volti e maschere di un esteta armato in formato

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volti e maschere di un esteta armato in formato
MALAPARTE
Arcitaliano nel mondo
6 novembre 2010 – 30 gennaio 2011
Dal catalogo della mostra
MALAPARTE : VOLTI E MASCHERE DI UN ESTETA
ARMATO di Maurizio Serra
Vi sono molte ragioni, tutte legittime, per non amare Malaparte uomo, scrittore e personaggio. Ma
nessuna, a nostro avviso, per negargli un posto di primo piano tra gli interpreti più singolari di un
Ventesimo secolo le cui inquietudini si prolungano nel nostro. Questo « maledetto toscano » di respiro
autenticamente internazionale (e non solo europeo, ché l’Europa dopo il 1945 gli andava stretta)
rappresenta infatti un paradigma non eludibile dell’intellettuale contemporaneo, un modello che molti
dopo di lui hanno cercato (e cercano) di imitare senza riuscire ad uguagliare il suo stile, la sua algida
presenza, e naturalmente il suo talento. E’ giunto ormai il momento, a oltre centodieci anni dalla nascita e
più di cinquanta dalla morte, di sgombrare il campo dagli stereotipi che, complice in buona misura
l’interessato, hanno a lungo ostacolato la comprensione della sua opera e della sua figura. Mitomane,
esibizionista, affabulatore finché si vuole, Malaparte non è stato il voltagabbana da manuale che
abbandona una dopo l’altra le cause perse per correre incontro ai vincitori, quali che essi siano, con
noncurante disinvoltura. Personalità irta di contraddizioni e di esigenze spesso in conflitto tra loro, è
stato guidato, o dominato, in ogni scelta più dal suo temperamento che dagli eventi. La sua coerenza
interna può non piacere alle anime belle, ma è indiscutibile, come lo è il suo coraggio. Se da camaleonte
ha saputo adattarsi a tutte le circostanze, la vocazione di esteta armato è riuscita a preservarlo dalle
complicità peggiori, dalle scelte più caduche e ha finito per innalzarlo sopra le stesse mode che aveva
contribuito ad inventare. E’ stato essenzialmente un inviato speciale nella terribilità della storia, capace di
passare senza muovere un muscolo del volto marmoreo dai salotti alle trincee, dalle rivoluzioni alle
conferenze diplomatiche, dai campi da golf a quelli di sterminio, da Mussolini a Hitler, da Stalin a Mao,
dagli anarchici al Papa. Un solitario “eroe (o antieroe) del nostro tempo”, che ha respirato l’aria mefitica
delle ideologie totalitarie senza esserne intossicato e ha cercato di riproporre una visione dell’Uomo
moderno ricalcata dai tragici greci che tanto amava, impasto di grandezza e cinismo, di ideali e servitù –
in cui, da buon Narciso, rispecchiava se stesso.
Questa bella iniziativa della Fondazione Biblioteca di Via Senato, presieduta dal sen.Marcello
Dell’Utri, che ha in programma anche il riordino dello sterminato archivio dello scrittore pratese, ci
permette di seguire le tappe salienti della formazione di Malaparte e della sua attività non solo letteraria,
ma politica, giornalistica, teatrale, cinematografica, operistica, fotografica, con una straordinaria
contaminazione di generi – compresi quelli minori della rivista e del varietà – che ne fa senz’altro, dopo
d’Annunzio e accanto a Savinio il più rinascimentale fra gli scrittori italiani, e forse non solo italiani, del
Novecento. Grazie alla dedizione impareggiabile di Matteo Noja e dei suoi collaboratori, il visitatore può
così ripercorrere a partire da documenti prevalentemente originali e inediti l’intero arco di un’esistenza
realmente inimitabile ma che non fu, come capita ai dilettanti sia pure di genio, il capolavoro di Malaparte.
