Le sfide alla democrazia - Dipartimento di Scienze Politiche e
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Le sfide alla democrazia - Dipartimento di Scienze Politiche e
Capitolo 12 Crisi della politica e prospettive della democrazia Fra il gennaio 1919, quando si tennero le elezioni per l’assemblea costituente che avrebbe fondato la Repubblica di Weimar e il gennaio 1933, quando Hitler venne nominato cancelliere della Repubblica di Weimar, che si affrettò ad abolire, si svolsero ben otto elezioni (e una nona si sarebbe svolta nel marzo 1933 quando ormai Hitler aveva preso il potere). I risultati del voto in queste elezioni formano una sequenza impressionante. L’arco dei partiti costituzionale, favorevoli alla costituzione repubblicana, raccoglieva inizialmente circa il 75% dei voti e la partecipazione elettorale Il sovraccarico democratico era circa dell’83%. Il voto si distribuiva in maniera La crisi economica e le risposte neocorporative e bipolare, fra una sinistra socialdemocratica al 45%, neoliberiste dei partiti di centro moderati (fra liberali e cattolici) Apatia e disincanto, populismo e antipolitica circa della stessa entità, e un unico partito La democrazia del controllo, della partecipazione e della nazionalista e conservatore di circa il 10%. Dopo deliberazione numerosi ed inefficaci governi, un’iperinflazione Rappresentanza, accountability, tolleranza che aveva distrutto il valore del Reichsmark, violente proteste per le riparazioni di guerra e l’assassinio del ministro degli esteri Rathenau, la distribuzione del voto era radicalmente cambiata. Nel maggio 1928, il partito socialdemocratico era calato al 30%, un partito comunista rivoluzionario si era formato ed aveva raggiunto il 10%, i partiti liberali moderati si erano ridotti al 14%, il centro cattolico si manteneva al 12% e la destra nazionalista era aumentata al 17% (ma il partito nazista era ancora ben sotto il 3%). La disaffezione era però aumentata e a votare andava soltanto 75% degli aventi diritto. Fu la Grande Depressione del 1929-30 e i cinque milioni di disoccupati che trasformarono definitivamente questo quadro, facendo balzare in avanti il partito nazista al 38% nel luglio 1931, poi al 33% nel novembre 1932 (quando a Hitler venne offerto il cancellierato) e infine al 44% nel marzo 1933. Il partito socialdemocratico si manteneva attorno al 20%, il centro cattolico rimaneva immutato al 12% ma erano i partiti moderati di centro-destra ad essere spazzati via non riuscendo a raccogliere insieme più dell’8%. La partecipazione elettorale era tornata all’84%. Da allora, calo della partecipazione elettorale, svuotamento del centro e affollamento di partiti anti-sistema sulle ali estreme indicano agli scienziati politici che la democrazia è in serio pericolo. 1. Dal sovraccarico democratico alla public choice Come si è visto nei capitoli precedenti, dal dopoguerra in poi governare è diventato progressivamente più complesso e difficile. I compiti che lo stato ha assunto su di sè si sono moltiplicati, passando dalla ricostruzione ed il soddisfacimento dei bisogni materiali primari, alla fornitura di servizi sociali sempre più differenziati. Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, in molti paesi europei e più in generale in quasi tutti i paesi OECD, ci si aspetta che i governi si facciano carico dell’andamento dell’economia, del benessere dei cittadini e della soddisfazione di diritti democratici sempre più sofisticati. Nello stesso tempo, la crescente interdipendenza fra 1 sistemi produttivi, commerciali, finanziari e monetari ha moltiplicato i vincoli reciproci fra sistemi economici con ripercussioni evidenti sui sistemi sociali e politici [↑11]. Mentre nel periodo immediatamente dopo la guerra, dagli anni Settanta in poi il peso della gestione e del finanziamento degli stessi ha cominciato a rappresentare fonte di malcontento. Si è già detto di come questa moltiplicazione degli impegni presi con i cittadini ha portato all’aumento della pressione fiscale in molti paesi europei, incluso il nostro (figura 1), e come abbia portato a forme di protesta contro i partiti di governo e alla creazione di partiti di opposizione nuovi, che non si collocavano più lungo i tradizionali cleavages sociali identificati da Rokkan, ma forse lungo un nuovo cleavage costituito dalla contrapposizione fra valori materialistici e valori postmaterialistici. Abbiamo anche visto come i modi di fare politica siano mutati nel corso del dopoguerra e come i cittadini abbiano chiesto crescenti spazi di partecipazione proprio mentre i partiti di massa andavano perdendo i contatti con la “base” e si arroccavano all’interno delle istituzioni statali. I “partiti-cartello” e i “partiti professionali” sono espressione delle nuove modalità di finanziamento degli stessi, a carico dei cittadini e dello stato [↑5]. Quindi, proprio mentre procedeva il processo di maturazione e consapevolezza democratica dei cittadini, si veniva contemporaneamente a creare un divario crescente con la classe politica. La crescente distanza fra promesse e realizzazioni e fra cittadini e classe politica hanno alimentato sentimenti di disillusione, apatia e financo ostilità nei confronti della politica. FIGURA 1 CIRCA QUI Lo stato del benessere Lo stato del benessere (welfare state) è lo stato che si occupa dei cittadini “dalla culla alla tomba” – o almeno così si era impegnato a fare lo stato britannico dopo la guerra, ispirato dal famoso Beveridge Report1 che voleva garantire sicurezza sociale (social security) a tutta la popolazione dai “cinque mostri” della nostra società (bisogno, malattia, ignoranza, squallore, inattività). Nati dalla necessità di far ripartire le economie occidentali dopo le distruzioni della Grande Depressione degli anni Trenta e della seconda guerra mondiale che ne seguì, il welfare state e la politica macroeconomica keynesiana hanno promesso crescente benessere alle generazioni nate durante e dopo la guerra. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta – i baby-boomers rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa – crescenti libertà politiche e benessere economico erano certezze date quasi per scontate. Non così per le generazioni che avevano vissuto il periodo fra le guerre né purtroppo per le generazioni nate dagli anni Settanta in poi. 1 Il titolo completo era Report on Social Insurance and Allied Services e fu pubblicato nel 1942 [Beveridge 1942]. 2 A ben guardare, però, nemmeno il periodo dei cosiddetti “trenta gloriosi” – gli anni che vanno dal 1944, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra e ribaltarono le sorti del conflitto, al 1973, anno della prima crisi petrolifera e dell’inizio dell’inflazione cum stagnazione e convenzionalmente considerato come un periodo “glorioso” di crescita e sicurezza generalizzati – era stato poi veramente tale. Il mondo occidentale viveva sotto la cappa della Guerra Fredda e la minaccia della guerra nucleare: gli Stati Uniti erano socialmente divisi da varie forme di aperto o mascherato segregazionismo (dalle Jim Crow laws del Sud ai ghetti urbani del nord) e scossi da proteste per i diritti civili e da assassinii politici ad altissimo livello (John F. Kennedy, Martin Luther King, Robert Kennedy); l’Europa affrontava la ricostruzione ed era divisa da una “cortina di ferro” fra la zona di influenza americana e la zona di influenza sovietica, senza contare i sussulti antidemocratici in Spagna (già dittatura dal 1937 al 1975, la Spagna conobbe un lungo periodo di transizione democratica fino al 1982 costellato da altri tentativi di colpo di stato militare), Grecia (1967-1971) e Portogallo (dittatura dal 1926 al 1974), la crescente soppressione delle libertà e della protesta nei paesi dell’est europeo (Ungheria nel 1956, Cecoslovacchia nel 1968) e il terrorismo che dilaniava i paesi continentali che più risentivano politicamente del clima della guerra fredda quali Italia, Germania e Francia. In Italia, così come in altri paesi del sud d’Europa, lo stato del benessere venne in realtà costruito più tardi che negli altri paesi europei, a partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio mentre il periodo di crescita mondiale stava per finire e la crisi petrolifera causava deindustrializzazione in molti paesi avanzati ed innescava la prima crisi economica del secondo dopoguerra. Finiti gli investimenti infrastrutturali necessari alla ricostruzione e alla conquista del consenso nell’immediato dopoguerra, si procedette in Italia a costruire lo stato sociale – soprattutto sanità e pensioni – proprio mentre la crescita inizia la sua discesa. Vennero concesse pensioni retributive a chi non aveva maturato un sufficiente numero di anni di contribuzioni e si permise di andare in pensione ad alcune categorie anche molto presto (baby pensioni) [Ferrera 1993, 2012]. Le imprese pubbliche, che avevano avuto il compito di trainare l’industrializzazione e l’approvvigionamento di energia dell’Italia fra le guerre, si fecero carico di nuovi problemi quali l’industrializzazione del sud e l’assorbimento delle industrie mature e decotte del nord. I margini di produttività erosi dall’aumento dei salari e soprattutto dall’aumento dell’energia vennero recuperati attraverso la svalutazione della moneta e attraverso l’inflazione, che però andarono ad alimentare nuovamente l’aumento dei costi e dei prezzi. Si crearono così dagli anni Settanta le basi di quel debito pubblico sempre crescente che perseguiterà l’Italia fino ai giorni nostri. Proprio nel momento in cui veniva creato, lo stato sociale italiano era già in crisi. Simile traiettoria conoscevano i paesi del sud 3 d’Europa, mentre quelli del nord d’Europa, che da tempo finzianziano il loro stato sociale con le tasse, incontravano l’opposizione sempre più radicata dei cittadini. Il sovraccarico democratico e le soluzioni neocorporative Con tempistiche parzialmente sfasate e problematiche parzialmente diverse, tutti gli stati europei sperimentarono negli anni Settanta crescenti difficoltà economiche e, quindi, crescenti domande da parte dei cittadini. Come abbiamo già ricordato, mentre i cittadini dei paesi del sud d’Europa cercavano di recuperare un