Le sfide alla democrazia - Dipartimento di Scienze Politiche e

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Le sfide alla democrazia - Dipartimento di Scienze Politiche e
Capitolo 12
Crisi della politica e prospettive della democrazia
Fra il gennaio 1919, quando si tennero le elezioni per l’assemblea costituente che avrebbe fondato
la Repubblica di Weimar e il gennaio 1933, quando Hitler venne nominato cancelliere della
Repubblica di Weimar, che si affrettò ad abolire, si svolsero ben otto elezioni (e una nona si sarebbe
svolta nel marzo 1933 quando ormai Hitler aveva preso il potere). I risultati del voto in queste
elezioni formano una sequenza impressionante.
L’arco dei partiti costituzionale, favorevoli alla
costituzione repubblicana, raccoglieva inizialmente
circa il 75% dei voti e la partecipazione elettorale
Il sovraccarico democratico
era circa dell’83%. Il voto si distribuiva in maniera
La crisi economica e le risposte neocorporative e
bipolare, fra una sinistra socialdemocratica al 45%,
neoliberiste
dei partiti di centro moderati (fra liberali e cattolici)
Apatia e disincanto, populismo e antipolitica
circa della stessa entità, e un unico partito
La democrazia del controllo, della partecipazione e della
nazionalista e conservatore di circa il 10%. Dopo
deliberazione
numerosi ed inefficaci governi, un’iperinflazione
Rappresentanza, accountability, tolleranza
che aveva distrutto il valore del Reichsmark,
violente proteste per le riparazioni di guerra e
l’assassinio del ministro degli esteri Rathenau, la
distribuzione del voto era radicalmente cambiata.
Nel maggio 1928, il partito socialdemocratico era calato al 30%, un partito comunista
rivoluzionario si era formato ed aveva raggiunto il 10%, i partiti liberali moderati si erano ridotti al
14%, il centro cattolico si manteneva al 12% e la destra nazionalista era aumentata al 17% (ma il
partito nazista era ancora ben sotto il 3%). La disaffezione era però aumentata e a votare andava
soltanto 75% degli aventi diritto. Fu la Grande Depressione del 1929-30 e i cinque milioni di
disoccupati che trasformarono definitivamente questo quadro, facendo balzare in avanti il partito
nazista al 38% nel luglio 1931, poi al 33% nel novembre 1932 (quando a Hitler venne offerto il
cancellierato) e infine al 44% nel marzo 1933. Il partito socialdemocratico si manteneva attorno al
20%, il centro cattolico rimaneva immutato al 12% ma erano i partiti moderati di centro-destra ad
essere spazzati via non riuscendo a raccogliere insieme più dell’8%. La partecipazione elettorale era
tornata all’84%. Da allora, calo della partecipazione elettorale, svuotamento del centro e
affollamento di partiti anti-sistema sulle ali estreme indicano agli scienziati politici che la
democrazia è in serio pericolo.
1. Dal sovraccarico democratico alla public choice
Come si è visto nei capitoli precedenti, dal dopoguerra in poi governare è diventato
progressivamente più complesso e difficile. I compiti che lo stato ha assunto su di sè si sono
moltiplicati, passando dalla ricostruzione ed il soddisfacimento dei bisogni materiali primari, alla
fornitura di servizi sociali sempre più differenziati. Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi,
in molti paesi europei e più in generale in quasi tutti i paesi OECD, ci si aspetta che i governi si
facciano carico dell’andamento dell’economia, del benessere dei cittadini e della soddisfazione di
diritti democratici sempre più sofisticati. Nello stesso tempo, la crescente interdipendenza fra
1
sistemi produttivi, commerciali, finanziari e monetari ha moltiplicato i vincoli reciproci fra sistemi
economici con ripercussioni evidenti sui sistemi sociali e politici [↑11]. Mentre nel periodo
immediatamente dopo la guerra, dagli anni Settanta in poi il peso della gestione e del finanziamento
degli stessi ha cominciato a rappresentare fonte di malcontento.
Si è già detto di come questa moltiplicazione degli impegni presi con i cittadini ha portato
all’aumento della pressione fiscale in molti paesi europei, incluso il nostro (figura 1), e come abbia
portato a forme di protesta contro i partiti di governo e alla creazione di partiti di opposizione nuovi,
che non si collocavano più lungo i tradizionali cleavages sociali identificati da Rokkan, ma forse
lungo un nuovo cleavage costituito dalla contrapposizione fra valori materialistici e valori postmaterialistici. Abbiamo anche visto come i modi di fare politica siano mutati nel corso del
dopoguerra e come i cittadini abbiano chiesto crescenti spazi di partecipazione proprio mentre i
partiti di massa andavano perdendo i contatti con la “base” e si arroccavano all’interno delle
istituzioni statali. I “partiti-cartello” e i “partiti professionali” sono espressione delle nuove modalità
di finanziamento degli stessi, a carico dei cittadini e dello stato [↑5]. Quindi, proprio mentre
procedeva il processo di maturazione e consapevolezza democratica dei cittadini, si veniva
contemporaneamente a creare un divario crescente con la classe politica. La crescente distanza fra
promesse e realizzazioni e fra cittadini e classe politica hanno alimentato sentimenti di disillusione,
apatia e financo ostilità nei confronti della politica.
FIGURA 1 CIRCA QUI
Lo stato del benessere
Lo stato del benessere (welfare state) è lo stato che si occupa dei cittadini “dalla culla alla tomba” –
o almeno così si era impegnato a fare lo stato britannico dopo la guerra, ispirato dal famoso
Beveridge Report1 che voleva garantire sicurezza sociale (social security) a tutta la popolazione dai
“cinque mostri” della nostra società (bisogno, malattia, ignoranza, squallore, inattività). Nati dalla
necessità di far ripartire le economie occidentali dopo le distruzioni della Grande Depressione degli
anni Trenta e della seconda guerra mondiale che ne seguì, il welfare state e la politica
macroeconomica keynesiana hanno promesso crescente benessere alle generazioni nate durante e
dopo la guerra. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta – i baby-boomers rispettivamente
negli Stati Uniti e in Europa – crescenti libertà politiche e benessere economico erano certezze date
quasi per scontate. Non così per le generazioni che avevano vissuto il periodo fra le guerre né
purtroppo per le generazioni nate dagli anni Settanta in poi.
1
Il titolo completo era Report on Social Insurance and Allied Services e fu pubblicato nel 1942 [Beveridge 1942].
2
A ben guardare, però, nemmeno il periodo dei cosiddetti “trenta gloriosi” – gli anni che vanno dal
1944, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra e ribaltarono le sorti del conflitto, al 1973, anno
della prima crisi petrolifera e dell’inizio dell’inflazione cum stagnazione e convenzionalmente
considerato come un periodo “glorioso” di crescita e sicurezza generalizzati – era stato poi
veramente tale. Il mondo occidentale viveva sotto la cappa della Guerra Fredda e la minaccia della
guerra nucleare: gli Stati Uniti erano socialmente divisi da varie forme di aperto o mascherato
segregazionismo (dalle Jim Crow laws del Sud ai ghetti urbani del nord) e scossi da proteste per i
diritti civili e da assassinii politici ad altissimo livello (John F. Kennedy, Martin Luther King,
Robert Kennedy); l’Europa affrontava la ricostruzione ed era divisa da una “cortina di ferro” fra la
zona di influenza americana e la zona di influenza sovietica, senza contare i sussulti antidemocratici
in Spagna (già dittatura dal 1937 al 1975, la Spagna conobbe un lungo periodo di transizione
democratica fino al 1982 costellato da altri tentativi di colpo di stato militare), Grecia (1967-1971) e
Portogallo (dittatura dal 1926 al 1974), la crescente soppressione delle libertà e della protesta nei
paesi dell’est europeo (Ungheria nel 1956, Cecoslovacchia nel 1968) e il terrorismo che dilaniava i
paesi continentali che più risentivano politicamente del clima della guerra fredda quali Italia,
Germania e Francia.
In Italia, così come in altri paesi del sud d’Europa, lo stato del benessere venne in realtà costruito
più tardi che negli altri paesi europei, a partire dalla fine degli anni Sessanta, proprio mentre il
periodo di crescita mondiale stava per finire e la crisi petrolifera causava deindustrializzazione in
molti paesi avanzati ed innescava la prima crisi economica del secondo dopoguerra. Finiti gli
investimenti infrastrutturali necessari alla ricostruzione e alla conquista del consenso
nell’immediato dopoguerra, si procedette in Italia a costruire lo stato sociale – soprattutto sanità e
pensioni – proprio mentre la crescita inizia la sua discesa. Vennero concesse pensioni retributive a
chi non aveva maturato un sufficiente numero di anni di contribuzioni e si permise di andare in
pensione ad alcune categorie anche molto presto (baby pensioni) [Ferrera 1993, 2012]. Le imprese
pubbliche, che avevano avuto il compito di trainare l’industrializzazione e l’approvvigionamento di
energia dell’Italia fra le guerre, si fecero carico di nuovi problemi quali l’industrializzazione del sud
e l’assorbimento delle industrie mature e decotte del nord. I margini di produttività erosi
dall’aumento dei salari e soprattutto dall’aumento dell’energia vennero recuperati attraverso la
svalutazione della moneta e attraverso l’inflazione, che però andarono ad alimentare nuovamente
l’aumento dei costi e dei prezzi. Si crearono così dagli anni Settanta le basi di quel debito pubblico
sempre crescente che perseguiterà l’Italia fino ai giorni nostri. Proprio nel momento in cui veniva
creato, lo stato sociale italiano era già in crisi. Simile traiettoria conoscevano i paesi del sud
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d’Europa, mentre quelli del nord d’Europa, che da tempo finzianziano il loro stato sociale con le
tasse, incontravano l’opposizione sempre più radicata dei cittadini.
