John Dewey: l`abito fa il naturalismo culturale La formula

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John Dewey: l`abito fa il naturalismo culturale La formula
ROBERTA DREON
John Dewey: l’abito fa il naturalismo culturale
La formula “naturalismo culturale” è coniata dallo stesso John Dewey, che la
usa all’inzio della sua ultima trattazione della logica per caratterizzare la posizione da lui assunta. Riprenderne alcuni punti può essere utile per sottolineare una volta di più che il suo naturalismo non è affatto sinonimo di riduzionismo fisicista, come è stato ormai sottolineato da studiosi autorevoli1.
Ovviamente lo stesso Dewey era consapevole della pluralità di significati del termine naturalismo e da subito puntualizza che in Logic: The Theory
of Inquiry il termine è senz’altro impiegato per sottolineare la continuità tra
la conoscenza, la riflessione, l’indagine, da un lato, e i fenomeni biologici e
fisici, dall’altro. Ma considerare chiusa a questo punto la definizione di naturalismo sarebbe fallace. Infatti «“continuità”, dall’altro lato, significa che
le operazioni razionali crescono a partire dalle attività organiche, senza essere
identiche a queste forme dalle quali emergono»2. Ma anche questa puntualizzazione non basta, perché al limite autorizzerebbe interpretazioni del
naturalismo deweyano in chiave di monismo anomalo3.
Il contributo ulteriore riguarda l'aggiustamento dei mezzi alle conseguenze, che nel caso delle interazioni umane con l'ambiente è operato
anche di proposito, innanzi tutto in forme strettamente correlate alle
situazioni specifiche di esperienza e in seguito anche con l’intento di gene1 Tra i vari contributi su questo punto ricordo, oltre ai frequenti riferimenti di H.
PUTNAM (in particolare, The Threefold Cord: Mind, Body, and World, Columbia University
Press, New York 1999, tr. it. di E. Sacchi Sgarbi, a cura di E. Picardi, Mente, corpo, mondo,
il Mulino, Bologna 2003), quello di J. MARGOLIS, Reinventing Pragmatism. American Philosophy at the End of the Twentieth Century, Cornell University Press, Ithaca 2002, e quello precedente di T.M. ALEXANDER, John Dewey’s Theory of Art, Experience and Nature. The Horizons
of Feeling, State University of New York Press, Albany 1987. Ho affrontato la questione
nell’articolo “Il radicamento naturale delle arti: John Dewey nel dibattito contemporaneo”, Aisthesis, 1 (2009) 1, pp. 23-47.
2 J. DEWEY, Logic: The Theory of Inquiry, vol. 12: 1938, in The Later Works, 1925-1953,
Southern Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville 1991, p. 26, tr. it. di A.
Visalberghi, Logica, teoria dell'indagine, Einaudi, Torino 1974. Le traduzioni dai testi di
Dewey riportate nel testo sono di chi scrive.
3 Il riferimento è a D. DAVIDSON, “Eventi mentali”, in ID., Azioni ed eventi, il Mulino,
Bologna 1992, pp. 285-309.
Bollettino Filosofico 26 (2010): 169-182
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673912
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ralizzare i risultati a condizioni d'indagine più ampi. In altre parole, una
delle peculiarità dell’esperienza umana e in particolare di quella sua modalità specifica che è il conoscere, consisterebbe nella sua retroazione sulle
condizioni naturali dell'ambiente, che contribuisce a determinare e a riconfigurare. L’aggiustamento non avviene solo nella direzione del culturale
verso il naturale, in risposta al quale il primo emergerebbe, ma anche nel
senso di un incorporamento delle istanze culturali nell'ambiente naturale.
L’altra peculiarità decisiva consiste nel fatto che Dewey ritiene non discutibile – e tornerò nel seguito su questo punto – che «l’uomo è naturalmente un essere che vive in associazione con altri in comunità che possiedono una lingua e pertanto godono di una cultura trasmessa»4. L’ambiente
umano è naturalmente sociale e culturale, oltre che biologico e fisico, senza che nei suoi comportamenti sia tracciabile un confine netto. Quello che
invece permane costante, come sottolinea Human Nature and Conduct, è che
sia il respirare che il camminare che il parlare non sono qualcosa che competa a un organismo, un corpo o una mente di per sé. Tutte queste faccende sono piuttosto caratterizzate da una cooperazione tra l’organismo e
l’ambiente di cui è parte – tra l’aria e i polmoni con cui la respiriamo, tra i
nostri arti e gli spazi in cui ci muoviamo, tra le parole e l’ambiente sociale
in cui le abbiamo udite da altri e le proferiamo a nostra volta5.