deficit di sviluppo soprattutto dello stato sociale, i cittadini dei paesi del nord sperimentavano già un eccesso di intervento statale nell’economia e nella società. In entrambi i casi, si registrava un sovraccarico democratico (overload) che la Commissione Trilaterale2 [Crozier, Huntington, Watanuki 1975] identificava come causa principale del malessere sociale e della “crisi della democrazia” degli anni Sessanta e Settanta. Insomma, il problema era l’eccesso di domande poste al sistema politico, non necessariamente la sua limitata capacità di dare risposte. Eppure, nel mezzo di una crisi che colpiva tutte le principali democrazie europee – dal Regno Unito che si avviava verso una drammatica deindustrializzazione al Belgio che seguiva dappresso e accumulava un debito pubblico spaventoso, dalla Svizzera che si teneva a galla espellendo i lavoratori temporanei (Gastarbeiter) del sud d’Europa alla Francia che continuava a pompare denaro pubblico nelle industrie di stato – vi era uno sparuto numero di piccole democrazie che sembravano capaci di difendersi dalla crisi economica meglio di altre. Erano queste le democrazie consociative [↑4]del nord d’Europa, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda all’Austria. Il segreto del loro successo veniva identificato nella capacità delle parti sociali di dialogare e negoziare, in tempi di crisi, una tregua salariale e uno sforzo collettivo per migliorare la competitività i cui frutti, in tempi di ripresa, sarebbero stati ripartiti equamente fra capitale e lavoro. La political economy elaborò, in quegli anni, i dettagli del modello vincente di una democrazia che riesce a fronteggiare circostanze avverse che non può controllare grazie alla collaborazione fra parti sociali [Katzenstein 1985, Esping-Anderson 1985]. Il segreto di questa capacità di arrivare ad accordi credibili e duraturi veniva identificato nella presenza di associazioni di lavoratori e datori di lavoro solide e strutturate, la cui leadership era in grado di negoziare patti credibili e farli rispettare dalla propria base. Il corporativismo – o, meglio, il neo-corporativismo [Lehmbruch and Schmitter 1979, 1982] – acquistava così una nuova connotazione assai più progressista e democratica rispetto 2 La Commissione Trilaterale è un think tank non governativo e non partitico fondato il 23 giugno 1973 per iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank. La Trilaterale conta come membri più di trecento privati cittadini (uomini d'affari, politici, intellettuali) provenienti dall'Europa, dal Giappone e dall'America Settentrionale, e ha l'obiettivo di promuovere una cooperazione più stretta tra queste tre aree (di qui il nome). 4 alla sua origine fascista. I datori di lavoro si impegnavano a rinunciare, in tempi di vacche grasse, a parte dei loro profitti e a condividerli con i lavoratori anche grazie a una favorevole politica fiscale e redistributiva statale; i lavoratori si impegnavano a moderare, in tempi di vacche magre, le loro richieste salariali e ad accettare modifiche nell’organizzazione del lavoro che avrebbero fatto recuperare competitività alle imprese. Lo stato garantiva questi accordi e si impegnava a favorirli ammortizzando le ripercussioni sociali e le eventuali ristrutturazioni e riconversioni industriali attraverso un’oculata politica attiva del lavoro e della formazione professionale. In alcuni paesi, i lavoratori erano ulteriormente garantiti dal fatto di essere coinvolti, attraverso le loro rappresentanze sindacali, nella conduzione stessa delle imprese e nelle scelte di politica industriale del paese. Garantivano questi accordi governi perlopiù socialdemocratici, favorevoli ai lavoratori ma attenti anche a non alienare gli imprenditori. I paesi caratterizzati da equilibri politici ed economici più fragili, quali i molto più polarizzati paesi del sud d’Europa o il molto più frammentato sistema di relazioni industriali del Regno Unito e della Francia [Hall 1986], non riuscivano ad attuare politiche simili e pagavano un prezzo assai più alto per la crisi. A dimostrazione del fatto che le condizioni economiche incidono sulle aspettative culturali, sugli equilibri politici e sulle strutture sociali dei paesi e non possono essere trasformate rapidamente, un gruppo di studiosi prese spunto da questa riflessione degli anni Settanta e Ottanta per elaborare un’ambiziosa teoria volta a sintetizzare in modelli distinti sia l’organizzazione economico-sociale della produzione, sia l’organizzazione dello stato sociale. Appartengono a questa letteratura tanto le teorizzazioni sui “mondi del welfare” [Esping-Anderson 1990, Ferrera 1993, 2005, Hemerijck 2013], sia quelle sulle “varietà di capitalismi” [Hall and Soskice 2001, Hancké, Rhodes and Thatcher 2007] in base alla quale economie di mercato coordinate (Coordinated Market Economies, CMEs) vengono contrapposte a economie di mercato liberali (Liberal Market Economies, LMEs) o più semplicemente ad economie di mercato non-coordinate. Mentre le prime sono in grado di programmare la ristrutturazione dell’economia verso produzioni più produttive grazie alla capacità dello stato di assorbire gli shock economici e accompagnare i gruppi più colpiti verso un’ordinata riconversione, le seconde riescono a fronteggiare le sfide economiche lasciando che i costi ricadano su questo o quel gruppo – e quindi lasciando che si determinino vincitori e vinti – grazie al fatto che la cultura politica e le relazioni sociali sono pronte ad assorbire gli shock di aggiustamento così creati. Queste differenze sono evidenti anche nella presente crisi economica (2007-2014) che vede da un lato economie reattive, seppur in modo diverso, quali Stati Uniti, Regno Unito e Germania, e dall’altro economie più passive, quali Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna (GIIPS). 5 Il riflusso neoliberista e la public choice Nelle economie di mercato liberali, soprattutto Regno Unito e Stati Uniti, la reazione alla crisi degli anni Settanta fu quindi fondamentalmente diversa da quella messa in atto nelle economie di mercato coordinate. Nelle prime, Negli Stati Uniti, con l’elezione di Ronald Reagan alla presidenza nel 1980, e nel Regno Unito, con la vittoria del Partito Conservatore di Margaret Thatcher nel 1979, salgono al potere due conservatori di convincimenti economici molto simili. Grazie anche ai rispettivi sistemi politici – presidenziale e maggioritario, gli Stati Uniti, e parlamentare e maggioritario, il Regno Unito – essi possono imporre la loro nuova linea di politica economica senza trovare grosse opposizioni. Negli Stati Uniti, il sindacato era storicamente debole e quindi non costituiva un ostacolo all’attuazione delle politiche presidenziali, ma anche nel Regno Unito, dove il sindacato è diviso in trade unions, esso venne ulteriormente indebolito dal braccio di ferro ingaggiato e vinto dalla “dama di ferro” (the iron lady) con il sindacato dei minatori.3 Privatizzazioni, riduzione dei servizi sociali, abbassamento delle tasse (progressive) sul reddito ed innalzamento di quelle (regressive) sui consumi al fine di ridurre l’inflazione galoppante (che negli anni settanta aveva raggiunto il 18% anche nel Regno Unito) e restituzione di credibilità alla sterlina furono gli ingredienti fondamentali della teoria economica monetarista che la Thatcher, così come Reagan, abbracciarono agli inizi degli anni Ottanta. La teoria monetarista – che fondamentalmente prescriveva di non manipolare la domanda aggregata tramite l’intervento statale al fine di tenere alta l’attività produttiva, perché questa avrebbe solamente alimentato l’inflazione e non avrebbe ridotto la disoccupazione – si impose e soppiantò la teoria keynesiana anche proprio grazie alle politiche di Reagan e Thatcher che apparvero, alla fine degli anni Ottanta, aver ribaltato il destino di questi paesi. La teoria monetarista inferse un colpo letale all’idea stessa che l’intervento dello stato nell’economia potesse essere positivo. Lo stato doveva adesso essere limitato il più possibile perché tendenzialmente inefficiente e controproducente. Il mercato veniva ritenuto capace di autoregolarsi e comunque in grado di raggiungere livelli più elevati di efficienza allocativa delle risorse di quanto non potessero fare le decisioni politiche. La privatizzazione era la soluzione di tutte le disfunzioni dei servizi pubblici. La democrazia stessa andava, per certi versi, limitata e le scelte di policy affidate non alla dialettica fra gruppi sociali e fra rappresentanti politici, ma a scelte razionali che potevano essere simulate da esperti. In base a questa visione, gli elettori sono irrazionali e tendono a promuovere “interessi espressivi” e a domandare la produzione di beni che non massimizzano il benessere collettivo [Tullock 2008 (1987)]. La democrazia lasciata all’interazione politica fra 3 Dopo un anno intero di sciopero, nel 1984, il sindacato dei minatori dovette cedere alla chiusura di 25 miniere di carbone improduttive e alla privatizzazione delle rimanenti miniere statali. 6 elettori e rappresentanti, fra gruppi d’interesse e decisori necessariamente produce risultati subottimali. La Public Choice pretende pertanto di desumere da pochi assunti economici quali decisioni debbano essere prese, sostituendo pochi algoritmi matematici alla dialettica politica. Anche l’azione pubblica deve ispirarsi a criteri di mercato e cercare di ottenere profitti (o comunque non generare perdite) nello svolgimento delle proprie poche ed essenziali funzioni. Di conseguenza, ogni obiettivo non profittevole viene tendenzialmente eliminato e ogni utilizzatore che non può permettersi prezzi di mercato viene escluso anche da servizi essenziali. L’eccessiva fiducia nel mercato che si impose in seguito all’affermarsi del paradigma della Public Choice non solo avrebbe portato agli squilibri distributivi alla base della corrente crisi, ma anche fornito un’aura di scientificità alla profonda disaffezione dalla politica che si andò verificando negli anni a venire. 