Il sovraccarico democratico e le soluzioni neocorporative
Con tempistiche parzialmente sfasate e problematiche parzialmente diverse, tutti gli stati europei
sperimentarono negli anni Settanta crescenti difficoltà economiche e, quindi, crescenti domande da
parte dei cittadini. Come abbiamo già ricordato, mentre i cittadini dei paesi del sud d’Europa
cercavano di recuperare un deficit di sviluppo soprattutto dello stato sociale, i cittadini dei paesi del
nord sperimentavano già un eccesso di intervento statale nell’economia e nella società. In entrambi i
casi, si registrava un sovraccarico democratico (overload) che la Commissione Trilaterale2 [Crozier,
Huntington, Watanuki 1975] identificava come causa principale del malessere sociale e della “crisi
della democrazia” degli anni Sessanta e Settanta. Insomma, il problema era l’eccesso di domande
poste al sistema politico, non necessariamente la sua limitata capacità di dare risposte. Eppure, nel
mezzo di una crisi che colpiva tutte le principali democrazie europee – dal Regno Unito che si
avviava verso una drammatica deindustrializzazione al Belgio che seguiva dappresso e accumulava
un debito pubblico spaventoso, dalla Svizzera che si teneva a galla espellendo i lavoratori
temporanei (Gastarbeiter) del sud d’Europa alla Francia che continuava a pompare denaro pubblico
nelle industrie di stato – vi era uno sparuto numero di piccole democrazie che sembravano capaci di
difendersi dalla crisi economica meglio di altre. Erano queste le democrazie consociative [↑4]del
nord d’Europa, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda all’Austria.
Il segreto del loro successo veniva identificato nella capacità delle parti sociali di dialogare e
negoziare, in tempi di crisi, una tregua salariale e uno sforzo collettivo per migliorare la
competitività i cui frutti, in tempi di ripresa, sarebbero stati ripartiti equamente fra capitale e lavoro.
La political economy elaborò, in quegli anni, i dettagli del modello vincente di una democrazia che
riesce a fronteggiare circostanze avverse che non può controllare grazie alla collaborazione fra parti
sociali [Katzenstein 1985, Esping-Anderson 1985]. Il segreto di questa capacità di arrivare ad
accordi credibili e duraturi veniva identificato nella presenza di associazioni di lavoratori e datori di
lavoro solide e strutturate, la cui leadership era in grado di negoziare patti credibili e farli rispettare
dalla propria base. Il corporativismo – o, meglio, il neo-corporativismo [Lehmbruch and Schmitter
1979, 1982] – acquistava così una nuova connotazione assai più progressista e democratica rispetto
2
La Commissione Trilaterale è un think tank non governativo e non partitico fondato il 23 giugno 1973 per iniziativa di
David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank. La Trilaterale conta come membri più di trecento privati
cittadini (uomini d'affari, politici, intellettuali) provenienti dall'Europa, dal Giappone e dall'America Settentrionale, e
ha l'obiettivo di promuovere una cooperazione più stretta tra queste tre aree (di qui il nome).
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alla sua origine fascista. I datori di lavoro si impegnavano a rinunciare, in tempi di vacche grasse, a
parte dei loro profitti e a condividerli con i lavoratori anche grazie a una favorevole politica fiscale
e redistributiva statale; i lavoratori si impegnavano a moderare, in tempi di vacche magre, le loro
richieste salariali e ad accettare modifiche nell’organizzazione del lavoro che avrebbero fatto
recuperare competitività alle imprese. Lo stato garantiva questi accordi e si impegnava a favorirli
ammortizzando le ripercussioni sociali e le eventuali ristrutturazioni e riconversioni industriali
attraverso un’oculata politica attiva del lavoro e della formazione professionale. In alcuni paesi, i
lavoratori erano ulteriormente garantiti dal fatto di essere coinvolti, attraverso le loro
rappresentanze sindacali, nella conduzione stessa delle imprese e nelle scelte di politica industriale
del paese. Garantivano questi accordi governi perlopiù socialdemocratici, favorevoli ai lavoratori
ma attenti anche a non alienare gli imprenditori.
I paesi caratterizzati da equilibri politici ed economici più fragili, quali i molto più polarizzati paesi
del sud d’Europa o il molto più frammentato sistema di relazioni industriali del Regno Unito e della
Francia [Hall 1986], non riuscivano ad attuare politiche simili e pagavano un prezzo assai più alto
per la crisi. A dimostrazione del fatto che le condizioni economiche incidono sulle aspettative
culturali, sugli equilibri politici e sulle strutture sociali dei paesi e non possono essere trasformate
rapidamente, un gruppo di studiosi prese spunto da questa riflessione degli anni Settanta e Ottanta
per elaborare un’ambiziosa teoria volta a sintetizzare in modelli distinti sia l’organizzazione
economico-sociale della produzione, sia l’organizzazione dello stato sociale. Appartengono a questa
letteratura tanto le teorizzazioni sui “mondi del welfare” [Esping-Anderson 1990, Ferrera 1993,
2005, Hemerijck 2013], sia quelle sulle “varietà di capitalismi” [Hall and Soskice 2001, Hancké,
Rhodes and Thatcher 2007] in base alla quale economie di mercato coordinate (Coordinated Market
Economies, CMEs) vengono contrapposte a economie di mercato liberali (Liberal Market
Economies, LMEs) o più semplicemente ad economie di mercato non-coordinate. Mentre le prime
sono in grado di programmare la ristrutturazione dell’economia verso produzioni più produttive
grazie alla capacità dello stato di assorbire gli shock economici e accompagnare i gruppi più colpiti
verso un’ordinata riconversione, le seconde riescono a fronteggiare le sfide economiche lasciando
che i costi ricadano su questo o quel gruppo – e quindi lasciando che si determinino vincitori e vinti
– grazie al fatto che la cultura politica e le relazioni sociali sono pronte ad assorbire gli shock di
aggiustamento così creati. Queste differenze sono evidenti anche nella presente crisi economica
(2007-2014) che vede da un lato economie reattive, seppur in modo diverso, quali Stati Uniti,
Regno Unito e Germania, e dall’altro economie più passive, quali Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo
e Spagna (GIIPS).
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Il riflusso neoliberista e la public choice
Nelle economie di mercato liberali, soprattutto Regno Unito e Stati Uniti, la reazione alla crisi degli
anni Settanta fu quindi fondamentalmente diversa da quella messa in atto nelle economie di mercato
coordinate. Nelle prime, Negli Stati Uniti, con l’elezione di Ronald Reagan alla presidenza nel
1980, e nel Regno Unito, con la vittoria del Partito Conservatore di Margaret Thatcher nel 1979,
salgono al potere due conservatori di convincimenti economici molto simili. Grazie anche ai
rispettivi sistemi politici – presidenziale e maggioritario, gli Stati Uniti, e parlamentare e
maggioritario, il Regno Unito – essi possono imporre la loro nuova linea di politica economica
senza trovare grosse opposizioni. Negli Stati Uniti, il sindacato era storicamente debole e quindi
non costituiva un ostacolo all’attuazione delle politiche presidenziali, ma anche nel Regno Unito,
dove il sindacato è diviso in trade unions, esso venne ulteriormente indebolito dal braccio di ferro
ingaggiato e vinto dalla “dama di ferro” (the iron lady) con il sindacato dei minatori.3
Privatizzazioni, riduzione dei servizi sociali, abbassamento delle tasse (progressive) sul reddito ed
innalzamento di quelle (regressive) sui consumi al fine di ridurre l’inflazione galoppante (che negli
anni settanta aveva raggiunto il 18% anche nel Regno Unito) e restituzione di credibilità alla
sterlina furono gli ingredienti fondamentali della teoria economica monetarista che la Thatcher, così
come Reagan, abbracciarono agli inizi degli anni Ottanta. La teoria monetarista – che
fondamentalmente prescriveva di non manipolare la domanda aggregata tramite l’intervento statale
al fine di tenere alta l’attività produttiva, perché questa avrebbe solamente alimentato l’inflazione e
non avrebbe ridotto la disoccupazione – si impose e soppiantò la teoria keynesiana anche proprio
grazie alle politiche di Reagan e Thatcher che apparvero, alla fine degli anni Ottanta, aver ribaltato
il destino di questi paesi.
La teoria monetarista inferse un colpo letale all’idea stessa che l’intervento dello stato
nell’economia potesse essere positivo. Lo stato doveva adesso essere limitato il più possibile perché
tendenzialmente inefficiente e controproducente. Il mercato veniva ritenuto capace di autoregolarsi
e comunque in grado di raggiungere livelli più elevati di efficienza allocativa delle risorse di quanto
non potessero fare le decisioni politiche. La privatizzazione era la soluzione di tutte le disfunzioni
dei servizi pubblici. La democrazia stessa andava, per certi versi, limitata e le scelte di policy
affidate non alla dialettica fra gruppi sociali e fra rappresentanti politici, ma a scelte razionali che
potevano essere simulate da esperti. In base a questa visione, gli elettori sono irrazionali e tendono a
promuovere “interessi espressivi” e a domandare la produzione di beni che non massimizzano il
benessere collettivo [Tullock 2008 (1987)]. La democrazia lasciata all’interazione politica fra
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Dopo un anno intero di sciopero, nel 1984, il sindacato dei minatori dovette cedere alla chiusura di 25 miniere di
carbone improduttive e alla privatizzazione delle rimanenti miniere statali.
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elettori e rappresentanti, fra gruppi d’interesse e decisori necessariamente produce risultati subottimali. La Public Choice pretende pertanto di desumere da pochi assunti economici quali decisioni
debbano essere prese, sostituendo pochi algoritmi matematici alla dialettica politica. Anche l’azione
pubblica deve ispirarsi a criteri di mercato e cercare di ottenere profitti (o comunque non generare
perdite) nello svolgimento delle proprie poche ed essenziali funzioni. Di conseguenza, ogni
obiettivo non profittevole viene tendenzialmente eliminato e ogni utilizzatore che non può
permettersi prezzi di mercato viene escluso anche da servizi essenziali. L’eccessiva fiducia nel
mercato che si impose in seguito all’affermarsi del paradigma della Public Choice non solo avrebbe
portato agli squilibri distributivi alla base della corrente crisi, ma anche fornito un’aura di
scientificità alla profonda disaffezione dalla politica che si andò verificando negli anni a venire.
