Carla Pakistan Ambiente Malasanità Storia di un
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Carla Pakistan Ambiente Malasanità Storia di un
R Anno VII - Numero 7 - 4 aprile 2014 eporter nu ovo Malasanità Quando l'ospedale uccide Ambiente Geografia dei disastri ambientali in Italia Carla Adolescenza e autolesionismo Pakistan Vagoni per sole donne Aborto e legge 194 Storia di un provvedimento non applicato Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli R 3 6 Storia di un provvedimento non applicato Il numero degli obiettori di coscienza cresce in modo esponenziale di anno in anno, con percentuali altissime nel Lazio e nel Sud Italia. 8 10 Quando l'ospedale uccide Adolescenza e autolesionismo Tra gli adolescenti sono oggi molto frequenti atti di autolesionismo condivisi sulla rete attraverso vari social. Una riflessione sul tema con alcuni esperti. Quando a morire è un bambino, rimane solo il vuoto incolmabile della disperazione: il sistema diventa un nemico, la società viene vista con l’occhio della disillusione, il dottore si trasforma in assassino. 15 Per una geografia dei disastri ambientali in Italia Porto Tolle, Bussi, Vado Ligure, Taranto, Terra dei fuochi: sono solo alcuni dei luoghi che la cronaca ha fatto conoscere agli italiani come emergenze ambientali. 12 Partecipazione via web e necessità di tutela Internet, cittadini e democrazia: Stafano Rodotà parla dell’evoluzione della politica moderna. Tra rischi e bisogno di garanzie. Bosnia: il vento di protesta tra speranza e rassegL’intervista a Francesco Quintano, corrispondente Ansa da Belgrado, sulle proteste di febbraio in Bosnia, le più violente dalla fine della guerra degli anni Novanta 17 L'apartheid rosa del Pakistan: vagoni per sole donne Le figlie di Benazir tra protezione e segregazione. La condizione femminile resta inquietante in tanti paesi del mondo SOMMARIO R Aborto e legge 194 POLITICA IL CASO Storia di un provvedimento non applicato Il numero degli obiettori di coscienza cresce in modo esponenziale di anno in anno, con percentuali altissime nel Lazio e nel Sud Italia Ludovica Liuni Nell’Italia delle attese infinite e della burocrazia anche un momento delicato come quello di chi sceglie l’aborto deve sottoporsi a una lunghissima trafila. Come se non bastasse, a complicare le cose di chi non sempre facilmente affronta questo evento, interviene un fattore determinante: l’obiezione di coscienza. In Italia, infatti, il numero di ginecologi che si rifiutano di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è cresciuto negli ultimi 30 anni del 17,3%. Prima del 1978 l’aborto in Italia era considerato un reato; anni di lotte e manifestazioni hanno permesso di vincere una battaglia importante nel campo dei diritti civili. La legge 194 del 1978 consente a tutte le donne di poter ricorrere all’IVG in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione. In caso di eventuali problemi di natura terapeutica (pericolo di vita per la donna o malformazione del feto), si può intervenire anche una volta superato il termine dei tre mesi. Questo risultato è stato salutato come il primo passo verso una maggiore tutela delle donne. Eppure, a 36 anni di distanza da quel traguardo, molti aspetti del provvedimento fanno ancora discutere. Tra questi, appunto, la possibilità da parte dei medici di essere obiettori di coscienza, rifiutandosi di praticare un’IVG; secondo le stime del Ministero della Salute si tratta di oltre il 70% dei ginecologi italiani. Per garantire maggiore tutela alle donne che hanno deciso di abortire, nel 2008 è nata la Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’Applicazione della legge 194). La dottoressa Silvana Agatone, la presidente, ha spiegato a Reporter Nuovo quali sono le attività svolte, spesso tra mille difficoltà: “Noi monitoriamo la situazione e cerchiamo di mantenere vivo il problema nell’opinione pubblica. Ma siamo pochi e molti di noi stanno per andare in pensione. Il rischio è che in futuro le donne si troveranno nella condizione di dover abortire senza più medici disposti ad aiutarle, quindi la legge 194 resterà soltanto un atto scritto” I numeri del Ministero della Salute parlano chiaro: nel Lazio, ad esempio, soltanto 25 strutture praticano l’interruzione volontaria di gravidanza e oltre l’80% dei medici sono obiettori. Percentuali che salgono nel Sud Italia, § "C’è un fenomeno di sommersione. In Italia non funziona né la contraccezione 3 né l’educazione sessuale" R 5 IL CASO con picchi che toccano quasi l’85% in Sicilia e Molise, ma che chiamano in causa anche il Veneto, unica eccezione di un Nord decisamente più evoluto. Eppure, secondo gli studi condotti dalla Laiga, le cose non stanno proprio così: “I nostri numeri ci dicono che nel Lazio siamo al 91,3% di obiettori nel 2012. Un altro dato poco chiaro che arriva dal Ministero della Salute è quello sulla diminuzione dell’IVG (-5% rispetto al 2011), che però non tiene in considerazione un possibile aumento dell’aborto clandestino”. Le donne che decidono di abortire, dunque, sono spesso costrette a compiere veri e propri pellegrinaggi alla ricerca di un presidio sanitario idoneo, non senza ulteriori rischi per la loro salute fisica e psicologica. Ma quali sono i fattori alla base dell’obiezione di coscienza? Lo abbiamo chiesto a Lea Fiorentini, attivista della rete Womenareurope, che raccoglie più di cento associazioni in tutta Italia per la tutela dei diritti delle donne: “Secondo i dati nel 90% dei casi si tratta di un’obiezione di comodo. Purtroppo dove c’è un direttore sanitario o un primario obiettore questi episodi aumentano. Di fatto sembra un modo per non avere problemi nel fare carriera”. La ricerca di una struttura adeguata allunga i tempi di attesa, non senza spiacevoli conseguenze: “Ovviamente ogni settimana che passa aumentano i rischi per la donna, per l’intervento stesso e per il recupero, ma anche per le future gravidanze”. Tutto questo costringe spesso le donne a riparare all’estero per accorciare i tempi di attesa. È notizia di pochi giorni fa la possibilità di somministrare la pillola abor tiva RU486 in day hospital anche nel Lazio, sull’esempio di To scana, Umbria ed Emilia Romagna. Sollecitata dalle associazioni vicine alle donne e ai loro diritti, la giunta di N icola Zingaretti ha deciso di "Nel Lazio soltanto 25 strutture praticano l’interruzione volontaria di gravidanza e oltre l’80% dei medici" dare l’oppor tunità di abor tire senza sottoporsi al consueto ricovero di 3 giorni. Un notevole passo in avanti, come ci ricorda la dottoressa Agatone: “Finora abbiamo avuto molte difficoltà perché con il ricovero ob bligatorio l’ospedale era costretto a bloccare un letto per 72 ore, con il repar to spesso stracolmo. Adesso con il day hospital le cose dovreb bero andare meglio, ma bisogna te nere conto che siamo in pochissimi a fornire questo ser vizio” Intanto, accogliendo il ricorso della Laiga e dell’I ppf (I nternational Planned Parenthood Federation), il Consiglio d’Europa ha riconosciuto che l’I talia non garantisce l’effettiva applicazione della Legge 194. E allora che fare? Agire a livello normativo o aumentare i controlli negli ospe dali? La dottoressa Agatone non ha dubbi:“Basterebbe una corretta ap plicazione della legge, che nell’articolo 9 recita che tutti gli ospedali devono garantire il ser vizio. Purtroppo non c ’è nessuno che controlli