Fu semmai il complemento o il serbatoio di una produzione molto complessa non solo per la vastità ma
per il ricambio incessante tra vita e opera, la prima essendo in buona misura il brogliaccio o la stesura
preliminare della seconda. “Posso scrivere solo delle cose che ho viste e vissute”, dichiarerà in
un’intervista del 1949: certo, ma a modo suo, senza saper distinguere il più delle volte fra realtà e
finzione. La rappresentazione contava per lui assai più del risultato e questo spiega la sua costitutiva frigidità
umana, la solitudine del dandy, ma anche il suo disinteresse e la sua incapacità di procedere fino al
raggiungimento dello scopo prefisso con la tenacia di ogni vero uomo di potere : presa una direzione,
gliene si aprivano immediatamente davanti altre dieci e non voleva né poteva rinunciare ad alcuna. Non è
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un caso né (del tutto) una posa che alla compagnia dei suoi simili preferisse la fedeltà degli animali, specie
gli amatissimi cani.
Le quattro sezioni in cui si articola la mostra hanno un ordine non solo cronologico ma tematico e ci
riportano alla primazia della natura con i suoi elementi costitutivi (il fuoco, l’aria, la terra, l’acqua) in uno
scrittore pur così intriso, si può dire ad ogni momento e ad ogni pagina, di senso storico e impegno civile.
Ma dalla storia e dalla politica, vissute con lo stesso trasporto della letteratura se pur con ben minor
successo, Malaparte è sempre entrato e uscito a piacimento, prendendone quel che gli serviva e
gettandolo quando non gli serviva più, come i “capitani di sventura” della Controriforma, eletti a modello
dei suoi vent’anni, prelevavano una cantiniera nella taverna di un villaggio per abbandonarla poi in quella
successiva. La storia, di cui contestava qualsiasi valore oggettivo, l’ha interessato solo nella misura in cui
poteva tingerla come una stoffa, secondo le innovazioni tecniche introdotte nelle filature pratesi da suo
padre, eccentrico inventore venuto dalla Sassonia. La storia, ha scritto a più riprese, è la morte, ma questa
equivalenza non gli ispira alcuna attrazione morbosa, alcun cupio dissolvi; occorre qui affrancarsi da un
altro luogo comune, perché Malaparte è stato uno degli autori meno decadenti e più vitalistici delle patrie
lettere. Il mestiere in lui prevaleva infallibilmente sull’emozione. Anche negli effetti più plateali, nelle
descrizioni più violente, egli rimane impassibile di fronte a uno specchio che riflette il mondo circostante
e vi è sempre il sospetto che si diverta e goda alle reazioni inorridite dei lettori. Non per nulla dirà di
Kaputt, il suo capolavoro, che “dentro non c’è altro che soldati, cadaveri, cani, girasoli, cavalli e nuvole”.
Sono, ancora una volta, gli elementi che lo interessano nella loro scomposizione e disaggregazione
primordiale, come in un quadro di Francis Bacon, il pittore coevo che gli assomiglia di più in quella fase
centrale della sua opera. Ma guai a farsi catturare da quelle scene di tortura, a crederci sul serio e fino in
fondo…
Da qui nasce, ci sembra, l’errore di rimproverargli una flessibilità amorale, un fiuto innato per sapersi
barcamenare nelle situazioni più scabrose, laddove prevale invece in lui una sorta d’indifferenza minerale
di fronte alle passioni che dominano gli uomini e le folle. La sua traiettoria apparentemente ondivaga
diventa così di una razionalità impeccabile e ci obbliga a rendere omaggio allo stoicismo, la parola non
sembra eccessiva, che egli ha mostrato nel coltivare il suo personaggio fin sul letto di morte. Malaparte è
stato un condottiero senza truppe, un eterno bastian contrario, un uomo di minoranza permanentemente
alla ricerca del consenso e permanentemente frustrato di non trovarne abbastanza. Come Truman
Capote, è sempre pronto a giocarsi un amico per una battuta, ma anche a rispondere alla battuta altrui
con un’ingiuria o una sfida a duello (ne collezionerà una ventina, e nessuno per motivi sentimentali). Per
tutta la vita, lui che pur sapeva essere un fine diplomatico quando voleva, è stato dominato dal demone
dell’esibizione e della polemica. Non stupisce che nessuna delle sue passate famiglie politiche, di destra
come di sinistra, gli abbia reso l’onore delle armi e lo annoveri oggi nel salotto buono dei propri
precursori.