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2. Democrazia, o il suo contrario?
Nessuno ignora che la politica spesso produce decisioni sub-ottimali, situazioni di rendita
ingiustificata e inefficienza collettiva, ma presumere che il mercato lasciato a se stesso porti
necessariamente a risultati migliori è decisamente ingenuo. L’efficienza allocativa non può essere
l’unico criterio normativo in base al quale valutare la bontà delle decisioni di policy, per molti
motivi. Anzitutto, l’efficienza è una relazione fra mezzi e fini: l’identificazione di questi ultimi non
può essere prodotta da un calcolo di efficienza ma solo da una autentica scelta politica. Obiettivi
che appaiono ad alcuni come assolutamente prioritari possono essere per altri secondari e
negoziabili: di qui la necessità di una deliberazione collettiva. In secondo luogo, l’efficienza non è
l’unico criterio in base al quale valutare una decisione: partecipazione, condivisione, pluralismo
possono essere criteri altrettanto importanti per il buon funzionamento della comunità politica.
Infine, i calcoli costi-benefici considerano solo ciò che in qualche modo “ha un prezzo”: molti costi
o benefici non vengono mai inclusi in questi calcoli perché letteralmente “senza prezzo” o perché
presenti in quantità illimitate o perché troppo preziosi per averne uno. Se l’aria pulita o la forzalavoro potevano sembrare essere disponibili in quantità pressoché illimitate agli albori
dell’industrializzazione, non è più così da quando l’inquinamento ha reso scarsa l’aria pulita e la
mobilitazione dei lavoratori ha attribuito un prezzo alla forza-lavoro.
Perché però allora la disaffezione verso la politica e la disillusione nei confronti della stessa
democrazia? Un tempo era l’economia ad essere chiamata “dismal science” (un’espressione
apparentemente coniata dal giornalista Thomas Carlyle che così denotò le fosche predizioni di
Thomas Malthus), ora pare invece che sia la politica ad essere oggetto di scorno generale, quasi
indicasse un’attività di dubbio valore. Una spiegazione può naturalmente far riferimento al forse
eccessivo ottimismo, e quindi alla successiva disillusione, nella capacità della politica di ottenere
livelli sempre più elevati di benessere materiale e di coinvolgimento democratico degli anni del
dopoguerra. Una seconda spiegazione può avere invece a che fare con la sensazione che la
democrazia sia una costruzione troppo fragile, costantemente soggetta a tentativi di sovvertimento
ed inevitabilmente tendente a degenerare nel suo contrario. Infine, una terza e più preoccupante
spiegazione metterebbe in discussione la pretesa stessa della democrazia di rendere i cittadini
padroni del proprio destino e considererebbe la democrazia invece come una finzione che nasconde
una realtà di privilegio e disuguaglianza. Disillusione, degenerazione, disincanto sono parole
ricorrenti nel dibattito politologico più recente che cercheremo qui di riassumere [vedi anche
Flinders 2014].
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Apatia e disincanto
I primi sintomi apatia e disincanto nei confronti della politica si manifestarono negli anni Settanta
quando lo studio dei partiti politici iniziò a registrare un distacco sempre più marcato degli elettori
tradizionali dalle organizzazioni partitiche. La teorizzazione dei “partiti pigliatutto” suggeriva che
gli elettori rimanvano fedeli ai partiti di massa più per i benefici che derivavano dall’essere membri
(ad esempio, protezione sindacale, organizzazione del tempo libero, formazione degli adulti, ecc.)
che per la capacità intrinseca dei partiti di rappresentare i loro interessi. Tramite le organizzazioni
collaterali, venivano “presi nella rete” anche elettori socialmente non appartenenti alle tradizionali
classes gardées [Kirchheimer 1969] [↑5]. Forse a causa di quella rivoluzione culturale che si
verificò alla fine degli anni Sessanta, i cleavages sociali teorizzati da Rokkan si andavano
deallineando o riallineando [Flanagan e Dalton 1984] e le masse storicamente mobilitate e poi
congelate nei vari elettorati di partito si stavano lentamente scongelando e spostando, e dovevano
pertanto essere agganciate con altri mezzi.
I sintomi di questo cambiamento furono membership calante, tassi decrescenti di partecipazione
attiva (sia elettorale che a più ampio spettro) e indici crescenti di mobilità interpartitica [↑5]. La
risposta dei partiti fu di diluire ulteriormente gli appelli ideologici e di enfatizzare invece gli aspetti
meno controversi, ma anche meno identificanti, delle rispettive piattaforme elettorali. Le divisioni
di classe si stavano obliterando, si parlava di “eclisse” e di “imborghesimento della classe operaia”
[Dahrendorf 1967, Goldthorpe 1978] e diventava comunque sempre più difficile determinare, anche
da un punto di vista teorico, chi appartenesse alla classe operaia e chi a quella capitalistica. Da un
lato, la teoria marxista aveva sempre avuto difficoltà a classificare piccoli proprietari terrieri, gli
affittuari e i mezzadri dall’una o dall’altra parte, attribuendo loro per lo più una falsa coscienza di
classe, e non aveva mia visto di buon occhio i commercianti e i negozianti [Marx 1988, Gramsci
1951]. Dall’altro lato, alcune categorie operaie erano ormai molto benestanti (la cosiddetta working
class aristrocracy) e, grazie all’avvento delle tecnologie informatiche applicate alla produzione
industriale, non dovevano nemmeno più “sporcarsi le mani”: diventava insomma sempre più
difficile distinguere i “colletti blu” (dal colore caratteristico della tuta degli operai) dai “colletti
bianchi” (dal colore della camicia degli impiegati). Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del
comunismo, parvero poi esaurirsi anche le grandi ideologie del Novecento e i partiti dovettero
ricorrere sempre più a tecniche di marketing per vendere i loro “prodotti elettorali”. La televisione
soppiantava i raduni, le riunioni e i fogli di partito come principale mezzo di comunicazione e di
diffusione delle idee fra militanti e leadership.
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Il rapprto fra elettore ed eletto si sfilacciava e il controllo della base sulla leadership si affievoliva.
Se Robert Michels aveva già nel 1911 teorizzato la “legge ferrea dell’oligarchia” in base alla quale
la dirigenza, anche di partiti votati alla democrazia quale il partito socialdemocratico tedesco, tende
a distaccarsi sempre di più dall’esperienza vissuta dai membri fino ad avere più in comune con le
dirigenze degli altri partiti che con la propria base [Michels 1949(1911)]. Negli anni Ottanta e
Novanta questo fenomeno si diffuse non solo fra i partiti ma anche nelle associazioni sindacali,
nonostante la retorica diffusa che vede il leader sindacale come un lavoratore come un altro. Il
rapporto di rappresentanza, che in tempi di partiti di massa veniva perfezionato (ex ante) in base a
una conoscenza profonda del programma politico del candidato (ex fundo), diventava ormai una
scelta fatta sulla base di un’offerta superficialmente presentata (ex alto) e che veniva a perfezionarsi
per così dire solo al termine del mandato elettorale (ex post) se il candidato dimostrava di aver
saputo ben interpretare gli interessi degli elettori [Andeweg 2003]. La televisione diventava il
mezzo principale attraverso cui gli elettori entravano in contatto con i propri rappresentanti, ma era
un mezzo monodirezionale e limitante [Sartori 1999]. Tale era la disillusione nei confronti dei
partiti che Simone Weil scriveva già nel 1943 le sue Note per la soppressione generale dei partiti
politici (pubblicate in Italia solo nel 1988) in quanto dannosi alla democrazia. Quindi, seppure per
motivi nuovi, la democrazia conosceva un’altra stagione di crisi come era successo altre volte in
passato e soprattutto nel periodo fra la guerre [Schmitt 1994].
Antipolitica e neopopulismo
Senza nulla togliere al dramma dell’attuale “crisi della democrazia” è bene mettere questa ed altre
crisi in prospettiva storica. La democrazia è uno dei modi in cui le comunità governano se stesse ed
è quindi soggetta a trasformazioni legate agli inevitabili cambiamenti nell’organizzazione della
convivenza sociale. Crisi periodiche delle regole e delle istituzioni che reggono queste comunità
sono normali, ma non per questo esse sono innocue e indolori. I momenti di crisi rischiano di
alienare i cittadini dalla stessa dialettica democratica e di portare ad “intervalli” più o meno lunghi
di dittatura. La scienza politica descrive ed analizza le cause di queste trasformazioni, mentre la
teoria politica rielabora le norme e i principi in vigore e ne propone di nuovi.
La crisi della democrazia, dagli anni Ottanta in poi, si è manifestata soprattutto come apatia,
disinteresse e, infine, rifiuto della politica. Abbiamo accennato sopra alle possibili cause di queste
reazioni, qui vediamo come sono state interpretate. Come era già successo negli anni Trenta, anche
adesso la comprovata incapacità dei governi di risolvere i problemi sociali del momento induce
sfiducia nei loro confronti. Se a questa scadente performance istituzionale si accompagna anche uno
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sfrangiamento del sistema partitico e una crescente instabilità dei governi, la sensazione
generalizzata è che l’instabilità politica sia la causa delle scadenti prestazioni. In un ciclo che tende
ad autoalimentarsi, spostamenti di voti da un partito all’altro aumentano l’instabilità sistemica ed
accorciano gli orizzonti temporali delle leadership partitiche che, non più sicure di avere un
consenso sufficientemente lungo per decidere ed attuare le riforme necessarie a superare la crisi,
tendono a rincorrere il consenso tramite misure di corto respiro e inefficaci. In queste circostanze
possono verificarsi spostamenti anche massicci di voti: può verificarsi lo svuotamento di interi
elettorati ed il loro collocamento verso posizioni più estreme; può aumentare di molto la percentuale
degli indecisi (che votano all’ultimo momento sull’onda dell’emozione o della simpatia) o delle
schede bianche (elettori che non sanno chi votare); possono infine aumentare i non-votanti o le
schede nulle, annullate magari da un insulto generico alla classe politica. Sono questi scenari che la
scienza politica ha studiato con cura perché hanno preluso a gravi rivolgimenti politici, quali
l’ascesa del partito nazista che ha posto fine alla Repubblica di Weimar nel 1933 o all’implosione
del sistema politico cileno che ha portato al colpo di stato del generale Pinochet nel 1973. Anche in
Italia abbiamo più volte temuto scenari simili e non possiamo dire di esserne del tutto immuni
nemmeno adesso.