che questo av venga”, inoltre “i ginecologi non obiettori vengo no spesso mandati da un ospeda- le all’altro a fare gli inter venti, con conseguente peggioramento della qualità della vita e rimborsi spese che spesso faticano ad arrivare”. D’altronde il problema centrale resta quello della formazione: “A Roma due scuole di specializzazione in ginecologia non hanno nemmeno il centro per l’interruzio ne volontaria di gravidanza, per cui spesso i giovani medici terminano i loro studi senza saper aver mai praticato un abor to”. Si tratta di un dato allarmante che non lascia ben sperare nemmeno per il futuro. Come ricorda Lea Fiorentini: “C ’è un fenomeno di sommersione. In I talia non funziona né la contraccezione né l’e ducazione sessuale”. Alla base c ’è una fondamentale mancanza di informazione anche tra i più giovani, per cui sarebbe oppor tuno intervenire già negli anni della scuola istituendo corsi di educazione sessuale, per prevenire scelte comunque difficili per chiunque e non di meno per formare un’opinione pubblica più consapevole e attenta ai diritti civili. R { LE FERITE DI CARLA Adolescenza e autolesionismo Tra gli adolescenti sono oggi molto frequenti atti di autolesionismo condivisi sulla rete attraverso vari social. Una riflessione sul tema con alcuni esperti. Eugenio Murrali Sono due i tagli simmetrici sulla mano di Carla notati da Nicola, che il pomeriggio le dà lezioni di italiano. Carla è il nome di fantasia di questa bambina di dodici anni e studentessa di una scuola media romana, che alla domanda di Nicola, “Come te li sei fatti?”, svia la risposta. Ma è lei a incarnare un fenomeno sempre più in crescita tra gli adolescenti, quello dell’autolesionismo. Un primo esperimento di cutting - Carla ha poi mostrato fiera al suo docente delle foto, trovate su internet, con adolescenti coperti di ferite sulla schiena e sulle braccia.“Ma perché si tagliano?”, aveva chiesto lui, e qui Carla aveva risposto: “Non lo sai che se soffri e ti tagli il dolore passa dalla tua anima al tuo corpo”. Una riposta che ha sorpreso l’insegnante e lo ha indotto a informare i genitori della ragazza di quelle ferite. Carla è una “perdente”? - Certo che no, non è una “perdente”, definizione brutta ma in voga. No, nessuno oserebbe prenderla in giro o dirle che è una “sfigata”. Carla è spavalda, ha l’attitudine della leader, è intelligente e bellissima, ha due grandi occhi azzurri che accendono il suo ovale latteo. La giovane apparentemente non ha ragioni per volersi male, anzi, lei è una che vince, ha vinto dei provini di cinema, ha vinto gare, vive in una casa ricca con il frigorifero e la dispensa pieni di cibi succulenti, i genitori sono due eccellenti professionisti e la adorano, i nonni passano i loro pomeriggi a coccolarla e una domestica è sempre a sua disposizione. E allora perché? - Per Maria Grazia Fusacchia, psicoanalista e psicoterapeuta dell’età evolutiva, consulente del Tribunale per i Minorenni di Roma il problema dell’autolesionismo adolescenziale ha radici profonde: “Io penso che la questione evidenzi problematiche relative alla difficile costruzione dell’identità. La posta in gioco dell’adolescente è quella di appropriarsi del "La posta in gioco dell’adolescente è quella di appropriarsi del corpo sessuato e di emanciparsi dalla relazione di dipendenza dai genitori" 6 corpo sessuato e di emanciparsi dalla relazione di dipendenza dai genitori”. La psicologa ci spiega che il corpo è un fondamento dell’identità, perché, come diceva Freud, l’“io” è prima di tutto un “io corporeo”. Ma c’è un punto essenziale, il bambino deve arrivare bene all’adolescenza, con una personalità in grado di affrontare lo sconvolgimento della pubertà: “Se il bambino non ha potuto gettare le fondamenta della propria personalità, personalità che si va edificando a poco a poco nel corso dello sviluppo mediante il fondamentale apporto della madre e della coppia genitoriale, arriverà al momento dell’adolescenza sprovvisto di strumenti adatti ad affrontarla”. Continua la psicoterapeuta: “La potenzialità orgasmica con cui l’adolescente si confronta è del tutto nuova (i bambini non hanno l’orgasmo) e lo espone, come nel caso del neonato, all’impatto con una realtà (esterna ed interna) di cui non ha esperienza, questa sarà tutta da costruire e da inventare sulla base di una reciprocità di scambi tra l’adolescente e il mondo esterno. Questa situazione ha in sé tutte le potenzialità traumatiche, come pure di apertura e di scoperta”. Conoscere i limiti, riconoscere i ruoli - Quindi molti bambini oggi arrivano all’adolescenza senza aver costruito delle buone fondamenta della loro personalità e uno degli esiti possibili di queste carenze sarebbe l’autolesionismo. La dottoressa Fusacchia ci spiega poi anche alcune delle cause:“Un appiattimento o una negazione delle differenze (generazionali, di ruolo e di sesso) può avere come conseguenza il fallimento delle esperienze strutturanti primitive e renderà oltremodo complessa e difficile la gestione dei compiti evolutivi successivi, come la gestione R 7 LE FERITE DI CARLA del corpo sessuato in adolescenza e dell’aggressività− precisa l’esperta −, o anche la possibilità di riconoscere la differenza tra libido e aggressività. Sul corpo collassa il fallimento psichico”. Come a dire che i genitori devono fare i genitori e i figli i figli, la confusione dei ruoli, delle differenze e l’assenza di un’autorità, pur nel contrasto, non porterebbero a nulla di buono. Cutting e erotismo - A proposito di cutting, la Fusacchia ricorda poi che, secondo Freud, la pelle è la zona erogena per eccellenza: “La pelle è quell’organo che definisce il nostro confine corporeo e contemporaneamente è l’area di contatto tra il soggetto e l’ambiente, in primis la madre”. L’adolescente che si taglia può rientrare nella categoria degli ipocondriaci, afferma la psicologa: “Che cosa fa l’ipocondriaco? Trasforma l’organo sofferente in zona erogena. Quindi il dolore dell’ipocondriaco nasconde un godimento. Freud si è molto interrogato circa la natura e la qualità del dolore e una delle sue ipotesi è che il dolore sia un eccesso di piacere”. Edipo, di nuovo lui – “Nel momento in cui l’adolescente diventa pubere, è in grado, come Edipo, di uccidere il padre e di possedere la madre. Non siamo più sul piano della fantasia come con il bambino, per l’adolescente c’è la possibilità che tali eventi si avverino, con tutta la paura delle nuove capacità che sono intrinseche al nuovo corpo sessuato”. L’adolescente autolesionista ha quindi, secondo la Fusacchia, “un doppio movimento psichico” da un lato questo corpo sessuato lo affascina, dall’altro lo terrorizza e quindi “il taglio è anche espressione del rifiuto e del diniego a compiere questo processo di integrazione psico-somatica”. Un fenomeno in crescita? - I dati sull’autolesionismo sono ancora insufficienti per un’analisi globale del fenomeno, ma il SIBRIC, un portale interamente dedicato a questo comportamento, rende noti alcuni primi risultati scientifici: Da alcuni anni, in Italia, così come già successo in altri paesi occidentali, sembra diffondersi sempre più tra i giovani il ricorso a condotte autolesive. Ciò si rende piuttosto evidente all’interno della virtualità di internet nelle sue diverse manifestazioni (forum, blog, chat, gruppi di discussione, etc..), e trova un significativo riscontro in recenti studi scientifici