Il primo tempo è quello del fuoco della passione e degli ideali. Precoce in tutto, il
quattordicenne Curzio Suckert (quasi mai la polizia fascista, che gli ha dedicato decine di rapporti,
diligentemente rubricati all’Archivio Centrale dello Stato, riuscirà a ortografarne correttamente il
cognome: è forse anche per questo che Mussolini gli suggerirà nel 1926 di scegliersi uno pseudonimo
“italico”?) ha già trovato tra i banchi dell’esclusivo liceo Cicognini e nelle agitazioni della Prato operaia e
socialista, l’ideale a cui rimarrà sempre legato: repubblicano e antiborghese, soprattutto anticonservatore
e, malgrado la “conversione” finale, anticlericale. L’interventismo è il passo successivo, che lo condurrà
nel 1914 a fuggire di casa per arruolarsi come volontario garibaldino in Francia. Anche se è dubbio che
abbia avuto allora il battesimo del fuoco, rischiava comunque la fucilazione, se catturato dai tedeschi, in
quanto suddito del Kaiser non ancora naturalizzato italiano. Dal 1915 al 1918 farà in prima linea tutta la
spaventosa “guerra bianca” sulle Dolomiti, da soldato poi da ufficiale, e nel giugno-luglio del 1918
ritornerà sul fronte francese a Bligny, dove “i meravigliosi pazzi contadini abruzzesi e umbri, toscani e
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calabresi” della Brigata delle Alpi, rimasti senza viveri né munizioni, “non potendo fare altro, fecero il
miracolo”, al prezzo di tre quarti degli effettivi, bloccando per due giorni e due notti con ripetuti assalti
col lanciafiamme e l’arma bianca l’offensiva delle Sturmtruppen di von Mudra sulle Argonne. Chissà se un
novello Borges ci proporrà l’incontro, nelle mischie delle tempeste d’acciaio, fra Curzio e il coetaneo
fante scelto Ernst Jünger. E’ stata sicuramente la pagina più autentica della sua vita, forse perché non era
ancora Malaparte ma un anonimo combattente; non per nulla ne tornerà costante il refrain o la nostalgia in
tutta la sua opera. E sono i polmoni offesi dai gas nemici che lo porteranno poi, non ancora sessantenne,
alla morte.
Nel clima incerto del dopoguerra, rientrato in Italia dopo una parentesi diplomatica alla conferenza
della pace a Parigi e alla legazione a Varsavia, esita, come tanti giovani dotati e impazienti, nel trovare la
propria strada e le prova un po’ tutte. Per darsi un tono nella bohème romana inventa un proprio
effimero movimento, “l’oceanismo”, inizia a coltivare l’immagine del bel tenebroso anche perché, già alto
e snello di suo, deve spesso saltare i pasti e pubblica con un titolo provocatorio un primo e a tratti
bellissimo libro, Viva Caporetto!, che gli frutta anche il primo dei suoi tanti successi di scandalo e lo
obbliga a lasciare l’esercito e l’amministrazione. Il paradosso è che, come spesso gli accadrà, il testo
afferma esattamente l’opposto di quello che proclama: infatti, se si scaglia contro l’insipienza degli alti
comandi, Curzio non mostra alcuna simpatia per la massa cieca degli sbandati e dei fuggiaschi, incapaci di
portare avanti sino in fondo la loro protesta e d’impadronirsi del potere. Per farlo, occorre che la rivolta
sia guidata da un nucleo di capi freddi e determinati, gli ufficiali e i sottufficiali di truppa che hanno
salvato il paese dall’urto nemico, prima e dopo Caporetto. A questo punto, e siamo già entrati nella
prospettiva che porterà a Tecnica del colpo di stato dieci anni più tardi, l’opzione di Curzio non può essere
che il bolscevismo o il fascismo: e poiché il suo fondo è nazionalista - e a nostro avviso lo sarà sempre,
l’Italia, “mamma marcia”, rimanendo per lui la misura di ogni cosa nel bene e nel male - sceglie il
secondo.