Ebbene, ritengo che la concezione dell’abito sviluppata in particolare nel
volume del 1922 costituisca uno dei luoghi più significativi di questo naturalismo culturale, e che in essa appaia più chiaramente la continuità tra naturale e culturale e tra culturale e naturale. D’altra parte, si tratta di uno snodo
cruciale nell’economia dell’esperienza umana, dato che Dewey attribuisce
agli abiti di comportamento una valenza strutturale per le pratiche vitali degli
uomini, dall’orientamento motorio e percettivo nell’ambiente, allo sviluppo
di arti e tecniche, alla indagine riflessiva, alla morale e alla prassi politica.
1. Che cosa sono gli abiti?
In Human Nature and Conduct Dewey inizia il suo discorso proprio sottolineando la struttura relazionale degli abiti. Si tratta di modi di comJ. DEWEY, Logic: The Theory of Inquiry, cit., p. 26.
J. DEWEY, Human Nature and Conduct, vol. 14 in The Middle Works, 1999-1924,
Southern Illinois University Press, Carbondale & Edwardsville, 1983, tr. it. di G. Preti e
A. Visalberghi, Natura e condotta dell’uomo, La Nuova Italia, Firenze 1968.
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portamento socialmente appresi fin dalla nascita, letteralmente insieme al
latte materno, che non sono ascrivibili all’organismo innanzi tutto come
automatismi suoi propri, ma come funzioni o fattori delle sue interazioni
strutturali con un ambiente da subito naturale e sociale, o meglio naturalmente sociale. L’esposizione vitale del bambino al gruppo di appartenenza
è immediatamente conclamata da una dipendenza pressoché totale per la
sua sopravvivenza da coloro che lo accudiscono. Da subito, pertanto, il
piccolo d’uomo tende ad assimilare il proprio ambiente sociale, incorporando i comportamenti del proprio gruppo di appartenenza. Anzi, da un
certo punto di vista potremmo parlare di un operare dell’ambiente sociale
attraverso le funzioni organiche più elementari – la suzione, il pianto, le
prime emissioni sonore e i primi movimenti del corpo, delle mani, del
capo. Il bambino ne è agito da un lato, ma dall’altro diventa parte egli stesso di un ambiente sociale, fatto non solo di movimenti significativi, ma anche di gusti e disgusti, e via via di inclinazioni o deliberazioni morali, di
propensioni linguistiche e stilistiche, di opinioni e pensieri, che a loro volta
contribuiscono a determinare l’ambiente.
Gli abiti di cui ci parla il filosofo americano sono innanzi tutto di matrice pratica, relativi alle forme del fare e dell’orientarsi nel mondo. Dalle
facoltà sensoriali, che abbisognano di selezione, raffinamento, astrazione,
alle capacità motorie e pratiche, alle abilità nel manipolare cose, alle forme
della maestria tecnica, alle arti in senso lato – che in questo testo sembrano
pertanto emergere in primo luogo nella forma di abiti di comportamento.
Ma abiti sono innanzi tutto quelli linguistici: fin da piccoli acquisiamo il linguaggio ascoltandolo da altri, imparando a rispondere innanzi tutto con
l’intonazione adatta al tono della conversazione, ben prima che il significato referenziale delle parole che usiamo sia nettamente identificabile. Ed
abiti sono le capacità di selezionare gli aspetti rilevanti di una certa situazione su cui si basa il pensiero, l’indagine analitica di ciò che esperiamo. Da
questo punto di vista, essi precedono la riflessione, che può rifiutare alcuni
abiti inferenziali ormai cristallizzati, ma necessita comunque di uno sfondo
abituale almeno provvisoriamente fuori questione per operare efficacemente6.
Gli abiti non sono solo pervasivi, ma il loro ruolo strutturale in ogni
Cf. C.S. PEIRCE sia “The Fixation of Belief” sia “How to Make Our Ideas Clear”, tradotti in italiano con i titoli Il fissarsi della credenza e Come rendere chiare le nostre idee, e pubblicati a cura di M.A. Bonfantini, in Opere, Bompiani, Milano 2003, pp. 357-371 e pp.
377-393.
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forma di interazione degli organismi umani con l’ambiente evidenzia una
continuità tra le azioni più naturali e quelle più raffinate dal punto di vista
culturale; tra quelle più pratiche e quelle in cui l’orientamento teorico,
astrattivo o riflessivo è dominante; tra quelle che implicano un coinvolgimento del nostro corpo con tutta la sua pesantezza e quelle in cui il corpo
si libra nello spazio virtuale del pensiero.
Gli abiti sono pertanto mezzi dell'interazione con l’ambiente, dove però le
parole vanno comprese come strumenti in uso, adoperati in relazioni di cui
costituiscono fattori intrinseci e non come attrezzi nella cassetta, potenzialmente indipendenti dall’occhio, dalla mano o dal corpo che ne fa qualcosa7.
