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IL MARGINE
1 GENNAIO 2003
Marco Damilano
3 Italia 2003.
Oltre Berlusconi e i profeti di sventura
Fabio Pipinato
9 Non sparate all’arcobaleno
Paolo Marangon
13 I venti di guerra, l’Islam
e Charles de Foucauld
Bruno Betta
22 La memoria dell’offesa
Paolo Grigolli
30 Parti uguali tra disuguali.
Povertà, disuguaglianza e
politiche redistributive nell’Italia di oggi
(un commento al testo di Ermanno Gorrieri)
Alberto Lepori
36 Balducci, la Chiesa e la pace.
Un convegno a dieci anni dalla morte
Mentre andiamo in stampa...
Ormai sembra ineluttabile. O almeno così è come ce la vogliono far sentire. Questa assurda guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq. E questo pensiero opprimente, questo senso di
impotenza, suscita fondate preoccupazioni e apre scenari inquietanti. Su due piani. Il primo, quello pragmatico, concerne l’eventualità che la cosa sfugga di mano agli USA e che,
come tante “guerre lampo” del passato, si trasformi in un incendio incontrollabile. Questa consapevolezza della realtà storica giustifica la preoccupazione di quei tanti che non
riescono a nutrire una fede incondizionata nella capacità di Washington di prevedere calcolare e controllare tutto. Il secondo piano è invece quello dell’etica, del giudizio sul giusto e sull’ingiusto. Sotto questo profilo, ciò che inquieta profondamente tante persone è
assistere all’aggressione di un Paese tutto sommato piccolo e debole da parte della massima potenza del pianeta. Perché di questo in effetti si tratta, dato che i pretesti addotti
sono evidentemente sproporzionati all’azione che intendono giustificare. Per quanto in
mano a governanti “canaglia” l’Iraq è in una condizione ben lontana dal giustificare
un’aggressione. Il turbamento si fa tanto più profondo nel pensare che questo comportamento viene messo in atto proprio da quel Paese cui noi italiani ed europei siamo riconoscenti per aver reso concrete ed effettive quelle libertà individuali e collettive in cui
l’Occidente oggi comunemente si riconosce. A vederlo guidato da uomini così svincolati da considerazioni etiche ci si spalancano perciò davanti prospettive inquietanti.
La direzione si scusa con i lettori: rispetto a quanto annunciato sul n. 10/2002, in questo
numero non avete trovato né il testo di Paolo Zannini su carità e solidarietà in alcuni Padri
della Chiesa, né quello di Michele Nicoletti sul libro di Paolo Giuntella; entrambi gli
articoli saranno però nel prossimo numero.
IL MARGINE
mensile dell’associazione
culturale Oscar A. Romero
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Nicoletti, Vincenzo Passerini, Grazia Villa, Silvano Zucal.
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Covi, Marco Dalbosco, Cornelia
Dell’Eva, Michele Dorigatti, Michele Dossi, Eugen Galasso, Pierangelo
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OSCAR ROMERO
Presidente: Alberto Conci
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Vicepresidente:
Paolo Marangon
Segretario: Alberto Ianes
«I grandi statisti sono consapevoli della loro grande responsabilità.
Dovrebbe essere nota l’avversione di Bismarck verso le guerre preventive –
dunque verso un’attività di intervento non necessaria. E alla questione, se
si debba iniziare anticipando una guerra che a uno stato si presenti come
probabile in un prossimo futuro, il grande cancelliere rispondeva: ‘Sono
sempre stato contrario alla teoria che dà una risposta affermativa al quesito, nella convinzione che anche le guerre vittoriose possano essere giustificate solo nel caso in cui se ne sia costretti, e che non è possibile vedere
nelle carte della Provvidenza a tal punto che sia possibile anticipare lo sviluppo storico secondo un proprio calcolo’. ... Da queste poche parole si
evince che lo Stato esiste per gli uomini e non viceversa, e che la guerra, in
quanto attività che interviene con violenza rispetto alla compiutezza di una
forma di Stato, non rappresenta altro che una forma di decadenza che non
si è autorizzati a giustificare».
2003 NUMERO 1
CARL DALLAGO, Sull’attività politica, la guerra e il Trentino, 1915
EDITORIALE
Italia 2003
Oltre Berlusconi
e i profeti di sventura
Periodico mensile - Anno XXIII, n. 1, gennaio 2003 - Sped. in a.p. - art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Fil. di TN
Redazione e amministrazione: 38100 Trento, cas. post. 359 - Una copia € 1,60 - Abb. annuo € 16
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Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXIII
OLTREFRONTIERA
Non sparate all’arcobaleno
I venti di guerra, l’Islam
e Charles de Foucauld
DOCUMENTI
La memoria dell’offesa
SOCIETÀ
Parti uguali tra disuguali
TESTIMONI
Balducci, la Chiesa e la pace
Editoriale
Italia 2003
Oltre Berlusconi e i profeti di sventura
MARCO DAMILANO
ono le giornate della memoria. Cinquantotto anni dalla liberazione di
Auschwitz. Settanta anni dall’avvento al potere di Hitler. E chissà se
in futuro ricorderemo anche quel 29 gennaio 2003 in cui Silvio Berlusconi ha consegnato ai tg il suo pronunciamento. Per dire che nessuno lo
può giudicare, che Lui incarna il popolo e il popolo è sopra tutto e tutti, al di
sopra anche della stessa democrazia. Annuncio della guerra totale che verrà
nei prossimi mesi, nelle prossime settimane.
Guerra su tutti gli scacchieri, interni e internazionali. Come un brutto
film già visto, come negli anni Trenta del secolo scorso, proclami e annunci
di fuoco si alternano da un fronte all’altro.
Ma il più delicato, oggi, è quello aperto dal Cavaliere e dai suoi mazzieri. “Certi giudici sono come maiali. Li manderei in Congo a farli mangiare
dai pigmei”, dice Domenico Contestabile, uno che chissà con quanta serenità
ha fatto il sottosegretario alla Giustizia e il vicepresidente del Senato, un
uomo delle istituzioni, insomma. “Dobbiamo fare una riforma sola, ma efficace sulla giustizia. Un altro esempio? Ci accusano di occupare la Rai? Bene,
occupiamola davvero”, puntualizza un altro sincero democratico, il governatore veneto Giancarlo Galan.
Siamo alla vigilia del trimestre di fuoco. Probabile inizio delle operazioni belliche in Iraq, con l’Italia di Silvio già schierata con Bush e con quelli che vogliono dividere l’Europa e uccidere per sempre le possibilità
di un’entità politica che contrasti l’egemonia americana.
Sentenza sul processo Imi-Sir in arrivo ad aprile, con Cesare Previti inguaiato fino al collo. Licenziamenti di massa e referendum sull’articolo 18
in arrivo.
Un avvitarsi spaventoso di crisi internazionale, crisi di legalità, crisi sociale che richiederebbe la presenza di un’opposizione forte, orgogliosa di se
stessa, guidata da leader autorevoli in grado di dire una parola. Ma dov’è
questa opposizione?
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Un anno di passioni
“Abbiamo militato dalla stessa parte, padre, vorrei stupirla”. Sardonico,
spietato, ben assistito da una claque di giovanotti rampanti, reclutati nella sezione di partito del quartiere dove abita. Così venerdì 24 gennaio Massimo
D’Alema si è presentato a un convegno dei Ds sui diritti di cittadinanza, per un
confronto assolutamente ordinario con una persona fuori dall’ordinario: padre
Alex Zanotelli. Due ore che resteranno nella memoria di chi vi ha assistito per
la sensazione di assoluta inconciliabilità dei due mondi. Con il missionario
comboniano interessato a far valere le ragioni dei tanti volti incontrati in dodici anni di missione a Korogocho. E il politico di professione, invece, deciso
esclusivamente a ridicolizzare quasi quelle ragioni, a dimostrarne anzi la pericolosità per il corretto, regolare, “normale” svolgimento della politica, a difendere comunque il primato dei professionisti del governare.
Confronto altamente simbolico, comunque. Che dimostra come, oltre un
anno dopo il famoso urlo di piazza Navona di Nanni Moretti, ci sia ancora tanta strada da fare per riportare quel che resta dell’Ulivo in carreggiata. E riportare il centro-sinistra alla vittoria. O almeno provarci.
Dodici mesi di girotondi, cortei, manifestazioni. L’ultima, quella di Firenze del 10 gennaio, organizzata dai movimenti fiorentini nel grande Palasport,
con Sergio Cofferati, Nanni Moretti e una sorprendente Rosy Bindi. Anticipazione della giornata della pace del 15 febbraio. In mezzo a questi due appuntamenti, il forum di Porto Alegre. Dove anche il neo-eletto presidente brasiliano
Lula ha detto la sua: “Se Berlusconi vince è anche colpa della sinistra italiana”.
Grandi passioni, grandi tensioni, trasmesse via sms nelle file all’ingresso dei
cancelli, come a Firenze o al Palavobis di Milano un anno fa, sotto il sole di
piazza San Giovanni a Roma, il 14 settembre, sorseggiando il tè caldo offerto
dalle signore di Firenze a novembre ai manifestanti del Social forum, oppure
carezzati da un tiepido venticello il 23 marzo al Circo Massimo, mentre Cofferati lanciava quella che ancora resta la migliore definizione di questo popolo inquieto: “Noi siamo figli della cultura della solidarietà”.
Il problema è che dopo tanti mesi di emozioni e di impegno piazze e politica, movimenti e partiti, e ora perfino testa e cuore, ancora sembrano non essersi incontrati. Anzi. Nei partiti del centro-sinistra, ai vertici nazionali come
nei loro terminali locali, si respira l’atmosfera dello scampato pericolo. Come
se alla fine della ricreazione il gioco tornasse finalmente su campi più abituali:
le aule parlamentari, i messaggi trasversali lanciati con le interviste sui giornali, le elezioni amministrative che, si afferma senza tanti giri di parole, “stavolta le vinciamo noi” (sottinteso: non contro Berlusconi, quello era già successo
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anche l’anno scorso, ma senza dover spartire i meriti con i movimenti). Nei movimenti, almeno in alcuni, si assiste al fenomeno uguale e contrario: chiusura
a riccio nei propri confini, con qualche deriva integralista. Voglia di contarsi, di
giocare in proprio, di “farsi partito”, contro i partiti, naturalmente. Quando invece, per un anno, da tutte e due le parti si è predicato esattamente il contrario:
partiti aperti ai movimenti, movimenti non contro i partiti, come unica ricetta
per battere Berlusconi. Invece siamo ancora qui. Con D’Alema che dileggia
Zanotelli: “Se io andassi in Parlamento a dire quello che dici tu, dopo un’iniziale emozione non mi seguirebbe nessuno… In alcuni momenti la radicalità
serve solo a mettersi l’anima in pace”.
I profeti di sventura
Meriti e colpe non sono di una parte sola, certo. Anche se la responsabilità
del mancato incontro ricade soprattutto su chi non ha saputo fare tesoro della lezione di questi mesi. Li chiameremo i pessimisti radicali. Sono alcuni tra i massimi dirigenti della sinistra italiana. Profetizzano sciagure. Sono come i cardinali di curia alla vigilia dell’apertura del Concilio, quelli che papa Giovanni
chiamò profeti di sventura. Sono convinti che il mondo e l’Italia non possano
che andare a destra e che se la situazione potrà peggiorare, peggiorerà, come recita la prima legge di Murphy. Sono esistenzialmente sicuri che con gli ideali e
i paternoster non si fa politica. Considerano i loro militanti bambini da educare,
utili comparse che servono per fare casino al momento opportuno, ma a un cenno devono rientrare a casa. Usano la questione morale come un rubinetto: acqua
calda al diapason dello scontro politico, quando l’avversario è un mafioso e un
individuo pericoloso per la democrazia, magari perché si fa le leggi su misura,
vedi Cirami, acqua fredda quando con lo stesso avversario decidono che è arrivato il momento di trattare e ti spiegano che le riforme si fanno insieme, altrimenti che riforme sono? Ripetono da anni che l’Ulivo non ha vinto per il leader
e il programma, e neppure per la passione dei comitati e di tante persone che
quella semplice idea del pullman e il faccione del Professore a bordo riuscì a
mettere in moto. No. Anche allora si vinse perché loro avevano fatto l’accordo,
avevano strappato all’avversario un pezzo di potere, Dini, quattro massoni e un
paio di banchieri. Sono coerenti. Per vincere, dicono, sono meglio due voti dati
con pacatezza che uno dato con entusiasmo. Meglio l’Opus Dei di padre Zanotelli, che è già dalla nostra parte. Salvo poi restarci male se l’Opus vota dove lo
porta il cuore e il portafoglio, cioè a destra. E quello che avrebbe votato con entusiasmo, alla fine, un po’ disgustato, decide di restare a casa.