7 2. Democrazia, o il suo contrario? Nessuno ignora che la politica spesso produce decisioni sub-ottimali, situazioni di rendita ingiustificata e inefficienza collettiva, ma presumere che il mercato lasciato a se stesso porti necessariamente a risultati migliori è decisamente ingenuo. L’efficienza allocativa non può essere l’unico criterio normativo in base al quale valutare la bontà delle decisioni di policy, per molti motivi. Anzitutto, l’efficienza è una relazione fra mezzi e fini: l’identificazione di questi ultimi non può essere prodotta da un calcolo di efficienza ma solo da una autentica scelta politica. Obiettivi che appaiono ad alcuni come assolutamente prioritari possono essere per altri secondari e negoziabili: di qui la necessità di una deliberazione collettiva. In secondo luogo, l’efficienza non è l’unico criterio in base al quale valutare una decisione: partecipazione, condivisione, pluralismo possono essere criteri altrettanto importanti per il buon funzionamento della comunità politica. Infine, i calcoli costi-benefici considerano solo ciò che in qualche modo “ha un prezzo”: molti costi o benefici non vengono mai inclusi in questi calcoli perché letteralmente “senza prezzo” o perché presenti in quantità illimitate o perché troppo preziosi per averne uno. Se l’aria pulita o la forzalavoro potevano sembrare essere disponibili in quantità pressoché illimitate agli albori dell’industrializzazione, non è più così da quando l’inquinamento ha reso scarsa l’aria pulita e la mobilitazione dei lavoratori ha attribuito un prezzo alla forza-lavoro. Perché però allora la disaffezione verso la politica e la disillusione nei confronti della stessa democrazia? Un tempo era l’economia ad essere chiamata “dismal science” (un’espressione apparentemente coniata dal giornalista Thomas Carlyle che così denotò le fosche predizioni di Thomas Malthus), ora pare invece che sia la politica ad essere oggetto di scorno generale, quasi indicasse un’attività di dubbio valore. Una spiegazione può naturalmente far riferimento al forse eccessivo ottimismo, e quindi alla successiva disillusione, nella capacità della politica di ottenere livelli sempre più elevati di benessere materiale e di coinvolgimento democratico degli anni del dopoguerra. Una seconda spiegazione può avere invece a che fare con la sensazione che la democrazia sia una costruzione troppo fragile, costantemente soggetta a tentativi di sovvertimento ed inevitabilmente tendente a degenerare nel suo contrario. Infine, una terza e più preoccupante spiegazione metterebbe in discussione la pretesa stessa della democrazia di rendere i cittadini padroni del proprio destino e considererebbe la democrazia invece come una finzione che nasconde una realtà di privilegio e disuguaglianza. Disillusione, degenerazione, disincanto sono parole ricorrenti nel dibattito politologico più recente che cercheremo qui di riassumere [vedi anche Flinders 2014]. 8 Apatia e disincanto I primi sintomi apatia e disincanto nei confronti della politica si manifestarono negli anni Settanta quando lo studio dei partiti politici iniziò a registrare un distacco sempre più marcato degli elettori tradizionali dalle organizzazioni partitiche. La teorizzazione dei “partiti pigliatutto” suggeriva che gli elettori rimanvano fedeli ai partiti di massa più per i benefici che derivavano dall’essere membri (ad esempio, protezione sindacale, organizzazione del tempo libero, formazione degli adulti, ecc.) che per la capacità intrinseca dei partiti di rappresentare i loro interessi. Tramite le organizzazioni collaterali, venivano “presi nella rete” anche elettori socialmente non appartenenti alle tradizionali classes gardées [Kirchheimer 1969] [↑5]. Forse a causa di quella rivoluzione culturale che si verificò alla fine degli anni Sessanta, i cleavages sociali teorizzati da Rokkan si andavano deallineando o riallineando [Flanagan e Dalton 1984] e le masse storicamente mobilitate e poi congelate nei vari elettorati di partito si stavano lentamente scongelando e spostando, e dovevano pertanto essere agganciate con altri mezzi. I sintomi di questo cambiamento furono membership calante, tassi decrescenti di partecipazione attiva (sia elettorale che a più ampio spettro) e indici crescenti di mobilità interpartitica [↑5]. La risposta dei partiti fu di diluire ulteriormente gli appelli ideologici e di enfatizzare invece gli aspetti meno controversi, ma anche meno identificanti, delle rispettive piattaforme elettorali. Le divisioni di classe si stavano obliterando, si parlava di “eclisse” e di “imborghesimento della classe operaia” [Dahrendorf 1967, Goldthorpe 1978] e diventava comunque sempre più difficile determinare, anche da un punto di vista teorico, chi appartenesse alla classe operaia e chi a quella capitalistica. Da un lato, la teoria marxista aveva sempre avuto difficoltà a classificare piccoli proprietari terrieri, gli affittuari e i mezzadri dall’una o dall’altra parte, attribuendo loro per lo più una falsa coscienza di classe, e non aveva mia visto di buon occhio i commercianti e i negozianti [Marx 1988, Gramsci 1951]. Dall’altro lato, alcune categorie operaie erano ormai molto benestanti (la cosiddetta working class aristrocracy) e, grazie all’avvento delle tecnologie informatiche applicate alla produzione industriale, non dovevano nemmeno più “sporcarsi le mani”: diventava insomma sempre più difficile distinguere i “colletti blu” (dal colore caratteristico della tuta degli operai) dai “colletti bianchi” (dal colore della camicia degli impiegati). Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, parvero poi esaurirsi anche le grandi ideologie del Novecento e i partiti dovettero ricorrere sempre più a tecniche di marketing per vendere i loro “prodotti elettorali”. La televisione soppiantava i raduni, le riunioni e i fogli di partito come principale mezzo di comunicazione e di diffusione delle idee fra militanti e leadership. 9 Il rapprto fra elettore ed eletto si sfilacciava e il controllo della base sulla leadership si affievoliva. Se Robert Michels aveva già nel 1911 teorizzato la “legge ferrea dell’oligarchia” in base alla quale la dirigenza, anche di partiti votati alla democrazia quale il partito socialdemocratico tedesco, tende a distaccarsi sempre di più dall’esperienza vissuta dai membri fino ad avere più in comune con le dirigenze degli altri partiti che con la propria base [Michels 1949(1911)]. Negli anni Ottanta e Novanta questo fenomeno si diffuse non solo fra i partiti ma anche nelle associazioni sindacali, nonostante la retorica diffusa che vede il leader sindacale come un lavoratore come un altro. Il rapporto di rappresentanza, che in tempi di partiti di massa veniva perfezionato (ex ante) in base a una conoscenza profonda del programma politico del candidato (ex fundo), diventava ormai una scelta fatta sulla base di un’offerta superficialmente presentata (ex alto) e che veniva a perfezionarsi per così dire solo al termine del mandato elettorale (ex post) se il candidato dimostrava di aver saputo ben interpretare gli interessi degli elettori [Andeweg 2003]. La televisione diventava il mezzo principale attraverso cui gli elettori entravano in contatto con i propri rappresentanti, ma era un mezzo monodirezionale e limitante [Sartori 1999]. Tale era la disillusione nei confronti dei partiti che Simone Weil scriveva già nel 1943 le sue Note per la soppressione generale dei partiti politici (pubblicate in Italia solo nel 1988) in quanto dannosi alla democrazia. Quindi, seppure per motivi nuovi, la democrazia conosceva un’altra stagione di crisi come era successo altre volte in passato e soprattutto nel periodo fra la guerre [Schmitt 1994]. Antipolitica e neopopulismo Senza nulla togliere al dramma dell’attuale “crisi della democrazia” è bene mettere questa ed altre crisi in prospettiva storica. La democrazia è uno dei modi in cui le comunità governano se stesse ed è quindi soggetta a trasformazioni legate agli inevitabili cambiamenti nell’organizzazione della convivenza sociale. Crisi periodiche delle regole e delle istituzioni che reggono queste comunità sono normali, ma non per questo esse sono innocue e indolori. I momenti di crisi rischiano di alienare i cittadini dalla stessa dialettica democratica e di portare ad “intervalli” più o meno lunghi di dittatura. La scienza politica descrive ed analizza le cause di queste trasformazioni, mentre la teoria politica rielabora le norme e i principi in vigore e ne propone di nuovi. La crisi della democrazia, dagli anni Ottanta in poi, si è manifestata soprattutto come apatia, disinteresse e, infine, rifiuto della politica. Abbiamo accennato sopra alle possibili cause di queste reazioni, qui vediamo come sono state interpretate. Come era già successo negli anni Trenta, anche adesso la comprovata incapacità dei governi di risolvere i problemi sociali del momento induce sfiducia nei loro confronti. Se a questa scadente performance istituzionale si accompagna anche uno 10 sfrangiamento del sistema partitico e una crescente instabilità dei governi, la sensazione generalizzata è che l’instabilità politica sia la causa delle scadenti prestazioni. In un ciclo che tende ad autoalimentarsi, spostamenti di voti da un partito all’altro aumentano l’instabilità sistemica ed accorciano gli orizzonti temporali delle leadership partitiche che, non più sicure di avere un consenso sufficientemente lungo per decidere ed attuare le riforme necessarie a superare la crisi, tendono a rincorrere il consenso tramite misure di corto respiro e inefficaci. In queste circostanze possono verificarsi spostamenti anche massicci di voti: può verificarsi lo svuotamento di interi elettorati ed il loro collocamento verso posizioni più estreme; può aumentare di molto la percentuale degli indecisi (che votano all’ultimo momento sull’onda dell’emozione o della simpatia) o delle schede bianche (elettori che non sanno chi votare); possono infine aumentare i non-votanti o le schede nulle, annullate magari da un insulto generico alla classe politica. Sono questi scenari che la scienza politica ha studiato con cura perché hanno preluso a gravi rivolgimenti politici, quali l’ascesa del partito nazista che ha posto fine alla Repubblica di Weimar nel 1933 o all’implosione del sistema politico cileno che ha portato al colpo di stato del generale Pinochet