Se si riconoscono queste premesse, risulta artificiosa una certa tradizionale contrapposizione filosofica tra individui e società. Non si tratta di asserire la priorità della società sull’individuo – Dewey lo dice esplicitamente.
Piuttosto occorre ammettere che l’individuo e la mente individuale emergono a partire dalla partecipazione a un ambiente sociale che nutre i nostri
modi di comportamento. L’emergenza avviene sia per via riflessiva, allorché
per esempio la morale abituale entra in crisi e il sé reimposta riflessivamente
alcuni criteri della sua azione, ma anche mediante il carattere, ovvero attraverso il modo in cui gli abiti sociali appresi di volta in volta si “interpenetrano”, si connettono e si fondono secondo uno stile singolare.
2. Istinti, abiti, costumi
Se accogliamo una concezione tradizionale dell’istinto animale, gli abiti
non sono certamente degli istinti8. Se infatti l’istinto viene inteso in senso
tradizionale, quale risposta meccanica innata a un determinato stimolo ambientale, le divergenze rispetto al comportamento umano sono plurime.
Innanzi tutto, l'azione umana in connessione con un certo contesto ambientale non è generalmente innata, e anche quando lo è o lo potrebbe essere, come per esempio nel caso della suzione che si manifesta dalle prime
ore di vita, è da subito significativa, orientata a certe fonti e in certa misura
J. DEWEY, Human Nature and Conduct, cit., p. 22.
Si veda l’introduzione di Murray G. Murphey a J. DEWEY, Human Nature and Conduct,
cit., p. X. Ma non è affatto detto che si debba accogliere una concezione rigida dell’istinto.
Si veda già quella elaborata da Konrad Lorentz, in particolare nella interessante lettura che
ne dà Maurice Merleau-Ponty nel corso sul concetto di natura dedicato a “L’animalità, il
corpo umano, passaggio alla cultura” contenuto in M. MERLEAU-PONTY, La nature, Seuil,
Paris 1994, tr. it. a cura di M. Carbone, La natura, Raffaello Cortina, Milano 1996.
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interlocutoria: la ricerca del nutrimento non è separata da quella dell’abbraccio accogliente. Inoltre la risposta a una certa stimolazione ambientale
nel caso dell'uomo non è unica, né univoca. E questo fa la differenza anche
rispetto a concezioni più complesse dell’istinto animale quale propensione
innata ma non meccanicistica e non determinata innanzi tutto da un oggetto, ma a una certo stile di rispondenza a determinate situazioni – interpretazioni che si affermano in etologia a partire da Konrad Lorentz9.
Infine è l’idea stessa che tutto abbia inizio con uno stimolo ambientale
che Dewey ha criticato più volte nel corso della sua opera10. L’arco riflesso
è solo una porzione astratta di un comportamento più complesso, per cui si
giunge a parlare di “circuito organico”. Per accogliere uno stimolo al posto
di un altro è infatti necessaria una propensione dell’intero organismo che si
espone a certi aspetti dell’ambiente rispetto ad altri e proprio la tendenza a
selezionare certi tratti a discapito di altri è prodotta da abiti di comportamento acquisiti socialmente e inconsapevolmente. In altre parole, la stessa
risposta a stimolazioni del mondo naturale è condizionata da abiti di selezione, orientamento, predilezione, già incorporati dall’organismo, che lo
predispongono a essere sensibile proprio a quella e non ad altre.
Infine, secondo Dewey, l’impulso stesso va reinterpretato, non più come genesi di un certo abito, ma come istanza di problematizzazione e di riformulazione innovativa di un vecchio abito. Ma tornerò più avanti su questo aspetto.
Da un certo punto di vista si potrebbe leggere la concezione deweyana
degli abiti alla luce di una interpretazione della cultura avanzata da Clifford
Geertz. Può essere opportuno non tanto concepire la cultura in positivo
come una serie di abiti di comportamento, quanto intendere questi ultimi
in senso eminentemente negativo, quali meccanismi per restringere da un
punto di vista culturale le possibilità di interazione umana con l’ambiente,
che altrimenti sarebbero naturalmente così ampie da restare indeterminate
e da lasciare l'uomo del tutto incerto sul da farsi di fronte alle situazioni
con le quali si trova alle prese11.
9 Ma si veda già von Uexkull a questo proposito, come sottolinea il testo di MerleauPonty citato nella nota precedente.
10 In primis nell’articolo “The Reflex Arc Concept in Psychology”, in vol. 5: 1895-1898
di The Early Works: 1882-1998, Southern Illinois University Press, Carbondale &
Edwardsville, 1972, pp. 96-109.
11 C. GEERTZ, “L’impatto del concetto di cultura sul concetto di uomo”, in ID., Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1998, p. 58.