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I pessimisti radicali, i profeti di sciagure sono quelli che nel corso degli
anni ci hanno spiegato che l’Ulivo non esisteva, che Berlusconi era finito e che
si doveva tenere in piedi perché conveniva fare così, che non si vince solo con
i no eccetera. I risultati poco esaltanti di questa predicazione non li hanno bloccati. Così ora hanno appena cambiato rotta. Chiedono le primarie per scegliere
il prossimo candidato premier, fanno professione di ulivismo, addirittura sono
pronti a sostenere il ritorno in Italia di Romano Prodi, quello che dopo la caduta del governo nel ’98 trattarono più o meno come un fallito, gli volevano far
fare la fine di Occhetto, poco ci mancò che lo chiamassero pazzo sui giornali.
E intanto ripetono che i movimenti sono dannosi, che alla sinistra non servono
messia, conquistatori, Gengis Khan, sbraitano che ne hanno le tasche piene di
chi non si allinea. E quando non hanno più argomenti ricorrono all’arma finale: l’unità. Chi rompe muore.
Strano questo trasferirsi dell’antico anatema “fuori dalla Chiesa nessuna
salvezza” in formazioni nate dallo storicismo marxista. Segno che la laicità della politica è una lezione difficile, non solo per i cattolici.
Le carte di Cofferati
Obiettivo numero uno di queste campagne, Sergio Cofferati. Perché è su
di lui, l’ex leader della Cgil, il dipendente della Pirelli, che in questi dodici mesi
di passione si sono proiettate le speranze di milioni di persone che sognano di
spedire a casa Berlusconi.
Carattere non facile. Oratoria spigolosa, legnosa. Carisma a freddo. Non
era prevedibile che diventasse lui il punto di riferimento dell’opposizione, il
leader di un sindacato che appena qualche tempo fa veniva considerato bollito, residuale. Invece Cofferati ce l’ha fatta perché rispetto agli altri ha almeno due carte in mano. La prima è che ha individuato per tempo il terreno dello scontro. Il tema dei diritti. Il diritto a non essere licenziati, simboleggiato
dalla battaglia dell’anno scorso sull’articolo 18. Il diritto all’informazione,
alla giustizia. Il diritto di mobilitarsi per la pace. Il diritto alla scuola e alla
salute. La sfida, insomma, è nel cuore della società italiana, soprattutto in
quelle fasce meno protette dove la destra ha trionfato nel 2001, come dimostrano gli studi dell’Istituto Carlo Cattaneo e di Ilvo Diamanti. Quell’Italia
che non legge i giornali, che non va quasi mai al cinema, che ha la tv come
unico mezzo di informazione, più anziana che giovane, meno istruita della
media, che teme i cambiamenti e ha paura del futuro. La sinistra del paese
normale, invece, ha spiegato per anni che ci voleva la flessibilità sul lavoro,
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sperando di battere la destra sul terreno della modernità. La sinistra cofferatiana, invece, tenta il salto: tenere uniti i diritti, che non si mangiano, con le
risposte alle paure del futuro, soprattutto la paura di non trovare lavoro, o di
perderlo.
La seconda carta in mano al Cinese è il collegamento con i nuovi movimenti della società civile. Rapporto non facile, ma decisivo. Come quello, ha
scritto il giornalista Filippo Ceccarelli su “La Stampa” nei giorni del Social forum di Firenze, che passa tra i padri e i figli. La Cgil, il sindacato, le antiche
forme di rappresentanza hanno la forza e la robustezza delle radici, dei padri.
Il movimento dei ragazzi della pace ha i sogni e l’agilità mentale dei figli. Padri e figli, vecchie e nuove formazioni si danno una mano, si sono abbracciati
in tante occasioni, quest’anno. E Cofferati è lì, un po’ padre, un po’ fratello
maggiore. Dà l’impressione di solidità, di non essere una delle tante meteore
politiche cui ci hanno abituato questi anni selvaggi. Al tempo stesso, è un uomo
che accetta di rimettere in discussione il cammino di una vita, per esempio sul
tema della pace, anche a costo di scontare peccati di ingenuità, di sembrare un
dilettante della politica, un oggetto sconosciuto, un predicatore mascherato agli
occhi dei professionisti del Palazzo, e al contrario, un neofita con qualche punta di superficialità per chi nei movimenti vive, lotta, respira quasi ogni giorno.
Elogio della sobrietà
Ma non erano, in fondo, le stesse critiche che furono mosse a Romano Prodi? Quando il Professore di Bologna si mise in moto con il suo pullman scontava una mancanza di professionismo politico da una parte, dall’altra un deficit di conoscenza delle pieghe più profonde della società. Aveva, però,
un’enorme voglia di ascoltare. Il Nuovo Ulivo formato Prodi-Cofferati è dunque qualcosa di più del mitico ticket vagheggiato da mesi. Non è (non deve essere) una spartizione di ruoli, di poltrone, di centro e di sinistra. È il tronco portante della nuova cultura politica. C’è un valore da cui ripartire, la parola
sobrietà. Cofferati la ripete spesso. All’incontro con i movimenti di Firenze ne
ha fatto l’elogio: “Non vogliamo un ritorno al pauperismo, ma dobbiamo raccontare ai ragazzi che è meglio comprare un libro che una cravatta, che la borsetta più bella non vale un concerto”, ha detto. Concetti semplici, magari anche
un po’ schematici, puntualmente irrisi dai troppi giocatori di golf in circolazione ai piani alti del centro-sinistra. Ma che ricordano una storiella che Prodi racconta agli amici: “Mi sono comprato un trapano dieci anni fa, a cosa mi serve
comprarne un altro ora? Meglio sarebbe avere un quadro da appendere”. Sia-
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mo alla radice: cosa fare di questo modello di sviluppo? Le risorse, e va bene,
ma il benessere significa solo accumulare ricchezze? La destra di Berlusconi e
Bush vince con lo slogan “arricchitevi”. È la parola definitiva sulla politica, oppure si può contrapporre qualcosa di nuovo? È una ricerca appena iniziata. Che
si muove tra i saloni della Commissione europea, dove il presidente Prodi difende la saggezza della vecchia Europa rispetto alla follia della guerra preventiva targata Bush, nelle piazze di Porto Alegre e nelle strade di Assisi, nei circoli intellettuali e in quella miriade di gruppi, associazioni, movimenti locali
che saranno l’esercito del Nuovo Ulivo.
Una strada non priva di rischi. Uno su tutti: il rifugio nella mistica dello
stare insieme, della radicalità che non si sporca le mani con la lenta, paziente
costruzione del consenso. Che non ascolta le ragioni dell’avversario politico o
semplicemente di chi è altra cosa. In qualche momento è sembrato tornare il
vento dell’integralismo delle minoranze, l’orgoglio di sigla che divide e che
non unisce e che già in un passato recente ha segnato il tramonto di esperienze
che pure all’inizio avevano suscitato tante speranze e avevano spinto sul cambiamento. Certo, la presenza di personaggi come Prodi, Cofferati, ma anche
Rosy Bindi che parla ai ragazzi new global da cattolica e perfino da ex democristiana prendendo applausi, è una garanzia che questa deriva sarà evitata. Ma
i rischi delle chiusure opposte, politica sorda e movimenti arroccati, sono sempre dietro l’angolo. Per questo servono personaggi di frontiera. Gente di movimento ma dotata di grande senso delle istituzioni. Riserva etica e politica che
risulterà sempre più preziosa in questo momento in cui le istituzioni sono minacciate dalla pulsione plebiscitaria del Cavaliere e dalla voglia di farsi giustizia da soli, cioè di non farsi giustizia per niente, dei suoi sodali.
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Oltrefrontiera/1
Non sparate all’arcobaleno
FABIO PIPINATO
uovo anno, nuovo governo, nuove speranze. La campagna elettorale
iniziata un anno fa, non senza disordini, ha visto contrapposto il
“figlio di papà” Kenyatta, delfino di Moi, contro Kibaki, politico di
lunga esperienza e leader dell’opposizione. Kibaki ha stravinto, nonostante la
campagna del KANU (Kenya Alliance National Unity) possedesse risorse pubbliche e capacità d’acquisto voto di gran lunga superiori ai mezzi della coalizione Arcobaleno. Il 27 dicembre 2002 nessun osservatore ha avuto da ridire:
le elezioni si sono svolte in modo ineccepibile (a differenza delle trascorse edizioni del 1992 o 1997, ove ha regnato prima il broglio e poi la pulizia etnica).
N
I colori della vittoria
A molti va il merito di questa vittoria, inattesa nelle proporzioni.
Innanzitutto all’educazione civica, acerrima nemica di Moi, che l’ha ostacolata in tutti i modi. “Le organizzazioni non governative ONG si devono occupare di tutto tranne che di politica”, sentenziò all’inizio della campagna elettorale. S’infuriò quando vide arrivare dalle Indie i “formatori alla nonviolenza”
perché sa benissimo che le dittature, come la sua, possono cadere con la nonviolenza. E così, infatti, è stato. La campagna elettorale è iniziata con duri
scontri etnici dentro le baraccopoli di Nairobi ove hanno perso la vita decine di
persone; ma la gente ha risposto civilmente, senza aumentare la tensione. Gli
aggressori provenivano da altrove, trasportati dalla polizia, andata e ritorno.
Poi il merito va alle diverse Chiese. Radicate nel territorio, come nessun’altra istituzione, hanno raggiunto il più sperduto pastore Samburu informandolo che: “cambiare si può”, pur non dando indicazioni di voto. Il presente è un periodo particolarmente felice per esse in quanto sono guidate da pastori
illuminati: ciò vale sia per la Chiesa Cattolica che per quella Protestante. Hanno promosso, con vero spirito ecumenico, campagne di educazione alla nonviolenza pre-elettorale in rete con la società civile. Il nunzio apostolico e il presidente della conferenza episcopale hanno detto basta ad ogni violazione dei
diritti umani, ammonendo, con un coraggio che è proprio dei Padri della non-
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violenza, l’ex governo per gli scontri etnici trascorsi. Gli stessi hanno inoltre
chiesto verità per i molti martiri della giustizia tra i quali padre Kaiser, assassinato e non suicidatosi come vorrebbe il rapporto della FBI in un inciucio scandaloso con l’ex governo. Insomma, nonostante le minacce e le ritorsioni, i vescovi hanno indicato la strada del voto democratico, della non corruzione e
della non violenza.
Le donne. Spina dorsale dell’economia informale e, quindi, di quasi tutta
l’economia. In numero decrescente come candidate hanno trovato un voto favorevole. Il neopresidente le ha premiate inserendone ben sei nella sua squadra. Rimane, comunque, una percentuale in parlamento esigua: 3% a fronte del
35% dell’Uganda o del Sud-Africa o all’11% dell’Italia o 50% dei paesi scandinavi.
Qualche funzionario onesto. Come coloro che hanno compilato il rapporto Akiwumi per le stragi compiute dal 1991 al 1998, tutte targate politicamente. Anche a loro va il merito della vittoria. Sono mosche bianche in mezzo al
sudiciume di una mala-amministrazione corrotta ed inefficiente fino all’osso.
Questi pochi hanno reso pubblici nomi eccellenti, tra i quali quelli di alcuni ministri, come mandanti delle diverse pulizie etniche e lo hanno fatto a metà campagna elettorale in modo da condannare il vecchio e prevenire nuovo disordine. Ciò ha sfiduciato in pieno, prima dalla gente e poi dal parlamento, il
governo di Moi.
Mr. Ghai. Professore di diritto costituzionale, mezzosangue keniota e
mezzo indiano ha ricevuto l’incarico di riscrivere la nuova carta costituzionale. Ha girato il Kenya in lungo ed in largo incontrando i rappresentanti di tutte
le tribù, ordini professionali e singoli cittadini. Ha creato cento, mille luoghi
d’incontro per la società civile. Il progetto comune che ha visto una vera partecipazione dal basso ha, in realtà, prevenuto ogni conflitto interetnico e gettato
le basi per l’alternativa politica.