nel 1973. Anche in Italia abbiamo più volte temuto scenari simili e non possiamo dire di esserne del tutto immuni nemmeno adesso. Un secondo fenomeno che spesso si accompagna alle crisi della democrazia, oltre alla crescente apatia, agli spostamenti repentini dei voti e all’ascesa di partiti anti-costituzionali, è il populismo [Mény e Surel 2002, Mudde e Rovira Kaltwasser 2012]. Il populismo è un fenomeno vecchio, legato a un particolare concetto di rappresentanza. Leader populisti presumono di saper interpretare i bisogni e i desideri del popolo “per empatia” senza necessariamente servirsi di un’organizzazione di partito che capillarmente interpelli gli elettori stessi. Il leader populista non ha un programma preciso, ma dice quello che la gente vuole sentire giocando spesso un doppio ruolo: da un lato pretende di essere “uno del popolo”, essendo spesso invece molto distante da esso; dall’altro propone soluzioni semplici per questioni anche molto complesse. E’ l’indeterminazione e la spregiudicatezza con cui affronta le questioni, con cui cavalca l’emozione e alletta elettorati anche molto diversi fra di loro che fa di un leader un populista. A ben guardare, il tipo di rappresentanza che offre ai propri elettori è una rappresentanza fasulla: si offre alle masse come incarnazione e interprete del popolo – Hanna Pitkin [1967] [↑6] direbbe che offre una “rappresentanza simbolica” – senza elaborare alcun discorso che stabilisca priorità ed integri le varie richieste dei cittadini in un programma di governo credibile e verificabile. Si potrebbe anzi dire che non si tratti affatto di rappresentanza, ma di riproduzione tal quale di richieste senza quell’elaborazione e quella distanza, sia intellettuale che istituzionale, che offrire rappresentanza politica necessariamente implica. In passato, forme di populismo sono state anche indicate col nome di Cesarismo (dall’abitudine di 11 Cesare di rivolgersi direttamente alle folle) o di Bonapartismo (dalla simile abitudine di Luigi Napoleone) [Marx 1988]. Il populismo contemporaneo comporta sicuramente l’utilizzo di mezzi di comunicazione diversi – soprattutto la televisione e i social media, senza trascurare però i “bagni di folla” – ma mantiene immutata l’identificazione immediata del leader con le masse e l’offerta di ogni tipo di promessa, per quanto scellerata e irrealizzabile, purché di alto gradimento. Se il concetto di populismo è abbastanza chiaro, cosa lo distingue allora dall’antipolitica? A un primo e più semplice livello, l’antipolitica è la perdita di fiducia nella capacità della politica di risolvere i problemi sociali. Quindi, per certi versi, è il contrario del populismo che invece promette tutto a tutti. Il populismo, inoltre, è per lo più associato a posizioni di destra, di conservazione dell’ordine sociale [Schedler 1997, Betz e Immerfall 1998], mentre l’antipolitica è fenomeno tanto di destra quanto di sinistra [Mastropaolo 2000, 2005; Canovan 1999]. In secondo luogo, e in maniera più precisa, l’antipolitica è disillusione generalizzata nei confronti dei meccanismi e dei riti della politica ed è polemica contro lo stato che ha fallito il suo compito storico di generare duraturo benessere e progresso alle classi sociali subordinate e che appare come troppo ingombrante (da destra) o troppo inefficace (da sinistra) [Berger 1979]. In terzo luogo, antipolitica è anche rivendicazione di nuovi spazi di mobilitazione e partecipazione sociale che non si limitino al circuito-elettorale partitico e che non vengano confinate negli ambiti angusti delle istituzioni rappresentative e di governo e delle organizzazioni di mobilitazione tradizionali (partiti e sindacati). Cittadini più istruiti, più maturi e più consapevoli vogliono incidere sulla propria vita lavorativa, nel sociale, nella cultura. Anche la sfera privata è “politica”, ed è forse lì che le questioni più fondamentali si annidano (diritto di scelta sul proprio corpo, sulla procreazione, sulla propria sessualità, sulla propria morte). Quindi, in questa terza accezione, l’antipolitica coincide con una esplosione dell’ambito del politico e una marginalizzazione degli spazi tradizionalmente ad essa dedicati. Il risultato, comunque, è lo stesso: i partiti e le istituzioni politiche tradizionali ne escono ridimensionati e svalutati proprio mentre essi riescono a occupare sempre maggiori spazi decisionali e a mantenersi in vita spartendosi un crescente supporto pubblico (cartel party). Si apre così uno spazio retorico che personaggi politici di vecchia e nuova estrazione possono riempire in maniera spregiudicata, cercando di guadagnare consenso per sé svilendo il sistema politico nel suo complesso. Ma poiché la fiducia è un bene pubblico, la cui produzione rischia di essere strutturalmente sottodimensionata rispetto al consumo necessario, chi cavalca l’antipolitica mette a repentaglio la tenuta del sistema democratico nel suo complesso. 12 Democrazia-spettacolo e contro-democrazia La destrutturazione del sistema politico – il venir meno dei cleavage che avevano strutturato la mobilitazione politica nel periodo di formazione del sistema dei partiti [↑5] e il sovrapporsi di nuovi cleavage culturali [vedi ↑ le tesi del dealignment o del realignment] – quindi la perdita di presa dei partiti su gruppi sociali ben definiti, la fine delle ideologie e la maggiore fluidità del voto hanno indotto non solo alcuni dei fenomeni descritti sopra, ma anche un diverso rapporto fra elettore ed eletto. Poiché la scelta del candidato non può più basarsi sulla condivisione di un programma politico e su una visione di società, la scelta finisce per incentrarsi sulla persona del candidato, sulla sua credibilità e sul suo look. Il “voto personale” non è cosa nuova e segnala il tentativo da parte di candidati di ritagliarsi un seguito politico non in quanto rappresentante di un partito politico e portatore di una certa visione di società, ma in base alle sue capacità personali di servire la propria constituency. La letteratura anglosassone – con riferimento a un sistema elettorale maggioritario – denota come constituency service l’attenzione individuale che rappresentanti politici dedicano agli elettori del proprio distretto e chiama personal vote il voto dato al candidato in quanto tale e non come membro di un dato partito [Cain, Ferejohn and Fiorina 1987, Carey and Shugart 1995]. Un’estensione di questo fenomeno in sistemi anche non maggioritari ha portato all’elaborazione di indici di particolarismo [Seddon Wallack et al. 2003]. In Italia questo fenomeno è stato tradizionalmente associato al “voto di scambio” e al clientelismo [Parisi e Pasquino 1977], mentre altrove questi stessi fenomeni non acquistano necessariamente tale connotazione negativa [Piattoni 2007]. Chiaramente sono queste trasformazioni che avvengono all’interno di un sistema politico in cui hanno ancora una posizione centrale i partiti ma, col dilagare di questi fenomeni, si afferma anche un tipo di partito incentrato sulla persona del leader: il partito personale [Calise 2000] [↑5]. Se il voto non è dato più al partito ma al candidato, ovviamente acquistano importanza le caratteristiche personali di quest’ultimo: le sue capacità e la sua credibilità. Vi sono modi virtuosi e meno virtuosi di stabilire una propria credibilità ma, a meno che il candidato non intrattenga rapporti diretti col proprio elettorato, il candidato dovrà far ricorso ad altre tecniche per accertare la consistenza del proprio seguito. Sarà pertanto tentato di consultare frequentemente i sondaggi di opinione sia per scoprire le preferenze e le domande degli elettori sia per monitorare il proprio gradimento. Ecco che sondaggisti e gli esperti d’immagine e di comunicazione (spin doctors) diventano figure imprescindibili per costruire il nuovo rapporto di “rappresentanza”. La preminenza dei partiti nel costruire e mantenere il consenso viene così meno: diventano cruciali altre strutture che hanno molto più a che fare col mercato, la comunicazione e l’immagine che con la progettazione sociale. I candidati, liberati dalla loro dipendenza dal partito, possono passare da un partito all’altro portandosi dietro un proprio seguito elettorale o fondare il proprio partito personale. 13 La rappresentanza si frammenta, si fa più effimera e mutevole. I partiti sono ancora per certi versi strutture importanti per attrarre e gestire risorse costose necessarie al fine di vincere le elezioni, ma essi si trasformano quasi più in organizzazioni-ombrello (franchises) al riparo del quale corrono una serie di “imprenditori politici” indipendenti [↑5]. Del resto rimanere fedeli a un certa visione di società e di programma politico diventa oggettivamente più difficile in un mondo che è più complesso, mutevole e imprevedibile. Conseguentemente, anche il consenso elettorale diventa più instabile. In tempi ancora più recenti, la centralità dei mass media e dei social media nel coltivare un seguito personale, insomma la mediaticità del candidato, diventano più importanti della sua preparazione politica o della sua dedizione all’elettorato [↑9]. Nello stesso tempo, così come diventa apparentemente più semplice acquistare un seguito personale, è anche più facile perderlo in seguito a scandali, campagne negative e “passi falsi” di qualsiasi tipo. Il modo per attaccare e battere gli avversari non è più il dibattito politico, ma sono il “dossieraggio”, il negative campaigning e l’operazione che gli americani chiamano character assasination. Accusare un concorrente di aver tradito la fiducia dei propri elettori, del fisco o della propria moglie può danneggiare la carriera politica di un candidato più della sua comprovata impreparazione politica. Diventa più facile farsi rieleggere che farsi eleggere per la prima volta perché, in assenza di prove circa le qualità di un candidato, anche un “male” noto ha un vantaggio rispetto a un possibile “male” ignoto: il vantaggio dell’incumbent è grande e crescente nel tempo [riferimenti?]