italiani che riportano una storia di comportamenti autolesionistici nel 21% circa degli studenti universitari e nel 42% degli adolescenti tra i 13 e i 22 anni. Una voce istituzionale - Luigi Fadiga, già Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma e oggi Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza dell’Emilia Romagna spiega: “Il fenomeno non è stato ancora posto alla nostra attenzione con strumenti conoscitivi appositi. Non esistono statistiche adeguate. Certamente il Garante se ne deve preoccupare, ma va ricordato che non ha poteri diretti e mancano i dati necessari a focalizzare l’azione”. I minori vanno poi sensibilizzati, “difesi da se stessi” e questo si può fare attraverso vari strumenti, tra cui il Presidente Fadiga ricorda, ad esempio,le campagne informative, l’azione educativa, i contatti con le scuole. Il Garante aggiunge un elemento interessante e sottolinea che la problematica non è nuova: “Già in passato, parlo di una decina di anni fa, avevamo incontrato questo fenomeno, ma limitato all’ambiente penitenziario minorile, dove episodi autolesivi come tagli e bruciature non erano rari. Di solito – ricorda Fadiga – servivano a richiamare l’attenzione oppure questo autolesionismo era finalizzato alla richiesta di vantaggi concreti, ad esempio un trasferimento, o ancora voleva essere una forma di protesta. Al di fuori delle carceri minorili il fenomeno non lo abbiamo rilevato in quegli anni”. Autolesionismo e condivisione virtuale - La dottoressa Fusacchia spiega che gli adolescenti, quando si tagliano, anche se lo fanno di nascosto dai genitori, poi spesso condividono le loro foto sulle varie reti social cui sono collegati. Questa condivisione da un lato espelle il dolore psichico, dall’altro potrebbe essere una sorta di rito di passaggio: “Ritengo che abbia un suo peso la condivisione mediatica di tali tormenti perché, nella misura in cui si esibiscono i corpi tagliati, viene espulsa e denegata tutta la sofferenza psichica che li accompagna. Vero è che questo potrebbe in certi casi avere una valenza di rituale, sostitutivo del venir meno di altre for- me di rito che segnano il passaggio adolescente”. Internet, di fatto, contribuisce alla diffusione di questi comportamenti autolesivi. Su Youtube si possono trovare dei tutorial veri e propri, che offrono dimostrazioni pratiche di come ferirsi, e numerosi sono i video in cui i ragazzi raccontano la propria esperienza autolesiva. Attirare l’attenzione? - In uno dei profili social di Carla è comparsa questa frase: “Tutti mi chiedono che hai? io niente e la cosa è che loro ci credono. Non si accorgono dei tagli sulle mani, degli occhi lucidi! …e tutto questo per…” Parole che inducono a pensare che nel cutting ci sia anche il desiderio degli adolescenti di farsi notare. A questo proposito spiega la Fusacchia: “Il taglio rappresenta un atto e pertanto ha una valenza comunicativa, malgrado talvolta sia nascosto e quindi segnala il fallimento della possibilità di rivolgere la sfida all’esterno”, è come se l’adolescente non sapesse esprimere una sofferenza che pure è lì. Comunicare col corpo - Una scelta comunicativa che si esprime col corpo, come sottolinea il Presidente Fadiga: “Probabilmente è una situazione dovuta a una maggior solitudine. Inoltre anche la moda può influenzare la diffusione di questo fenomeno. Non è raro vedere una ragazza normalissima con indosso oggetti che possono richiamare in qualche maniera la possibilità di aggredire il proprio corpo (bulloni, chiodi, etc.)”. Ma la comunicazione e la protesta non passano soltanto attraverso gesti di conclamata violenza, dice Fadiga: “Un altro elemento da non sottovalutare è la diffusione dei piercing e dei tatuaggi, tutti fenomeni che una volta erano ridottissimi e sarebbero stati letti come sintomi di devianza, tanto da poter essere perseguiti legalmente se riscontrati in un minorenne. Molti anni fa i genitori erano in contrasto con il figlio, in alcuni casi, anche per la crescita dei capelli, c’erano i cosiddetti“capelloni”. Sia pure escludendo che i capelloni siano autolesionistici, era una maniera anche quella di comunicare con il corpo”. E Carla? - Carla ha avuto la fortuna di avere intorno persone attente e capaci di dialogo. I genitori si sono subito resi conto del suo disagio nascosto, l’hanno ascoltata, indirizzata e le hanno evitato di cadere in questo circolo vizioso che avrebbe fatto della sua bella pelle bianca una carta geografica delle sofferenze inespresse. R MINORI E MALASANITÀ Quando l'ospedale uccide Quando a morire è un bambino, rimane solo il vuoto incolmabile della disperazione: il sistema diventa un nemico, la società viene vista con l’occhio della disillusione, il dottore si trasforma in assassino. { Gianmichele Laino Le sirene dell’ambulanza, la corsia di un ospedale, la ricerca di un aiuto, la sicurezza di affidarsi a mani esperte. Per alcuni il sollievo di una guarigione. Per altri, troppi, la tragedia. In Italia, secondo una rilevazione del 2011, le vittime della malasanità si aggirano intorno ai 45mila all’anno; il 5,2% dei pazienti è a rischio, il 9,5% di questi perde la vita. E il dramma aumenta le sue proporzioni se a morire sono i bambini. Roma, Villa Mafalda, la clinica privata che, qualche tempo fa, è diventata tristemente famosa per il decesso (avvenuto tra le polemiche) dello scrittore e regista Alberto Bevilacqua. Giovanna, una bambina di dieci anni entra in sala operatoria alle otto di mattina del 30 marzo per un banale intervento chirurgico al timpano. La serenità è quella dell’operazione di routine, fatta e rifatta tantissime volte. Zero possibilità d’errore per un’équipe medica che annovera tra le sue fila alcuni tra i maggiori specialisti nel campo dell’otorinolaringoiatria della Capitale. E invece, qualcosa va storto. Il cuore di Giovanna non batte più e in poco tempo la bambina smette di respirare. Nove persone, tra medici e personale sanitario, sono iscritte nel registro degli indagati; tra queste l’otorino Giuseppe Magliulo che si difende dicendo: “quel tipo d’intervento non può dar luogo ad arresto cardiaco. Non sono un mostro”, mentre il primo risultato dell’autopsia mostra che "Le vittime della malasanità si aggirano intorno ai 45mila all’anno" 8 la piccola paziente era sana. Montalto di Castro, provincia di Viterbo. Leonardo ha la febbre altissima. I genitori non perdono tempo e corrono al pronto soccorso dell’ospedale di Tarquinia. Dopo nemmeno un’ora i medici lo rimandano a casa con una cura per faringite febbrile. Leonardo si addormenta, si risveglia alle 3.30 per bere un po’ di latte e si rimette a letto. Non aprirà più gli occhi. Il dottore del 118, intervenuto a decesso avvenuto, ha detto che il bambino non si è accorto di nulla, che non ha sofferto. L’autopsia ha escluso qualsiasi forma di meningite o encefalite. Anche questa volta, la piccola vittima non presentava particolari problemi di salute. E ancora, Ostia, Caserta, Andria, Cosenza, Foggia. Un intervento banale, un malessere improvviso su un campo di calcio, un errore nella somministrazione di un farmaco: giovani vittime strappate all’affetto dei cari, private della gioia di vivere. I casi di decessi tra i minori causati da errori medici sono un fenomeno sempre più preoccupante. “Al momento – dice Francesca Piroso, direttrice dell’associazione Periplo Familiare che, dal 1998, tutela su tutto