I media. Un disegno di legge, contro il quale è insorta la comunità internazionale, li voleva spazzar via tutti, tranne i media di Stato, naturalmente, fedeli al regime. Ma così non è stato. Buone radio e giornali indipendenti hanno
fatto il loro dovere, fino in fondo, raccontando semplicemente la verità come
vuole il giornalismo di matrice inglese.
La gente tutta. Arcistufa di un sistema che opprime, che taglieggia, ha affrontato con la fantasia il potere. Alla vigilia di Natale, per esempio, in moltissimi hanno celebrato ammazzando un galletto, simbolo del KANU. Ed è stato
lì, impiccato all’albero fuori della capanna, fino al giorno dopo, sfidando la polizia ad asserire che fosse un’offesa al governo in carica. A Natale non si può
mangiare un galletto? Mentre nelle strade spadroneggiava, come nelle tipiche
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campagne occidentali, il faccione del candidato Hururu con cartelloni enormi
che ricoprivano il paese e che facevano ricordare a noi italiani altre campagne
elettorali, il tam-tam africano del passaparola, del volantino presente in tutti i
chioschi tra cipolle ed arance, della fotocopia appiccicata sugli alberi da un
lato, ed il volere dei vecchi che si stendeva fino alle chiacchiere di mercato dall’altro, non lasciava dubbi: stavolta si cambia. Di fronte ai media di mezzo
mondo un deputato si è tagliato i lunghissimi capelli, più di un metro, che aveva lasciato crescere durante la dittatura. Per 24 anni. Protesta assolutamente
nonviolenta e civile.
I quadri dell’esercito. Sono stati corteggiati a lungo dalla cricca di Moi ma
non hanno ceduto. Sono stati fedeli alla Costituzione, sia vecchia che quella in
bozza, del Kenya. L’esercito dovrà sicuramente rispondere per le stragi interne
al paese, ma va dato merito a Moi di non averlo mai coinvolto in avventure
esterne se non sotto l’egida dell’ONU.
Il vecchio presidente che, comunque perdente, se n’è andato senza chiamare i fedelissimi alle armi. Sembra logico, ma qui in Africa è un successo democratico affatto scontato e lo posiziona, malgrado il passato, tra i leader del
continente.
Resistere alla corruzione
Ora il Paese esulta: sta per iniziare una nuova era. Ciò che è incredibile è
che sembra si stia facendo sul serio. Un esempio: Kibaki ha promesso scuola
gratuita a tutti e ciò sta accadendo, ridando speranza a milioni di ragazzi fuoriusciti dalle classi perché i genitori non sono stati in grado di pagare la retta.
E lo fa nonostante le casse dello Stato siano state letteralmente svuotate dal suo
precedente, in un arricchimento così cospicuo che ha precedenti solo con Mobutu.
Tolleranza zero per la corruzione. Il Kenya è, da questo punto di vista, tra
i primi sei paesi al mondo. Il presidente sembra determinato e la gente è con
lui, e s’arrabbia di fronte alla polizia che continua con arresti arbitrari ed a chiedere il pizzo ad ogni autista di mezzo privato o pubblico. In molti tribunali, ove
la giustizia è letteralmente in vendita al miglior offerente come all’asta, s’alza
la voce della protesta degli oppressi nonostante la tortura diffusamente praticata e la violazione dei diritti fondamentali. Dalle piazze s’alza il grido RainbowRainbow.
Ma la piramide della corruzione, dalla quale si nutre dal poliziotto fino al
direttore ministeriale, rimane intatta, non ancora scalfita dal volere popolare. E
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non basterà un solo anno per buttar giù un tale colosso e nemmeno il lustro che
presiederà Kibaki. Purtroppo. Servirà almeno una generazione, che è pari al periodo con cui il vizio si è alimentato, per ridurre semplicemente il danno. E per
farlo si dovrà by-passare le amministrazioni locali in un link governo-gente.
Ciononostante il vizio, e la tentazione sottostante, rimarranno e non sarà
facile per il nuovo governo rinunciare a questo introito, nonostante i proclami.
Ne sappiamo qualcosa noi del Bel Paese ove la corruzione e la concussione
hanno afflitto la democrazia e che, nonostante Tangentopoli, ha dato carta bianca ad un pluri-condannato e confinato i giudici di Mani Pulite. Il nostro Paese
è costretto a “convivere”, come ha affermato recentemente un ministro della
Repubblica italiana, anziché tentar di sradicare la mafia. Non potrebbe essere
altrimenti, visto che l’attuale maggioranza è tale grazie ai voti siciliani.
Se accade ciò nei Paesi a democrazia matura, figuriamoci nelle democrazie in transizione come la Nigeria o il Kenya, per non parlare di coloro che da
quarant’anni non vedono il seggio elettorale come la Repubblica Democratica
del Congo. C’è un gap colossale. Durante Tangentopoli si scoprirono buchi del
5% sui lavori pubblici che andavano ad alimentare le casse di partito o dei singoli burocrati; quaggiù si stanno scoprendo voragini dell’80% su tutti i lavori
pubblici. Sarà quindi difficile demolire questo arricchimento facile, anche perché c’è chi vive e si alimenta quotidianamente solo di esso come i sicari, per
esempio, che gestiscono il fiorente traffico dei matatu (taxi collettivi). Dopo le
elezioni hanno sgozzato, a Nakuru, trenta cittadini rei di aver votato per la speranza e di essersi opposti al sistema delle tangenti.
Non resta che continuare, anziché cessare come è ormai stile delle ONG
che sopravvivono più di fondi che di idee, la campagna che ha portato alla vittoria di fine anno rafforzando il network sovradescritto, unico modo per esistere e resistere. È giunto il momento di non lasciare soli questi governi, dal governo di Kibaki al Brasile di Lula. La storia, che ha visto decapitare molte
giovani democrazie, tra le quali alcune vicine a quelle citate, non ci conforta affatto: dal Cile di Allende al Burundi di Ndandaye. Ma guai a noi se ci comportiamo alla stregua di pompieri o spettatori passivi. Le democrazie in nascere
hanno bisogno della società civile globale, della cancellazione del debito estero e di una sana cooperazione internazionale.
La notte tra il 26 ed il 27 dicembre ha piovuto ed il mattino seguente, in
cielo, era visibile l’arcobaleno; lo stesso che sventola da molti balconi delle finestre italiane. Non gli si poteva sparare e non lo si poteva nemmeno compra■
re. In molti dicevano: “Anche Dio vota con noi”.
12
Oltrefrontiera/2
I venti di guerra, l’Islam
e Charles de Foucauld
PAOLO MARANGON
A mons. Teissier, alle Piccole Sorelle
e ai Piccoli Fratelli che vivono in Algeria
n viaggio in Algeria sulle orme di Charles de Foucauld: la bella idea è
venuta l’autunno scorso a un mio amico prete, responsabile della pastorale giovanile della diocesi di Vicenza, specialista in pellegrinaggi
“alternativi”. L’ho accolta non solo perché da tempo sentivo il fascino della
straordinaria avventura umana e cristiana di fr. Charles, ma anche perché intuivo che un viaggio in quella terra, un incontro con quella Chiesa, mi avrebbero consentito di guardare da un’altra prospettiva, quasi opposta, i venti di
guerra Usa-Irak che tengono il mondo con il fiato sospeso e insieme i nodi irrisolti del rapporto con gli immigrati musulmani che stanno venendo al pettine
qui da noi, in particolare dopo l’attentato dell’11 settembre. A prendere l’aereo,
alla fine, siamo stati in 15, un piccolo gruppo: dieci laici, soprattutto giovani,
tre preti, due suore, tra le quali una piccola sorella del Vangelo. Tre le tappe previste: Algeri, ospiti dell’arcivescovo mons. Teissier nella sua maison diocésaine; Tamanrasset, cittadina nel cuore del Sahara, meta conclusiva dell’itinerario
terreno di fr. Charles; Assekrem, eremo impervio nel deserto roccioso dell’Hoggar, a 2.780 metri di altitudine. Ma, come spesso capita nei viaggi e nella vita, dentro a questa trama prevista le cose impreviste sono state di gran lunga più importanti. Eccone qualcuna.
U
Le nubi di guerra viste da Algeri
Sbarcando il 27 dicembre ad Algeri, immensa metropoli di 3 milioni di
abitanti (su 30 che popolano l’intero paese) affacciata su un golfo splendido, si
capisce subito di essere arrivati in una capitale del Terzo Mondo. Rispetto agli
aeroporti-scalo di Venezia e di Nizza - ma l’osservazione può essere estesa a
molti aspetti della città - il nostro occhio di europei viziati dal benessere coglie
13
immediatamente la diversità. Tuttavia la presenza di innumerevoli guardie armate, che presidiano tutti i punti strategici dell’aeroporto e rapidamente circondano anche il nostro aereo, fa capire che l’Algeria, tra i paesi del Terzo
Mondo, vive una condizione particolare: da oltre dieci anni questo Stato arabo
- tenuto saldamente in pugno da un regime militare formalmente ammantato da
repubblica democratica - è sconvolto da una guerra civile strisciante tra militari e fondamentalisti islamici del FIS (Fronte islamico di salvezza), un conflitto
endemico che ha causato decine di attentati, stragi e omicidi, provocando migliaia di vittime anche tra i civili (tra i quali 19 religiosi). Anche la Chiesa algerina si è trovata costretta a scegliere tra il male di un regime militare e il peggio del terrorismo.
Ed ecco allora la prima “scoperta”: il terrorismo islamico, che noi occidentali abbiamo sentito sulla nostra pelle solo dopo l’11 settembre, è da lungo
tempo una spina nel fianco di parecchi stati musulmani - dall’Algeria all’Egitto, dal Pakistan all’Indonesia, per non parlare dei palestinesi - che lo conoscono prima di noi, meglio di noi e da anni cercano di fronteggiarlo con ogni mezzo, riuscendo con enormi difficoltà solo a contenerlo. La novità è che,
soprattutto dopo l’11 settembre, lo scontro si è globalizzato e gli attentati non
avvengono più solo ad Algeri o al Cairo, ma anche a New York e a Londra, cioè
nel cuore dell’“impero” occidentale, con le conseguenze che tutti conosciamo.
Ebbene, ciò che a noi occidentali può facilmente sfuggire è appunto questo: il
multiforme fondamentalismo islamico, con i suoi esiti terroristici (sempre possibili, ma non obbligati), è un problema che spacca dall’interno anzitutto il
mondo islamico prima ancora di incunearsi nel rapporto tra noi e l’Islam. “Il
fondamentalismo - ha recentemente affermato uno studioso musulmano - è una
malattia dell’Islam: bisogna guarirla, non legittimarla con incaute aperture al
FIS”. Forse per realizzare una terapia seria, dopo il bisturi dell’Afghanistan, sarebbe opportuno imparare dagli errori e dai risultati faticosamente raggiunti ai
vari livelli dai musulmani stessi, invece di mettere in campo sempre e comunque le bombe e i missili, surrogato inefficace di una politica a corto di lungimiranza e di risorse.
Mons. Teissier dice di guardare con grande apprensione al pericolo incombente di una guerra Usa-Irak: il risultato, come si è visto anche nella guerra del Golfo, sarebbe quello di rinfocolare i sentimenti antiamericani già diffusi e di “alimentare una solidarietà di massa del popolo algerino con l’Irak”. “In
nome della nostra comune umanità” - affermano, tra l’altro, i vescovi algerini
in una lettera aperta ai “Responsables et Décideurs dans le Monde”, fresca di
stampa - “consideriamo come intollerabile che per la politica di un solo gruppo, in realtà di un solo uomo, qualunque sia, voi accettiate, anzi, addirittura de-
14
cidiate che siano sacrificati la vita o l’avvenire di milioni d’innocenti, dovunque si trovino. Siete stati eletti e delegati per difendere e costruire la pace”. E
concludono: “Non possiamo sostenere e approvare i vostri sforzi che per imporre il dialogo-negoziazione, di fronte a ogni conflitto che attenta alla nostra
solidarietà umana” 1.