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Tuttavia, la traduzione dell’abito con il costume che è stata operata in
antropologia da Ruth Benedict non è, a mio parere, senza conseguenze.
Certo, parlare di costumi consente di evidenziare la dimensione primariamente sociale e tràdita delle nostre pratiche, che plasmano il comportamento individuale12. Ma la sottolineatura della struttura sociale del comportamento rischia di escluderne il radicamento naturale. Se infatti è vero
da un certo punto di vista che «la costituzione biologica dell’uomo non lo
obbliga a nessuna particolare forma di comportamento»13, dall’altro lato è
altrettanto vero che la costituzione biologica di quel mammifero particolarmente immaturo alla nascita che è l’uomo lo costringe a una dipendenza
strutturale dall’ambiente sociale cui appartiene. In altre parole, mentre
parlando di costume si può condensare efficacemente la connessione del
sociale e del culturale o del significativo in senso lato, il pericolo dal punto
di vista del naturalismo culturale di Dewey è appunto quello di far scomparire qualsiasi continuità con il naturale, inteso non in senso sostantivo e
dogmatico, ma come relativo a quelle componenti dell’esperienza umana
che non si lasciano risolvere da essa, possono esserne modificate e rielaborate, ma non semplicemente assorbite.
Un ultimo cenno almeno va riservato al concetto deweyano di abito rispetto sia alla tradizione empirista humeana, sia al lascito di Peirce, per altro molto importante per il filosofo più giovane. Dewey senz’altro accoglie la lezione dell’empirista scozzese sui condizionamenti strutturali del
nostro pensiero, che solo surrettiziamente ritiene di poter fondare induttivamente sequenze causali necessarie. D’altra parte, la sottolineatura della
componente della credenza che caratterizza inevitabilmente ogni nostra
presa di posizione teorica e ogni inferenza abduttiva non poteva che essere
fatta propria da John Dewey14. Tuttavia, lo spirito di quest’ultimo è più
vicino alla componente esistenziale, per così dire, della rivendicazione di
Peirce, per cui l’abito che ci fa propendere per la ripetizione rassicurante è
legato alla precarietà e all’instabilità strutturali della vita umana, che si trova radicalmente esposta all’ambiente naturale e sociale in cui si trova. Certamente l’abito ha una valenza epistemologica molto importante, ma pervade ogni modalità di esperienza, ogni pratica umana del mondo, ben prima che si generino quelle crisi a noi tutti ben note in cui non sappiamo
Cf. R. BENEDICT, Modelli di culture, ora riedito da Laterza, Roma-Bari 2010. Cito
dalla vecchia edizione Feltrinelli (Milano 1960), p. 8.
13 Ivi, p. 19.
14 I riferimenti sono soprattutto ai saggi di Peirce citati in precedenza.
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cosa fare, le forme abituali di comportamento non funzionano e subentra la
necessità di riflettere analiticamente sull'esperienza vissuta.
3. Perché gli abiti sono strutturali?
Ma resta aperta una questione di fondo. Altri studiosi prima di Dewey
hanno sostenuto la rilevanza degli abiti sociali nella determinazione dei
comportamenti individuali; tuttavia il pragmatista americano riserva agli
abiti un ruolo addirittura strutturale o costitutivo nelle interazioni tra gli
organismi umani e l’ambiente naturale e sociale di appartenenza. Perché
una posizione così radicale su questo tema?
Ebbene ritengo che le motivazioni siano plurime.
Innanzi tutto il ruolo degli abiti è relativo a quella che Dewey indica
come l’estrema “plasticità” dei comportamenti umani, per cui le risposte
alle istanze dell’ambiente possono variare in misura amplissima in relazione
al diverso contesto geografico, storico, culturale. «[...] l’ambiente in cui
l’atto ha luogo non è mai due volte lo stesso»15, non solo per istanze
estranee all’uomo, ma anche perché esso include di volta in volta gli atti
individuali e collettivi che contribuiscono ad alterarlo e a riconfigurarlo. Le
interazioni con esso avvengono infatti ad opera di agenti che sono a loro
volta parte integrante di quell’ambiente naturale e sociale in cui agiscono.
Al contempo anche gli impulsi a rapportarsi in un certo modo alla situazione con cui si è alle prese sono estremamente elastici e dipendono in
gran parte dal modo di volta in volta singolare in cui un organismo si determina come un intero dinamico.
Il problema è pertanto quello di restringere un campo di possibilità virtualmente infinito di risposte, di individuare dei criteri di selezione dei
comportamenti più adatti. In altre parole, occorre individuare dei principi
impliciti di economicità nella scelta delle reazioni possibili a quello che sta
accadendo, altrimenti l’estrema indeterminazione delle interazioni possibili porterebbe all’incertezza e all’inazione.