il territorio italiano le famiglie di chi è vittima di malasanità - non è possibile stabilire quanti siano i minori che sono colpiti da questa sciagura. Molto spesso si è convinti che la giovane R MINORI E MALASANITÀ "Creare spazio pubblico è il mio mantra" "Malasanità e malpractice sono i due problemi di fondo che colpiscono il sistema ospedaliero italiano" età del paziente sia sinonimo di salute piena e, per questo motivo, il problema per cui ci si rivolge alla struttura ospedaliera viene sottovalutato. È un mito che bisogna sfatare! Penso, ad esempio, alle malattie cardiache che sono molto difficili da diagnosticare: a volte non basta un semplice elettrocardiogramma per far emergere delle patologie lievi che, tuttavia, per alcuni interventi possono essere determinanti”. Malasanità e malpractice sono i due problemi di fondo che colpiscono il sistema ospedaliero italiano, da nord a sud, dalle strutture pubbliche alle cliniche private. Non solo, dunque, le carenze causate da anni di tagli alla sanità, ma anche le negligenze dei singoli. Secondo l’avvocato Alessandro Maria Tirel- 9 li, esistono tre dinamiche diverse che determinano l’errore: quando chi opera lo fa senza cognizione di causa poiché non è in grado di far fronte alle esigenze del paziente; quando il medico ripone eccessiva fiducia nelle proprie capacità e utilizza il paziente come cavia; quando si sottovaluta il problema e si incorre in una diagnosi sbagliata. Moltissimi casi si chiudono attraverso l’esercizio della mediazione, grazie alla quale si può arrivare a una conclusione anche in un tempo ragionevole. Ma quando ci si imbatte in un processo civile, i tempi si dilatano in maniera drammatica e si può arrivare anche a 4-5 anni d’atte sa per ottenere la sentenza. Un’attesa sner vante che rischia di frustare ulteriormente una fami- glia già devastata dalla perdita o dal torto subito. Molto spesso, infatti, la richiesta di un risarcimento per l’errore medico non è dettata da un semplice desiderio di rivalsa o di vendetta nei confronti di chi l’ha commesso: a volte è indispensabile per affrontare situazioni di grave invalidità (che possono essere superate soltanto a fronte di spese importanti) o di indigenza della famiglia della vittima. Ma quando a morire è un bambino, rimane solo il vuoto incolmabile della disperazione: il sistema diventa un nemico, la società viene vista con l’occhio della disillusione, il dottore - da ancora di salvezza che era - si trasforma in assassino. Si spegne la luce, insomma. E non c’è scusa, risarcimento o consolazione che tenga. R AMBIENTE Per una geografia dei disastri ambientali in Italia Porto Tolle, Bussi, Vado Ligure, Taranto, Terra dei fuochi: sono solo alcuni dei luoghi che la cronaca ha fatto conoscere agli italiani come emergenze ambientali. Camilla Romana Bruno Porto Tolle, Bussi, Vado Ligure, Taranto, la Terra dei fuochi. Dal Veneto, all’Abruzzo, passando per la Liguria e scendendo fino in Puglia e in Campania, è questa la geografia dei disastri ambientali in Italia. Centrali tossiche, discariche abusive, terre inquinate, acque malsane. E un controllo che stenta a essere efficace. Di Terra dei fuochi si parla da tempo, con un impegno dei politici che si è fatto, soprattutto in questi ultimi anni, sempre più determinato. Ma quei cumuli di rifiuti, quei roghi tossici, non sembrano voler abbandonare quei 57 comuni e quasi 2 milioni e mezzo di abitanti coinvolti, tra il napoletano e il casertano. Decreti legge e forze dell’esercito non hanno fermato queste attività illegali e altamente nocive, e se si parla di responsabili quasi tutti puntano il dito contro la Camorra. Il sequestro della Tirreno Power, la centrale elettrica a carbone di Vado Ligure, è, invece, una conquista dello scorso marzo. Sono stati provati nessi di causalità tra emissioni tossiche, morti e patologie, troppo stringenti per poter essere ignorati. E la più grande acciaieria d’Europa, l’Ilva di Taranto, è diventato argomento ricorrente, se non altro per essere stato assunto a simbolo di disastro ambientale in Italia. Stabilimenti chiusi, posti di lavoro persi, proprietari indagati e un tasso di mortalità per tumori sempre più elevato. E poi, però, qualche passo in avanti si riesce a fare. Arriva, infatti, dal tribunale di Rovigo una sentenza storica: gli ex amministratori delegati della Centrale termoelettrica Enel di Porto Tolle sono stati condannati a tre anni di reclusione e interdizione di cinque anni dai pubblici uffici. L’accusa, disastro ambientale doloso che ammonterebbe a 3,6 miliardi di danni, come stimato da una ricerca dell’Ispra 10 (Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale), depositata agli atti. Assolto, invece, per mancanza di elemento soggettivo, l’attuale amministratore e direttore generale Fulvio Conti. È accertato che la Centrale di Porto Tolle è stata gestita senza adeguati meccanismi di contenimento delle emissioni di scarico, che avrebbero messo in pericolo la pubblica incolumità. Gli effetti sulla salute dei cittadini, invece, non sono stati ancora verificati, come conferma il Presidente di Legambiente Veneto, Luigi Lazzaro. “Le carte del processo non sono ancora pubblicate, quindi per avere in mano gli studi fatti e le risposte delle due parti a questi stessi studi ci vorrà ancora un po’ di tempo. Quello che posso dire, è quello che si è dimostrato a Porto Tolle come negli altri processi o sequestri, vedi Vado Ligure o Taranto, che le istituzioni dovrebbero cogliere l’occasione per approfondire il monitoraggio sia sulle popolazioni che sul territorio, sulle coltivazioni, come sulla fauna. Questo dovrebbe essere l’incipit di una maggiore attenzione rispetto al controllo.” Una notizia che non piace, né a Enel, che a fine dicembre aveva esultato per una riduzione dell’indebitamento da 42 a 40 miliardi, ora virtualmente gravato dal rischio di pesanti passività, né al governo, che di qui a breve sarà chiamato a rinnovare le nomine degli alti dirigenti. Ma gli ambientalisti sembrano soddisfatti. Continua Lazzaro: “Noi siamo soddisfatti, ci aspettiamo ovviamente colpi di coda e ricorsi annunciati, vedremo cosa succederà. Finalmente questa sentenza dovrebbe provare che non esiste carbone pulito, perché il carbone è una delle fonti energetiche più inquinanti e una centrale a carbone di quelle dimensioni incide sicuramente sulla salubrità dei cittadini e del territorio. Il mondo ci dice che non è questa la strada da percorrere, c’è spazio per le energie rinnovabili, per le fonti energetiche alternative. Per la questione dell’uscita dalle fonti fossili, dell’emissioni di CO2, della salute dei cittadini, della produzione energetica distribuita e non della concentrazione in grandi centrali, quella che noi abbiamo chiamato rivoluzione energetica dall’avvento delle fonti rinnovabili, noi lottiamo da sempre.” Non carbone, ma metano. È stata questa la strada indicata da Legambiente nel processo di riconversione della centrale verso fonti meno inquinanti. Strada, questa, sicuramente facilitata dalla presenza del più grande terminale gasifero offshore al mondo, il rigassificatore di Porto Viro di proprietà dell’emiro del Quatar, a soli 10 km di distanza. “Proprio sulla riconversione al metano noi sfidammo la Enel, come forma di transizione energetica per arrivare al 100% rinnovabile. Progetto non accolto dal colosso, che preferì rilanciare il carbone