La profezia di una piccola Chiesa nel rapporto con il grande Islam
Mons. Teissier ci dice queste cose nel corso di un lungo colloquio, dopo
averci accolto nella sua sobria maison diocésaine in giacca e cravatta e con il
sorriso sulle labbra. È un uomo che, pur in mezzo a difficoltà di ogni tipo, non
perde mai la capacità di scherzare. All’incontro fissato il giorno dopo il nostro
arrivo si presenta, puntuale, con un vassoio di dolci e pastine, “perché - aggiunge sorridendo - non basta la fede”. Ci fa salire nel suo studio e amabilmente risponde a tutte le nostre domande. “Qui - spiega - la Chiesa ha pochi
cristiani, ma ha un popolo, quello algerino”. Si sente nelle sue parole l’eredità
vitale di un lungo cammino di Chiesa, partito nell’Ottocento con le missioni dei
padri bianchi, passato attraverso la profezia di Charles de Foucauld e le innovazioni del Concilio, maturato infine alla grande scuola del card. Duval. Con
l’indipendenza dal dominio coloniale francese, sancita nel 1962, anche la Chiesa conosce una “riconversione” dei suoi servizi (scuole, biblioteche, centri di
formazione professionale…): prima destinati alla minoranza francese, vengono poi gradualmente rivolti ai musulmani.
Questo lento processo di integrazione vive una traumatica accelerazione
dopo il 1992, con l’inizio della guerra civile. Mentre una buona parte dei servizi viene chiusa e il relativo personale religioso rientra nei rispettivi paesi europei, quelli che restano (poco più di 4.000 cristiani, tra i quali 190 preti e religiosi) entrano, non solo metaforicamente, nel mirino degli integralisti islamici.
In un decennio anche la Chiesa paga un altissimo prezzo di sangue alla violenza che dilania il paese: sono ben 19 (il 10%) i preti e i religiosi assassinati senza colpa dai miliziani del GIA, il braccio armato del FIS. Tra questi i 7 mona-
1
“Au nom de notre commune humanité nous considérons comme intolérable que pour la Politique d’un seul groupe, voire d’un seul homme, quel qu’il soit, vous acceptiez, voire même, vous
décidiez que soient sacrifiés la Vie ou l’Avenir de millions d’Innocents, où qu’ils se trouvent. Vous
avez été élus et délégués pour défendre et construire la Paix. Nous ne pouvons soutenir et approuver vos efforts que pour imposer le dialogue-la négociation, face à tout conflit portant atteinte à notre humaine solidarité”.
15
ci trappisti dell’Atlas. Ma la piccola Chiesa inerme resiste, senza arretrare di un
palmo dalla sua linea di dialogo e di solidarietà con la popolazione algerina.
Anzi, i vincoli di stima e di affetto si fanno reciprocamente più stretti. A questo punto mons. Teissier ci consegna un foglio stampato, nel quale sono riportati alcuni brani di lettere scritte da musulmani algerini all’indomani dei vari attentati che colpiscono preti e religiosi cattolici. Mettono i brividi. Ne riporto
integralmente qualcuno:
“Esiste in Algeria una ‘Chiesa musulmana’: è composta da tutte le donne, da tutti
gli uomini che si riconoscono nel messaggio d’Amore universale e nel suo impegno per una società pluralista e fraterna: è più numerosa di quanto voi crediate.
L’uomo di domani si sta costruendo. È per questo che io faccio appello alla forza
di Dio e dell’amore di Dio, all’interno come all’esterno: perché non lasciamo cadere le braccia … Grazie alla Chiesa di aver lasciato la sua porta aperta: permette
di scoprire l’uomo nuovo. E insieme scopriamo Dio. Perché Dio non è una proprietà privata” (Un’amica algerina della Chiesa - Orano, 9 luglio 1997).
“Noi, A.B., giornalista e M.M., insegnante all’Università, vogliamo oggi testimoniarvi tutta la nostra amicizia, la nostra fraternità in questo dramma che ci tocca tutti. Per noi e per sempre non dimenticate che siete nostri fratelli. Qualunque sia la
differenza dei nostri dogmi pensiamo di avere lo stesso Dio. E poi, diciamolo, vi
amiamo e nessuno può mettere questo in discussione. Una volta di più, contrariamente a quanto vorrebbero gli assassini, vi diciamo: qui siete a casa vostra, vi amiamo e preghiamo accanto a voi per il riposo dell’anima di quelli che sono stati vigliaccamente trucidati”.
“Arrivo al fatto più orribile, quello dell’assassinio dei monaci di Tibhirine che fu
per me peggio di un sacrilegio. Non riuscivo, né a concepirlo, né ad ammetterlo.
Come musulmana, avrei urlato…
Il nostro cuore è straziato perché nessun musulmano [al di fuori dell’Algeria, ndr],
dico bene, nessuno, è stato vicino a noi nella nostra tragedia. Nessuno ci ha sostenuto; al contrario siamo stati i ‘paria’ del mondo. Eravamo soli nella nostra sofferenza e nessuno ha avuto il coraggio o il pensiero di almeno pregare per noi e di
dire ‘Dio aiutali’. Solo voi [della Chiesa in Algeria, ndr] …
Penso che è Dio che vuole la presenza della Chiesa cristiana algerina nella nostra
terra d’Islam. È onnisciente e quello che deve compiersi dovrà esserlo con voi. Che
così sia” (Una giovane donna algerina, dottore in medicina - Algeri, 22 maggio e
25 luglio 1999).
Un legame profondo e indissolubile si è dunque stretto nell’abisso della
sofferenza tra la piccola Chiesa e il popolo algerino. “È la relazione che ci cambia, che ci converte” commenta mons. Teissier. “E quando ci sono relazioni
consolidate, si possono affrontare anche le situazioni di crisi: dopo la guerra del
Golfo cristiani, musulmani ed ebrei si sono ritrovati a pregare, a chiedere in-
16
sieme la forza di resistere”. “Il sacramento dell’incontro - continua - va celebrato con tutti i gruppi con cui siamo in difficoltà, perché non c’è un altro cammino evangelico se non quello di trasformare i nemici in amici”. Dialogo, cooperazione e solidarietà ad oltranza tra cristiani e musulmani, vissuti
nell’obbedienza agli avvenimenti e, se necessario, fino all’accettazione del
martirio: questo è il dono inestimabile che la piccola Chiesa algerina custodisce, vive e offre alle altre Chiese e all’Islam. È l’itinerario concreto con cui una
comunità ecclesiale è realmente divenuta, almeno in alcune sue espressioni,
“solidale e insieme alternativa” 2. E i frutti stanno arrivando copiosi: per il Natale mons. Teissier non è riuscito a far fronte agli innumerevoli inviti a parlare
e a collaborare. “Abbiamo concluso da poco un grande convegno su sant’Agostino”, ci confida con soddisfazione. “L’ha voluto il Presidente della Repubblica in persona e se ne sono occupati ben 220 giornali musulmani, ora plaudendo all’iniziativa, ora criticandola. Non era mai successo”.
Dialogando con lui comprendiamo ancora una volta che a monte di tutto ciò
vi è un lungo e peculiare cammino di Chiesa, che non può essere sottovalutato 3:
in Francia e in Germania, dove la presenza di immigrati musulmani dura da decenni e dove la Chiesa cattolica è in posizione di forza, il cammino è in parte diverso, almeno nelle modalità 4; in Italia siamo ancora all’inizio e abbiamo quasi
tutto da imparare. Dopo la fase dell’accoglienza, che non può venir meno nella
misura in cui il flusso immigratorio continua di anno in anno, è la fase alquanto
problematica dell’integrazione sociale sui vari versanti (inserimento lavorativo,
domicilio, apprendimento della lingua, inserimento scolastico e servizi sociali,
rapporto con la popolazione locale) il banco di prova sul quale porre le basi di un
proficua cooperazione interreligiosa nei prossimi anni 5, quando sperabilmente
entreremo nella fase dell’integrazione piena, che già s’intravede nel patto proposto dal ministro dell’Interno Pisanu alle comunità musulmane del nostro paese.
Tuttavia, per quanto questo traguardo sia ancora lontano, non va smarrita la consapevolezza che il modello dell’integrazione, per sua natura, non è né simmetri-
2
Il riferimento è al modello ecclesiologico e pastorale proposto dal card. Martini in Ripartiamo da Dio, Centro Ambrosiano, Milano 1995, pp. 31-45.
3
H. Teissier, Cristiani-musulmani: come sono cresciute le relazioni, “Missione oggi”, aprile
2002, pp. 16-22.
4
Cfr S. Ferrari, L’Islam in Europa, Il Mulino, Bologna 1996.
5
H. Teissier, Cristiani-musulmani, p. 22: “Il messaggio di mons. Pierre Claverie [vescovo di
Orano, assassinato dagli integralisti nel 1996] è esemplare nell’insistenza appassionata perché il
dialogo islamo-cristiano sia costruito sull’impegno concreto in favore dell’uomo”. Cfr. Le vie del
dialogo secondo Pierre Claverie, “Missione oggi”, aprile 2001, pp. 29-32.
17
co né paritario: al centro, e in posizione di forza, restiamo noi, mentre sono gli immigrati ad adattarsi, volenti o nolenti, alle esigenze della nostra economia e ai vincoli del nostro ordinamento giuridico. E questo va detto con chiarezza, in tempi
in cui anche un organismo autorevole come la Corte di Cassazione riconosce che
la legge Bossi-Fini è “esclusivamente repressiva” 6. Con tutta evidenza la strada
dell’integrazione è ancora molto lunga e richiede da parte nostra, tra le altre cose,
conoscenza, molta conoscenza, non solo teorica ma sul campo, in presa diretta 7.
Conoscere l’Islam dall’interno
È in questa prospettiva che la tappa di Tamanrasset, nel cuore del Sahara, ci
è particolarmente preziosa. Quando vi giunse Charles de Foucauld, nel 1905, il
villaggio contava 42 abitanti, ora è diventato una città di circa 80.000 persone.
Qui, nella comunità delle Piccole Sorelle del Sacro Cuore, incontriamo mons.
Gagnon, vescovo dell’immensa diocesi del deserto. Maglione e berretto di lana,
la sua anziana figura è tanto esile e dimessa all’esterno quanto lucida e sapiente
nella parola. “L’Islam - ci dice - non è solo una religione, ma una visione del mondo, un sistema completo di vita, che ha al suo centro la comunità, il grande popolo di Allah (in arabo ummah, che significa madre). Questa comunità è anche la
matrice della società”. Al suo interno la società ha una struttura rigidamente piramidale, discendente, in base alla quale il potere può solo essere delegato e il popolo ha una funzione essenzialmente passiva. “La gente non è abituata ad essere
consultata, aspetta tutto dall’alto - continua - e una tale mancanza di fiducia, di
iniziativa è anche il maggior ostacolo al radicamento della democrazia”. Questa
società tradizionale (che ricorda per alcuni aspetti la nostra società di ancien régime) non è però una società chiusa: la scuola, la TV (in Algeria dove c’è un apparecchio televisivo c’è anche un’antenna parabolica), talora anche internet vi
immettono stimoli continui, che fanno emergere, soprattutto nei giovani, un bisogno crescente di consapevolezza, un inizio di coscienza critica. Questo spiega
perché su alcune questioni, come per esempio la condizione della donna, si formano gruppi o addirittura movimenti progressisti, cui si contrappongono spesso
altrettanti gruppi o movimenti tradizionalisti. “Il problema è che nessuna autorità
può legittimamente decidere quale linea interpreta il ‘vero’ Islam”.
“la Repubblica”, 26 gennaio 2003, p. 29.
H. Teissier, Cristiani-musulmani, p. 22: “Il primo segno d’amore consiste nel cogliere il
musulmano il più possibile come lui stesso si coglie”.
6
7
18
Per conoscere sul serio l’Islam dall’interno bisognerebbe percorrere fino
in fondo la via maestra aperta da Charles de Foucauld un secolo fa come declinazione del modello di un Dio che si fa carne per trent’anni nel nascondimento di Nazareth: condivisione della vita ordinaria, legami intimi di amicizia,
conoscenza approfondita della lingua e della cultura dei Tuareg. È l’itinerario
di chi, per trovare se stesso, sceglie paradossalmente di “farsi altro” da sé, cioè
in concreto di accogliere l’altro fino in fondo nella propria anima e nella propria vita, non solo riconoscendo la sua alterità, ma anche assimilandosi a lui 8.