Dewey è lungi dal negare la valenza delle scelte riflessive esplicite, dalla
deliberazione frutto dell’indagine razionale, alla valutazione su base pratica, finalizzata a uno scopo manifesto, né l’operare in senso orientativo e
selettivo degli interessi e dei desideri individuali. Tuttavia tende a sottoli15
J. DEWEY, Human Nature and Conduct, cit., p.105.
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neare che sia le scelte consapevoli, sia le propensioni individuali in larga
parte inconsce sono già incanalate da abiti appresi socialmente, che possono e debbono essere tematizzati ed eventualmente criticati e rifiutati dal
singolo, ma che non possono mai essere totalmente sospesi. Uno sfondo di
abiti operanti nel nostro sentire, nei nostri atteggiamenti corporei, nel
pensiero concettuale, resta la condizione necessaria per mettere in questione alcune abitudini irrigidite e ormai sterili, o addirittura regressive.
Ma proprio la dipendenza strutturale del nostro essere dall’ambiente sociale cui apparteniamo ci impedisce di emanciparci dai modi comuni e partecipati di parlare, atteggiarci, pensare, sentire.
Siamo così venuti alla seconda istanza – senz’altro quella più forte – che
motiva il carattere strutturale degli abiti nella concezione deweyana dell’esperienza umana. Gli abiti sono costitutivi dei nostri comportamenti
perché fin dalla nascita gli organismi umani sono «creature dipendenti e
inermi»16, radicalmente esposte all’ambiente naturale e sociale, per cui la
loro unica possibilità di sopravvivenza è legata alle cure di quelle componenti dell’ambiente che sono loro favorevoli. Da questo punto di vista appare evidente che «Gli umani sono sociali perché devono essere sociali o
morire» sostiene Murphey17. Sociali sono innanzi tutto le cure che ricevono e interlocutorio da prestissimo, se non da subito, è l’atteggiamento
che imparano ad assumere rispetto a chi li accudisce. «E i bambini devono
agli adulti più che la procreazione, più che il nutrimento continuo e la
protezione che preserva la vita. Essi devono agli adulti l’opportunità di
esprimere le loro attività innate in modi che hanno significato».18 Secondo
Dewey, per tanto, al di là del falso problema filosofico della genesi della
società a partire dall’individuo, non solo l’infanzia, ma anche la struttura
non autosufficiente e immediatamente carica di significati qualitativi della
nostra sessualità segnalano in maniera lampante la radicale dipendenza
umana dagli altri19.
Occorre infine esplicitare almeno una terza motivazione che sta alla base
dell’attribuzione deweyana agli abiti di un ruolo strutturale nella determinazione dei comportamenti. Si tratta di un aspetto che è stato efficacemente
messo in luce da Richard Shusterman, che riguarda la centralità del corpo e il
Ivi, p. 45, cf. anche p. 65.
Ivi, p. X.
18 Ivi, p. 65.
19 Ivi, p. 44. Sarebbe interessante indagare in merito a questo aspetto la vicinanza delle
tesi di Dewey con il concetto di “neotenia” elaborato dalla biologia più attuale.
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definitivo riconoscimento che è un corpo, o un organismo nella interezza dei
suoi aspetti e delle sue istanze, che sente, agisce, pensa e delibera20. Per
esempio, il rifiuto di Dewey in entrambe le versioni dell’Ethics di una concezione formalistica della morale, per cui l’imperativo è condizione necessaria
e sufficiente per l’azione legittima, è legato alla rivendicazione che solo una
coscienza disincarnata o un essere divino potrebbe dare inizio a una azione
totalmente innovativa dal nulla. Al contrario un essere corporeo quale noi
siamo non può che incanalare di volta in volta le sue energie preesistenti in
una certa direzione, secondo percorsi in gran parte già acquisiti. Oppure può
mettere in crisi un certo abito di movimento, sensibilità, ragionamento, ma
per rinnovarlo o per sostituirlo con un altro modo di canalizzare le proprie
energie, che in una certa situazione appare più adatto alle nuove circostanze,
più fertile o eticamente legittimo – dove però anche questo giudizio non
pretende di essere ultimamente definitivo, ma emerge dal contrasto con la
morale abituale fino ad allora valida.
E questo è ancora più evidente per le arti, sia nel senso della loro produzione che in quello della fruizione. In entrambi i tipi di esperienze, infatti, la capacità di discriminare gli aspetti più rilevanti rispetto a una densità di stimoli percettivi molto complessa non proviene ex nihilo, ma ci
giunge da una coltivazione della sensibilità, delle abitudini motorie e manipolative, perfino dai modi in cui sono convogliati gli abiti organici del respirare per lo strumentista o dell’articolare i suoni per l’attore. E quando
una certa soluzione stilistica entra in crisi, la creazione di nuove forme non
avviene sul vuoto pneumatico, ma a partire da un altro modo di incanalare
le energie corporee, le dinamiche motorie, le inclinazioni percettive.