Arriviamo così alla seconda tappa della mostra: il Moderno che avanza. E il moderno che
nell’Europa degli anni Venti si chiama in letteratura Tzara, Breton, Joyce, Hemingway, Eliot, Pound,
Ehrenburg, Morand, Brecht, Toller, Dos Passos ecc. che ritrova a Parigi la sua capitale ufficiale e si
traveste in Italia da rivoluzione fascista, divorando e poi fagocitando le poche ma autentiche esperienze
avanguardiste d’anteguerra, dai futuristi ai vociani. Curzio però non esita: non vuole restare fuori dal
corso degli eventi, sin da allora la scrittura intesa come torre d’avorio o ricerca solitaria non ha il minimo
fascino ai suoi occhi. Entra nelle file del sindacalismo fascista e si lancia nella battaglia d’idee in appoggio
allo squadrismo, animando una delle riviste più radicali del movimento, “La Conquista dello Stato”. Ma
non parteciperà alla marcia su Roma, cosa che gli verrà rimproverata dai puri e duri del partito,
inducendolo a sostenere il contrario nella Tecnica salvo ristabilire la verità nei memoriali difensivi del
1945-46: un esempio delle tante contraffazioni, incastrate una dentro l’altra come bamboline russe, che
rendono tuttora così scivoloso il discorso su Malaparte e il fascismo. La realtà è per una volta più
semplice della finzione e la documentazione oggi disponibile permette di ricostruirla in tutti i suoi
passaggi: come molti intellettuali (e non) del suo ceto e della sua epoca, egli è stato indiscutibilmente,
genuinamente fascista sino all’inizio degli anni Trenta. Ma non si è dimesso dal Partito nel 1931, come ha
poi preteso, e non è stato arrestato e mandato al confino nel 1933-34 a Lipari (prima di essere trasferito a
Ischia poi a Forte dei Marmi, infine graziato) per attività antifasciste, bensì per aver calunniato il suo ex
protettore Italo Balbo, la cui popolarità era ormai una spina nel fianco del duce. Lo fece nel tentativo di
acquisire meriti agli occhi di Mussolini, con quel tipo di spregiudicata operazione auto-promozionale che
gli era riuscita alcuni anni prima al momento del delitto Matteotti. Certo, frondista era da sempre, per
carattere ma anche per convinzione: lo dimostrò sin dal 1929, precipitandosi, da direttore de “La
Stampa” fresco di nomina, a descrivere la realtà sovietica in una serie di magnifiche corrispondenze che
indignarono i lettori benpensanti. E non vi è dubbio che durante il soggiorno (non esilio) francese del
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1931-33, egli abbia dato motivo di alimentare, con atteggiamenti provocatori o semplicemente incauti, le
voci complottiste che gli informatori dell’Ovra spargevano sul suo conto. Ma il duce, che conosceva i
suoi uomini, non ne tenne alcun conto, evitandogli la comparizione e la condanna davanti al Tribunale
speciale. La lezione che volle dargli era in sostanza un ammonimento prima di riprenderlo a bordo, “che
beva un po’ della sua medicina” come disse al direttore del “Corriere della Sera”, Borelli, venuto a
implorare la causa dell’amico. In tal modo gli fece un grande regalo, permettendo al Malaparte post-1943
di inventarsi dei titoli di antifascismo retrodatati, mentre egli restò nell’orbita del sistema fino al 25 luglio,
firmando pagine non proprio esemplari e presto (da lui) dimenticate sulla guerra di Spagna e l’attacco alla
Grecia. Chiese anche a più riprese di riavere la tessera del Pnf, che non gli fu restituita, sempre su ordine
di Mussolini, onde non consentirgli di sposare Virginia Agnelli e diventare “il padrone della Fiat”:
ennesimo piano campato in aria, in cui riuscì solo a farsi, come se già non ne avesse già abbastanza, altri
potenti nemici. Ma il mancato ritorno nei ranghi del partito non gli impedì, a cavallo degli anni TrentaQuaranta, di ridiventare, dopo la direzione della “Stampa” nel 1929-31, una delle firme più influenti (e
meglio retribuite) del giornalismo italiano, e anche questo lo dovette soprattutto, oltre che al proprio
talento, alla benevolenza dell’inquilino di Palazzo Venezia.