Un secondo fenomeno che spesso si accompagna alle crisi della democrazia, oltre alla crescente
apatia, agli spostamenti repentini dei voti e all’ascesa di partiti anti-costituzionali, è il populismo
[Mény e Surel 2002, Mudde e Rovira Kaltwasser 2012]. Il populismo è un fenomeno vecchio,
legato a un particolare concetto di rappresentanza. Leader populisti presumono di saper interpretare
i bisogni e i desideri del popolo “per empatia” senza necessariamente servirsi di un’organizzazione
di partito che capillarmente interpelli gli elettori stessi. Il leader populista non ha un programma
preciso, ma dice quello che la gente vuole sentire giocando spesso un doppio ruolo: da un lato
pretende di essere “uno del popolo”, essendo spesso invece molto distante da esso; dall’altro
propone soluzioni semplici per questioni anche molto complesse. E’ l’indeterminazione e la
spregiudicatezza con cui affronta le questioni, con cui cavalca l’emozione e alletta elettorati anche
molto diversi fra di loro che fa di un leader un populista. A ben guardare, il tipo di rappresentanza
che offre ai propri elettori è una rappresentanza fasulla: si offre alle masse come incarnazione e
interprete del popolo – Hanna Pitkin [1967] [↑6] direbbe che offre una “rappresentanza simbolica”
– senza elaborare alcun discorso che stabilisca priorità ed integri le varie richieste dei cittadini in un
programma di governo credibile e verificabile. Si potrebbe anzi dire che non si tratti affatto di
rappresentanza, ma di riproduzione tal quale di richieste senza quell’elaborazione e quella distanza,
sia intellettuale che istituzionale, che offrire rappresentanza politica necessariamente implica. In
passato, forme di populismo sono state anche indicate col nome di Cesarismo (dall’abitudine di
11
Cesare di rivolgersi direttamente alle folle) o di Bonapartismo (dalla simile abitudine di Luigi
Napoleone) [Marx 1988]. Il populismo contemporaneo comporta sicuramente l’utilizzo di mezzi di
comunicazione diversi – soprattutto la televisione e i social media, senza trascurare però i “bagni di
folla” – ma mantiene immutata l’identificazione immediata del leader con le masse e l’offerta di
ogni tipo di promessa, per quanto scellerata e irrealizzabile, purché di alto gradimento.
Se il concetto di populismo è abbastanza chiaro, cosa lo distingue allora dall’antipolitica? A un
primo e più semplice livello, l’antipolitica è la perdita di fiducia nella capacità della politica di
risolvere i problemi sociali. Quindi, per certi versi, è il contrario del populismo che invece promette
tutto a tutti. Il populismo, inoltre, è per lo più associato a posizioni di destra, di conservazione
dell’ordine sociale [Schedler 1997, Betz e Immerfall 1998], mentre l’antipolitica è fenomeno tanto
di destra quanto di sinistra [Mastropaolo 2000, 2005; Canovan 1999]. In secondo luogo, e in
maniera più precisa, l’antipolitica è disillusione generalizzata nei confronti dei meccanismi e dei riti
della politica ed è polemica contro lo stato che ha fallito il suo compito storico di generare duraturo
benessere e progresso alle classi sociali subordinate e che appare come troppo ingombrante (da
destra) o troppo inefficace (da sinistra) [Berger 1979]. In terzo luogo, antipolitica è anche
rivendicazione di nuovi spazi di mobilitazione e partecipazione sociale che non si limitino al
circuito-elettorale partitico e che non vengano confinate negli ambiti angusti delle istituzioni
rappresentative e di governo e delle organizzazioni di mobilitazione tradizionali (partiti e sindacati).
Cittadini più istruiti, più maturi e più consapevoli vogliono incidere sulla propria vita lavorativa, nel
sociale, nella cultura. Anche la sfera privata è “politica”, ed è forse lì che le questioni più
fondamentali si annidano (diritto di scelta sul proprio corpo, sulla procreazione, sulla propria
sessualità, sulla propria morte). Quindi, in questa terza accezione, l’antipolitica coincide con una
esplosione dell’ambito del politico e una marginalizzazione degli spazi tradizionalmente ad essa
dedicati.
Il risultato, comunque, è lo stesso: i partiti e le istituzioni politiche tradizionali ne escono
ridimensionati e svalutati proprio mentre essi riescono a occupare sempre maggiori spazi decisionali
e a mantenersi in vita spartendosi un crescente supporto pubblico (cartel party). Si apre così uno
spazio retorico che personaggi politici di vecchia e nuova estrazione possono riempire in maniera
spregiudicata, cercando di guadagnare consenso per sé svilendo il sistema politico nel suo
complesso. Ma poiché la fiducia è un bene pubblico, la cui produzione rischia di essere
strutturalmente sottodimensionata rispetto al consumo necessario, chi cavalca l’antipolitica mette a
repentaglio la tenuta del sistema democratico nel suo complesso.
12
Democrazia-spettacolo e contro-democrazia
La destrutturazione del sistema politico – il venir meno dei cleavage che avevano strutturato la
mobilitazione politica nel periodo di formazione del sistema dei partiti [↑5] e il sovrapporsi di nuovi
cleavage culturali [vedi ↑ le tesi del dealignment o del realignment] – quindi la perdita di presa dei
partiti su gruppi sociali ben definiti, la fine delle ideologie e la maggiore fluidità del voto hanno
indotto non solo alcuni dei fenomeni descritti sopra, ma anche un diverso rapporto fra elettore ed
eletto. Poiché la scelta del candidato non può più basarsi sulla condivisione di un programma
politico e su una visione di società, la scelta finisce per incentrarsi sulla persona del candidato, sulla
sua credibilità e sul suo look. Il “voto personale” non è cosa nuova e segnala il tentativo da parte di
candidati di ritagliarsi un seguito politico non in quanto rappresentante di un partito politico e
portatore di una certa visione di società, ma in base alle sue capacità personali di servire la propria
constituency. La letteratura anglosassone – con riferimento a un sistema elettorale maggioritario –
denota come constituency service l’attenzione individuale che rappresentanti politici dedicano agli
elettori del proprio distretto e chiama personal vote il voto dato al candidato in quanto tale e non
come membro di un dato partito [Cain, Ferejohn and Fiorina 1987, Carey and Shugart 1995].
Un’estensione di questo fenomeno in sistemi anche non maggioritari ha portato all’elaborazione di
indici di particolarismo [Seddon Wallack et al. 2003]. In Italia questo fenomeno è stato
tradizionalmente associato al “voto di scambio” e al clientelismo [Parisi e Pasquino 1977], mentre
altrove questi stessi fenomeni non acquistano necessariamente tale connotazione negativa [Piattoni
2007]. Chiaramente sono queste trasformazioni che avvengono all’interno di un sistema politico in
cui hanno ancora una posizione centrale i partiti ma, col dilagare di questi fenomeni, si afferma
anche un tipo di partito incentrato sulla persona del leader: il partito personale [Calise 2000] [↑5].
Se il voto non è dato più al partito ma al candidato, ovviamente acquistano importanza le
caratteristiche personali di quest’ultimo: le sue capacità e la sua credibilità. Vi sono modi virtuosi e
meno virtuosi di stabilire una propria credibilità ma, a meno che il candidato non intrattenga
rapporti diretti col proprio elettorato, il candidato dovrà far ricorso ad altre tecniche per accertare la
consistenza del proprio seguito. Sarà pertanto tentato di consultare frequentemente i sondaggi di
opinione sia per scoprire le preferenze e le domande degli elettori sia per monitorare il proprio
gradimento. Ecco che sondaggisti e gli esperti d’immagine e di comunicazione (spin doctors)
diventano figure imprescindibili per costruire il nuovo rapporto di “rappresentanza”. La preminenza
dei partiti nel costruire e mantenere il consenso viene così meno: diventano cruciali altre strutture
che hanno molto più a che fare col mercato, la comunicazione e l’immagine che con la
progettazione sociale. I candidati, liberati dalla loro dipendenza dal partito, possono passare da un
partito all’altro portandosi dietro un proprio seguito elettorale o fondare il proprio partito personale.
13
La rappresentanza si frammenta, si fa più effimera e mutevole. I partiti sono ancora per certi versi
strutture importanti per attrarre e gestire risorse costose necessarie al fine di vincere le elezioni, ma
essi si trasformano quasi più in organizzazioni-ombrello (franchises) al riparo del quale corrono una
serie di “imprenditori politici” indipendenti [↑5]. Del resto rimanere fedeli a un certa visione di
società e di programma politico diventa oggettivamente più difficile in un mondo che è più
complesso, mutevole e imprevedibile. Conseguentemente, anche il consenso elettorale diventa più
instabile.
In tempi ancora più recenti, la centralità dei mass media e dei social media nel coltivare un seguito
personale, insomma la mediaticità del candidato, diventano più importanti della sua preparazione
politica o della sua dedizione all’elettorato [↑9]. Nello stesso tempo, così come diventa
apparentemente più semplice acquistare un seguito personale, è anche più facile perderlo in seguito
a scandali, campagne negative e “passi falsi” di qualsiasi tipo. Il modo per attaccare e battere gli
avversari non è più il dibattito politico, ma sono il “dossieraggio”, il negative campaigning e
l’operazione che gli americani chiamano character assasination. Accusare un concorrente di aver
tradito la fiducia dei propri elettori, del fisco o della propria moglie può danneggiare la carriera
politica di un candidato più della sua comprovata impreparazione politica. Diventa più facile farsi
rieleggere che farsi eleggere per la prima volta perché, in assenza di prove circa le qualità di un
candidato, anche un “male” noto ha un vantaggio rispetto a un possibile “male” ignoto: il vantaggio
dell’incumbent è grande e crescente nel tempo [riferimenti?]. La politica diventa professione: ogni
velleità di amatorismo svanisce e l’imprenditore politico deve saper ben dosare le proprie forze e le
proprie finanze per garantirsi una carriera lunga e variegata, spesso passando da ruoli
rappresentativi a ruoli di gestione oppure rinverdendo la propria carriera elettorale a diversi livelli di
governo (locale, nazionale, europeo).