4. Ma gli abiti sono sempre regressivi?
Ritengo che un'interpretazione attuale della concezione deweyana degli
abiti non possa prescindere da un confronto almeno parziale con le importanti considerazioni di Pierre Bourdieu sull'argomento.
È indubbio che gli abiti sociali possono diventare soltanto asseverativi
dell’ordine costituito, possono semplicemente confermare istituzioni e costumi regressivi, possono condurre i singoli all’incapacità di considerare
criticamente il mondo che li circonda, a considerarlo come naturale, ov20 Cf. il saggio dedicato a Dewey da R. SHUSTERMAN nel suo Body Consciousness. A Philosophy of Mindfulness and Somaesthetics, CUP, Cambridge 2008, pp. 180-216.
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vio. Per riprendere le considerazioni di Peirce sul fissarsi della credenza, la
tendenza alla stabilizzazione della precarietà dell’esistenza umana che l’abito di comportamento rende possibile può impigrire la vigilanza critica individuale, può al limite nascondere, piuttosto che contenere, l’esposizione
radicale dell’esistenza umana all’ambiente sociale e naturale cui appartiene.
Ma gli abiti operano solo in senso negativo e regressivo sia dal punto di
vista epistemologico sia soprattutto sul piano politico dei rapporti di potere? Si tratta di questioni che sono esplicitamente affrontate da Dewey nel
libro del 1922, ma che forse possono acquistare maggiore rilievo da un
sintetico confronto con le tesi di Bourdieu.
Nel volume La distinzione. Critica sociale del gusto il filosofo e sociologo
francese attribuisce all’habitus un ruolo centrale dal punto di vista sociale e
politico, che tuttavia tende a essere solo negativo, sostanzialmente funzionale a mantenere la contrapposizione tra dominanti e dominati che l’autore
ritiene più basilare di ogni altra21. La caratterizzazione che qui se ne offre,
intende l’habitus come un sistema di schemi sociali di comportamento,
acquisiti dal singolo individuo per lo più in maniera inconscia e incorporati,
per usare l’espressione di Bourdieu, nel suo cervello. Come già per Dewey,
l’abito informa i modi della nostra sensibilità, le attività di selezione, comparazione, classificazione, scelta, configura le nostre forme di vita così profondamente per cui al limite l’individuo si trova innanzi tutto a essere agito
socialmente. E tuttavia le differenze sono notevoli. Non solo il pragmatista
americano evita di interpretare gli abiti unicamente nella prospettiva dei rapporti di potere, ma appunto innanzi tutto mantiene l’uso al plurale del termine, a fronte del privilegio costante di Bourdieu per la parola habitus al singolare.
L’habitus diventa il principio unico che genera le diverse pratiche sociali
passibili di classificazione e al contempo fornisce i criteri impliciti di classificazione delle differenti attività umane. Esso è un vero e proprio principio unificatore e generatore di tutte le pratiche nonché dei criteri per classificarle e valutarle, attraverso il quale il singolo individuo si trova conformato senza alcuna consapevolezza allo stile di vita della classe sociale dominante o dominata cui appartiene. Agisce come un creatore di metafore o
come un operatore analogico che trasferisce gli stessi criteri di classificazione e di valutazione morale, estetica, politica da un campo all’altro dell’esperienza umana – dalle scelte culinarie e di arredamento a quelle che ri21 P. BORDIEU, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 2001, p. 470
(l’originale francese La distinciton apparve nel 1979 per Les éditions de Minuit).
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guardano i modi per intrattenersi nel tempo libero, alle distinzioni tra alto
e basso, volgare e raffinato sul piano culturale e artistico, ma anche su
quello delle relazioni sociali22.
L’approccio di Dewey, come già si è visto, non è così unilaterale. Gli
abiti sono innanzi tutto plurimi e non sono necessariamente convergenti tra
di loro. Certamente ci derivano dall’ambiente sociale di appartenenza, ma il
singolo individuo non appartiene soltanto a un certo gruppo e non è detto
che lo stesso contesto sociale sia costituito monoliticamente. Soprattutto, se
il ruolo degli abiti di comportamento è strutturale alla stessa determinazione
di un sé individuale, questo non significa che l’acquisizione di ogni singolo
abito sia irreversibile e non possa essere messa in discussione dall’individuo.
Questo infatti non va inteso in contrapposizione dualistica rispetto al gruppo
sociale cui appartiene, perché appunto ne è parte e in quanto tale retroagisce
sull’ambiente sociale modificandolo a sua volta con scelte riflessive, ovvero
con l’instaurazione di abiti nuovi a partire dai vecchi.