Si dirà che la duplicità era imposta dagli eventi e che, pagando quell’obolo, Malaparte riusciva
contemporaneamente a pubblicare, se non tutti, molti suoi libri “veri”, a far circolare in Italia, tramite una
rivista del livello di “Prospettive”, le grandi correnti spirituali ormai condannate a fermarsi alle nostre
frontiere, dalla psicanalisi al surrealismo, e a dare a molti giovani, specie quelli di provincia in cui più si
riconosceva, l’opportunità di venire alla ribalta. Tutto vero. Com’è vero che dal 1941 in poi le sue
corrispondenze dalla Russia e dalla Finlandia acquistano un tono sempre più ostile all’Asse, anche se non
fu arrestato dalla Gestapo ed espulso dal fronte orientale come ha poi preteso. Basterebbero queste
autentiche benemerenze – senza dimenticare che non si è mai prestato alle purtroppo frequenti delazioni
tra intellettuali e non ha mai firmato una riga di propaganda antisemitica - a dimostrare che, sull’arco del
ventennio e sul bilancio di un’intera generazione, Malaparte aveva meno da farsi perdonare di altri suoi
colleghi, più abili di lui a riciclarsi e riproporsi nel dopoguerra. Ma è stato lui stesso, con i suoi
travestimenti tanto incessanti quanto superflui, con la sua psicologia contraddittoria fino
all’autolesionismo (com’è proprio dei grandi Narcisi) ad alimentare le voci peggiori, negando contro ogni
evidenza tutto quel che il suo amato e odiato “padre padrone” aveva fatto per lui.
Nella biografia di Malaparte, temperamento anaffettivo per il quale gli uomini contavano poco e
solo nel bisogno o nell’azione, e le donne ancor meno, due soli personaggi si stagliano con la
drammaticità degli interlocutori mancati: Gobetti e Mussolini. Il primo, fratello separato non indurito
dalla guerra, rappresenta la cultura disordinata ma onnivora, il radicalismo angelico di pensiero, la
preferenza del paradosso sullo sberleffo, il rigetto dei potenti e del percorso obbligato e deteriore della
storia italiana vista come insanabile lotta di fazioni: tutto ciò insomma che egli vorrebbe possedere e non
possiede. Il motivo per cui l’amore non travalica nell’odio (Malaparte poteva essere feroce nelle sue
invidie) è perché Gobetti ha perso, e lui no. Il secondo è il demiurgo, il padre autorevole che non ha
avuto, il grande politico realista della stoffa dei Bonaparte e dei Lenin, che diventerà più tardi il “grande
imbecille” perché Malaparte non gli perdonerà mai di aver fallito, l’uomo forte che non si è rivelato tale
fino in fondo e che, soprattutto, ha commesso l’errore imperdonabile ai suoi occhi di non prenderlo sul
serio. Malaparte, che sogna invano di sedere alla destra del Capo, come Malraux poi con de Gaulle, non
ha mai potuto accettare che il duce gli impartisse carezze e rimbrotti, (molte) carote e (poco) bastone,
senza mai elevarlo a suo deuteragonista, trattandolo sempre come il maestro tratta un allievo dotato ma
discolo: si veda quel che il duce ne dice al de Begnac, i cui Taccuini mussoliniani ci paiono su questo punto
affidabili. Dalle carte della Segreteria particolare del duce e del Ministero della Cultura Popolare emerge
che il vero protettore di Malaparte, ancora dopo il confino e fino alla caduta del regime, non fu Ciano, di
cui lo scrittore si limitò a sfruttare l’ammirazione sincera e non ricambiata, bensì, ancora una volta
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Mussolini, che dietro le quinte continuò ad autorizzare i finanziamenti, non enormi, ma puntuali e
indispensabili, sia a “Prospettive” che a Malaparte in persona, e questo letteralmente fino alla vigilia del
25 luglio. E’ significativo che l’unico momento di pietas che il dittatore sconfitto gli ispiri è quando lo
vede (in realtà non lo vide) appeso per i piedi a Piazzale Loreto e gli appare come una delle povere bestie
che, dai muli fracassati nei burroni alpini del Sole è cieco ai vitelli maciullati nel Cristo proibito, sole suscitano
in lui un trasporto sincero di cristiana commiserazione. Siamo così entrati nel terzo tempo, quello
della guerra civile che distrugge la civiltà.