in questo modo, chiamandolo carbone verde.” "Già nel 1996 erano state trovate tracce di inquinamento" R AMBIENTE "Mancano i fondi, spesso; manca la volontà, forse, ma a pagarne le spese è sempre la salute del cittadino" Sulla centrale pende comunque l’iter della Valutazione d’impatto ambientale per il progetto di riconversione che vale, sulla carta, almeno 4mila posti di lavoro e 2 miliardi e mezzo di investimento. Ma sembra proprio la paura di essere licenziati ad aver creato i principali attriti sul territorio. Lazzaro: “Noi abbiamo impiegato diverso tempo e risorse per attività di informazione dei cittadini, proprio per migliorare la situazione e non peggiorarla. Anche se questo ha creato sul territorio difficili situazioni sociali e lavorative, perché la dicotomia ambiente-lavoro è stata più spesso rilanciata, affidando responsabilità agli ambientalisti di non volere lavoro e sviluppo. Noi abbiamo solo cercato di tutelare l’interesse dei cittadini e della loro salute. È vero che la gran parte dei cittadini di Porto Tolle gravita intorno a questo grande stabilimento, ma è dimostrato da studi che basterebbe ricollocare il lavoro. Cosa che Enel potrebbe fare, modificando la centrale o paradossalmente anche smantellando la centrale stessa, e ci sarebbe lavoro garantito per oltre dieci anni. Ma ciò prevede costi che difficilmente l’azienda vorrà sostenere.” E se la sentenza di Porto Tolle ha scritto un primo e storico successo per gli ambientalisti, in Abruzzo la musica è ben diversa. La storia della discarica di Bussi, in provincia di Pescara, al confine tra il parco del Gran Sasso e quello della Maiella, comincia almeno nel 1972, quando l’assessore all’Igiene e alla Sanità del comune di Pescara inviò una lettera ai dirigenti della Montedison, titolari dello stabilimento chimico. Chiedeva di rimuovere i rifiuti tossici interrati, perché a rischio era l’inquina- 11 mento delle falde acquifere dell’acquedotto Giardino, che serviva, e serve ancora oggi, tutta la Val Pescara. Una denuncia tenuta dalle autorità sotto silenzio, nonostante le continue battaglie del Wwf e degli ambientalisti. Poi il processo in Corte d’assise di Chieti, e la perizia shock presentata, a fine marzo, dall’Istituto Superiore di Sanità: fino al 2007 più di 700 mila abitanti del luogo avrebbero bevuto acqua contaminata. Queste le parole del Presidente del Wwf Abruzzo, Luciano di Tizio. “L’acqua che è stata servita nella Val Pescara fin al 2007 era contaminata. Da quel momento hanno scavato nuovi pozzi quindi non è stata più inquinata. E questo è quanto riportato anche dal documento presentato dall’Istituto Superiore di Sanità per il processo in corso a Chieti. Il problema vero è che hanno fatto bere a 700000 persone, dal 2004 ad oggi, e probabilmente da molto di più, acqua contaminata, senza avvertire nessuno.” E i sigilli ad una sola delle tante discariche, la discarica Tre Monti, arriva solo nel 2007, e per la svolta del processo in Corte d’assise di Chieti bisognerà aspettare altri sette anni. 19 dirigenti della Montedison, il colosso che possedeva le centrali fino al 2002, devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque. L’attuale ditta proprietaria, la Solvay, invece, ha scelto, non senza polemiche, di costituirsi parte civile. Da una prima stima dell’Ispra il danno ambientale ammonterebbe a 8,5 miliardi; le conseguenze, invece, sulla salute dei cittadini sono ad oggi non quantificate. Continua Di Tizio: “Non sono mai state fatte analisi epidemiologiche, cosa che non è stata sottolineata dal presidente della Regione Gianni Chiodi, e l’Abruzzo è una delle poche regioni che non ha il registro tumori; quindi non sappiamo che effetto ha fatto sulle persone che l’hanno bevuta, quest’acqua contaminata.” I dati, comunque, fotografano una situazione risalente non oltre il 2007, perché, come precisa il Presidente, già dieci anni prima furono presi decisivi provvedimenti per mantenere salva la salubrità dei pozzi. “Già nel 1996 erano state trovate tracce di inquinamento, ma ai limiti della tollerabilità di legge, perché allora erano molto più alti. Poi nel ‘97 si è scoperto il vero inquinamento, grazie al Wwf, e si è provveduto con lo scavo di nuovi pozzi e l’avvio dell’inchieste.” Questo giustificherebbe le parole del presidente Chiodi, che ha rassicurato gli abitanti del luogo sulla bontà dell’acqua della Val Pescara. Oggi, forse, ma gli abruzzesi non si rassegnano all’idea di aver bevuto per anni acqua contaminata senza essere avvertiti da autorità alcuna. Ora resta da bonificare l’area, un’area di quasi 25 ettari, il cui costo ammonterebbe a circa 600 milioni. Discariche che sono state soprannominata “sarcofagi”, perché coperte da teloni impermeabili sovrastati da terrapieni di ghiaia. Per ora ne sono stati stanziati solo 50, ma a Bussi non è ancora arrivato nulla, come conferma Di Tizio.“C’è un finanziamento in ballo di 50 milioni, il cui destino è ancora tutto da vedere, ed è sconosciuto l’uso che se ne farà.” Mancano i fondi, spesso; manca la volontà, forse, ma a pagarne le spese è sempre la salute del cittadino. R POLITICA 2.0 Partecipazione via web e necessità di tutela Internet, cittadini e democrazia: Stafano Rodotà parla dell’evoluzione della politica moderna. Tra rischi e bisogno di garanzie. Valentina Berdozzi Vigilare, garantire, tutelare. Mettere al sicuro gli utenti della rete, proteggendo i dati personali che derivano dalla navigazione online. Alla conferenza del 4 aprile presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma, si è parlato di Internet. E delle nuove esigenze/emergenze davanti a cui la navigazione al tempo del web 2.0 ci pone: la difesa dei fruitori finali della rete e la tutela assoluta della libertà di utilizzo. Nell’epoca in cui, ricordano gli esperti e le statistiche, sui cavi in fibra ottica viaggiano non solo l’informazione, l’intrattenimento, la conoscenza e l’apprendimento, ma passano anche la partecipazione all’organizzazione democratica del Paese. E-partecipation: partecipazione di tutti e tutela del singolo. L’insieme delle pratiche di interazione informatica dei cittadini con le istituzioni democratiche di ogni livello, da quelle locali a quelle sovranazionali, è questa l’E-partecipation garantita dalle moderne tecnologie di comunicazione. Una partecipazione che si esprime dietro a uno schermo o attraverso un click. Di fronte ad uno sviluppo tanto rapido quanto consistente delle pratiche di espressione politica via web, studiosi ed osservatori hanno lanciato un monito: vigilare sulla rete e tutelare la partecipazione informatica dei cittadini alla vita politica del Paese tramite una forma di protezione stabilita dalla Costituzione. E che sia in grado di ricondurre la difesa del cittadino informatizzato nel seno della norma fondante della Nazione. A sottolineare la necessità del controllo è il professor Stefano Rodotà, dal 1997 al 2005 12 Garante per la protezione dei dati personali, che con un imperativo categorico ha aperto l’intervento: “Lo sguardo democratico deve vigilare sul web”. Valutare “come i diritti intellettuali vengono integrati nella struttura democratica di un sistema” diventa così la cartina al tornasole con cui giudicare il cammino che ogni Paese e democrazia hanno compiuto, dal punto di vista della tutela della libertà di navigazione del singolo. Un cammino di protezione che ha una partenza obbligata: la difesa imprescindibile della proprietà intellettuale, ovvero dei frutti del processo creativo e dell’inventiva umana. Un assunto fondamentale, questo, di cui ogni sistema democratico dovrebbe farsi carico e garante – ricordano gli esperti. A tre giorni di distanza dalla sentenza europea sulla regolamentazione del settore comunitario delle telecomunicazioni che, oltre all’abolizione delle tariffe di roaming, prevede di tutelare la net neutrality, ovvero l’uguale trattamento del fruitore del web da parte degli operatori di ognuno dei 28 Paesi dell’Unione e la protezione del traffico internet senza discriminazioni di luogo e provenienza. È un web 2.0 sinonimo di protezione reale e non di pericolo per i dati della navigazione personale, quello che auspicano gli studiosi presenti alla conferenza. E se per raggiungere quest’obbiettivo, da un lato, si deve guardare all’utente che immette i suoi dati in rete, dall’altro l’attenzione va dedicata anche ai colossi che quel traffico lo gestiscono: “Google è uno dei soggetti più presenti tra i fruitori della rete e rappresenta un potere enorme di raccolta e gestione dei dati”, sot- tolinea Rodotà. Che poi chiarisce subito che quei soggetti “over the top”, che esercitano poteri democraticamente esagerati”, vanno controllati; e ricondotti nel solco di un modus operandi che sia quello di una legge costituzionale. Per questo, ricorda il giurista, una Dichiarazione dei diritti fondamentali legati al web appare ai nostri tempi un passo non solo necessario ma, soprattutto, utile a livello globale: “garantire, ad un tempo solo, i singoli soggetti produttori di dati e ancora, i soggetti comunicativi che di questi dati, invece, sono i raccoglitori”. Ed è una garanzia resa ancora più urgente e necessaria dal fatto di vivere in un’epoca, come la nostra, segnata da quella che gli studiosi individuano come la democratizzazione delle conoscenze: l’apertura cioè a 360 gradi "Lo sguardo democratico deve vigilare sul web" R POLITICA 2.0 del dibattito e lo spalancarsi dell’agone politico a tutti i mezzi e a tutte le voci. Per una vita civile che sia davvero partecipata e collettiva e che, nel rapporto democrazia-rete, implichi il coinvolgimento diretto delle reti civiche, ovvero di quelle piattaforme di interazione, collegamento tra i membri di una società e partecipazione politica che, derivate dalle reti sociali nate per ragioni di profitto economico, rappresentano l’aspetto più dirompente della democrazia del terzo millennio. Ma che, avverte il professore, se hanno rivoluzionato l’approccio moderno alla gestione della cosa pubblica hanno però anche aperto “questioni inedite con cui confrontarsi”. Il problema dell’era 2.0: la tutela dei dati personali. Un problema nuovo e attuale: nasce e si presenta così la questione del trattamento dei dati personali. Urgente e improrogabile, specie per una società che, sulla scia dell’opera sociologica di Bauman, è quella definita della “non sorveglianza”: della mancanza totale, cioè, di argini e di qualsiasi forma di controllo nella gestione dei dati emessi dai è stata infatti corposa la discussione aperta in materia. E ad essere toccato non è stato solo il fronte dell’operazione di acquisizione dei dati, ma anche quello della profilazione della persona, ovvero la creazione di un profilo in rete. Dati personali al centro della vita – mediatica, democratica e dei singoli cittadini – dunque. In una fluidità totale tra la dimensione reale e quella virtuale, dove il confine tra esistenza vera ed esistenza informatica si fa labile e sfumato. Il problema, allora, non è più quello della violazione del dato, ma diventa, ricorda Rodotà, quello della predizione: “Con l’internet delle cose, con l’uso crescente degli algoritmi, il problema non è più quello della privacy o della violazione del dato così com’è presso di noi. La questione vera diventa invece quella della predizione: di un’identità personale, cioè, non più costruita in maniera autonoma, ma derivata dai dati che emergono dalla navigazione nel web. Sganciata da qualsiasi forma di contatto vivo con l’individuo e da una conoscenza tangibile.” Un mondo non più di persone ma di na- "La questione vera diventa quella della predizione: di un’identità personale non più costruita in maniera autonoma, ma derivata dai dati della navigazione nel web" fruitori del web. E che la questione della tutela del traffico informatico sia sempre più al centro del dibattito e della vita comunicativa attuale, lo dimostra il riferimento che Rodotà fa alle ultime elezioni avvenute negli Stati Uniti, quelle definite “dei dati personali”. Negli States, tra la tornata presidenziale e quella amministrativa, 13 viganti; soggetti costruiti attraverso un algoritmo informatico che ci rende quell’uno su un milione e 400 mila altri utenti della rete, uguali e diversi da noi. Con una precisazione calzante: “il problema della costruzione dell’identità e quello della predizione rappresentano le grandi questioni della democrazia”. “Perché incidono sull’autonomia delle persone, sulle modalità di partecipazione alla sfera pubblica, sulla profilazione dell’individuo nel mondo moderno. Sono temi che ci impegnano a chiederci se dobbiamo considerare le persone come soggetti dotati di autonomia, anche in rete, oppure se gli individui devono essere considerati esclusivamente come parte di una colossale operazione di data mining, cioè della raccolta di informazioni adoperata in un mondo concepito come miniera a cielo aperto di dati ed elementi”. Limiti, falle e iniziative positive. In un universo solcato dal flusso ininterrotto di informazioni, dove la sicurezza del dato personale appare labile, il richiamo all’attualità torna prepotente con il riferimento alla vicende di cui il fondatore del sito di pubblicazione di atti segreti WikiLeaks Julian Assange e dell’informatico ex consulente della National Agency Security Edward Snowden sono i protagonisti. Dimostrando come, nel mondo del web 2.0 “la società della sorveglianza si rivolga su sé stessa e la crescita del controllo delle informazioni si rovesci in una maggiore vulnerabilità”. ha commentato Rodotà. Che ha poi ricordato la strada in cui la società del controllo si è rovesciata: “Non c’è più la possibilità di una reazione effettiva in termini sanzionatori. E Snowden non è che l’ennesima prova della contraddizione interna della democrazia: mentre infatti, per effetto delle rivelazioni di atti, documenti, dati e informazioni coperte dal segreto, Obama è costretto a dettare nuove regole per garantire la democrazia, Snowden è invece considerato responsabile di un reato. È qui che nasce l’aporia; il conflitto tra un prima e un dopo lo sviluppo della rete di cui non si può non tenere conto”. Incapacità di gestione, assenza di garanzia totale e impossibilità di regolare una materia tanto sensibile in un universo così variegato: è questo ciò che ha rappresentato i fatti di cronaca legati a questi due personaggi. Eventi che traggono maggiore risalto nel paragone con quanto di significativo, in tema di salvaguardia dei diritti di chi usa la rete, è stato e viene invece ancora fatto. Un esempio calzante è quello offerto dal Brasile che, nei giorni scorsi, ha approvato il “Marco Civil da Internet”: un provvedimento comprensivo che si rifà all’idea dell’Internet R POLITICA 2.0 “Internet Democracy”: un diritto fondamentale di accesso