È infatti in questo contesto mediano piuttosto che iniziale che Dewey
attribuisce un ruolo rilevante agli impulsi o agli stimoli, che considera qui
esplicitamente come equivalenti23. Se infatti sul piano teorico sembrerebbe
che gli impulsi a una certa reazione all’ambiente debbano venire per primi,
di fatto essi sono secondi e dipendenti. Gli argomenti portati a favore di
questa tesi sono essenzialmente due. Innanzi tutto, come è già stato sottolineato in precedenza, gli individui iniziano la loro vita come bambini, e costoro, in particolare i neonati, sono radicalmente dipendenti dalle interazioni con un “medio sociale maturo”, che orienta da subito i loro comportamenti e li rende significativi24. Se, per esempio, la rabbia bruta dell’aquila può essere identificata subito come funzionale alla sopravvivenza, l’immediata inscrizione in relazioni sociali fa sì che la rabbia umana non sia mai
innanzi tutto mera rabbia, ma irritazione per qualcosa, volontà di vendetta,
indignazione per qualcosa di inaccettabile. In altri termini l’impulso rudimentale nell’uomo è solo potenziale, è al limite un’astrazione teorica, perché invece è il contesto sociale che lo conforma o lo declina da subito secondo una certo abito di comportamento. Inoltre, se gli impulsi si dessero
innanzi tutto a uno stato neutro, preabituale, nell’uomo, non si spiegherebbero le profonde differenze culturali nei costumi umani.
Mi riferisco qui in particolare alle pagine del capitolo terzo “L’habitus e lo spazio
degli stili di vita”, ivi, pp. 173 e sgg.
23 J. DEWEY, Human Nature and Conduct, cit., p. 75, nota I.
24 Ivi, p. 66.
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Piuttosto, secondo Dewey, una volta che gli abiti sono acquisiti e incorporati nei nostri movimenti e nei nostri atteggiamenti vitali, gli impulsi
funzionano come stimoli per la riorganizzazione del comportamento individuale. Sono i luoghi di maggiore flessibilità del comportamento, perché
possono introdurre istanze estranee o contrastanti rispetto ai modi codificati di risposta e trasformare plasticamente i vecchi abiti in abiti nuovi, più
adatti a contesti ambientali differenti o capaci di rispondere in maniera più
efficace a esigenze individuali difformi.
Tuttavia Dewey è ben consapevole che proprio la flessibilità dei comportamenti umani attraverso la canalizzazione abituale, nonché la plasticità
degli impulsi, può trasformarsi in situazioni sociali e politiche regressive, in
irrigidimento, in forme di comportamento largamente prevedibili e pertanto controllabili, ovvero in docilità acritica e asseverativa dell'esistente.
Ciò avviene in particolare attraverso l'enfatizzazione delle componenti
emotive caratteristiche degli abiti di comportamento a scapito di quelle che
favoriscono la comprensione esplicita. Questo tipo di processi facilmente
porta a forme sociali che non perseguono «le possibilità di una vita migliore per la comunità tanto quanto per l’individuo»25.
Un esempio molto efficace proposto da Dewey è quello del lavoro umano, che viene depauperato della propensione “naturale” a essere gratificante
per diventare semplicemente fatica. Si tratta di un abito chiaramente regressivo e asseverativo di una distinzione sociale fondata sulla divisione dei poteri
economici, che legittima l’espunzione di ogni qualità estetica dal lavoro e
l’isolamento complementare non solo delle arti, ma anche delle attività del
tempo libero da dedicare al piacere. «La psicologia attuale dell’operaio industriale per esempio è fiacca, irresponsabile, poiché combina un massimo di
routine meccanica con un massimo di impulsività esplosiva e fuori controllo.
Queste cose sono state alimentate dal sistema economico esistente. Ma
esistono e sono ostacoli formidabili al cambiamento sociale»26.
Ma anche qui la distanza rispetto all’approccio di Bourdieu è notevole,
perché Dewey si pone esplicitamente la questione di come uscire da un
simile circolo vizioso e perché ritiene che per uscirne non sia sufficiente una
presa di distacco teorico e una scelta totalmente negativa e completamente
innovativa, come se il no potesse venire da una coscienza disincarnata e presociale. I percorsi per l’emancipazione sono precari e parziali, soprattutto
non comportano la liberazione da tutti gli abiti precedenti o da ogni habitus
25
26
Ivi, p. 71.
Ivi, p. 89.