Dopo di allora, nella democrazia italiana faticosamente risorta, Malaparte resterà attratto, e non solo
per opportunismo, dai politici che danno il senso della forza, o quantomeno dell’energia: Togliatti, De
Gasperi, Fanfani, perfino Tambroni. Ma ciò non basterà a ridargli fiducia nella possibilità del paese di
mettere fine alle sue lotte intestine, alla contrapposizione tra i guelfi e ghibellini redivivi, “i due cappelli di
paglia d’Italia”, che Guareschi illustrerà allora, con una genialità popolare che i soloni della cultura non gli
hanno mai riconosciuto, nei personaggi di Don Camillo e Peppone. Il morbo che dilaga tra i vincitori e i
vinti assimila inesorabilmente i primi ai secondi: si sa che Malaparte avrebbe voluto intitolare La Peste
quella che diventerà La Pelle, se Camus non fosse arrivato prima di lui. La procedura di epurazione, che si
trascina per un paio d’anni e si concluderà a suo favore dopo un probabile intervento dell’ex guardasigilli
Togliatti, gli ispira nel Giornale segreto pagine amare contro il “fascismo dell’antifascismo e i fascisti senza
camicia nera”. Dopo di che, sceglie di “esiliarsi” nuovamente (ed è un nuovo uso improprio
dell’espressione) a Parigi, da cui medita di ritornare nella penisola onusto di gloria letteraria e mondana,
come d’Annunzio nel 1915, senza dimenticare il tarlo della politica che continua a roderlo. La delusione
non potrebbe essere più cocente: malgrado il successo di Kaputt, del Volga nasce in Europa e di La Pelle, i
francesi hanno la memoria lunga e non stentano a ricordare l’atteggiamento ambiguo da lui assunto nel
giugno 1940, al momento della dichiarazione di guerra. Confortato dall’amicizia di pochi grandi vecchi
come Cocteau e Cendrars e dei giovani “ussari” riuniti intorno alla Table Ronde, nostalgici dell’impero e
difensori a spada tratta dell’Algeria francese, che condividono il suo romanticismo orfano della nazione,
Malaparte è però tagliato fuori dalla voga dell’esistenzialismo e della letteratura impegnata: Sartre, Camus,
Aragon, Eluard, Malraux, le nuove stelle del firmamento parigino, lo ignorano a bella posta. Decide allora
di sfidarli sul loro terreno, mettendo in scena due commedie scritte direttamente in francese. Tutto quel
che ottiene è di rischiare l’ennesimo duello con un critico che paragona il pubblico che lascia il teatro per
protesta, ai fuggiaschi dell’esodo del 1940, “mitragliati sulle strade di Francia dall’aviazione fascista degli
amici di Malaparte” : leggenda che purtroppo sopravvive tutt’oggi Oltralpe, mentre, a parte ogni
considerazione umanitaria, la caccia italiana non aveva allora le possibilità tecniche di condurre
operazioni così in profondità. Ma sono soprattutto le rivelazioni particolareggiate sui suoi trascorsi
fascisti, che filtrano dagli ambienti degli ex fuoriusciti italiani, a convincere Malaparte a fare i bagagli
prima del previsto per ritrovare un’Italia dove vivrà l’ultimo decennio della sua vita sostanzialmente da
esule in patria, ma anche da figlio spurio di una “vecchia Europa spacciata”, in cui non crede più. Appena
può, ricomincia a viaggiare lontano dal vecchio continente diviso dalla cortina di ferro, vorrebbe tornare
in Russia, ma i comunisti, malgrado l’amicizia di Togliatti, che senza dar nell’occhio continua a investire
su di lui, gli rimangono ostili. Si consola con il Cile e l’Uruguay e annuncia che attraverserà gli Stati Uniti
pedalando, con la sponsorizzazione della Coca Cola, per raggiungere Grace Kelly (ancora nubile) a
Hollywood e offrirle un’ampolla dell’acqua purissima di Capri, trovando anche qualcuno che ci crede e gli
regala una bicicletta di lusso. Il suo protagonismo, più smodato che mai, sembra ormai girare a vuoto:
non ha più a disposizione una tribuna, un grande giornale, una grande casa editrice (ha litigato con tutte),
la radio e la nascente televisione lo ignorano, ai premi letterari ha dichiarato guerra, dopo che La Pelle ha
perso lo Strega nel 1950 contro La Bella estate di Pavese, e naturalmente rompe con la nuova casta
culturale di cui coglie e denuncia molti vizi che vi albergano tuttora: lo snobismo, l’arrivismo, il
conformismo ideologico e, last but not least, la permissività dei costumi. La sua speranza è il cinema, e gira
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su e giù per via Veneto in una grande decappottabile americana, da precursore della dolce vita: ma, dopo
Il Cristo proibito, che oggi i cinefili riscoprono quale opera d’indubbio anche se discontinuo valore, non
riesce più a raccogliere i soldi per i mille soggetti o copioni che sforna a getto continuo. Ritenta il teatro a
Venezia e Milano con Anche le donne hanno perso la guerra e un altro critico spiritoso scrive che ha perso lui
una buona occasione di tacere; si lancia nella satira di costume con una rivista di varietà, Sexophone,
esibendosi nei luoghi di villeggiatura nel ruolo di fine dicitore tra ballerine in boa di struzzo, raccogliendo
più fischi che incassi. Fa il giurato ai concorsi di bellezza in Versilia, racconta a puntate per un settimanale
francese il suicidio di un’attricetta americana che ha avuto la pessima idea di innamorarsi di lui, firma sulla
rivista d una compagnia petrolifera l’appello per un campionato automobilistico a Capri, proprio lui che
vi ha ideato e costruito una delle ville più belle e inaccessibili; e sembra preferire le classifiche delle riviste
di moda, che lo pongono infallibilmente in testa agli uomini più eleganti del belpaese, a quelle librarie.