È quanto fanno da decenni le comunità di Piccole Sorelle e Piccoli Fratelli che
prolungano in questa terra la profezia di fr. Charles.
Noi ci limitiamo a incontrare per qualche ora p.s. Martine, seduti in cerchio di fronte a lei, nella stanzetta dove la comunità riceve gli ospiti. Le Sorelle e i Fratelli (di Gesù, del Sacro Cuore, del Vangelo) conducono qui una vita
che assume il più possibile lo stile abituale delle famiglie Tuareg e ad un tempo è ritmata dalla preghiera e dal lavoro all’esterno della fraternità. Martine lavora in una scuola materna che lei stessa, insieme ad altre insegnanti musulmane, ha contribuito a mettere in piedi. Altri fratelli o sorelle sono impegnati
in centri di formazione, nell’assistenza ai portatori di handicap e ai malati di
mente (la nuova Costituzione del 1989 favorisce la nascita di associazioni di
cittadini con queste o analoghe finalità). Ma il primo fratello che ci accoglie è
Antoine Chatelard. Di lui le persone che incontriamo in albergo, o sui fuoristrada di cui ci serviamo per gli spostamenti, ci dicono che a Tamanrasset “lo
conoscono tutti, anche i bambini: è il nostro padre”. È lui, fr. Antoine, mezzo
secolo di vita con i Tuareg, profondo conoscitore della biografia di Charles de
Foucauld e acuto interprete della sua spiritualità 9, che ci accompagna prima all’Ermitage e poi al “castello”, i luoghi-simbolo della presenza di fr. Charles in
questa città. Ci descrive tutto, compresa la morte, soffermandosi con cura quasi meticolosa sui dettagli concreti: chi c’era, dove, cosa ha detto, cosa ha fatto,
in quale momento. “Di fr. Charles - ci confida - circolano troppi stereotipi disincarnati”. Mentre parla, ci sembra di vedere le scene di 90 anni fa svolgersi
sotto i nostri occhi 10. Non posso fare a meno di pensare che perfino nella morte accidentale, quella sera del primo dicembre 1916 durante la razzia di una
8
Il paradosso, squisitamente evangelico, di questo itinerario emerge con chiarezza sullo sfondo del dibattito che da tempo, in Italia e nel mondo, si è acceso intorno alla sfida del multiculturalismo: cfr Multiculturalismo e identità, a cura di C. Vigna e S. Zamagni, Vita e Pensiero, Milano
2003.
9
A. Chatelard, Charles de Foucauld. Verso Tamanrasset, trad. it., Qiqajon, Bose 2002.
10
Cfr. A. Chatelard, La mort de Charles de Foucauld, Karthala, Paris 2000.
19
banda di ribelli al “castello” da lui costruito per proteggere la popolazione
inerme, de Foucauld è assimilato al suo Signore vissuto per trent’anni nell’ordinaria oscurità di Nazareth.
Il deserto, le relazioni e la ricerca dell’essenziale
Il primo gennaio, a bordo di tre fuoristrada, partiamo per l’Assekrem, un
massiccio di 2.800 metri che si innalza in mezzo al deserto roccioso dell’Hoggar e sul quale fr. Charles costruì nel 1909 un piccolo eremo, trascorrendovi alcuni mesi due anni dopo. Il viaggio nella distesa senza fine di pietre scure bruciate dal sole è quanto mai suggestivo: “Spettacolo incantevole di silenziosa
immensità e di austera bellezza”, annoto nel mio diario. Intuisco che solo una
lunga permanenza in quel luogo arido e inospitale, ma tutt’altro che privo di
vita, potrebbe scavare nell’anima un’analoga immensità e incidervi la presa di
coscienza di ciò che realmente siamo.
Nella tradizione biblica il deserto è il luogo di privazioni continuate e insieme ricorrenti che mettono l’uomo con le spalle al muro, nudo davanti a Dio
con i propri bisogni e la propria fragilità 11, oppure l’esperienza di un’abbondanza improvvisa di cibo che porta all’ingordigia e alla nausea 12. In entrambi i
casi il deserto, vissuto nell’accettazione e non nella ribellione, conduce alla
scoperta dell’essenziale e quindi struttura una gerarchia interiore, pone a una
giusta distanza dai propri bisogni e da ciò che li soddisfa. Visto dall’Hoggar,
dove l’acqua c’è solo per cucinare e per bere, il nostro stile di vita consumistico appare singolarmente simmetrico: la consuetudine quotidiana con la sovrabbondanza esagerata di parole e di beni fa deperire nella percezione collettiva il valore delle une e degli altri e per converso porta a perdere di vista
l’essenziale, a smarrire il baricentro, a disperdersi nei frammenti.
D’altro canto, come nella tradizione biblica sul deserto l’essenziale è ritrovato nella conversione a Dio e nell’adesione sempre più piena del cuore e
della vita a Lui, così in Charles de Foucauld questa adesione è ritrovata nella
sollecitudine per l’umanità dell’altro uomo, nell’essere fino in fondo “fratello
e amico” di chiunque capitasse sulla sua strada 13. Nell’uno e nell’altro caso
Cfr. Es 15,24; 16,2-3; 17,2-3; Nm 11,4-5; 20,2-5; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13.
Cfr. Nm 11,34.
13
P.A. Sequeri, Charles de Foucauld (1858-1916). Il ministero ecclesiale della fraternità,
“Annali di Scienze Religiose”, IV (1999), p. 108.
11
12
20
sono i rapporti a insediarsi progressivamente al centro dell’esistenza, in una
continua circolarità tra il deserto e le relazioni e in una misteriosa ma reale corrispondenza tra l’amore di Dio e l’amore dell’altro essere umano, per cui la presenza di Dio si lascia presentire - silenziosa e insondabile - nell’umano dell’altro 14 e i due amori confluiscono in un’unica esperienza di vita donata e ricevuta,
cioè di salvezza. Nell’itinerario di fr. Charles, ed è qui la peculiarità profetica
del suo carisma monastico, quest’unica esperienza appare informata dalla sequela del Verbo che si fa carne nel nascondimento di Nazareth, ossia dall’assimilazione vitale al Dio che ci precede, si rivela e ci salva nella piena assunzione dell’umano, anche del più ordinario e quotidiano, anche del più “abietto”,
per usare un aggettivo a lui caro. Quanto amore, quanto rispetto, quanta delicatezza trapelano in questa nascosta assunzione!
Nell’esperienza spirituale di fr. Charles, come nella vita di ogni credente,
il simbolo di Nazareth contiene una fecondità inesauribile di declinazioni.
L’importante è che nel rapporto con Dio come nelle relazioni con gli altri sia
mantenuta la divina proporzione fra i trent’anni di incarnazione nascosta e i tre
di rivelazione pubblica, poiché ne va della qualità di entrambe. Dio ci ha amato e continua ad amarci così. “Si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà
d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” 15. Se percepissimo quanto divino c’è in
questa misteriosa assunzione, in ogni uomo, di tutto l’umano e di tutto il quotidiano la nostra vita cambierebbe volto. E forse potrebbe capitarci di “aprire
gli occhi” e di “riconoscerlo” anche in un immigrato musulmano 16. Perché
■
Nazareth è ovunque.
14
Cfr. Mt 25,31-46: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l’avete fatto a me” (v. 40). È decisiva nel versetto non solo la misteriosa identificazione di Cristo con i suoi “fratelli più piccoli”, ma anche la rigorosa continuità tra il momento dell’incarnazione e quello escatologico.
15
Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 22.
16
L’allusione è a Lc 24,13-35 (Emmaus).
21
Documenti
La memoria dell’offesa
BRUNO BETTA
La narrazione di alcune drammatiche vicende individuali, spesso poco
documentate, può ancora destare l’attenzione sul modo in cui le generazioni si
tramandano la conoscenza e l’eredità di esperienze che hanno segnato la loro
esistenza. Non è eccessivo dire che proprio in casi come questi si pone in gioco l’identità dell’uomo.
La questione della memoria è sempre aperta, non solo in astratto, per verificarne la portata e le facoltà, ma quale espressione di un legame con coloro
che ci hanno preceduto.
La testimonianza di Bruno Betta, che come altri ha conosciuto l’esperienza della deportazione e ne ha fatto oggetto di lunga riflessione e studio,
riprende la parola sui campi di concentramento e su di un racconto che, in forma diretta, finché saranno in vita i testimoni non potrà dirsi concluso.
Il testo che segue è il risultato della trascrizione di un intervento che il
professor Betta tenne il 22 aprile 1997 a Cembra (Trento), in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, nell’ambito di un’iniziativa dedicata alla memoria. (W. Nar)
i domando cosa possa significare quello che noi diciamo al cospetto
di una musica come il Preludio di Max Reger del 1915. Voi siete giovani, non avete sofferto, non conoscete la sofferenza. La sofferenza
apre gli orecchi e la mente. È la difficoltà che rende l’uomo più forte davanti a
se stesso. Questo messaggio è stato espresso attraverso la musica, con note che
a tanti di voi forse non dicono niente, perché forse non siete abituati a questo
linguaggio.
Ora, per tornare alla parola vorrei dirvi qualche cosa circa il tema che mi
è stato proposto, quello della memoria dell’offesa, un tema che riguarda la prigionia di Primo Levi ed anche la mia, di ufficiale dell’esercito italiano, ormai
quasi maggiore, e di tanti sottotenenti che venivano dalla Grecia, dalla Francia,
da ogni parte del mondo. Questo forse lo dovete sapere. In una settimana l’esercito tedesco ha portato via di sotto il naso allo stato italiano, mentre Mussolini era prigioniero sul Gran Sasso, tutto il suo esercito e lo ha portato nei cam-
M
22
pi di concentramento in Germania. Badate, i campi di concentramento non
sono stati solo quelli di Auschwitz, Mauthausen, Birkenau: i campi erano più
di duemila. In questi altri campi, accanto a milioni di russi, i tedeschi hanno accolto anche settecentomila italiani e li hanno fatti lavorare come bestie, per liberare le celle, per occuparli nelle industrie e nell’agricoltura. Fortunati, quelli che furono impiegati nei campi, perché almeno ogni tanto potevano
mangiare. Il vitto degli altri prigionieri era pessimo. Anzi non potevamo dirci
prigionieri perché gli italiani erano qualificati come militari internati.
Mussolini nel frattempo era stato liberato dal Gran Sasso ed era stato trasportato di gran carriera a Monaco. Qui Hitler gli fece capire di aver portato
in Germania il suo esercito, il che voleva dire: non hai più un soldato. Di qui
trae origine la Repubblica Sociale Italiana, la ricostruzione di un nuovo esercito, un po’ più tardi. Questo periodo è stato dominato da una bramosia di
soggezione. Ho scritto un libro sui militari internati. Sui settecentomila italiani deportati, quarantamila li abbiamo lasciati lì. Quarantamila, nel corso di
quella che di solito vien detta la Seconda guerra mondiale, cominciata l’1 settembre 1939. Non si tratta in realtà della Seconda guerra mondiale, ma della
Prima, perché mentre la Grande guerra aveva coinvolto gli Imperi centrali:
Austria-Ungheria, la Germania, la Russia, con la Francia e l’Inghilterra a
combattere i tedeschi che attaccavano, la Seconda non si è limitata a questo
scacchiere. Ha raccolto indiani, pakistani, sudafricani, ha raccolto gli americani. Avevano il più grande arsenale possibile. Questi due criminali, Hitler e
Mussolini, quando il Giappone, con un attacco proditorio il 7 dicembre 1943
colpì gli americani a Pearl Harbour, dichiararono guerra all’America, che
aveva già favorito Stalin.
Qui devo aggiungere una cosa. Due dittatori – voi non capite, qualche
volta questa cosa la chiamiamo politica, qualche volta la dobbiamo chiamare
tradimento – due dittatori si sono guardati con il sorriso fino alla fine. Si sono
spartiti la Polonia. Guardate le carte geografiche, la storia senza geografia non
ha senso. Dove si trovano questi posti? In questo mondo, diventato un villaggio globale, sempre più piccolo, su questo mondo c’erano eserciti che morivano.