Bernard Manin [1997] chiama questa nuovo tipo di democrazia “democrazia del pubblico”
(audience democracy). Come già sottolineato da Andeweg, si tratta di una democrazia nella quale
l’iniziativa parte dall’alto, con candidati che offrono un certo tipo di rappresentanza ed elettori che
la comprano, per così dire, “a scatola chiusa”, salvo poi confermare o mandare a casa l’eletto al giro
successivo. E’ quindi una democrazia perlopiù reattiva: il rapporto di rappresentanza si completa in
seguito a una serie di “tentativi ed errori” (trial and error). La domanda politica si rivela quindi ex
post, come reazione all’offerta politica. E’ sempre opinione di Manin che ci si riavvicinerebbe così
alla concezione elitaria di Schumpeter, per il quale gli elettori non hanno idee precise su ciò che
vogliono, se non sulle cose che più immediatamente e direttamente toccano la loro vita, e che quindi
devono affidarsi all’offerta politica dei rappresentanti per scoprire ciò che essi desiderano. La
conclusione piuttosto amara di Manin è che “il governo rappresentativo rimane ciò che è stato
14
dall’inizio, cioè un governo di elites distinte dalla massa dei cittadini dalla loro posizione sociale,
stile di vita e istruzione. Ciò a cui assistiamo oggi non è altro che l’emergere di una nuova elite e il
declino di un’altra” [Manin 1997: 232, enfasi nell’originale].
Di diversa opinione è invece Pierre Rosanvallon [2008] che offre una valutazione tutto sommato
positiva delle trasformazioni della democrazia contemporanea. Rosanvallon parte dal presupposto
che democrazia non è solo diritto ad autogovernarsi, ma è anche controllo dei governanti. La
sovranità dei cittadini non è solo positiva (non consiste solo nell’essere gli autori delle decisioni che
governano la loro vita), ma anche negativa (consiste anche nel vigilare affinché i governanti non
usurpino o utilizzino ad altri fini i poteri loro affidati). I cittadini devono non fidarsi dei propri
governanti perché solo così possono preservare la democrazia. La democrazia è infatti un bene
altamente deperibile, sempre a rischio di corrompersi e diventare tirannia. Fanno perciò parte
integrante della concezione di democrazia non solo quei meccanismi grazie a i quali i cittadini
arrivano alle decisioni con le quali essi si auto-governano, ma anche quei meccanismi,
costituzionali ed extra-costituzionali, attraverso i quali essi controllano i processi politici che si
svolgono in loro nome. Questi meccanismi ricadono in tre categorie generali: poteri di supervisione
o sorveglianza, forme di prevenzione e verifica dei giudizi e in essi si sostanzia ciò che Rosanvallon
chiama “contro-democrazia”. La trattazione di Rosanvallon è estremamente ricca e articolata, ma la
sostanza del suo discorso è che i cittadini hanno il diritto e il dovere di essere costantemente
vigilanti e non lasciare solo ai checks and balances istituzionali il controllo dei governanti, sia esso
svolto dall’opposizione governativa, dalle agenzie di audit o dal potere giudiziario, ma che devono
attivamente contribuire ad esercitare questo controllo democratico.
Spetta quindi ai cittadini stessi esprimere questa “sfiducia” anche per via extra-costituzionale,
contribuendo
a
formare
l’opinione
pubblica,
sostenendo
il
giornalismo
investigativo,
intraprendendo attività di denuncia, scendendo in piazza e manifestando, esercitando pressione
affinché alcune questioni non vengano tralasciate, richiedendo dai governanti comportamenti
eticamente ineccepibili, e così via. Sovranità positiva e sovranità negativa si trovano in un rapporto
di perenne tensione fra di loro ed vi è anche il rischio che le attività di controllo, vigilanza e
denuncia arrivino a paralizzare l’azione governativa. Se questo è un rischio reale, ben più reale è il
rischio che i governanti approfittino della loro posizione speciale per tradire la fiducia loro
accordata. Rosanvallon insiste in particolare su tre punti. Il primo è che il meccanismo elettorale da
solo non basta a controllare i governanti. Vedremo nella prossima sezione come il rapporto di
rappresentanza è stato ripensato dalla teoria normativa recente proprio per fare in modo che,
attraverso il voto, i cittadini possano non solo autorizzare i rappresentanti a governare in loro nome,
ma anche a limitare il loro potere. Il secondo è che i meccanismi istituzionali – i diritti fondamentali
15
costituzionalmente garantiti, la divisione dei poteri fra istituzioni distinte, la competizione politica e
l’organizzazione dell’opposizione – non bastano a garantire la democrazia da tentativi di deviazione
e deragliamento. Il terzo è che la concezione (e una certa tradizione normativa francese)
“giacobina” della nazione come entità unitaria e indivisibile tende a scoraggiare i cittadini
dall’esercizio della loro sovranità negativa perché non riesce a concepire come il popolo possa
esprimere una volontà generale e, nello stesso tempo, opporsi ad essa. Tutto sommato, Rosanvallon
ci consegna il quadro di una democrazia pluralista e dinamica che non ci pare poi così patologica.
16
3. Nuove forme di democrazia
Se la partecipazione elettorale è calata e la disaffezione alla politica è aumentata, sono però emerse
altre forme di partecipazione che è forse difficile classificare come immediatamente politiche ma
che ciononostante fanno bene alla democrazia. È questo l’ampio mondo della mobilitazione sociale
in favore dei grandi problemi mondiali - diritti umani, ambiente, pace [↑11] – ma anche attorno ai
piccoli problemi concreti di tutti i giorni quali l’offerta di posti negli asili, la raccolta differenziata, i
trasporti per i pendolari. La partecipazione politica, in altri termini, non si misura solo in termini di
partecipazione ai riti canonici della politica o alle grandi questioni sociali, ma anche come
partecipazione alla mobilitazione in favore o contro questioni pratiche nella vita di tutti i giorni.
Come abbiamo visto, partecipazione e associazionismo sono considerati, dai tempi di Tocqueville,
come indicatori fondamentali della salute di una democrazia. Ciò che più colpì il filosofo francese
nel suo viaggio in America [Tocqueville 1835] fu appunti il diffuso associazionismo e la capillare
partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche, soprattutto a livello locale.
Il capitale sociale e la civicness
L’importanza di queste forme di partecipazione è recentemente tornata alla ribalta in seguito alla
rinnovata attenzione rivolta al capitale sociale. In seguito a uno studio sul capitale sociale condotta
da Putnam, Leonardi e Nanetti [1993] nelle regioni italiane – come misurato dal grado di
partecipazione della cittadinanza a forme di azione collettiva anche non esplicitamente politiche e
come determinante per il rendimento democratico delle istituzioni regionali – la tematica del
capitale sociale, presente da molto tempo nella sociologia politica [si vedano per tutti Coleman
1990, Portes 1998], è entrata prepotentemente anche nella riflessione politologica (ed economica).
La tesi di Putnam, in particolare, è che la partecipazione politica è conseguenza della presenza di
rapporti di reciprocità e fiducia interpersonale diffusi (sinteticamente indicati come civicness, cioè
civismo) che si sviluppano in realtà facendo altre attività spesso non direttamente collegate alla
politica. Putnam misura infatti aspetti quali la partecipazione a cori amatoriali o ad associazioni per
il tempo libero oppure il tasso di lettura dei giornali locali o ancora la partecipazione a consultazioni
cittadine non direttamente legate all’elezione di rappresentanti politici come indicatori della
presenza di capitale sociale. Insomma, essere disposti a utilizzare il proprio tempo per attività che
non portano necessariamente benefici immediati e personali, segnala, e nello stesso tempo fa
crescere, un senso di forte collegamento sociale con gli altri membri della comunità. Da queste
attività e da questi atteggiamenti derivano una serie di ricadute positive anche per il rendimento
delle istituzioni di governo e per la tenuta della democrazia. Anzitutto, i rappresentanti politici
17
saranno probabilmente partecipi di questa diffusa cultura sociale e quindi si asterranno da
comportamenti che possano tradire la fiducia dei propri concittadini. In secondo luogo, anche
qualora non fossero animati da sentimenti così elevati, si sentirebbero comunque da essa controllati
sapendo che comportamenti devianti rispetto alle aspettative diffuse non verrebbero condonati. In
terzo luogo, questa potenziale sanzione è tanto più reale quanto maggiore è il capitale sociale locale,
premessa per ogni azione collettiva di successo quale sfiduciare un rappresentante che dimostri di
non meritare la fiducia della comunità.4
Tale è la convinzione di Putnam che il capitale sociale sia alla base sia della democrazia che della
prosperità che, assieme a colleghi internazionali, egli ha trascorso molti anni a misurare la presenza
di capitale sociale negli Stati Uniti e in altre democrazie avanzate [Putnam 2000; Putnam e Pharr
2000] e a tracciarne l’evoluzione nel corso del tempo [Putnam, Casanova, Sato 1995; Putnam
2002].5 Questa attenzione al capitale sociale ha anche influenzato le convinzioni e le azioni di
organizzazioni internazionali quali la Banca Mondiale. La Banca Mondiale ha talmente investito
nella misurazione e nella crescita del capitale sociale che intere pagine del suo sito sono dedicate a
questo scopo.6 Essa infatti identifica nella presenza di capitale sociale l’ingrediente fondamentale
affinché i suoi programmi di sviluppo possano funzionare. In Italia, questa stessa agenda di ricerca
ha suscitato le ricerche di geografia politica di Roberto Cartocci dedicate alla misurazione quanto
più precisa possibile della distribuzione del capitale sociale sul territorio nazionale [Cartocci 2007,
2012].