Molti, amici e nemici, si chiedono se queste comparsate non siano la conseguenza di un calo di creatività:
il Malaparte di quegli anni pubblica poco, un solo successo di pubblico e di genere minore, i bozzetti di
Maledetti toscani. Eppure – ennesimo paradosso – i suoi cassetti rigurgitano di works in progress, almeno due
dei quali, pur rimasti incompleti, sono ai suoi livelli migliori: Mamma marcia e Il ballo del Cremlino. Forse
allora, in anticipo sui nostri tempi, ha capito che in un’epoca di frenetica contaminazione come quella che
s’annuncia alle porte, la letteratura da sola non basta più né a fare, né a mantenere la fama di uno
scrittore?
L’unica impresa che gli riesca di portare avanti con una continuità interrotta solo dalla morte lo
riporta a un suo amore degli inizi, il giornalismo. Il “Tempo” settimanale (da non confondere con il
quotidiano romano “Il Tempo”, al quale pure collabora) gli offre una rubrica intitolata Battibecco in cui
sfoga il proprio estro e i propri umori, sui temi più diversi, da precursore di quello sport nazionale che è
la tuttologia: si va da un incontro con Churchill (che non ha mai incontrato) al ritratto della dama bianca
di Fausto Coppi che divide allora l’Italia, dalla campagna per ristrutturare l’ospedale di Prato all’ordinanza
“anti-baci” del pretore di Torino. Alcune di queste pagine sono ancora graffianti, nel loro misto di rabbia
e vanità, e annunciano il Pasolini degli Scritti corsari, come quella in cui Gesù bambino si mette a fustigare i
mercanti del mercimonio natalizio: ed era il primo, modesto consumismo italiano degli anni del boom,
cosa direbbe oggi? Come Pasolini, anche se per motivi opposti, o come l’amico-nemico Longanesi,
Malaparte mitizza un’Italia pre-borghese, povera e sana, strapaesana e aristocratico-proletaria, in cui una
parte di lui si riconosce realmente, anche se tutto il resto della sua vita la contraddice.
Contemporaneamente, aizza l’altro sport nazionale, quello della protesta indiscriminata contro i
“potenti”, in una sezione intitolata Scrivetemi e avrete giustizia, dove strizza l’occhio al qualunquismo. Ma
l’obiettivo, al di là della pensione della vecchietta o dell’impiego per l’ex carcerato, è in realtà un altro:
Malaparte non ha perso la speranza di tornare in politica e questo cocktail populista lo inebria fino a
fargli credere che le lettere di plauso si tradurranno in voti. Il risultato è l’ultima solenne bocciatura,
quando si presenta alle elezioni a Prato nelle file del PRI, l’unico partito che l’abbia messo in lista : e litiga
subito, all’indomani della sconfitta, con i dirigenti perché non gli hanno dato un posto sicuro…
Si arriva così all’acqua della purificazione, ultima sezione della mostra, con il viaggio in Russia e
in Cina che può finalmente intraprendere nell’ultimo anno della sua vita, mentre quello negli Stati Uniti,
sempre rinviato, non avrà più luogo. La premessa è il riavvicinamento a Malaparte di alcuni intellettuali
comunisti, come Davide Lajolo e Maria Antonietta Macciocchi, giovanissima direttrice di “Vie Nuove”,
che non condividono più la messa al bando dello scrittore decretata dai quadri più retrivi del PCI e
trovano una sponda discreta ma convinta nel solito Togliatti. Ottenuti i visti, Malaparte si mette in
viaggio per Mosca, via la Svezia, nel fatidico ottobre 1956, quando scoppia la rivoluzione di Budapest, su
cui non scriverà un rigo, pur parlando vagamente degli “errori di Stalin”, ormai riconosciuti dagli stessi
sovietici. L’Urss, nonostante la lunga attesa, lo interessa poco e, passando per la Siberia, ha fretta di
arrivare alla meta reale del suo viaggio: la Cina ancora misteriosa di Mao. Ma è già un uomo malato,
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molto più di quanto non lasci presagire l’affaticamento che si porta dietro fin dalla partenza da Roma.