a Internet che sia equo, garantito, sicuro e protetto" Bill, nella serie di diritti del cittadino in rete che garantisce e tutela. Un impegno forte, quello carioca. Che richiama lo sforzo a cui è chiamata l’Italia nell’imminente semestre di presidenza del Consiglio Europeo. È questo uno dei pochi, veri punti del semestre di conduzione italiana dell’Unione, sottolinea Rodotà. Da contestualizzarsi in un clima che, in quanto al dibattito sul tema, è incandescente. Lo scopo: “Internet Democracy”. Per Rodotà, il vero obbiettivo della marcia di avvicinamento alla garanzia totale dei dati informatici è quello che riprende le posizioni del padre – inventore del web, l’informatico Tim Berners-Lee. Il primo, per l’ex Garante, “a rendersi conto che una serie di regole che riguardi il funzionamento di internet non può essere efficace senza una serie di regole di garanzia che riguardi il fruitore di internet e che, soprattutto, si inscriva nella dimensione della Costituzione. Perché l’idea, storicamente fondata e da sempre esistita – come dimostrano anche le ultime vicende turche relative ai limiti, alla censura, alla chiusura dell’accesso e dell’utilizzabilità della rete – vuole che le regole applicate alla navigazione siano soltanto quelle censorie, quelle costrittive, siano insomma i divieti; mentre la dimensione costituzionale fatica ad entrare nella testa.” È questo l’imperativo a cui i governi, le istituzioni e i cittadini devono guardare davvero; calibrando su quella base un intervento disciplinante allo stesso tempo efficace ma non asfissiante. Quello che, per dirla con BernersLee, è una vera “Internet Democracy”: un di- 14 ritto fondamentale di accesso a Internet che sia equo, garantito, sicuro e protetto. Le armi in nostro possesso per raggiungere questo scopo? I nostri strumenti di tutela sono i passaggi costituzionali, in grado di far sgorgare, dal ventre della legge più alta dello Stato, i diritti/doveri di chi naviga in rete. Non certo, ricorda il giurista, quei: “Passaggi costituzionali che si costruiscano attraverso il modo tradizionale in cui le Costituzioni classiche – Bill of Right sono state scritte. Se non altro, perché siamo in un mondo globale dove non c’è un unico legislatore costituzionale e un univoco potere costituente”, ma passaggi diversi, mutuati e modellati sui tempi; espressione di una legislazione morbida e attuale che possa disciplinare pur senza schiacciare. È questo il mondo della rete e della partecipazione online agli istituti della democrazia che oggi si cerca. E quando a Rodotà chiediamo come sia la situazione del nostro Paese in quanto a tutela della privacy, chiara è la sua lettura: “C’è una copertura costituzionale forte, nazionale ed europea; la legislazione è abbastanza efficiente, con un Codice per la Protezione dei Dati Personali e una serie di norme particolari che, se ben utilizzate, ci danno garanzie solide. Naturalmente bisogna saper ben affrontare, anche a livello legislativo, i mutamenti determinati dalle tecnologie della comunicazione e delle telecomunicazioni e il doppio problema, interpretativo e di aggiornamento delle regole esistenti, che da questo scaturisce”. Ma nell’era dell’E-partecipation e della de- mocrazia esercitata dal singolo via web, il cittadino si trova a svolgere un ruolo essenziale e delicato: la collettività riscopre un margine d’azione prima insperato. Che però non deve trasformarsi, per l’individuo, in un rischio: “Può esserci, talvolta, un’ambivalenza che non può essere ammessa. Allargare le possibilità di partecipazione è inevitabile: le resistenze che l’idea di una maggiore vicinanza del privato al pubblico suscita sono destinate a cadere. Ciò che conta, comunque, è che i dati pubblici raccolti dagli operatori dei dati e dal settore pubblico attraverso l’attività politica dei singoli, siano adoperati in modo corretto”. Ma partecipazione diretta e maggiore vicinanza tra sfera pubblica e ambito privato sono sempre sinonimo di democrazia? “La mia risposta – spiega il giurista – dovrebbe essere sempre positiva, ma va sottolineato il fatto che la maggior garanzia di democraticità, ovvero la partecipazione diretta del cittadino alle sorti della cosa pubblica, dipende dal modo in cui l’individuo è messo in condizione di partecipare. La partecipazione infatti è un elemento condizionato e condizionabile: se l’essere parte del destino delle istituzioni democratiche si risolve soltanto nell’esprimere il proprio sì o il proprio no comodamente seduti davanti lo schermo di un pc, questa è una falsa partecipazione: è una democrazia ingannevole. La vera partecipazione, invece, è quella che si costruisce e si costituisce attraverso tutte le fasi del processo di conoscenza e di liberazione: accesso ai dati, possibilità di utilizzazione e di discussione pubblica, possibilità di controproporre. E poi, alla fine, anche quella di votare”. Per lanciare, in conclusione, un messaggio di partecipazione e speranza, che passi attraverso una presenza, che sia forte e sincera, nei processi di vicinanza ai meccanismi democratici: “L’obbligo delle strutture democratiche di tenere in considerazione il parere dei cittadini rappresenta l’apertura di un canale di comunicazione tra società e istituzioni fondamentale, ma oggi gravemente precluso. C’è questo ostacolo alla base di quell’imperante atteggiamento di sfiducia che è la cifra della politica italiana attuale. E verso cui, però, va indirizzata la battaglia moderna alla partecipazione allargata, sincera e condivisa”. R ESTERI Bosnia: il vento di protesta tra speranza e rassegnazione L’intervista a Francesco Quintano, corrispondente Ansa da Belgrado, sulle proteste di febbraio in Bosnia, le più violente dalla fine della guerra degli anni Novanta Stefano Intreccialagli Si è rotto il silenzio in Bosnia ed Erzegovina. È successo il 5 febbraio scorso. Nel periodo in cui tutto il mondo puntava gli occhi su Kiev e sulla crisi ucraina, nelle principali città del Paese dell’ex Jugoslavia si sono sviluppate le proteste antigovernative più violente dalla fine della guerra degli anni Novanta. Tutto è partito da Tuzla, importante polo industriale appartenente alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina, una delle tre entità politico-amministrative del Paese insieme alla Repubblica Serba di Bosnia e il Distretto di Brcko. Queste tre regioni, nate con l’ obiettivo di rispettare le minoranze etniche presenti in questi territori, sono frutto degli accordi di pace di Dayton del 1995 che hanno siglato la fine della sanguinosa guerra civile che ha dilaniato i Balcani. UN POPOLO STREMATO. Centinaia di disoccupati e operai sono scesi nelle piazze per protestare contro le disastrose privatizzazioni di alcune importanti aziende nazionali che sono fallite pochi mesi dopo, lasciando le famiglie senza stipendi e senza lavoro. Nelle ore successive la reazione a catena ha portato a un allargamento delle manifestazioni nelle città di Sarajevo, Zenica e Mostar, appartenenti alla Federazione, per poi estendersi anche a Banja Luka, 15 capoluogo della Repubblica Serba, e persino oltre i confini del Paese, con manifestazioni di solidarietà a Belgrado e Zagabria. L’esasperazione è sfociata in poco tempo nella violenza: i palazzi governativi di Tuzla, Zenica e Sarajevo sono stati presi d’assalto e incendiati per chiedere con forza la fine della corruzione ed elezioni anticipate. CIT