomini di
Burdette. Cole decide di tornare per aiutare il suo amico
e per dare una mano ai MacDonald. Lo scontro è quanto
mai impari. Da una parte Jason e i suoi uomini,
dall’altra Cole, Jimmy, Mississippi e Bull Harris (Arthur
Hunnicutt), un vecchio cacciatore di indiani. Infine c’è
Maudie (Charlene Holt), una giovane donna salvata anni
prima da Cole e da allora innamorata di lui.
Nel finale Cole, praticamente paralizzato, riesce a
vincere il rivale anche con una mano sola (e con l’aiuto
di un trucco sleale). Il film, seguendo soprattutto nella
seconda parte lo schema conosciuto in cui si ripresenta
la situazione dell’assedio, si concluderà con un lieto fine.
Un western epico che accentua ancora più che in
passato il lato ironico e che è un susseguirsi di autocitazioni, senza però perdere in tensione. A detta dello
stesso Hawks, il film in un certo senso era già nato sul
set di “Un dollaro d’onore”. Ogni volta che, durante le
riprese, si arrivava ad un punto in cui si doveva
decidere una certa direzione di sviluppo della trama o
dei personaggi da prendere, l’idea scartata veniva
puntualmente annotata in previsione di poterla
riutilizzare in futuro. Esempi lampanti sono il
personaggio di Mississippi, totalmente negato con la
pistola, mentre Colorado in “Un dollaro d’onore” era un
pistolero abilissimo. Il ruolo di John Wayne
fondamentalmente rimane lo stesso. Anche il personag-
gio dell’ubriacone è ripreso, solo che qui è lo sceriffo.
Maudie poi è speculare a Feathers.
Il film, senza essere violento, è permeato da una
brutalità, che culmina nel finale in cui tutti i codici
d’onore non scritti del West vengono calpestati.
Gli attori sembrano divertirsi molto e con loro lo
spettatore. John Wayne e Robert Mitchum sono vecchi e
malandati, ma ancora in grado di sconfiggere i tipacci di
turno.
James Caan è praticamente all'esordio nel ruolo del
giovane Mississippi (sul suo nome, Alan Bourdillon
Traherne, gioca la principale gag del film), che spara
con un fucile a canne mozze per avere almeno la
possibilità di colpire qualcosa e che cita Edgar Allan Poe.
Con il suo gaio cimero
Un ardito cavaliere,
sotto il sole e fitta ombra
già da tempo andava errando
- e cantava una canzone –
ricercando El Dorado.
Tra le scene da ricordare l’introduzione di Mississippi e
tutta la parte del dopo sbornia del trasandatissmo
Mitchum.
La lunga carrellata laterale con Wayne e Mitchum che,
entrambi con l’aiuto di stampelle, percorrono la via
principale di El Dorado è poi stata esplicitamente citata
da Carpenter nel finale di “Distretto 13”.
Bisogna aggiungere che con “Rio Lobo” (1970), il suo
ultimo film, Hawks avrebbe poi diretto un’ulteriore
variante, in tono minore, di entrambi i film. Non per
caso il co-sceneggiatore di tutti tre è Leigh Brackett.
I film citati nell’articolo:
Rio Bravo / Un dollaro d’onore - Howard Hawks, 1959
El Dorado - Howard Hawks, 1966
Assault on Precinct 13 / Distretto 13 - Le brigate della
morte - John Carpenter, 1976
Nid de Guepes / Nido di Vespe - Florent Emile Siri, 2002
Alamo / La battaglia di Alamo - John Wayne, 1960
Zulu - Cy Endfield, 1964
Aliens / Aliens - Scontro finale - James Cameron, 1986
The Night of the Living Dead / La notte dei morti viventi
- George A. Romero
Dawn of the Dead / Zombi - George A. Romero
Day of the Dead / Il giorno degli Zombi - George A.
Romero, 1985
Scarface - Howard Hawks, 1932
The Big Sleep / Il grande sonno - Howard Hawks, 1946
The Thing from another World / La cosa da un altro
mondo - Christian Nyby / Howard Hawks, 1951
Gentlemen prefer Blondes / Gli uomini preferiscono le
bionde - Howard Haks,1953)
Red River / Il fiume rosso - Howard Hawks, 1948
Rio Lobo - Howard Hawks, 1970
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