Del popolo cinese ama tutto, la gentilezza, la bontà, la toccante semplicità di modi, al punto che sembra
ignorare la ferocia della dittatura di Mao, il quale si accinge a lanciare il disastroso piano
d’industrializzazione del “grande balzo in avanti”, che provocherà decine di milioni di vittime della
carestia. L’accusa non è forse del tutto fondata, perché Malaparte, com’era suo solito, avrebbe
probabilmente rivisto in senso più distaccato le sue cronache, una volta tornato in patria, ma ciò non gli
fu possibile. Fa appena in tempo a essere ricevuto da Mao, al quale avrebbe chiesto di liberare i monaci e
le suore detenuti nelle carceri comuniste, ottenendone assicurazioni: ma anche qui il condizionale è
d’obbligo perché disponiamo della sua sola versione dell’incontro. Dopo di che, deve essere ricoverato
d’urgenza a milleduecento chilometri da Pechino. La diagnosi dei solerti medici cinesi, che lo circondano
con i loro macchinari rudimentali e le loro cure antiquate, è proprio quella giusta: carcinoma dei bronchi.
Malaparte è spacciato e se ne avvede quasi subito. Le sue lettere ad amici e familiari non lasciano
dubbi al riguardo: l’uomo si sa, è, coraggioso e appartiene a una civiltà contadina, più forte della nostra,
per cui la morte è un fatto naturale. Del resto, anche l’agonia può servire alla spettacolarizzazione della
sua opera-vita. Non ha forse appena dichiarato ad un intervistatore francese che il giudizio che teme di
più è il silenzio? Nei lunghi mesi di degenza, prima in Cina poi in una clinica romana, riuscirà a mettere in
scena una straordinaria cerimonia degli addii, dove tutta la Roma che conta, politica e giornalistica,
mondana e artistica, sfila al suo capezzale, in quella che diventa nelle cronache dei rotocalchi la mitica
camera 32. Al di là della vicenda controversa della sua conversione, è lì che si gioca anche l’ultimo atto
della recita tra Don Camillo e Peppone, con Fanfani e Togliatti che si contendono le sue ultime volontà.
Chi vinca è difficile dirlo: malgrado un grande sfoggio di memoriali e confessioni, da una parte come
dall’altra, Malaparte si è portato il suo segreto nella tomba.
Nel centenario della nascita (1998) l’Italia gli ha dedicato un francobollo che accosta, con
un’intuizione rara nelle commemorazioni ufficiali, l’inizio e la fine della sua epopea. Si vede in primo
piano il viso sempre bello ma spettinato e divorato dal male dell’inquilino della stanza 32 e sullo sfondo i
reticolati e le trincee della grande guerra. Sintesi audace ma corretta. Aveva iniziato la sua vita adulta nel
combattimento e la terminò da inesausto combattente : quel che aveva dato – e ricevuto - di migliore.
Maurizio Serra
(Maurizio Serra, diplomatico e saggista, attualmente ambasciatore d’Italia all’UNESCO e docente di relazioni
internazionali al’Università LUISS Guido Carli-Roma, sta scrivendo un’ampia biografia di Malaparte che sarà
pubblicata nel 2011 a Parigi dall’editore Grasset. Il suo ultimo volume, Fratelli Separati. Drieu La Rochelle. Aragon.
Malraux ha ottenuto nell’edizione italiana (Settecolori) il Premio Acqui Storia 2008 e in quella francese (La Table
Ronde) il Prix du rayonnement dell’Académie française.)
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