John Dewey: l’abito fa il naturalismo culturale
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alla Bourdieu, ma la crisi, il riaggiustamento e la nuova riorganizzazione dei
vecchi abiti di interazione con l'ambiente sociale di appartenenza. Alcuni abiti devono e possono essere messi in dubbio, revocati o riformati, ma non va
dimenticato che questo può accadere solo su uno sfondo di altri abiti che
restano assunti implicitamente e che orientano i nostri comportamenti.
L’analogia potrebbe essere con il tema dell’ermeneutica gadameriana dei
pregiudizi e del loro valore costitutivo per la comprensione27. Ma mentre là
l’accento rimane sul sapere, anche se su un sapere primariamente pratico e
orientativo, nel caso di Dewey riguardano innanzi tutto modi del fare, dell’operare, dell’interagire con altri e con altro.
Per uscire dal circolo vizioso non ci sono armi originali e decisive: resta
l'educazione, ovvero la formazione sociale degli individui ad assumere con
maggiore consapevolezza e senso critico gli abiti sociali consolidati, la morale abituale, i modi di pensare indotti. Dall’altro lato resta il contributo a
una cultura complessa e plurale, capace di contenere in sé abiti contrastanti, costumi differenti, modelli di comportamento non solo convergenti
ma anche soprattutto conflittuali. Se di per se stesso ogni costume tende a
irrigidirsi, a confermare l’esistente, a obliare l’incertezza che deriva dalla
precarietà e dalla dipendenza da altro e da altri che caratterizzano gli organismi umani in particolare, l’attrito tra costumi diversi può generare la crisi delle risposte consolidate, la loro assunzione consapevole o il loro rifiuto, e in ogni caso il recupero di una più ampia plasticità nei comportamenti, di una maggiore libertà.
Per esempio, «non c’è nulla nella produzione industriale che di necessità escluda l’attività creativa»28. «Se invece gli uomini capiscono quello
che stanno facendo, se vedono il processo intero di cui il loro lavoro è una
parte necessaria, e se hanno interesse, cura per quell’intero, allora si agisce
contro l’effetto meccanizzante»29.
Si tratta di una risposta molto parziale e forse troppo ottimistica, ma
senz’altro parte dalla consapevolezza che non ci sono possibilità emancipative altre da quelle immanenti allo stesso tessuto sociale di cui siamo
parte. E questo non è poco.
Ma soprattutto essa deriva dal riconoscimento che la coscienza non si dà
27 Ovviamente il rimando è in primo luogo a H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode,
Mohr, Tübingen 1990, tr. it. di G.Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 1983, in
particolare alla seconda sezione della seconda parte.
28 J. DEWEY, Human Nature and Conduct, cit., pp. 99-100.
29 Ivi, p.100.
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Roberta Dreon
innanzi tutto in forma autonoma e che essa non è all’origine delle interazioni dell’organismo con l’ambiente. Essa è piuttosto la peculiare qualità di
un certo tipo di interazione umana con l’ambiente, ovvero insorge tutte le
volte che entra in crisi un abito di risposta acquisito socialmente e operante
in forma largamente inconscia, ogni volta che le cose non funzionano secondo le previsioni e non si sa cosa fare. Un impulso, un fattore nuovo entra a far parte dell’esperienza individuale e rende palese che un certo abito
di comportamento è insufficiente o inadeguato. Questa nuova qualità cosciente dell’interazione produce la conoscenza, ovvero la considerazione
riflessa e analitica dell’esperienza precedente fino a portare all’instaurazione di un nuovo modo di rapportarsi alla situazione ambientale che è
mutata. Da questo punto di vista la coscienza individuale è reinterpretata
come funzione degli abiti e in particolare di quelle fasi in cui gli abiti consolidati entrano in crisi, si disintegrano e si aprono alla revisione esplicita.
D’altra parte, la conoscenza è essenzialmente retrospettiva, ritorna su
esperienze pregresse per considerarne analiticamente le componenti e trovare una soluzione determinata, sebbene parziale e precaria, al da farsi. E
questo vale anche per la deliberazione morale, che si basa su assunzioni
morali preriflessive che diventano problematiche e consapevoli. La responsabilità individuale è pertanto indubbiamente centrale, ma ha appunto il
carattere secondario di una risposta, non quello primario di un inizio dal
nulla.
In altri termini non si danno luoghi del sentire, del pensare, della scelta
o dell’azione estranei o autonomi rispetto all'ambiente sociale che è naturalmente proprio degli organismi umani, ma questo stesso ambiente è anche l'unico luogo in cui può generarsi la coscienza individuale, la scelta
consapevole, l’azione responsabile. L’assunzione di fondo di questo modo
di pensare di Dewey deriva dal riconoscimento che «la natura umana esiste
e opera in un ambiente. E non si trova “in” quell’ambiente come le monete
nella scatola, ma come una pianta nella luce del sole e nel terreno»30.
30
Ivi, p. 204.