I giapponesi dopo l’attacco erano scesi verso l’Australia diventando una
minaccia temibile per il mondo anglosassone. Cosa si doveva fare, allora? Attaccare. Difatti ci fu l’attacco. Avete mai guardato qualche fotografia di alcune
isole nel Pacifico? Sono delle distese di croci bianche. Avete guardato qualcosa dello Sbarco in Normandia, il 6 giugno del 1944? Un esercito di croci bianche. Siete mai stati a Merano, a vedere il cimitero? Là sono i nostri amici, i nostri compagni. Guardate, qualche volta.
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Se non siete capaci di commuovervi davanti a queste cose, se non siete capaci di pensare che il mondo è cosparso di croci, che le guerre non le fanno i
potenti, ma le facciamo anche noi, siamo noi povera gente che andiamo a crepare nelle trincee, nella Prima guerra mondiale – nella Seconda si moriva nei
carri armati – se non ne siete capaci, leggetevi qualche cosa. I carri armati, a
Mosca, avevano assalito una città di quasi tre milioni di abitanti e l’avevano lasciata con un milione e mezzo. Non c’erano carri funebri. La povera gente portava con una slitta i propri morti un po’ fuori, verso la campagna, al freddo, per
poterli seppellire in un secondo momento.
Pensate ai carri armati in marcia verso Mosca, immaginate i soldati tedeschi che guardano attraverso il binocolo e vedono le vie della città, la gente che
va e viene, i fumaioli delle fabbriche che continuano a produrre. A produrre
cosa? I carri armati, grandi quasi due volte quelli tedeschi.
***
Noi eravamo allora in Germania. Io sono andato vicino a Königsberg, città
della Prussia orientale, che non fa più parte della Germania. La guerra era nata
perché si diceva che i tedeschi dovevano appartenere alla stesso suolo. Nei
gruppi più poveri sangue e suolo dovevano per Hitler risuonare come una grande bandiera. Le musiche strazianti, i valzer, le polacche hanno ricordato la caduta di Varsavia. Voi di queste cose non sapete probabilmente niente, ma se un
giorno foste capaci di mettervi ad ascoltare questa musica, vi si aprirebbe un
orizzonte ampissimo davanti, come se ascoltaste la sinfonia di Sostakovic scritta durante l’assedio di Mosca, mentre si moriva di fame, mentre i russi cercavano di alimentare il loro esercito facendo persino una ferrovia sul ghiaccio.
Sostakovic scrisse questa famosa sinfonia. Credete che l’uomo, perché è uomo,
non debba commuoversi? Credete che non debba sentire le cose che passano
sopra il suo capo?
Quando sono stato fatto prigioniero avevo soltanto un mantello che ero andato a procurarmi nel guardaroba dei soldati, nella caserma, perché avevo vegliato tutta la notte sperando che arrivasse un comando, ma i generali erano
scomparsi. Allora la fiumana di gente si è avviata verso la patria.
Oggi si scherza sul concetto di patria. Pensate che qualche anno prima solo
il 45% degli italiani parlava l’italiano: non ci si capiva. Se c’è stato un solo merito della Prima guerra mondiale è stato nell’aver accomunato gli abruzzesi con
i veneti, nelle trincee, nel fango, nell’averli fatti intendere. Per la prima volta
dopo l’Unità c’è stata una vera unione della gente italiana, dove si è visto che
l’abruzzese è generoso quanto il veneto.
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Però, vi debbo dire, non avevo un asciugamano. Una pezza da piedi mi
è servita per sei mesi per asciugarmi il volto ed il corpo. Volevamo tenerci
puliti, nel campo di concentramento la doccia si dava una volta ogni tre
mesi. Non potete capire cosa è stato, cosa ha voluto dire vivere in quelle condizioni.
Ripenso a quello che scrive Primo Levi parlando della vita in baracca, delle latrine. In Polonia dovevi fare almeno cento metri per andare alle latrine sotto un cielo immenso, una notte di stelle; ma al ritorno, cercando di far presto
per non prendere freddo, vedevi un tuo compagno – non c’era differenza fra
meridionale e settentrionale – che faceva ciò che doveva fare davanti alla porta. Al mattino ci trovavamo davanti di tutto, ed il tedesco, al di là del reticolato, ci diceva: “Porci italiani”. Io mi dicevo: vorrei vedere te, in queste condizioni. La latrina era fatta di un solo palo, su cui si doveva salire, tenersi in
equilibrio. Sapete cosa poteva voler dire, in quelle condizioni, cadere in una latrina?
Con le mie parole vorrei invitarvi a conoscere di più queste pagine. Ha ragione Primo Levi quando dice: “Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore, / Stando in casa andando per via, / Coricandovi ed alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli”.
Gli ebrei andavano con la loro stella gialla. Quelli che potevano erano destinati al lavoro, ed avevano la possibilità di farcela, ma quelli che deperivano,
che venivano chiamati “musulmani”, erano destinati al forno crematorio. Qualcuno di voi forse ha visto un documentario in cui si interpellavano i reduci, gli
scampati, i “salvati”. Fra questi ce n’era uno che diceva di essersi salvato soltanto per essersi assunto l’incarico di portar fuori i morti dalle baracche. Non
l’ho più dimenticato. L’ultimo sul carretto è caduto a terra dicendo: lasciatemi
morire.
***
Per chi lavorava c’era un pezzo di pane in più. Il nostro tozzo di pane era
di sette, otto centimetri, ed era fatto di frammenti di paglia. Avevamo la scodella, con la quale ci si doveva lavare e fare tutto. Uno scacchetto di margarina, un cucchiaio di zucchero. Questo è quello che dovevo avere per tutta la giornata. E poi c’erano i trasferimenti.
Leggete Primo Levi. Non è una lettura facile, ma vedete con quali particolari ci narra le storie di questi disgraziati. Venivamo portati alla stazione, noi
come loro. Sui nostri vagoni c’era scritto: “Cavalli 8, uomini 40”. Ebbene, su
ciascun vagone da quaranta uomini ce n’erano sessanta. Nei trasferimenti lun-
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ghi, sapete cosa vuol dire? Ci davano un pezzo di panno in più e ci mettevano
in un vagone una specie di lavabo, simile a quello che usavano le nostre madri
per fare il bucato. Quando c’era uno scossone del treno, a volte si rovesciava.
Questo era l’avvilimento dell’uomo. Prima della partenza ci facevano aspettare fino alla sera. Si viaggiava di notte. Qualche volta, in aperta campagna, il treno si fermava, ci facevano scendere e risalire in fretta. I più anziani non ce la
facevano. Perché non sapete queste cose? Perché non leggete? Voi direte: tu tiri
l’acqua al tuo mulino. Non è vero, sapete. Io per anni non ho parlato, per anni
mi sono sentito una specie di pietra sul petto, che non mi faceva raccontare. Noi
ufficiali avevamo fatto un giuramento, di non fare delle associazioni di ex-combattenti e di ex-internati, ma poi ci siamo visti ridere in faccia. Il sottosegretario ci mise in quarantena perché si temeva che potessimo portare il morbo comunista. Noi, che avevamo patito anche in quei paesi, fummo lasciati in
quarantena. Poi, neanche un riconoscimento. Per questo si è fatta l’associazione, perché almeno ci fossero riconosciuti gli anni di servizio. Io ho fatto quarantun anni di servizio, di questi, due sono quelli della prigionia. Non me ne
glorio, è stata una pena, ma è stato anche un arricchimento.
Nei campi di prigionia le baracche dovevano contenere cinquecento persone ciascuna. Da una parte c’erano tre file di tavolacci, a castello, e ci si doveva arrampicare. Durante la notte c’era un parlottio, non si riusciva a dormire, qualche volta si sentiva dire: “Al mio paese mangiavo, c’erano delle lasagne
così buone”. La fame ci faceva parlare di piatti straordinari: “Dimmi la ricetta”. Pensate, c’era ancora gente che voleva la ricetta. Me ne ricordo ancora il
nome. “Ma cosa andate a prendere ricette, una fetta di pane pugliese, invece!
Sentirete che piatto!” Questo era, e si andava avanti fino al mattino, verso le tre,
quando si faceva una specie di silenzio. Poi c’era la sveglia, dovevamo prepararci a due appelli. Bisognava correre, essere pronti. L’appello avveniva su di
uno spiazzo, fosse bello, piovesse, nevicasse, ci fosse fango: non importava
niente. Si vedevano i meridionali nel freddo alzarsi il bavero del mantello per
difendersi dall’aria (là nel nord c’era un aria che soffiava anche la sabbia). Ci è
toccato di vedere il campo dei russi in subbuglio, lontano due chilometri. “Cosa
succede? Cosa succede?” La sabbia avrebbe potuto portare il tifo petecchiale,
e questo ci riempiva di paura.
Pensate che nel campo dove è successo questo, eravamo più di diecimila
ufficiali, con una sola pompa d’acqua, che pescava dalle acque di una specie di
torbiera, e che sapeva di zolfo. In quest’acqua si doveva fare tutto: si doveva
bere, si doveva fare il bucato.
Una volta, un sottotenente, Romeo Rosati, dopo aver lavato le sue cose,
guardando il fazzoletto di traverso per vedere se era pulito, si era quasi acco-
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stato al filo spinato. Nel campo c’era un filo spinato che portava la scritta: “Chi
tocca questo filo muore senza preavviso”, mentre al di là di questo c’era un fossato profondo tre metri e largo almeno due. Osservando tutto questo, il soldato
tedesco di guardia che per il suo gesto avrebbe ricevuto in premio un giorno di
licenza, ha sparato a questo disgraziato e lo ha steso in terra, soltanto perché lo
aveva visto alzare il fazzoletto vicino al filo.
La notte che siamo arrivati a Sandbostel era il 2 aprile 1944. Eravamo stanchi al termine di un viaggio che ci aveva portati attraverso tutta la Germania, e
poi, con altri dodici chilometri di cammino, fino al campo.
Eravamo stanchi, avevo scritto a Beatrice: “Siamo un tappeto di corpi”.
Avevamo due grandi ecchimosi sui fianchi. Lo saprete bene, se qualche volta
avete provato come è duro un tavolaccio.
Nella notte sentiamo un colpo di fucile. Avevamo avvertito subito l’agitazione che si era creata nella baracca. Il capo-baracca correva da una parte all’altra: “È uscito qualcuno di voi, è uscito qualcuno di voi?”. Apriamo la porta
e vediamo a pochi passi steso in avanti il capitano Thun.
Il capitano Thun parlava tedesco perfettamente. Aveva proposto di scambiare il suo orologio d’oro per un pezzo di pane. La guardia lo ha atteso al varco, ha preso l’orologio e poi gli ha sparato.
Io l’ho portato al cimitero, lontano pochi chilometri, assieme al capitano
Brignole e ad alcuni ufficiali trentini. L’ho portato alla tomba numero 227, me
lo sono fissato, perché mi sono detto: se ritorno in patria dirò dove è sepolto.
Una sera plumbea, perché lì il sole si vede poco, c’era sempre questo grigiore.
Due contadine, lungo il percorso, alzano un volto grottesco e ci guardano
come se vedessero delle bestie. Cosa facciamo? Caliamo in terra il capitano
Thun. Torniamo subito indietro.
***
Per tornare ancora a quella che era la vita nei lager, bisogna pensare che
fin dall’inizio in Germania c’è stata una pressione forte. Si diceva: tornate a
combattere, per l’onore della Patria, eccetera eccetera. Mussolini, senza esercito, parlava da Monaco. C’erano delle formule, alcune sono molto interessanti. “Dichiaro di combattere agli ordini del Führer e del Duce, in qualsiasi punto del fronte”. “Militiamo volontari...” Quindi, c’è stata una cosa penosa, voi
non la potete immaginare. Qualcuno diceva: “Io vorrei tornare”. “No, dobbiamo resistere”. C’è stata una lotta per la Resistenza, nei campi. C’è stata tutta
una serie di conferenze, un’azione che ho fatto io per trattenere, per persuadere, per dare notizie.
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Sapevo che c’era stato lo sbarco in Normandia. C’era una pozzanghera,
alla base del campo. Abbiamo costruito delle barchette di carta, le abbiamo fatte galleggiare in questo piccolo laghetto. Questo voleva dire: sono sbarcati.
I tedeschi si sono arrabbiati tanto, perché questo significava che avevamo
ricevuta la notizia. Avevamo anche noi le nostre fonti di informazione. L’ingegner Martignago, piemontese, aveva sottratto una dinamo della bicicletta ad un
soldato. Attraverso quella dinamo ed altri congegni era riuscito a costruire una
specie di radio, auricolare, per cui sentiva le trasmissioni di Londra.