La mobilitazione sociale e la democrazia diretta
La partecipazione politica è strettamente legata alla mobilitazione sociale. Partecipare alla vita
politica significa anche essere disposti a mobilitarsi a favore o contro decisioni o non decisioni
politiche. Come ricorda Rosanvallon, i cittadini devono non solo esercitare una sovranità attiva, che
consiste nello stimolare e pungolare i propri rappresentanti e governanti all’azione, ma anche una
4
L’aspetto più controverso di questa fortunata teorizzazione è stato rinvenuto nella forte dipendenza dal percorso
evidenziata da Putnam attraverso una lettura affascinante ma parziale delle vicende storiche delle varie zone d’Italia.
Putnam ha attribuito a vicende svoltesi nel XII secolo l’accumulazione del capitale sociale presente nel nord e nel
centro del paese e la sua mancanza nel sud. Dalla presenza o mancanza di capitale sociale Putnam fa anche dipendere
il diverso tasso di sviluppo economico delle regioni italiane [riferimenti critici, Piattoni?].
5
Derivano da questa agenda di ricerca anche i lavori di Maraffi, Newton, van Deth e Whiteley 2000 sul capitale sociale
nell’Europa dell’est; di Norris e Inglehart 2002 sul ruolo delle associazioni religiose nel favorire la crescita di capitale
sociale; di Rothstein e Kumlin [2005] sul ruolo del welfare state e Rothstein e Stolle 2008 sull’impatto delle istituzioni
politiche sull’accumulazione di capitale sociale. Senza citare la sconfinata letteratura sociologica ed economica
sull’argomento.
6
http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/TOPICS/EXTSOCIALDEVELOPMENT/EXTTSOCIALCAPITAL/0,,contentMD
K:20642703~menuPK:401023~pagePK:148956~piPK:216618~theSitePK:401015,00.html
18
sovranità negativa che consiste nel controllarne, criticarne e, se necessario, sanzionarne l’operato.
Uno dei modi classici in cui i cittadini possono esercitare entrambe queste funzione è attraverso la
mobilitazione sociale, spesso a livello locale. Il fenomeno dei movimenti NIMBY – acronimo che
sta per “not in my back yard”, e cioè non nel cortile dietro casa – si riferisce per lo più a movimenti
che si oppongono alla realizzazione di opere pubbliche (strade, ferrovie, aeroporti, inceneritori,
eccetera) in un determinato territorio per motivi per lo più ambientali (aumento dell’inquinamento
atmosferico o acustico, danno all’ecosistema, scompensi sociali o economici). Sono note le
mobilitazioni contro la realizzazione del treno ad alta velocità in Val di Susa, contro la realizzazione
del traforo negli Appennini per il tratto ferroviario Bologna-Firenze, dell’ampliamento della
caserma militare Enderle e dell’aeroporto militare americano Dal Molin vicino a Vicenza,
dell’inceneritore di Giugliano in provincia di Napoli e così via. E’ in realtà molto raro che queste
mobilitazioni abbiano successo, che cioè riescano a fermare o modificare la realizzazione di
un’opera pubblica già decisa. Nonostante questi movimenti certamente segnalino la presenza di
preferenze di policy molto intense nella popolazione, forse per il modo con cui vengono gestiti o
forse per il carattere aggressivo e illegale che spesso assumono, alla fine si ha la sensazione che si
tratti di una mobilitazione fine a sè stessa, che poco contribuisce all’esercizio della democrazia.
A parziale correttivo di questa sensazione, si registrano però anche sempre più numerosi esempi di
consultazioni cittadine prima che le decisioni vengano prese. Le amministrazioni soprattutto locali
sembrano aver capito che è meglio consultare i cittadini prima di prendere le decisioni invece di
gestire la protesta dopo che esse sono state prese. Si sono pertanto messi in campo tutta una serie di
strumenti di democrazia diretta – quali le consultazioni pubbliche – al fine di sondare l’opinione
della cittadinanza. Queste consultazioni, che pure appartengono alla categoria della democrazia
diretta, si differenziano dai referendum popolari organizzati a livello nazionale per alcuni aspetti.
Anzitutto, si tratta generalmente di consultazioni propositive, che indicano cosa fare, invece che
abrogative, che mirano a cancellare una legge (quali sono i referendum nazionali). Si tratta, poi, di
decisioni molto puntuali, che concernono magari solo i cittadini di un dato comune, e non toccano
questioni di carattere generale. Ciononostante, l’utilizzo crescente di queste consultazioni segnala lo
spostamento da un modello tipo DAD (decido, annuncio, difendo) a un modello maggiormente
partecipativo. Le basi teoriche e filosofiche di questa che viene chiamata democrazia associativa e
partecipativa sono da rinvenire ancora una volta in Tocqueville successivamente rielaborate da
teorici quali Cohen e Rogers [1992], Hirst [1994], e Fung e Wright [2003]. Fra i limiti della
democrazia partecipativa, vi è soprattutto l’incertezza circa la rappresentatività delle opinioni così
raccolte e degli interessi sondati, ma fra i vantaggi vi è certamente il senso di “possedere”
(ownership) le decisioni, di esserne protagonisti.
19
La democrazia deliberativa
Ulteriore evoluzione, per così dire, della democrazia partecipativa è la democrazia deliberativa.
Con questo termine si indicano delle modalità particolari di consultazione strutturate in modo da
assicurare che ai processi deliberativi partecipino cittadini estratti da tutti i gruppi sociali presenti
sul territorio in modo da assicurare il più ampio ventaglio di opinioni presenti. Mentre la
democrazia partecipativa si affida alla spontanea mobilitazione dei cittadini, la democrazia
deliberativa vuole fare in modo che possibilmente “tutti” – anche chi normalmente non si farebbe
avanti – partecipino. L’idea è che affinché vi sia vera democrazia tutte le opinioni e tutte le
preferenze di policy debbano essere accuratamente registrate, anche quelle di coloro che, per
circostanze personali quali età, educazione, mancanza di tempo o insufficiente autostima,
spontaneamente non parteciperebbero. Alla base sta la convinzione, elaborata originariamente da
Jürgen Habermas [1989, ma vedi anche Elster 1998] che “democrazia” non significa solo contare i
voti o semplicemente registrare l’intensità delle preferenze dei gruppi che più e meglio sanno
organizzarsi, ma significa registrare le preferenze di tutti i cittadini perché tutti possono contribuire
buoni argomenti al dibattito e perché tutti hanno uguale valore morale. L’obiettivo della democrazia
deliberativa è arrivare a decisioni condivise – al consenso – che secondo Habermas è possibile
raggiungere purché tutti i partecipanti si attengano ad alcune regole, quali la buona argomentazione
e, soprattutto, non nascondano informazioni rilevanti e non inducano gli altri a pensare che le propri
preferenze siano diverse da quelle che effettivamente sono (per ottenere un vantaggio negoziativo).
Infatti, la deliberazione – che nell’accezione inglese di deliberation non indica la decisione finale,
ma il processo che porta alla decisione – è metodo fondamentalmente diverso dalla negoziazione
che, invece, ammette anche comportamenti strumentali e strategici.
Gli strumenti della democrazia deliberativa – quali forum deliberativi, giurie cittadine, mini-publics
[Fishkin 1991] – si differenziano quindi da quelli della democrazia associativa o partecipativa
perché cercano di far sì che a partecipare siano tutti i gruppi sociali. Vi sono diversi modi per
cercare di ottenere questo risultato: il metodo della porta aperta, il campionamento casuale, il
campionamento strutturato . Affinché tutti partano dalla stessa base informativa e possano quindi
competentemente elaborare argomenti e formulare preferenze, coadiuvano questi processi dei
“facilitatori” che non hanno una posizione propria, ma fanno in modo che tutti riescano a
partecipare alla deliberazione alla pari. Gli studiosi [Bobbio 2007a, Pellizzoni 2005] hanno messo
in risalto alcuni aspetti problematici della deliberazione – ad esempio, la tendenza all’autoselezione,
il rischio che i consessi deliberativi vengano monopolizzati da chi ha preferenze e interessi più
20
definiti, il pericolo reale che, avendo sviscerato i problemi, questi appaiono ancor meno risolvibili,
eccetera – ma hanno altresì documentato il valore aggiunto di questi esperimenti. Dal più famoso e
duraturo esempio di bilancio partecipato di Porto Alegre in Brasile alle più modeste, ma non per
questo meno importanti, deliberazioni che pure avvengono sul nostro territorio [Bobbio 2007b,
2013; Floridia 2012], la democrazia deliberativa è uno dei modi più innovativi per riconnettere i
cittadini alla politica e combattere apatia e disincanto.
21
4. Nuove declinazioni della democrazia rappresentativa
Secondo Rosanvallon, quindi, la democrazia contemporanea non sarebbe messa così male e le sue
manifestazioni più caratteristiche non sarebbero poi così patologiche, ma solo la manifestazione
attuale della tensione costante fra sovranità positiva e sovranità negativa e dei vari modi in cui si
sostanzia la “contro-democrazia”. Anche Nadia Urbinati (2006), ripercorrendo la genealogia del
concetto di democrazia rappresentativa rinviene in essa due aspetti ugualmente fondamentali: il
diritto all’uguale espressione della volontà (isonomia) e il diritto all’uguale espressione del giudizio
(isegoria). Fanno parte di quest’ultima componente due attività: un “fare positivo”, cioè attivare e
proporre, e un “fare negativo”, cioè ricevere e sorvegliare. Urbinati ritiene che sia stata data troppa
importanza all’espressione della volontà e che si sia quindi concepita la rappresentanza come delega
da un principale (il popolo) a degli agenti (i rappresentanti e i membri del governo), mentre rimane
fondamentale l’espressione del giudizio, sia nella sua manifestazione positiva che nella sua
manifestazione negativa.