. La politica diventa professione: ogni velleità di amatorismo svanisce e l’imprenditore politico deve saper ben dosare le proprie forze e le proprie finanze per garantirsi una carriera lunga e variegata, spesso passando da ruoli rappresentativi a ruoli di gestione oppure rinverdendo la propria carriera elettorale a diversi livelli di governo (locale, nazionale, europeo). Bernard Manin [1997] chiama questa nuovo tipo di democrazia “democrazia del pubblico” (audience democracy). Come già sottolineato da Andeweg, si tratta di una democrazia nella quale l’iniziativa parte dall’alto, con candidati che offrono un certo tipo di rappresentanza ed elettori che la comprano, per così dire, “a scatola chiusa”, salvo poi confermare o mandare a casa l’eletto al giro successivo. E’ quindi una democrazia perlopiù reattiva: il rapporto di rappresentanza si completa in seguito a una serie di “tentativi ed errori” (trial and error). La domanda politica si rivela quindi ex post, come reazione all’offerta politica. E’ sempre opinione di Manin che ci si riavvicinerebbe così alla concezione elitaria di Schumpeter, per il quale gli elettori non hanno idee precise su ciò che vogliono, se non sulle cose che più immediatamente e direttamente toccano la loro vita, e che quindi devono affidarsi all’offerta politica dei rappresentanti per scoprire ciò che essi desiderano. La conclusione piuttosto amara di Manin è che “il governo rappresentativo rimane ciò che è stato 14 dall’inizio, cioè un governo di elites distinte dalla massa dei cittadini dalla loro posizione sociale, stile di vita e istruzione. Ciò a cui assistiamo oggi non è altro che l’emergere di una nuova elite e il declino di un’altra” [Manin 1997: 232, enfasi nell’originale]. Di diversa opinione è invece Pierre Rosanvallon [2008] che offre una valutazione tutto sommato positiva delle trasformazioni della democrazia contemporanea. Rosanvallon parte dal presupposto che democrazia non è solo diritto ad autogovernarsi, ma è anche controllo dei governanti. La sovranità dei cittadini non è solo positiva (non consiste solo nell’essere gli autori delle decisioni che governano la loro vita), ma anche negativa (consiste anche nel vigilare affinché i governanti non usurpino o utilizzino ad altri fini i poteri loro affidati). I cittadini devono non fidarsi dei propri governanti perché solo così possono preservare la democrazia. La democrazia è infatti un bene altamente deperibile, sempre a rischio di corrompersi e diventare tirannia. Fanno perciò parte integrante della concezione di democrazia non solo quei meccanismi grazie a i quali i cittadini arrivano alle decisioni con le quali essi si auto-governano, ma anche quei meccanismi, costituzionali ed extra-costituzionali, attraverso i quali essi controllano i processi politici che si svolgono in loro nome. Questi meccanismi ricadono in tre categorie generali: poteri di supervisione o sorveglianza, forme di prevenzione e verifica dei giudizi e in essi si sostanzia ciò che Rosanvallon chiama “contro-democrazia”. La trattazione di Rosanvallon è estremamente ricca e articolata, ma la sostanza del suo discorso è che i cittadini hanno il diritto e il dovere di essere costantemente vigilanti e non lasciare solo ai checks and balances istituzionali il controllo dei governanti, sia esso svolto dall’opposizione governativa, dalle agenzie di audit o dal potere giudiziario, ma che devono attivamente contribuire ad esercitare questo controllo democratico. Spetta quindi ai cittadini stessi esprimere questa “sfiducia” anche per via extra-costituzionale, contribuendo a formare l’opinione pubblica, sostenendo il giornalismo investigativo, intraprendendo attività di denuncia, scendendo in piazza e manifestando, esercitando pressione affinché alcune questioni non vengano tralasciate, richiedendo dai governanti comportamenti eticamente ineccepibili, e così via. Sovranità positiva e sovranità negativa si trovano in un rapporto di perenne tensione fra di loro ed vi è anche il rischio che le attività di controllo, vigilanza e denuncia arrivino a paralizzare l’azione governativa. Se questo è un rischio reale, ben più reale è il rischio che i governanti approfittino della loro posizione speciale per tradire la fiducia loro accordata. Rosanvallon insiste in particolare su tre punti. Il primo è che il meccanismo elettorale da solo non basta a controllare i governanti. Vedremo nella prossima sezione come il rapporto di rappresentanza è stato ripensato dalla teoria normativa recente proprio per fare in modo che, attraverso il voto, i cittadini possano non solo autorizzare i rappresentanti a governare in loro nome, ma anche a limitare il loro potere. Il secondo è che i meccanismi istituzionali – i diritti fondamentali 15 costituzionalmente garantiti, la divisione dei poteri fra istituzioni distinte, la competizione politica e l’organizzazione dell’opposizione – non bastano a garantire la democrazia da tentativi di deviazione e deragliamento. Il terzo è che la concezione (e una certa tradizione normativa francese) “giacobina” della nazione come entità unitaria e indivisibile tende a scoraggiare i cittadini dall’esercizio della loro sovranità negativa perché non riesce a concepire come il popolo possa esprimere una volontà generale e, nello stesso tempo, opporsi ad essa. Tutto sommato, Rosanvallon ci consegna il quadro di una democrazia pluralista e dinamica che non ci pare poi così patologica. 16 3. Nuove forme di democrazia Se la partecipazione elettorale è calata e la disaffezione alla politica è aumentata, sono però emerse altre forme di partecipazione che è forse difficile classificare come immediatamente politiche ma che ciononostante fanno bene alla democrazia. È questo l’ampio mondo della mobilitazione sociale in favore dei grandi problemi mondiali - diritti umani, ambiente, pace [↑11] – ma anche attorno ai piccoli problemi concreti di tutti i giorni quali l’offerta di posti negli asili, la raccolta differenziata, i trasporti per i pendolari. La partecipazione politica, in altri termini, non si misura solo in termini di partecipazione ai riti canonici della politica o alle grandi questioni sociali, ma anche come partecipazione alla mobilitazione in favore o contro questioni pratiche nella vita di tutti i giorni. Come abbiamo visto, partecipazione e associazionismo sono considerati, dai tempi di Tocqueville, come indicatori fondamentali della salute di una democrazia. Ciò che più colpì il filosofo francese nel suo viaggio in America [Tocqueville 1835] fu appunti il diffuso associazionismo e la capillare partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche, soprattutto a livello locale. Il capitale sociale e la civicness L’importanza di queste forme di partecipazione è recentemente tornata alla ribalta in seguito alla rinnovata attenzione rivolta al capitale sociale. In seguito a uno studio sul capitale sociale condotta da Putnam, Leonardi e Nanetti [1993] nelle regioni italiane – come misurato dal grado di partecipazione della cittadinanza a forme di azione collettiva anche non esplicitamente politiche e come determinante per il rendimento democratico delle istituzioni regionali – la tematica del capitale sociale, presente da molto tempo nella sociologia politica [si vedano per tutti Coleman 1990, Portes 1998], è entrata prepotentemente anche nella riflessione politologica (ed economica). La tesi di Putnam, in particolare, è che la partecipazione politica è conseguenza della presenza di rapporti di reciprocità e fiducia interpersonale diffusi (sinteticamente indicati come civicness, cioè civismo) che si sviluppano in realtà facendo altre attività spesso non direttamente collegate alla politica. Putnam misura infatti aspetti quali la partecipazione a cori amatoriali o ad associazioni per il tempo libero oppure il tasso di lettura dei giornali locali o ancora la partecipazione a consultazioni cittadine non direttamente legate all’elezione di rappresentanti politici come indicatori della presenza di capitale sociale. Insomma, essere disposti a utilizzare il proprio tempo per attività che non portano necessariamente benefici immediati e personali, segnala, e nello stesso tempo fa crescere, un senso di forte collegamento sociale con gli altri membri della comunità. Da queste attività e da questi atteggiamenti derivano una serie di ricadute positive anche per il rendimento delle istituzioni di governo e per la tenuta della democrazia. Anzitutto, i rappresentanti politici 17 saranno probabilmente partecipi di questa diffusa cultura sociale e quindi si asterranno da comportamenti che possano tradire la fiducia dei propri concittadini. In secondo luogo, anche qualora non fossero animati da sentimenti così elevati, si sentirebbero comunque da essa controllati sapendo che comportamenti devianti rispetto alle aspettative diffuse non verrebbero condonati. In terzo luogo, questa potenziale sanzione è tanto più reale quanto maggiore è il capitale sociale locale, premessa per ogni azione collettiva di successo quale sfiduciare un rappresentante che dimostri di non meritare la fiducia della comunità.4 Tale è la convinzione di Putnam che il capitale sociale sia alla base sia della democrazia che della prosperità che, assieme a colleghi internazionali, egli ha trascorso molti anni a misurare la presenza di capitale sociale negli Stati Uniti e in altre democrazie avanzate [Putnam 2000; Putnam e Pharr 2000] e a tracciarne l’evoluzione nel corso del tempo [Putnam, Casanova, Sato 1995; Putnam 2002].5 Questa attenzione al capitale sociale ha anche influenzato le convinzioni e le azioni di organizzazioni internazionali quali la Banca Mondiale. La Banca Mondiale ha talmente investito nella misurazione e nella crescita del capitale sociale che intere pagine del suo sito sono dedicate a questo scopo.6 Essa infatti identifica nella presenza di capitale sociale l’ingrediente fondamentale affinché i suoi programmi di sviluppo possano funzionare. In Italia, questa stessa agenda di ricerca ha suscitato le ricerche di geografia politica di Roberto Cartocci dedicate alla misurazione quanto più precisa possibile della distribuzione del capitale sociale sul territorio nazionale [Cartocci 2007, 2012]. La mobilitazione sociale e la democrazia diretta La partecipazione politica è strettamente legata alla mobilitazione sociale. Partecipare alla vita politica significa anche essere disposti a mobilitarsi a favore o contro decisioni o non decisioni politiche. Come ricorda Rosanvallon, i cittadini devono non solo esercitare una sovranità attiva, che consiste nello stimolare e pungolare i propri rappresentanti e governanti all’azione, ma anche una 4 L’aspetto più controverso di questa fortunata teorizzazione è stato rinvenuto nella forte dipendenza dal percorso evidenziata da Putnam attraverso una lettura affascinante ma parziale delle vicende storiche delle varie zone d’Italia. Putnam ha attribuito a vicende svoltesi nel XII secolo l’accumulazione del capitale sociale presente nel nord e nel centro del paese e la sua mancanza nel sud. Dalla presenza o mancanza di capitale sociale Putnam fa anche dipendere il diverso tasso di sviluppo economico delle regioni italiane [riferimenti critici, Piattoni?]