I tedeschi erano furiosi. Ci hanno fatto stare fuori un giorno intero, dall’alba fino a sera. Rannicchiati nel freddo. Hanno messo tutto sottosopra. Poi,
abbiamo visto che in uno di questi letti a castello c’era dello sterco umano. Un
soldato aveva fatto i suoi bisogni per fare dispetto. Questi erano i tedeschi.
C’erano però anche altri aspetti. Anche un aspetto caritativo, nei polacchi
lo abbiamo constatato meravigliosamente. Nei tedeschi, ne ho un solo episodio. Un giorno, un sergente d’ispezione entra in una baracca e vede un pezzo
di pane fuori dalla norma, molto più grande del solito. “Lo abbiamo acquistato: domani è il suo compleanno”. “Nein, nein, non si può”. E lo sequestra. Ebbene, mezzora dopo è rientrato in baracca con un pezzo di pane bianco e ce lo
ha dato. “Faccia il suo compleanno”. Queste sono cose belle. Nonostante la
guerra, altre cose, la cattiveria, l’essere trattati come popolo inferiore.
Mi ricordo il recinto dei prigionieri russi. Durante la guerra ci sono stati
cinque milioni e settecentomila prigionieri russi. Ne sono sopravvissuti tre milioni e trecento e dieci. La guerra ha fatto cinquantaquattro milioni di morti, la
maggior parte civili.
La Prima guerra ne ha fatti dieci milioni, ma per lo più militari. Anche i
nostri trentini del Tirolo, delle valli, della Val Rendena, i Kaiserjäger, mandati in Galizia contro i russi e falciati come le mosche. Si diventava prigionieri facilmente. Diventati prigionieri dei russi si veniva portati nel centro
dell’Ucraina. Quando l’Italia è entrata in guerra c’è stata una missione militare in Russia. Ebbene, li raccoglievano e li portavano in un porto settentrionale, libero dai ghiacci solo per pochi mesi. Alcuni sono riusciti a raggiungere l’Inghilterra e da lì in Francia, e quindi nelle nostre città. Altri hanno
fatto tutta la Transiberiana, fino a Vladivostock. Altri in nave, fino nel Golfo
Persico.
Questo per dire della guerra. Cos’è questa stoltezza umana? Voi credete
che ci sia un ideale che spinge i combattenti? Sì, lo dicono per far sentire la patria. Quale patria? Domandavano i prigionieri. Quella di su, o quella di giù?
Comunque, una parte ha aderito, è tornata. Caduta come una mela, questa
parte ha aderito. Non so quante migliaia fossero. Poche, rispetto a noi. Hanno
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aderito. I pochi che sono rimasti fedeli agli ideali della resistenza all’oppressione, alla tirannide, sono stati deportati nei nostri campi.
Io avrei tante cose da dirvi, tante, ma l’attenzione umana è di breve durata. Io mi fermo qui.
■
(Trascrizione a cura di Michele Dorigatti e Walter Nardon)
Nota biografica
Bruno Betta, nato a Rovereto nel 1908 e morto a Trento il 27 dicembre 1997,
è stato per molti anni docente di filosofia e storia nel Liceo classico “G. Prati”
e poi preside dell’Istituto magistrale “A. Rosmini” di Trento. A suo nome si registrano più di duecento pubblicazioni, fra le quali vanno ricordati i testi di
educazione civica, i saggi di filosofia ed in particolare due libri: 3653 giorni
tra umano e disumano e Il tempo di Evandro, scritti a partire dalla propria
esperienza di guerra e di prigionia. Per il suo impegno nell’educazione civica
ottenne una citazione da parte dell’Accademia dei Lincei. Ufficiale dell’esercito italiano, antifascista e membro di “Giustizia e Libertà”, conobbe per esperienza diretta la realtà dei campi di concentramento nazisti. Medaglia d’oro
del Ministero della Pubblica Istruzione, fu insignito della Prima Medaglia d’oro della Scuola trentina, conferita nel 1997 dall’Assessorato all’Istruzione della Provincia Autonoma di Trento.
Ricordando l’iniziativa nella quale Betta intervenne, corre l’obbligo di
ringraziare p. Fabrizio Forti, Silvio Toniolli e Nicola Fadanelli, che eseguì la
composizione di Reger cui Betta fa riferimento in apertura. Il testo è stato in
parte anticipato su “L’Adige” del 27.12.2002, in occasione del quinto anniversario della scomparsa dell’autore. (M.D., W.Nar.)
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Società
Parti uguali tra disuguali
Povertà, disuguaglianza e politiche
redistributive nell’Italia di oggi
(un commento al testo di Ermanno Gorrieri)
PAOLO GRIGOLLI
“Nulla è più ingiusto che far parti uguali fra disuguali”.
Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa (1967)
rmanno Gorrieri, che ha partecipato con Giulio Pastore alla fondazione della CISL ed è stato deputato nella III legislatura e Ministro del
Lavoro nel VI Governo Fanfani, presiedendo le Commissioni governative relative ai rapporti tra pensioni, reddito, lavoro, famiglie, analizza nel
suo nuovo testo (Parti uguali tra disuguali, Il Mulino, Bologna 2002) un problema che troppo spesso viene accantonato in un’epoca di liberismo nella
quale si viene contagiati dall’idea che tutti gli strati sociali, con la sola eccezione di una ristretta area di poveri, abbiano raggiunto un buon livello di benessere.
L’autore riporta al centro la riflessione relativa all’effettivo godimento delle libertà di base della democrazia, legate alla partecipazione dei cittadini ai
beni materiali e immateriali di cui dispone la società.
Se è vero che la stessa Costituzione afferma che ostacoli di ordine economico e sociale limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, è altrettanto vero che la diversa distribuzione di quei beni influenza l’effettivo esercizio della libertà e la parità dei cittadini di fronte alle possibilità offerte dalla
società. Risulta così determinante che adeguate politiche economiche e sociali perseguano la riduzione delle disuguaglianze per l’ampliamento delle libertà.
Si impone così una nuova etica della responsabilità, un ripensamento radicale del modo di essere e di funzionare dei servizi e, nello stesso tempo, la
rivalutazione di parole come competizione sociale e meritocrazia.
L’analisi di Gorrieri, relativa alle misure a sostegno del reddito delle fasce
deboli della popolazione italiana, basata sullo studio dei provvedimenti soprattutto di ordine fiscale adottati negli ultimi decenni in Italia, propone una disa-
E
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mina degli orientamenti culturali e politici che hanno di volta in volta determinato le decisioni che hanno influito su milioni di famiglie, oltre a fornire una
serie di suggerimenti di politica economica e sociale.
Disuguaglianze ed equità sociale
Con riferimento alle crescenti disuguaglianze, che conseguono a fenomeni quali la competitività, la flessibilità, i cambiamenti del lavoro, è necessario
verificare se e come sia possibile contrastare le disuguaglianze ingiuste e intollerabili.
Ci si illude che il fenomeno delle disuguaglianze possa essere consistentemente ridotto con politiche tendenti a garantire a tutti pari opportunità, ma
poiché i risultati ottenibili per questa strada sono lungi dall’essere risolutivi,
le istituzioni pubbliche, con il concorso delle varie forme partecipative della
società, debbono promuovere processi di redistribuzione delle risorse, a cominciare da quelle primarie come l’istruzione, il lavoro e i servizi sanitari.
Nell’attuale clima culturale, l’equità sociale può essere perseguita solo
con obiettivi ragionevoli cercando il raggiungimento di un traguardo costituito non da un minimo vitale, ma da una soglia minimale di benessere.
Si tratta così di dare una definizione nuova e dinamica di povertà, che
metta in luce i meccanismi che sono alla base della marginalizzazione e che
va oltre la semplice mancanza di risorse in quanto implica un passaggio dalla
chiave distributiva a quella relazionale. Le nuove povertà sono infatti prevalentemente urbane, caratterizzate da rottura con le reti familiari e relazionali,
da una caduta delle aspettative, dalla perdita di valori simbolico-esistenziali e
quindi da estraniazione rispetto al contesto sociale.
La costituzione di Commissioni Governative ha portato alla definizione di
una “soglia di povertà assoluta”, mediante una convenzione che, cita Gorrieri,
considera tale soglia una spesa disponibile per consumi pari a 1.055.000 lire
mensili per l’anno 2000, per un nucleo di due persone.
In base a questa soglia, circa il 14% delle famiglie italiane vive in condizioni di povertà.
C’è tutto un universo, che va dagli anziani che vivono nell’abbandono senza legami familiari e affettivi fino agli immigrati che non sono riusciti a trovare un minimo di sistemazione lavorativa e abitativa, così come le molte “situazioni di povertà silenziosa” di famiglie afflitte da carenze immateriali, da
logoramento o da frattura dei legami affettivi, ma il dato più allarmante è forse
quello relativo all’incidenza della povertà tra i minorenni e le loro famiglie che
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è aumentata significativamente negli ultimi anni ed è pari al 16% delle coppie
con due figli minori e al 26% per le coppie con 3 o più figli.
La povertà tra i minori contraddice infatti i più elementari principi di uguaglianza delle opportunità e compromette le aspettative di reddito futuro. Lo svantaggio potenziale di più lungo periodo, infatti, sia in termini di minore istruzione,
difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro, rischi di esclusione sociale, deriva dall’essere poveri nella fase iniziale del ciclo di vita (v. Famiglie povere con figli minori: l’Italia che non vorremmo, Chiara Saraceno in “Il Mulino”, n.1/2002).
D’altra parte, analizzando la distribuzione del reddito tra i circa 20 milioni di famiglie italiane, si nota che i 2 milioni di famiglie più ricche dispone di
un reddito di 14 volte superiore a quello di quelle più povere. (Fonte: Bollettino Statistico della Banca d’Italia n. 6, 2002).
La variabilità di queste situazioni, unita alla loro dispersione sul territorio,
ne rendono da un lato difficile la loro “tracciabilità”, mentre dall’altro diventano in molti casi inefficaci gli strumenti legislativi concepiti in maniera estensiva rispetto a parametri che tengono in considerazione solo il reddito e la numerosità del nucleo famigliare.
Peraltro, le dimensioni della disuguaglianza vanno ampliate all’istruzione,
all’occupazione e alla qualità del lavoro, alla situazione abitativa, ai contesti ambientali, educativi e relazionali, alla disponibilità e alle forme di accesso ai servizi sanitari e altri che, in molti casi, dipendono dall’area territoriale in cui si vive.
Mentre l’attenzione si concentra spesso sui casi limite di indigenza, vengono ignorate le situazioni di chi riesce a “tenersi a galla” sul filo del rasoio,
con rinunce e preoccupazioni continue, tanto che l’autore ipotizza una costante rimozione del problema dovuta al fatto che chi opera in posizioni di rilievo
in campo politico e della comunicazione non vive e non interagisce con tali situazioni.
Povertà e redistribuzione del reddito
Gorrieri afferma con forza che il primo obiettivo di una politica contro le
disuguaglianze è quello di assicurare a tutti pari opportunità, mettendo tutti in
uguali condizioni di partenza nella corsa della vita, per permettere ad ognuno
di farsi strada, grazie al suo impegno nel mettere a frutto i propri talenti, ma allo
stesso tempo si domanda se tale obiettivo sia realmente perseguibile.
Una questione di straordinaria importanza nell’approccio relativo agli interventi connessi alle problematiche sopra descritte si rifà al dibattito tra universalismo e selettività legate rispettivamente all’idea di appartenenza dei cit-
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tadini a una comunità che li pone quindi tutti sullo stesso piano e a tutti dispensa servizi e prestazioni, senza differenziare i destinatari, oppure all’idea
che a fronte di un’uguaglianza formale non corrisponde un’uguaglianza sostanziale e che trasferimenti di reddito, sgravi fiscali, accesso ai servizi devono
tenere conto delle diverse situazioni.
È solo a partire dagli anni Ottanta che vengono adottati dei criteri di selettività per l’erogazione di contributi, agevolazioni e altre forme di redistribuzione del reddito che portano al superamento dell’idea di assistenzialismo universalistico per approdare a interventi selettivi. Tali misure derivano dalla
consapevolezza che il bilancio statale non è più in grado di offrire pari condizioni di accesso ai servizi a tutti pena lo scadimento o la riduzione dei servizi
e dalla presa di coscienza che è corretto differenziare tariffe e aiuti in base al
reddito dei cittadini.