Se il rapporto fra popolo e governanti fosse davvero quello di un principale col suo agente, allora
non si darebbero che due possibilità. La prima è che il principale dia istruzioni molto precise
all’agente (mandato imperativo) e così facendo lo trasformi in un semplice delegato. In questo caso,
il controllo del principale sull’agente è esplicitato ex ante e l’eventuale deviazione dell’agente dalla
volontà del principale è perseguibile legalmente quale rottura del contratto di delega. La seconda è
che l’agente, una volta autorizzato dal principale, ne faccia gli interessi nel modo in cui ritiene più
opportuno senza più consultare il principale e, così facendo, si trasformi in un fiduciario. In questo
caso, l’unico modo in cui il principale può controllare l’agente è ex post, non rinnovandogli la
delega alla scadenza del contratto. Sono questi i due tipi di rappresentanza – il delegate e il trustee –
teorizzati anche da Edmund Burke.
Per Urbinati e Rosanvallon entrambe queste raffigurazioni del rapporto fra rappresentato e
rappresentante sono insoddisfacenti e non colgono la complessità della rappresentanza nella
democrazia rappresentativa. Per Urbinati, il rapporto fra rappresentato e rappresentante non è
equiparabile semplicemente al rapporto fra principale e agente: l’elettore non delimita a priori
l’operato del candidato, ma non gli dà nemmeno carta bianca. Il rapporto fra i due continua nel
tempo ed è circolare: il rappresentato attiva e sorveglia il proprio rappresentante facendo sentire la
propria voce ed esercitando il proprio giudizio anche durante il mandato di rappresentanza.
Entrambi gli studiosi quindi concordano nel ritenere la democrazia rappresentativa un tipo
particolare di democrazia: non un mero ripiego rispetto alla democrazia diretta, inattuabile ormai in
tempi di democrazia di massa, ma un vero e proprio modello a sé stante, superiore alla democrazia
22
diretta proprio perché spezza l’immediatezza fra espressione della volontà ed espressione del
giudizio. Così facendo – creando uno iato fra le due attività – la democrazia è più piena e più sicura.
La riflessione sulla rappresentanza
Dalla fine degli anni Novanta circa, i cambiamenti nella domanda e nell’offerta politica esaminati
sopra hanno stimolato anche una riflessione teorica sulla rappresentanza. I tre termini non sono
sinonimi. Per governo rappresentativo si intende quel tipo di governo parlamentare che basa la sua
legittimità sul suo riprodurre nella propria composizione e nelle proprie scelte di policy le
indicazioni dell’elettorato. In questo senso, un governo di tecnici formatosi in tempi di crisi per
risolvere problemi che governi più politici avrebbero maggiori difficoltà a risolvere, non è un
governo rappresentativo. Democrazia rappresentativa è concetto più ampio poiché indica un
modello di democrazia (Held 2006) che si differenzia da altri modelli di democrazia per il fatto di
basare la sua legittimità sul rapporto di rappresentanza che si esprime soprattutto, ma non solo, nel
momento elettorale. La democrazia rappresentativa è quindi un concetto più normativo che
descrittivo, che ricomprende una pluralità di meccanismi (quindi non solo il momento elettorale)
che assicurano che le decisioni politiche vengano prese in modo da conformarsi alla volontà dei
cittadini. Col termine rappresentanza si indica infine il rapporto fra rappresentato e rappresentante
su cui si basano sia la democrazia rappresentativa che il governo rappresentativo, che può
sostanziarsi in aspettative e comportamenti piuttosto diversi a seconda della specifica definizione
che è a sua volta oggetto di serrati dibattiti empirici e normativi [↓]. Rappresentanza e
rappresentatività in una democrazia sono assicurati non solo dal rapporto di rappresentanza stesso,
che pure occupa un posto centrale, ma anche da una serie di altre garanzie politiche, diritti
fondamentali e meccanismi istituzionali che caratterizzano un sistema politico democratico.
Se Urbinati e Rosanvallon cercano nel dialogo continuo al di là del momento elettorale e nelle varie
forme di contro-democrazia la garanzia e la pienezza della rappresentanza democratica, altri teorici
rielaborano il concetto di rappresentanza per trovare nelle sue caratteristiche le garanzie della
democrazia rappresentativa. In questo Urbinati e Rosanvallon sono in pieno accordo con Hanna
Pitkin che scrive nel 1967 un trattato ormai classico sulla rappresentanza. In questo libro, Pitkin
conduce un’analisi lessicografica del rapporto di rappresentanza, prendendo in considerazione le
numerose accezioni con cui questo termine viene utilizzato dal mondo legale a quello diplomatico,
da quello economico a quello artistico e conclude che molte dei significati di rappresentanza
normalmente utilizzati sono al più parziali. Inizia col prendere in considerazione nozioni
formalistiche di rappresentanza quali rappresentanza come autorizzazione e rappresentanza come
23
accountability; contrasta una nozione di rappresentanza come “stare al posto di” (standing for) (a
sua volta distinta fra rappresentanza descrittiva e rappresentanza simbolica) con quella di “agire per
conto di” (acting for); esplora il contrasto già individuato da Burke fra la figura del delegato e
quella del fiduciario, e conclude con una nozione di rappresentanza politica che concilia
l’indipendenza di giudizio del rappresentante (come nel caso del fiduciario) e la rispondenza delle
sue azioni agli interessi del rappresentato (come da lui stesso interpretati) come nel caso del
delegato.
In conclusione, Pitkin offre la seguente definizione di rappresentanza politica: “Rappresentare
significa agire nell’interesse dei rappresentati in modo da rispondere a loro. Il rappresentante deve
agire in maniera indipendente; le sue azioni devono comportare discrezionalità e giudizio; deve
essere il rappresentante ad agire. Anche il rappresentato deve essere capace di azione e di giudizio
indipendenti, non deve essere solo accudito (taken care of). E, nonostante possa insorgere un
conflitto fra il rappresentante e il rappresentato circa ciò che c’è da fare, questo conflitto
normalmente non deve esistere. Il rappresentante deve agire in modo che tale conflitto non sussista
e, nel caso in cui emerga, è necessaria una spiegazione. Il rappresentante non può trovarsi
sistematicamente in contrasto con i desideri dei propri rappresentati senza buone ragioni che
tengano alla luce degli interessi stessi dei rappresentati e senza una spiegazione di perché i loro
desideri non sono compatibili con i loro interessi” [Pitkin 1967: 209-10].
Come Urbinati, anche Pitkin considera fondamentale che si crei un momento di distacco e di
riflessione fra i desideri dei rappresentati e le azioni dei rappresentanti che permetta ad entrambi di
entrare in un dialogo deliberativo su quale sia il modo migliore per tradurre i desideri in decisioni e
quindi su quale sia il modo migliore per fare gli interessi dei rappresentati. Più succintamente,
infatti, Pitkin ribadisce che “il rappresentante deve perseguire gli interessi dei propri rappresentati
(constituents) in modo da rispondere almeno potenzialmente ai loro desideri, e in modo che
l’eventuale conflitto fra questi desideri [come interpretati da loro stessi e come interpretati dal
rappresentante] possa essere risolto tenendo conto dei loro stessi interessi” [Pitkin 1967: 213].
Questo potenziale conflitto fra rappresentanti e rappresentati deve essere risolto attraverso una
comune deliberazione, ma se ciò non dovesse accadere, allora il rapporto di rappresentanza si
spezzerebbe. Ma come assicurarsi che tale rapporto rimanga autentico e duraturo nel tempo? Quali
armi hanno davvero i rappresentati per fare in modo che i rappresentanti rispondano effettivamente
ai loro desideri e facciano effettivamente i loro interessi?
Jane Mansbridge (2003) ha contribuito a rilanciare la riflessione sulla rappresentanza chiedendosi
quali condizioni possano assicurare che i rappresentanti davvero cerchino di rappresentare le
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preferenze degli elettori e non finiscano invece per occuparsi dei loro interessi. Mansbridge
distingue quattro tipi di rappresentanza. Anzitutto, la rappresentanza promissoria è quella
caratteristica del rapporto principale-agente: l’agente promette di agire al meglio delle proprie
capacità per promuovere gli interessi del principale, e questo potrà verificare se così è stato solo al
termine del rapporto di rappresentanza. Se l’agente non ha agito bene, l’unica punizione nelle mani
del principale è di non rinnovare il rapporto di rappresentanza e… di fidarsi delle promesse di
qualche altro agente. Vi è poi una rappresentanza anticipatoria che mette in maggiore luce un
aspetto che tuttavia esiste anche nella rappresentanza promissoria. L’agente, sapendo che la
punizione per un cattivo servizio sarà la mancata riconferma del mandato, cercherà di agire in modo
da conquistare di nuovo il favore degli elettori. Di quali elettori si tratti, però, non è definito: infatti
basta che un rappresentante accontenti degli elettori (e non necessariamente i suoi elettori originari)
perché venga riconfermato. Insomma, nemmeno in questo caso il principale ha la certezza che
l’agente agisca davvero a suo vantaggio. Il terzo tipo è chiamato rappresentanza giroscopica
perché, come un giroscopio che ruota attorno al proprio asse, il rappresentante trae da sé stesso le
idee e le visioni del mondo che finirà col rappresentare. All’elettore non rimane che osservare i
convincimenti del candidato e votarlo nel caso in cui queste idee e visioni siano anche le sue. Il
rappresentante è disconnesso da un partito o un elettorato e l’unica speranza di ottenere in questo
modo buona rappresentanza è di aver saputo scegliere bene il candidato. Vi è infine una
rappresentanza surrogata, cioè la rappresentanza offerta dal rappresentante di un altro distretto e
che quindi non si ha la possibilità di votare ma che in qualche modo porta avanti le sue idee e
visioni del mondo. Come si vede anche da questa carrellata, nessun tipo di rappresentanza
garantisce che il rappresentante agirà effettivamente in consonanza con le idee e gli interessi dei
rappresentati.