. 5 Derivano da questa agenda di ricerca anche i lavori di Maraffi, Newton, van Deth e Whiteley 2000 sul capitale sociale nell’Europa dell’est; di Norris e Inglehart 2002 sul ruolo delle associazioni religiose nel favorire la crescita di capitale sociale; di Rothstein e Kumlin [2005] sul ruolo del welfare state e Rothstein e Stolle 2008 sull’impatto delle istituzioni politiche sull’accumulazione di capitale sociale. Senza citare la sconfinata letteratura sociologica ed economica sull’argomento. 6 http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/TOPICS/EXTSOCIALDEVELOPMENT/EXTTSOCIALCAPITAL/0,,contentMD K:20642703~menuPK:401023~pagePK:148956~piPK:216618~theSitePK:401015,00.html 18 sovranità negativa che consiste nel controllarne, criticarne e, se necessario, sanzionarne l’operato. Uno dei modi classici in cui i cittadini possono esercitare entrambe queste funzione è attraverso la mobilitazione sociale, spesso a livello locale. Il fenomeno dei movimenti NIMBY – acronimo che sta per “not in my back yard”, e cioè non nel cortile dietro casa – si riferisce per lo più a movimenti che si oppongono alla realizzazione di opere pubbliche (strade, ferrovie, aeroporti, inceneritori, eccetera) in un determinato territorio per motivi per lo più ambientali (aumento dell’inquinamento atmosferico o acustico, danno all’ecosistema, scompensi sociali o economici). Sono note le mobilitazioni contro la realizzazione del treno ad alta velocità in Val di Susa, contro la realizzazione del traforo negli Appennini per il tratto ferroviario Bologna-Firenze, dell’ampliamento della caserma militare Enderle e dell’aeroporto militare americano Dal Molin vicino a Vicenza, dell’inceneritore di Giugliano in provincia di Napoli e così via. E’ in realtà molto raro che queste mobilitazioni abbiano successo, che cioè riescano a fermare o modificare la realizzazione di un’opera pubblica già decisa. Nonostante questi movimenti certamente segnalino la presenza di preferenze di policy molto intense nella popolazione, forse per il modo con cui vengono gestiti o forse per il carattere aggressivo e illegale che spesso assumono, alla fine si ha la sensazione che si tratti di una mobilitazione fine a sè stessa, che poco contribuisce all’esercizio della democrazia. A parziale correttivo di questa sensazione, si registrano però anche sempre più numerosi esempi di consultazioni cittadine prima che le decisioni vengano prese. Le amministrazioni soprattutto locali sembrano aver capito che è meglio consultare i cittadini prima di prendere le decisioni invece di gestire la protesta dopo che esse sono state prese. Si sono pertanto messi in campo tutta una serie di strumenti di democrazia diretta – quali le consultazioni pubbliche – al fine di sondare l’opinione della cittadinanza. Queste consultazioni, che pure appartengono alla categoria della democrazia diretta, si differenziano dai referendum popolari organizzati a livello nazionale per alcuni aspetti. Anzitutto, si tratta generalmente di consultazioni propositive, che indicano cosa fare, invece che abrogative, che mirano a cancellare una legge (quali sono i referendum nazionali). Si tratta, poi, di decisioni molto puntuali, che concernono magari solo i cittadini di un dato comune, e non toccano questioni di carattere generale. Ciononostante, l’utilizzo crescente di queste consultazioni segnala lo spostamento da un modello tipo DAD (decido, annuncio, difendo) a un modello maggiormente partecipativo. Le basi teoriche e filosofiche di questa che viene chiamata democrazia associativa e partecipativa sono da rinvenire ancora una volta in Tocqueville successivamente rielaborate da teorici quali Cohen e Rogers [1992], Hirst [1994], e Fung e Wright [2003]. Fra i limiti della democrazia partecipativa, vi è soprattutto l’incertezza circa la rappresentatività delle opinioni così raccolte e degli interessi sondati, ma fra i vantaggi vi è certamente il senso di “possedere” (ownership) le decisioni, di esserne protagonisti. 19 La democrazia deliberativa Ulteriore evoluzione, per così dire, della democrazia partecipativa è la democrazia deliberativa. Con questo termine si indicano delle modalità particolari di consultazione strutturate in modo da assicurare che ai processi deliberativi partecipino cittadini estratti da tutti i gruppi sociali presenti sul territorio in modo da assicurare il più ampio ventaglio di opinioni presenti. Mentre la democrazia partecipativa si affida alla spontanea mobilitazione dei cittadini, la democrazia deliberativa vuole fare in modo che possibilmente “tutti” – anche chi normalmente non si farebbe avanti – partecipino. L’idea è che affinché vi sia vera democrazia tutte le opinioni e tutte le preferenze di policy debbano essere accuratamente registrate, anche quelle di coloro che, per circostanze personali quali età, educazione, mancanza di tempo o insufficiente autostima, spontaneamente non parteciperebbero. Alla base sta la convinzione, elaborata originariamente da Jürgen Habermas [1989, ma vedi anche Elster 1998] che “democrazia” non significa solo contare i voti o semplicemente registrare l’intensità delle preferenze dei gruppi che più e meglio sanno organizzarsi, ma significa registrare le preferenze di tutti i cittadini perché tutti possono contribuire buoni argomenti al dibattito e perché tutti hanno uguale valore morale. L’obiettivo della democrazia deliberativa è arrivare a decisioni condivise – al consenso – che secondo Habermas è possibile raggiungere purché tutti i partecipanti si attengano ad alcune regole, quali la buona argomentazione e, soprattutto, non nascondano informazioni rilevanti e non inducano gli altri a pensare che le propri preferenze siano diverse da quelle che effettivamente sono (per ottenere un vantaggio negoziativo). Infatti, la deliberazione – che nell’accezione inglese di deliberation non indica la decisione finale, ma il processo che porta alla decisione – è metodo fondamentalmente diverso dalla negoziazione che, invece, ammette anche comportamenti strumentali e strategici. Gli strumenti della democrazia deliberativa – quali forum deliberativi, giurie cittadine, mini-publics [Fishkin 1991] – si differenziano quindi da quelli della democrazia associativa o partecipativa perché cercano di far sì che a partecipare siano tutti i gruppi sociali. Vi sono diversi modi per cercare di ottenere questo risultato: il metodo della porta aperta, il campionamento casuale, il campionamento strutturato . Affinché tutti partano dalla stessa base informativa e possano quindi competentemente elaborare argomenti e formulare preferenze, coadiuvano questi processi dei “facilitatori” che non hanno una posizione propria, ma fanno in modo che tutti riescano a partecipare alla deliberazione alla pari. Gli studiosi [Bobbio 2007a, Pellizzoni 2005] hanno messo in risalto alcuni aspetti problematici della deliberazione – ad esempio, la tendenza all’autoselezione, il rischio che i consessi deliberativi vengano monopolizzati da chi ha preferenze e interessi più 20 definiti, il pericolo reale che, avendo sviscerato i problemi, questi appaiono ancor meno risolvibili, eccetera – ma hanno altresì documentato il valore aggiunto di questi esperimenti. Dal più famoso e duraturo esempio di bilancio partecipato di Porto Alegre in Brasile alle più modeste, ma non per questo meno importanti, deliberazioni che pure avvengono sul nostro territorio [Bobbio 2007b, 2013; Floridia 2012], la democrazia deliberativa è uno dei modi più innovativi per riconnettere i cittadini alla politica e combattere apatia e disincanto. 21 4. Nuove declinazioni della democrazia rappresentativa Secondo Rosanvallon, quindi, la democrazia contemporanea non sarebbe messa così male e le sue manifestazioni più caratteristiche non sarebbero poi così patologiche, ma solo la manifestazione attuale della tensione costante fra sovranità positiva e sovranità negativa e dei vari modi in cui si sostanzia la “contro-democrazia”. Anche Nadia Urbinati (2006), ripercorrendo la genealogia del concetto di democrazia rappresentativa rinviene in essa due aspetti ugualmente fondamentali: il diritto all’uguale espressione della volontà (isonomia) e il diritto all’uguale espressione del giudizio (isegoria). Fanno parte di quest’ultima componente due attività: un “fare positivo”, cioè attivare e proporre, e un “fare negativo”, cioè ricevere e sorvegliare. Urbinati ritiene che sia stata data troppa importanza all’espressione della volontà e che si sia quindi concepita la rappresentanza come delega da un principale (il popolo) a degli agenti (i rappresentanti e i membri del governo), mentre rimane fondamentale l’espressione del giudizio, sia nella sua manifestazione positiva che nella sua manifestazione negativa. Se il rapporto fra popolo e governanti fosse davvero quello di un principale col suo agente, allora non si darebbero che due possibilità. La prima è che il principale dia istruzioni molto precise all’agente (mandato imperativo) e così facendo lo trasformi in un semplice delegato. In questo caso, il controllo del principale sull’agente è esplicitato ex ante e l’eventuale deviazione dell’agente dalla volontà del principale è perseguibile legalmente quale rottura del contratto di delega. La seconda è che l’agente, una volta autorizzato dal principale, ne faccia gli interessi nel modo in cui ritiene più opportuno senza più consultare il