Diventa quindi determinante, a tali fini, un preciso sistema di accertamento dei mezzi mediante l’evoluzione delle dichiarazioni dei redditi, un sistema
informativo efficiente e un efficace apparato di controllo.
Inoltre, nel quadro di una politica redistributiva, è determinante considerare il nucleo di riferimento della persona e, qualunque sia il giudizio sulla validità e sul grado di importanza attribuito all’istituto familiare, non si può ignorare il fatto che oltre il 90% degli italiani vive nell’ambito di tale tipo di
convivenza. Ferma restando la definizione costituzionale della famiglia come
“società naturale fondata sul matrimonio”, è evidente che l’evoluzione della società (e la legge anagrafica) porta a considerare una famiglia un insieme di persone che hanno come caratteristica quella di coabitare. Questo tema solleva la
questione delle unioni di fatto che, per ragioni ideologiche o di polemica, viene sopravvalutata nella sua importanza, in quanto il fenomeno riguarda
350.000 unità su circa 21 milioni di famiglie.
Gorrieri, insieme alla disamina sull’evoluzione degli strumenti legislativi
e tecnici, porta sempre la riflessione sul dibattito culturale e politico dell’ultimo trentennio e approfondisce in maniera esemplare i vantaggi e gli svantaggi
di alcuni strumenti come le agevolazioni fiscali, evidenziando le conseguenze
delle deduzioni dal reddito e delle detrazioni d’imposta, le pensioni d’anzianità, gli assegni sociali e familiari e il reddito minimo d’inserimento.
Le argomentazioni esposte nel testo mirano al tema della redistribuzione
monetaria del reddito attuata mediante opportune politiche dello Stato sociale,
fondate sull’universalizzazione delle prestazioni e dei servizi e coniugate con
l’applicazione di criteri di selettività basati sulla condizione economica dei destinatari alla ricerca di un equilibrio nuovo, reso necessario dalla scarsità delle
risorse e dall’emergere di nuovi bisogni.
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Gorrieri non risparmia critiche all’azione politica dello schieramento di
centro-sinistra che dopo una prima fase (1996-1998) di interventi basati sull’idea di universalismo con selettività, nel triennio successivo utilizzarono il sistema fiscale come strumento unico di redistribuzione del reddito, con conseguente abbandono dei criteri di selettività. In questo, l’Autore vede il persistere
del mito dell’universalismo puro, dell’affievolirsi dell’impegno a tradurre sul
terreno dell’azione politica il valore della solidarietà e l’emergere di posizioni
neo-liberiste nello sforzo di darsi una nuova immagine e identità.
Gorrieri, sulla base di alcuni spunti e riflessioni ben documentati ci comunica che si potrebbe realmente pensare a formulare un progetto significativo di rottura con il pensiero unico dominante e riprendere una tradizione di
pensiero legata a forme di welfare attente alle fasce più deboli della popolazione senza demonizzare fenomeni quali la globalizzazione, la flessibilizzazione
e la competizione di tutto il sistema, ma affermando forme di welfare di accompagnamento a fronte dei rischi sociali.
Libertà e capacità di scelta
È importante mettere a raffronto e sostenere la riflessione di Gorrieri, che
si situa all’interno del panorama italiano, con quanto ci proviene da Amartya
Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, il cui pensiero spazia tra filosofia,
economia e sociologia.
Si possono trovare importanti punti di contatto tra questi autori che tentano di andare oltre il riduzionismo economico per favorire l’espressione di forme di “immaginazione morale” di cui spesso manchiamo e portarci in un terreno dove l’idea di libertà si associa alla possibilità di conseguire la propria
autorealizzazione.
In particolare, facendo sintesi di alcune tesi di fondo di Sen, secondo le
quali è la soggettività dell’individuo il fondamento del rapporto sociale, il quale va edificato o – se il caso – ricostruito a partire da soggetti che sono capaci
e liberi di scegliere. Non può dunque essere una pretesa di eticità avanzata da
un qualche macrosoggetto assunto come categoria primitiva, sia esso la comunità, la classe, lo stato o altro ancora, a fondere la socialità, perché quest’ultima presuppone la libertà di scelta.
La ragione è semplice ed è che il vivere in comune non è un’opzione per
la persona, vale a dire che la scelta non è mai tra il vivere in solitudine o vivere in società, ma tra vivere in società sorrette da certe regole oppure da altre.
L’organizzazione sociale allora può essere vista, come sostenuto da Crowley,
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come un tentativo di creare opportunità per gli uomini affinché diano voce a
quello che hanno scoperto circa loro stessi e il mondo e affinché persuadano gli
altri del valore di quello che hanno scoperto.
Nel saggio Mercati e libertà di scelta, Sen si preoccupa di chiarire l’importante distinzione tra libertà di agire e libertà di conseguire, anche pensate
in termini di libertà come autodeterminazione e libertà come autorealizzazione. Se ciò che caratterizza la prima nozione di libertà è il rispetto dell’altrui libertà, quello che contraddistingue la libertà come autorealizzazione è la
relazione con l’altro intesa come condizione di affermazione dell’identità
personale.
Sen mette inoltre in evidenza il fatto che la cultura della modernità ha
eroso, nel corso del tempo, il fondamento relazionale dei valori, i quali hanno finito con l’acquisire una dimensione sempre più privata, quasi facoltativa. Soggettivizzando i valori, ovvero retrocedendoli a livello di preferenze individuali, questa cultura ha negato o sminuito la carica sociale che i valori
sempre hanno.
Un altro spunto della riflessione di Sen che appare decisivo a sostegno degli argomenti portati da Gorrieri si ricava dalla riflessione relativa al tema della
disuguaglianza e più in generale a quello della giustizia nel meccanismo di mercato. Esso viene esemplificato molto chiaramente nell’abbinamento tra disuguaglianza di reddito e vantaggi disuguali nel convertire i redditi in capacità. Così il
disabile, il malato, il vecchio o l’handicappato possono avere da un lato molte
più difficoltà nel trovare un buon lavoro e guadagnare un reddito decente, dall’altro affrontare anche maggiori difficoltà nel convertire il reddito in capacità di
viver bene. Quegli stessi elementi che possono rendere una persona povera in
termini di reddito e di possesso di beni, possono metterla in condizioni di svantaggio nell’ottenere una buona qualità della vita, anche a parità di reddito.
La connessione tra la capacità di guadagnare reddito e quella di utilizzarlo è certamente un argomento fondamentale nello studio della povertà. Una risposta ai tanti interrogativi sollevati ci deriva addirittura da Agostino, quando
scrive: “Cos’è una comunità di cittadini se non una moltitudine di persone unite tra loro dal vincolo della concordia? Nello Stato, quello che i musicisti chiamano armonia, è la concordia: la concordia civica non può esistere senza la giustizia” (De Civitate Dei, 2, 21).
E, in effetti, “Perché mai”, scrive Stefano Zamagni nell’introduzione al testo di Amartya Sen La ricchezza della ragione, gli “agenti economici dovrebbero fidarsi gli uni degli altri e mantenere gli impegni contrattualmente presi se
vi è la percezione o la consapevolezza che il risultato del gioco di mercato è
■
manifestamente ingiusto?”
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Testimoni
Balducci, la Chiesa e la pace
Un convegno a dieci anni dalla morte
ALBERTO LEPORI
conclusione del decimo anno dalla morte di padre Ernesto Balducci,
durante il quale in numerose località italiane fu ricordata la sua figura
d’apostolo del Concilio Vaticano II e di predicatore di pace, la fondazione a lui dedicata (Fondazione Ernesto Balducci, via della Badia dei Roccettini 9, 50016 San Domenico di Fiesole) ha organizzato nei giorni 6 e 7 dicembre 2002 un convegno storico, patrocinato dalla Regione Toscana e dalla
Provincia di Firenze, cui ha contribuito una dozzina di professori universitari e
ricercatori, tra cui Bruna Bocchini Camaiani che sta curando il riordino dell’archivio depositato presso la Badia, e Luciano Martini, per lunghi anni direttore della rivista “Testimonianze”, ambedue autori di recentissimi volumi storici sulla figura e l’attività dello scolopio.
A
Testimoni e storici
L’interesse del convegno – il cui sottotitolo indicava “La Chiesa, la società, il dibattito politico culturale” in cui visse e agì padre Balducci – è consistito nell’accostamento, alle testimonianze di chi lo conobbe di persona e ne fu
collaboratore o discepolo, delle indagini di studiosi che ne ricostruiscono l’insegnamento e le iniziative sulla base dei diari, delle pubblicazioni, dei documenti e della corrispondenza: una preziosa memoria di cinquant’anni di storia
della Chiesa e d’Italia. Padre Balducci, infatti, fu partecipe e spesso protagonista di avvenimenti che segnarono profondamente quella stagione: basta elencare la collaborazione col sindaco Giorgio La Pira nei convegni fiorentini, la
condanna penale per avere difeso l’obiezione di coscienza al servizio militare
e l’azione svolta col deputato Nicola Pistelli per il suo riconoscimento, la tentata mediazione tra il vescovo Florit e la Comunità dell’Isolotto, ridottasi a celebrare l’Eucarestia in piazza, le innumerevoli conferenze in ogni regione italiana per far conoscere l’aggiornamento promosso da Papa Giovanni e dal
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Concilio, la collaborazione col senatore Mario Gozzini per il rispetto dei diritti umani dei carcerati e per un equo giudizio dei terroristi “dissociati”, i convegni per la pace negli anni ottanta e la promozione dell’editrice “Cultura della Pace”.
Dalla riforma della Chiesa...
Tra i molti temi evocati durante il convegno, due hanno particolarmente
attirato l’attenzione di relatori e partecipanti: dapprima l’impegno di padre
Balducci per la riforma della Chiesa cattolica, da lui conosciuta negli anni della repressione pacelliana e che sperò potesse essere attuata con una rapida applicazione delle novità conciliari; quando l’utopia di Papa Giovanni (del quale scrisse un affettuoso ricordo) gli sembrò ormai abbandonata; e poi
l’impegno degli ultimi due decenni della sua vita (peraltro improvvisamente
stroncata da un incidente stradale) nella predicazione della pace, divenuta già
per La Pira “obbligata” nell’età atomica, e dei diritti dell’uomo, giudicando
questa essere la via (ma l’hanno detto ripetutamente anche gli ultimi Papi) per
realizzare il Vangelo nel mondo moderno.
Sull’ultima polemica pubblica relativa alla “guerra del Golfo”, condotta
specialmente dalle colonne del quotidiano “L’Unità”, Balducci si trovò quasi
isolato a condannare la pretesa “guerra giusta” (approvata persino dal filosofo
Bobbio) e contro la tesi pacifista ormai inconcludente. Egli aveva salutato
come “grande realtà etico-politica” l’intervento regolatore del Consiglio di Sicurezza, in base ai compiti indicati nella Carta delle Nazioni Unite, purtroppo
condotto poi all’insuccesso per la “precipitazione” (e forse anche la malafede)
degli Stati Uniti.
... al pacifismo istituzionale
Scoppiata la guerra, non mancò di condannarla aspramente, specialmente denunciando la sofferenza e la morte di migliaia di civili innocenti (non conosceva ancora quanto oggi sappiamo delle spaventose conseguenze dirette e
indirette di quell’intervento criminale), ma indicando per il futuro la possibilità della soluzione pacifica dei conflitti tramite quello che, a Firenze, venne
chiamato il suo “pacifismo istituzionale”, cioè la piena realizzazione di un ordine giuridico internazionale capace di conservare la pace quando sarà resa
giustizia a tutti i popoli. Balducci allora (dieci anni fa, ma sembra che ancora
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solo una minoranza di politici l’abbiano compreso) aveva profetizzato che il risultato di quella guerra sarebbe stato il terrorismo!
A conclusione del convegno (presenti, tra altri “testimoni”, Giovanni
Franzoni, Raniero La Valle e Giancarlo Zizola) è stato ricordato, nell’odierno
momento storico, altrettanto drammatico di quello dell’inverno 1991, che padre Balducci diceva tuttavia di nutrire un “ottimismo realista”, perché vedeva,
pur tra tante distruzioni e minacce, qua e là le gemme di una possibile primavera.
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