A scardinare completamente il concetto che il rapporto di rappresentanza sia in qualche modo un
“contratto” che si debba cercare di far valere è Michael Saward [2006] che fornisce ciò che
potremmo chiamare una versione “costruttivista” della rappresentanza, che infatti egli indica col
termine di “pretesa di rappresentanza” (representative claim). Secondo Saward il rapporto di
rappresentanza è molto più complesso e coinvolge potenzialmente ben cinque attori: un attore
(claim-maker) che indica un soggetto (subject) che “sta al posto di” un oggetto (object) che si
rapporta a un referente (referent) ed è offerto a un pubblico (audience). Descritto così, il rapporto di
rappresentanza sembra davvero complicato, ma degli esempi basteranno a far vedere come questa
caratterizzazione sia invece abbastanza plausibile. Anzitutto, il rapporto si semplifica se claimmaker e soggetto, da un lato, e oggetto e referente, dall’altro, coincidono. Normalmente un
candidato offre sé stesso (claim-maker e soggetto) come rappresentante degli interessi di un
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distretto elettorale (oggetto e referente) in un’assemblea territoriale (pubblico). Ma potrebbe anche
darsi che un intellettuale (claim-maker) indichi un’organizzazione non governativa (soggetto) come
rappresentante degli interessi dei rifugiati (oggetto) a dei funzionari governativi (referenti) in una
conferenza sull’immigrazione clandestina (pubblico). Oppure, con un esempio preso dallo stesso
Saward [2006: 5], il cantante Bono (claim-maker) indica sé stesso (soggetto) come il rappresentante
delle nazioni schiacciate dai debiti (oggetto) ai politici occidentali (pubblico). Insomma, nella
teorizzazione di Saward, si vede come la rappresentanza avviene in molti modi e anche al di fuori
delle istituzioni della democrazia rappresentativa e come vi possa essere, anche in questi contesti
più canonizzati, molta inventiva circa le varie componenti del rapporto di rappresentanza. Ad essere
rappresentati, infatti, possono essere oggetti non ancora esistenti (le generazioni future), inanimati
(l’ambiente), ipotetici (la maggioranza silenziosa), impersonali (il mercato), e così via. Il rapporto
di rappresentanza insomma è una costruzione sociale.
La nuova centralità dell’accountabilty
Una direzione in cui si è mossa la riflessione sulla rappresentanza, specie in epoca di allentati
rapporti fra base e leadership dei partiti politici, è quella dell’accountability. Avendo ormai
accettato il fatto che il legame fra rappresentato e rappresentante non si forgia ex ante ma si
consolida solo ex post, l’unica opportunità che l’elettore ha di recuperare la propria sovranità è di
“mandare a casa” il rappresentante. Affinché il rigetto (o la conferma) del rappresentante al secondo
mandato abbia senso, questo deve poter rendere conto del proprio operato (ed ovviamente
l’aspettativa di queste possibile punizione non avrà alcun effetto restrittivo se il rappresentante
aveva comunque deciso di rimanere in carica per un solo mandato oppure se si trova all’ultimo suo
mandato). L’accountability però è tanto più difficile da asseverare quanto più complesso è il
governo della società. Come abbiamo visto nel capitolo precedente [↑11], molti soggetti pubblici e
privati ormai concorrono al governo dell’economia e della società e, in ambito europeo, questi
soggetti possono anche trovarsi a livelli di governo diversi: subnazionale, nazionale e
sovranazionale. E’ pertanto diventato oggettivamente molto difficile anzitutto sapere esattamente
chi decide cosa e chi fa cosa a quale livello, ma è diventato ancora più difficile attribuire colpe e
meriti sia quando le cose vanno male sia quando esse vanno bene. Trasparenza e “leggibilità” delle
interazioni sono condizioni necessarie affinché si possano attribuire meriti e colpe, chiedere conto
dei risultati ottenuti e somministrare eventuali punizioni. Ciò è tanto più vero quanto più numerosi i
soggetti e i livelli di governo coinvolti.
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Nonostante questi evidenti problemi, la letteratura sulla legittimità democratica dell’Unione europea
si è concentrata soprattutto sul concetto di accountability. La definizione più utilizzata è quella di
Bovens [2007] che mostra molti aspetti paralleli e speculari alla nozione di rappresentanza offerta
da Saward. Per Bovens, infatti, l’accountability è “una relazione fra un attore e un pubblico, in base
al quale l’attore ha l’obbligo di spiegare e giustificare la propria condotta, il pubblico può fare delle
domande e dare un giudizio, e l’attore può dover subire delle conseguenze” [Bovens 2007: 450].
Come si vede anche in questo caso la relazione tradizionalmente abbastanza semplice fra principale
e agente si è frantumata in una molteplicità di relazioni che non necessariamente coinvolgono solo
due attori. Nella relazione principale-agente tradizionale – nella relazione rappresentatorappresentante – a chiedere conto dell’azione dell’agente è il principale che funge anche da
pubblico. Nella relazione delineata da Bovens, invece, a chiedere conto può non essere il
rappresentato ma un comitato parlamentare o un giudice o dei colleghi. Il pubblico può essere
certamente l’elettorato, ma anche la stampa o l’opinione pubblica internazionale. L’obbligo a
fornire spiegazioni e giustificazioni può essere formale e codificato oppure essere una pratica
consolidata, una questione di convenienza o un’obbligazione morale. Le sanzioni possono essere
solo morali oppure anche pecuniarie o fisiche. Insomma, così come il rapporto di rappresentanza è
molto più complesso e variegato di come lo abbiamo forse tradizionalmente pensato, così
l’accountability può assumere modalità anche molto diverse fra loro, ma non per questo meno
efficaci. Limitarsi a considerare il rapporto di rappresentanza e di accountability come due facce di
uno stesso rapporto diretto fra rappresentato e rappresentante è fuorviante e non riuscirebbe
certamente a dare conto di questi fenomeni in contesti istituzionalmente complessi come l’Unione
europea.
Tolleranza, giustificazione, non-dominio
Concludiamo questa carrellata sulla rappresentanza ricordando ancora una volta che l’ambito in cui
sempre più frequentemente vengono prese decisioni importanti per la nostra esistenza è quello
europeo. La teoria politica si è interrogata sulle basi della legittimità dell’Unione europea e, non
potendo secondo alcuni applicare ad essa i criteri normalmente utilizzati per valutare la legittimità
democratica degli stati nazionali, è andata alla ricerca di altri criteri. Mancano per l’applicazione
all’Unione europea del criterio della legittimità democratica alcune condizioni. Anzitutto,
l’architettura istituzionale dell’Unione europea non è paragonabile a quella di alcuno degli stati
membri. L’unione manca di un governo responsabile di fronte a un parlamento che lo esprime, e
questo non viene quindi eletto al fine di formare un governo. La catena diretta della delega – che in
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uno stato nazionale va dai cittadini al parlamento al governo – è quindi spezzata e “riannodata” in
qualche modo tramite la delega indiretta dai cittadini degli stati membri ai propri governanti che
concorrono, nel Consiglio, col Parlamento europeo a passare le leggi comunitarie. Come è spezzata
la catena della delega, così è spezzata la catena dell’accountability: non è infatti possibile attribuire
in maniera univoca a nessun agente (i rappresentanti e i funzionari nazionali) le decisioni politiche
prese a livello comunitario e molti agenti non sono stati scelti dai principali (i cittadini).
Nonostante, come si è visto, è ancora questa la strada più battuta dalla maggior parte degli studiosi
di Unione europea, altri studiosi si stanno interrogando se la base della legittimità dell’Unione non
debba essere rinvenuta altrove.
Tre concetti sono stati avanzati come alternative a quello di legittimità democratica. Il primo è il
concetto di tolleranza. L’unione europea e le decisioni che da essa emanano non dovrebbero essere
giudicate in base a quanto da vicino riflettono le preferenze di questi o quei cittadini sovrani, ma se
consentono a tutti i cittadini europei di ritrovarsi in esse. Come la chiave per la creazione del
mercato unico non è l’armonizzazione ma il riconoscimento reciproco, così la chiave per la
legittimità delle decisioni dell’Unione non è la rispondenza perfetta alle preferenze di questo o quel
demos nazionale – o del tuttora inesistente demos europeo – ma la compatibilità con le preferenze
di tutti i demoi nazionali [Nicolaidis 2004]. Il segreto starebbe quindi nell’ingaggiare “dialoghi
costituzionali” fra concezioni della democrazia anche piuttosto diverse fra di loro e trovare ambiti di
compatibilità [Weiler 1999]. Il secondo concetto che potrebbe sostituire quello di democrazia è
quello di giustizia [Forst 2012]. La libertà e l’uguaglianza dei cittadini che sono alla base della
democrazia possono essere interpretati anche come diritto a richiedere giustificazioni sia per le
decisioni prese (che eventualmente limitino la libertà dei cittadini europei) che per quelle non prese
(che eventualmente non aumentino la libertà dei cittadini europei). I cittadini europei potrebbero
ritenere legittime tutte quelle decisioni che, seppure non riflettono le loro preferenze, ciononostante
possono essere giustificate in modo da essere accettate [Neyer 2012].
Infine, il concetto di non-dominio che in realtà sussume entrambi i precedenti [Bohman 2007].
Democrazia è partecipare alle decisioni che determinano il proprio destino, quindi è assenza di
imperio e di dominio. I cittadini dell’Unione europea devono non solo applicare questi criteri alle
decisioni prese all’interno dei propri confini nazionali, ma anche alle decisioni che hanno ricadute
sui cittadini di altri stati membri. Anch’essi infatti hanno diritto a non essere dominati da decisioni
prese senza il loro concorso. Il concetto di non-dominio, quindi, invita ad estendere la
considerazione di ricadute negative e positive al di fuori dei propri confini e almeno all’interno dei
confini di tutta l’Unione. Nei confronti dei cittadini degli altri stati membri, anzitutto, ma più in
generale nei confronti dei cittadini degli stati terzi esistono doveri di tolleranza e giustificazione ma
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ancor più di non dominio. Questo significa almeno prendere in considerazione le obiezioni che i
cittadini di altri stati membri potrebbero sollevare nei confronti di decisionali nazionali e prepararsi
a giustificare eventualmente le decisioni prese, se non addirittura prendere queste decisioni con
loro. Anche in questo caso i criteri più ristretti di delega e accountability non si applicano, ma si
raggiunge forse un livello più alto di democrazia.
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Figura 1. La pressione fiscale in Italia. 1980-2012
Fonte: ISTAT
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2010
2008
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2004
2002
2000
1994
1992
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1988
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1980
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