principale e, così facendo, si trasformi in un fiduciario. In questo caso, l’unico modo in cui il principale può controllare l’agente è ex post, non rinnovandogli la delega alla scadenza del contratto. Sono questi i due tipi di rappresentanza – il delegate e il trustee – teorizzati anche da Edmund Burke. Per Urbinati e Rosanvallon entrambe queste raffigurazioni del rapporto fra rappresentato e rappresentante sono insoddisfacenti e non colgono la complessità della rappresentanza nella democrazia rappresentativa. Per Urbinati, il rapporto fra rappresentato e rappresentante non è equiparabile semplicemente al rapporto fra principale e agente: l’elettore non delimita a priori l’operato del candidato, ma non gli dà nemmeno carta bianca. Il rapporto fra i due continua nel tempo ed è circolare: il rappresentato attiva e sorveglia il proprio rappresentante facendo sentire la propria voce ed esercitando il proprio giudizio anche durante il mandato di rappresentanza. Entrambi gli studiosi quindi concordano nel ritenere la democrazia rappresentativa un tipo particolare di democrazia: non un mero ripiego rispetto alla democrazia diretta, inattuabile ormai in tempi di democrazia di massa, ma un vero e proprio modello a sé stante, superiore alla democrazia 22 diretta proprio perché spezza l’immediatezza fra espressione della volontà ed espressione del giudizio. Così facendo – creando uno iato fra le due attività – la democrazia è più piena e più sicura. La riflessione sulla rappresentanza Dalla fine degli anni Novanta circa, i cambiamenti nella domanda e nell’offerta politica esaminati sopra hanno stimolato anche una riflessione teorica sulla rappresentanza. I tre termini non sono sinonimi. Per governo rappresentativo si intende quel tipo di governo parlamentare che basa la sua legittimità sul suo riprodurre nella propria composizione e nelle proprie scelte di policy le indicazioni dell’elettorato. In questo senso, un governo di tecnici formatosi in tempi di crisi per risolvere problemi che governi più politici avrebbero maggiori difficoltà a risolvere, non è un governo rappresentativo. Democrazia rappresentativa è concetto più ampio poiché indica un modello di democrazia (Held 2006) che si differenzia da altri modelli di democrazia per il fatto di basare la sua legittimità sul rapporto di rappresentanza che si esprime soprattutto, ma non solo, nel momento elettorale. La democrazia rappresentativa è quindi un concetto più normativo che descrittivo, che ricomprende una pluralità di meccanismi (quindi non solo il momento elettorale) che assicurano che le decisioni politiche vengano prese in modo da conformarsi alla volontà dei cittadini. Col termine rappresentanza si indica infine il rapporto fra rappresentato e rappresentante su cui si basano sia la democrazia rappresentativa che il governo rappresentativo, che può sostanziarsi in aspettative e comportamenti piuttosto diversi a seconda della specifica definizione che è a sua volta oggetto di serrati dibattiti empirici e normativi [↓]. Rappresentanza e rappresentatività in una democrazia sono assicurati non solo dal rapporto di rappresentanza stesso, che pure occupa un posto centrale, ma anche da una serie di altre garanzie politiche, diritti fondamentali e meccanismi istituzionali che caratterizzano un sistema politico democratico. Se Urbinati e Rosanvallon cercano nel dialogo continuo al di là del momento elettorale e nelle varie forme di contro-democrazia la garanzia e la pienezza della rappresentanza democratica, altri teorici rielaborano il concetto di rappresentanza per trovare nelle sue caratteristiche le garanzie della democrazia rappresentativa. In questo Urbinati e Rosanvallon sono in pieno accordo con Hanna Pitkin che scrive nel 1967 un trattato ormai classico sulla rappresentanza. In questo libro, Pitkin conduce un’analisi lessicografica del rapporto di rappresentanza, prendendo in considerazione le numerose accezioni con cui questo termine viene utilizzato dal mondo legale a quello diplomatico, da quello economico a quello artistico e conclude che molte dei significati di rappresentanza normalmente utilizzati sono al più parziali. Inizia col prendere in considerazione nozioni formalistiche di rappresentanza quali rappresentanza come autorizzazione e rappresentanza come 23 accountability; contrasta una nozione di rappresentanza come “stare al posto di” (standing for) (a sua volta distinta fra rappresentanza descrittiva e rappresentanza simbolica) con quella di “agire per conto di” (acting for); esplora il contrasto già individuato da Burke fra la figura del delegato e quella del fiduciario, e conclude con una nozione di rappresentanza politica che concilia l’indipendenza di giudizio del rappresentante (come nel caso del fiduciario) e la rispondenza delle sue azioni agli interessi del rappresentato (come da lui stesso interpretati) come nel caso del delegato. In conclusione, Pitkin offre la seguente definizione di rappresentanza politica: “Rappresentare significa agire nell’interesse dei rappresentati in modo da rispondere a loro. Il rappresentante deve agire in maniera indipendente; le sue azioni devono comportare discrezionalità e giudizio; deve essere il rappresentante ad agire. Anche il rappresentato deve essere capace di azione e di giudizio indipendenti, non deve essere solo accudito (taken care of). E, nonostante possa insorgere un conflitto fra il rappresentante e il rappresentato circa ciò che c’è da fare, questo conflitto normalmente non deve esistere. Il rappresentante deve agire in modo che tale conflitto non sussista e, nel caso in cui emerga, è necessaria una spiegazione. Il rappresentante non può trovarsi sistematicamente in contrasto con i desideri dei propri rappresentati senza buone ragioni che tengano alla luce degli interessi stessi dei rappresentati e senza una spiegazione di perché i loro desideri non sono compatibili con i loro interessi” [Pitkin 1967: 209-10]. Come Urbinati, anche Pitkin considera fondamentale che si crei un momento di distacco e di riflessione fra i desideri dei rappresentati e le azioni dei rappresentanti che permetta ad entrambi di entrare in un dialogo deliberativo su quale sia il modo migliore per tradurre i desideri in decisioni e quindi su quale sia il modo migliore per fare gli interessi dei rappresentati. Più succintamente, infatti, Pitkin ribadisce che “il rappresentante deve perseguire gli interessi dei propri rappresentati (constituents) in modo da rispondere almeno potenzialmente ai loro desideri, e in modo che l’eventuale conflitto fra questi desideri [come interpretati da loro stessi e come interpretati dal rappresentante] possa essere risolto tenendo conto dei loro stessi interessi” [Pitkin 1967: 213]. Questo potenziale conflitto fra rappresentanti e rappresentati deve essere risolto attraverso una comune deliberazione, ma se ciò non dovesse accadere, allora il rapporto di rappresentanza si spezzerebbe. Ma come assicurarsi che tale rapporto rimanga autentico e duraturo nel tempo? Quali armi hanno davvero i rappresentati per fare in modo che i rappresentanti rispondano effettivamente ai loro desideri e facciano effettivamente i loro interessi? Jane Mansbridge (2003) ha contribuito a rilanciare la riflessione sulla rappresentanza chiedendosi quali condizioni possano assicurare che i rappresentanti davvero cerchino di rappresentare le 24 preferenze degli elettori e non finiscano invece per occuparsi dei loro interessi. Mansbridge distingue quattro tipi di rappresentanza. Anzitutto, la rappresentanza promissoria è quella caratteristica del rapporto principale-agente: l’agente promette di agire al meglio delle proprie capacità per promuovere gli interessi del principale, e questo potrà verificare se così è stato solo al termine del rapporto di rappresentanza. Se l’agente non ha agito bene, l’unica punizione nelle mani del principale è di non rinnovare il rapporto di rappresentanza e… di fidarsi delle promesse di qualche altro agente. Vi è poi una rappresentanza anticipatoria che mette in maggiore luce un aspetto che tuttavia esiste anche nella rappresentanza promissoria. L’agente, sapendo che la punizione per un cattivo servizio sarà la mancata riconferma del mandato, cercherà di agire in modo da conquistare di nuovo il favore degli elettori. Di quali elettori si tratti, però, non è definito: infatti basta che un rappresentante accontenti degli elettori (e non necessariamente i suoi elettori originari) perché venga riconfermato. Insomma, nemmeno in questo caso il principale ha la certezza che l’agente agisca davvero a suo vantaggio. Il terzo tipo è chiamato rappresentanza giroscopica perché, come un giroscopio che ruota attorno al proprio asse, il rappresentante trae da sé stesso le idee e le visioni del mondo che finirà col rappresentare. All’elettore non rimane che osservare i convincimenti del candidato e votarlo nel caso in cui queste idee e visioni siano anche le sue. Il rappresentante è disconnesso da un partito o un elettorato e l’unica speranza di ottenere in questo modo buona rappresentanza è di aver saputo scegliere bene il candidato. Vi è infine una rappresentanza surrogata, cioè la rappresentanza offerta dal rappresentante di un altro distretto e che quindi non si ha la possibilità di votare ma che in qualche modo porta avanti le sue idee e visioni del mondo. Come si vede anche da questa carrellata, nessun tipo di rappresentanza garantisce che il rappresentante agirà effettivamente in consonanza con le idee e gli interessi dei rappresentati. A scardinare completamente il concetto che il rapporto di rappresentanza sia in qualche modo un “contratto” che si debba cercare di far valere è Michael Saward [2006] che fornisce ciò che potremmo chiamare una versione “costruttivista” della rappresentanza, che infatti egli indica col termine di “pretesa di rappresentanza” (representative claim). Secondo Saward il rapporto di rappresentanza è molto più complesso e coinvolge potenzialmente ben cinque attori: un attore (claim-maker) che indica un soggetto (subject) che “sta al posto di” un oggetto (object) che si rapporta a un referente (referent) ed è offerto a un pubblico (audience). Descritto così, il rapporto di rappresentanza sembra davvero complicato, ma degli esempi basteranno a far vedere come questa caratterizzazione sia invece abbastanza plausibile. Anzitutto, il rapporto si semplifica se claimmaker e soggetto, da un lato, e oggetto e referente, dall’altro, coincidono. Normalmente un candidato offre sé stesso (claim-maker e soggetto) come rappresentante degli interessi di un 25 distretto elettorale (oggetto e referente) in un’assemblea territoriale (pubblico). Ma potrebbe anche darsi che un intellettuale (claim-maker) indichi un’organizzazione non governativa (soggetto) come rappresentante degli interessi dei rifugiati (oggetto) a dei funzionari governativi (referenti) in una conferenza sull’immigrazione clandestina (pubblico). Oppure, con un esempio preso dallo stesso Saward [2006: 5], il cantante Bono (claim-maker) indica sé stesso (soggetto) come il rappresentante delle nazioni schiacciate dai debiti (oggetto) ai politici occidentali (pubblico). Insomma, nella teorizzazione di Saward, si vede come la rappresentanza avviene in molti modi e anche al di fuori delle istituzioni della democrazia rappresentativa e come vi possa essere, anche in questi contesti più canonizzati, molta inventiva circa le varie componenti del rapporto di rappresentanza. Ad essere rappresentati, infatti, possono essere oggetti non ancora esistenti (le generazioni future), inanimati (l’ambiente), ipotetici (la maggioranza silenziosa), impersonali (il mercato), e così via. Il rapporto di rappresentanza insomma è una costruzione sociale. La nuova centralità dell’accountabilty Una direzione in cui si è mossa la riflessione sulla rappresentanza, specie in epoca di allentati rapporti fra base e leadership dei partiti politici, è quella dell’accountability. Avendo ormai accettato il fatto che il legame fra rappresentato e rappresentante non si forgia ex ante ma si consolida solo ex post, l’unica opportunità che l’elettore ha di recuperare la propria sovranità è di “mandare a casa” il rappresentante. Affinché il rigetto (o la conferma) del rappresentante al secondo mandato abbia senso, questo deve poter rendere conto del proprio operato (ed ovviamente l’aspettativa di queste possibile punizione non avrà alcun effetto restrittivo se il rappresentante aveva comunque deciso di rimanere in carica per un solo mandato oppure se si trova all’ultimo suo mandato). L’accountability però è tanto più difficile da asseverare quanto più complesso è il governo della società. Come abbiamo visto nel capitolo precedente [↑11], molti soggetti pubblici e privati ormai concorrono al governo dell’economia e della società e, in ambito europeo, questi soggetti possono anche trovarsi a livelli di governo diversi: subnazionale, nazionale e sovranazionale. E’ pertanto diventato oggettivamente molto difficile anzitutto sapere esattamente chi decide cosa e chi fa cosa a quale livello, ma è diventato ancora più difficile attribuire colpe e meriti sia quando le cose vanno male sia quando esse vanno bene. Trasparenza e “leggibilità” delle interazioni sono condizioni necessarie affinché si possano attribuire meriti e colpe, chiedere conto dei risultati ottenuti e somministrare eventuali punizioni. Ciò è tanto più vero quanto più numerosi i soggetti e i livelli di governo coinvolti. 26 Nonostante questi evidenti problemi, la letteratura sulla legittimità democratica dell’Unione europea si è concentrata soprattutto sul concetto di accountability. La definizione più utilizzata è quella di Bovens [2007] che mostra molti aspetti paralleli e speculari alla nozione di rappresentanza offerta da Saward. Per Bovens, infatti, l’accountability è “una relazione fra un attore e un pubblico, in base al quale l’attore ha l’obbligo di spiegare e giustificare la propria condotta, il pubblico può fare delle domande e dare un giudizio, e l’attore può dover subire delle conseguenze” [Bovens 2007: 450]. Come si vede anche in questo caso la relazione tradizionalmente abbastanza semplice fra principale e agente si è frantumata in una molteplicità di relazioni che non necessariamente coinvolgono solo due attori. Nella relazione principale-agente tradizionale – nella relazione rappresentatorappresentante – a chiedere conto dell’azione dell’agente è il principale che funge anche da pubblico. Nella relazione delineata da Bovens, invece, a chiedere conto può non essere il rappresentato ma un comitato parlamentare o un giudice o dei colleghi. Il pubblico può essere certamente l’elettorato, ma anche la stampa o l’opinione pubblica internazionale. L’obbligo a fornire spiegazioni e giustificazioni può essere formale e codificato oppure essere una pratica consolidata, una questione di convenienza o un’obbligazione morale. Le sanzioni possono essere solo morali oppure anche pecuniarie o fisiche. Insomma, così come il rapporto di rappresentanza è molto più complesso e variegato di come lo abbiamo forse tradizionalmente pensato, così l’accountability può assumere modalità anche molto diverse fra loro, ma non per questo meno efficaci. Limitarsi a considerare il rapporto di rappresentanza e di accountability come due facce di uno stesso rapporto diretto fra rappresentato e rappresentante è fuorviante e non riuscirebbe certamente a dare conto di questi fenomeni in contesti istituzionalmente complessi come l’Unione europea. Tolleranza, giustificazione, non-dominio Concludiamo questa carrellata sulla rappresentanza ricordando ancora una volta che l’ambito in cui sempre più frequentemente vengono prese decisioni importanti per la nostra esistenza è quello europeo. La teoria politica si è interrogata sulle basi della legittimità dell’Unione europea e, non potendo secondo alcuni applicare ad essa i criteri normalmente utilizzati per valutare la legittimità democratica degli stati nazionali, è andata alla ricerca di altri criteri. Mancano per l’applicazione all’Unione europea del criterio della legittimità democratica alcune condizioni. Anzitutto, l’architettura istituzionale dell’Unione europea non è paragonabile a quella di alcuno degli stati membri. L’unione manca di un governo responsabile di fronte a un parlamento che lo esprime, e questo non viene quindi eletto al fine di formare un governo. La catena diretta della delega – che in 27 uno stato nazionale va dai cittadini al parlamento al governo – è quindi spezzata e “riannodata” in qualche modo tramite la delega indiretta dai cittadini degli stati membri ai propri governanti che concorrono, nel Consiglio, col Parlamento europeo a passare le leggi comunitarie. Come è spezzata la catena della delega, così è spezzata la catena dell’accountability: non è infatti possibile attribuire in maniera univoca a nessun agente (i rappresentanti e i funzionari nazionali) le decisioni politiche prese a livello comunitario e molti agenti non sono stati scelti dai principali (i cittadini). Nonostante, come si è visto, è ancora questa la strada più battuta dalla maggior parte degli studiosi di Unione europea, altri studiosi si stanno interrogando se la base della legittimità dell’Unione non debba essere rinvenuta altrove. Tre concetti sono stati avanzati come alternative a quello di legittimità democratica. Il primo è il concetto di tolleranza. L’unione europea e le decisioni che da essa emanano non dovrebbero essere giudicate in base a quanto da vicino riflettono le preferenze di questi o quei cittadini sovrani, ma se consentono a tutti i cittadini europei di ritrovarsi in esse. Come la chiave per la creazione del mercato unico non è l’armonizzazione ma il riconoscimento reciproco, così la chiave per la legittimità delle decisioni dell’Unione non è la rispondenza perfetta alle preferenze di questo o quel demos nazionale – o del tuttora inesistente demos europeo – ma la compatibilità con le preferenze di tutti i demoi nazionali [Nicolaidis 2004]. Il segreto starebbe quindi nell’ingaggiare “dialoghi costituzionali” fra concezioni della democrazia anche piuttosto diverse fra di loro e trovare ambiti di compatibilità [Weiler 1999]. Il secondo concetto che potrebbe sostituire quello di democrazia è quello di giustizia [Forst 2012]. La libertà e l’uguaglianza dei cittadini che sono alla base della democrazia possono essere interpretati anche come diritto a richiedere giustificazioni sia per le decisioni prese (che eventualmente limitino la libertà dei cittadini europei) che per quelle non prese (che eventualmente non aumentino la libertà dei cittadini europei). I cittadini europei potrebbero ritenere legittime tutte quelle decisioni che, seppure non riflettono le loro preferenze, ciononostante possono essere giustificate in modo da essere accettate [Neyer 2012]. Infine, il concetto di non-dominio che in realtà sussume entrambi i precedenti [Bohman 2007]. Democrazia è partecipare alle decisioni che determinano il proprio destino, quindi è assenza di imperio e di dominio. I cittadini dell’Unione europea devono non solo applicare questi criteri alle decisioni prese all’interno dei propri confini nazionali, ma anche alle decisioni che hanno ricadute sui cittadini di altri stati membri. Anch’essi infatti hanno diritto a non essere dominati da decisioni prese senza il loro concorso. Il concetto di non-dominio, quindi, invita ad estendere la considerazione di ricadute negative e positive al di fuori dei propri confini e almeno all’interno dei confini di tutta l’Unione. Nei confronti dei cittadini degli altri stati membri, anzitutto, ma più in generale nei confronti dei cittadini degli stati terzi esistono doveri di tolleranza e giustificazione ma 28 ancor più di non dominio. Questo significa almeno prendere in considerazione le obiezioni che i cittadini di altri stati membri potrebbero sollevare nei confronti di decisionali nazionali e prepararsi a giustificare eventualmente le decisioni prese, se non addirittura prendere queste decisioni con loro. Anche in questo caso i criteri più ristretti di delega e accountability non si applicano, ma si raggiunge forse un livello più alto di democrazia. 29 50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 Figura 1. La pressione fiscale in Italia. 1980-2012 Fonte: ISTAT 30 2012 2010 2008 2006 2004 2002 2000 1994 1992 1990 1988 1986 1984 1982 1980 0