TADINI IN PIAZZA A ZENICA “La Bosnia è il ventre molle, uno degli anelli deboli di questa ex federazione, il Paese più povero e più arretrato sulla strada dell’integrazione europea” spiega Francesco Quintano, corrispondente Ansa da Belgrado. “Gli accordi di Dayton hanno posto fine alla guerra nel ’95 ma hanno messo al Paese una forte camicia di forza formata dalla divisione etnica fra le tre componenti serba, croata e musulmana della popolazione”. TERREMOTO NELLA REGIONE. Di fronte a queste importanti proteste gli Stati vicini non sono rimasti indifferenti: “Croazia e Serbia hanno espresso preoccupazione - continua Quintano – soprattutto perché Belgrado ha un occhio particolarmente attento alla Bosnia, essendo sostenitrice e difensore della comunità serba in Bosnia. La preoccupazione però si accompagna alla volontà di aiutare questo Paese a uscire dalla crisi, che non fa bene alla regione”. Qualcuno ha parlato di “primavera bosniaca”, paragonando le proteste di quei giorni alle rivoluzioni nei Paesi del Medio Oriente del 2010-2011. "La Bosnia è il ventre molle, uno degli anelli deboli di questa ex federazione" R ESTERI "Preferiscono non alzare il coperchio di una pentola che potrebbe esplodere, e questo è un errore perché anche la Bosnia ha diritto ad avere voce in capitolo” “Qualcuno ci aveva anche creduto, vedendo in fiamme i palazzi del potere a Sarajevo, Tuzla, Mostar e Zenica. Poi tutto si è fermato. Probabilmente alla gente è tornata in mente il dramma e le tragedie della guerra e psicologicamente ha temuto di sprofondare di nuovo in un inferno come quello di 20 anni fa”. VOGLIA DI PARTECIPARE. Un inizio di primavera spento in poco tempo, ma di certo le manifestazioni di febbraio possono essere inserite nel quadro del nuovo “vento dell’Est” di proteste in Europa, con le dovute differenze. “Mentre in Ucraina c’è stata una forte componente etnica alla base delle proteste, in Bosnia la gente è scesa in piazza non solo nella Federazione croato-musulmana, ma anche, seppure in modo più leggero, nella Repubblica serba, per combattere contro lo strapotere di oligarchi e corrotti che hanno portato crisi, povertà e disperazione”. Il plenum riunito a Tuzla. Tre giorni dopo l’inizio delle proteste nelle città sono nati i plenum, assemblee formate dai cittadini per prendere decisioni a maggioranza e discutere dei problemi del Paese, sperimentando un meccanismo di democrazia diretta. Ma finora non sembrano esserci stati risulta- 16 ti concreti.“Si era parlato di elezioni anticipate, ma i serbo-bosnaci hanno bloccato questa proposta. Le elezioni ci saranno, ma con la scadenza ordinaria a Ottobre”. FERITE DI GUERRA. In Bosnia, oltre alla situazione di crisi economica, è importante considerare l’aspetto politico delle tre componenti del Paese che non sono intenzionate ad aiutarsi a vicenda. “L’assetto istituzionale è un labirinto fatto di 5 presidenti, 3 parlamenti e altrettanti governi che provoca inevitabilmente l’immobilismo. Quello che decide Sarajevo non è accettato da Banja Luka, quello che viene detto a Mostar non è considerato a Zenica”. Una situazione che sembra non avere sbocchi, e c’è chi parla di una possibile revisione degli accordi di Dayton. Intanto l’Europa è sempre più lontana col passare del tempo: “La Bosnia è il fanalino di coda dell’ex Jugoslavia, non ha lo status di candidato all’Unione e non riesce a fare le riforme costituzionali chieste da Bruxelles”. Nessun segnale positivo, nemmeno dalle istituzioni. “Il Commissario europeo per l’allargamento Stefan Fule si è detto sconfortato, e ha annunciato nella sua ultima visita a Sarajevo che rinuncerà a fare da mediatore, perché si è reso conto che in Bosnia queste 7 forze politiche principalli non hanno minimo comune denominatore per fare le riforme”. Le regioni bosniache nate dagli accordi di Dayton SILENZIO INTERNAZIONALE. Tante perplessità e poche speranze, mentre i potenti del mondo sembrano non volersene curare, se non in maniera superficiale. “Credo che in tanti sulla scena internazionale non capiscano bene il disagio della Bosnia e pensano solo a non creare ulteriori divisioni” commenta il giornalista. “Preferiscono non alzare il coperchio di una pentola che potrebbe esplodere, e questo è un errore perché anche la Bosnia ha diritto ad avere voce in capitolo”. Una politica dell’attesa, dell’immobilità, a causa della paura di un possibile ritorno alle violenze etniche, il grande spettro che aleggia in tutta la regione. “Le proteste ricominceranno alla prima occasione soprattutto di fronte allo scarso successo di queste manifestazioni” prevede Francesco Quintano. E intanto si parla di cambiamenti, seppure con tantissime difficoltà. “Tante sono le voci di una Dayton 2, per modificare gli accordi di pace. L’unico futuro è l’integrazione europea, senza la quale la Bosnia resterebbe prigioniera del proprio tragico passato”. R ESTERI L'apartheid rosa del Pakistan: Vagoni per sole donne Le figlie di Benazir tra protezione e segregazione. La condizione femminile resta inquietante in tanti paesi del mondo { Francesca Ferri Dallo sguardo indiscreto all’abuso sessuale. La violenza di cui le donne sono vittime ha tante sfumature. Molti paesi credono di risolvere il problema semplicemente “eliminando” gli uomini. L’ultimo di questi è il Pakistan. “Special ladies” è la risposta. 12 pullman rosa è il servizio riservato alle sole donne, lanciato dall’azienda privata Zong per collegare Rawalpindi a Islamabad. Solo donne saranno ammesse a bordo, donne saranno le autiste al volante, e donne le hostess di terra. “Un’iniziativa eccellente”, secondo il ministro del Lavoro del Punjab, “che permetterà alle donne di viaggiare senza problemi di alcun tipo”. Il progetto pilota è stato pensato per le studentesse e lavoratrici che dalla città del Punjab devono raggiungere la capitale nella massima funzionalità e comodità. Il progetto, applaudito da molti che considerano i vagoni rosa un passo verso l’emancipazione, stupisce chi invece, intravede una nuova forma di segregazione in un Paese che ha ancora molta strada da fare in materia di parità tra uomo e donna. Il Pakistan di Benazir Bhutto non sembra aver portato a termine quel processo di emancipazione della donna, che è la base di qualsiasi stato moderno. Certamente i van rosa sembrano una soluzione concreta, soprattutto in un paese che Reuters definisce il terzo più pericoloso del mondo per le donne, dopo l’Afghanistan e la Repubblica Democratica del Congo. In realtà, i “women-only buses” non sono un’invenzione del Pakistan, ma un’evi- 17 dente prova di una piaga sociale che raggiunge sempre nuovi orizzonti e sconvolge sempre meno l’opinione pubblica. Sfilata di modelle a Peshawar, Pakistan La crescente violenza sulle donne minaccia la loro libertà, costringendole a una reclusione in aree protette, come se fossero minoranze da proteggere. Le rotte dei vagoni rosa si estendono dall’est all’ovest del mondo, inglobando sempre più paesi in questo viaggio della vergogna. I governi annunciano, entusiasti, decisioni come trofei di una buona politica, ma le donne che oggi si trovano costrette a isolarsi in vagoni rosa la pensano allo stesso modo? Le donne indiane, afghane, pakistane, giapponesi o italiane sono costrette a fuggire lo sguardo degli uomini, a nascondere il proprio corpo, colpevole di fatali “provocazioni”. Ma a volte il velo non basta. E l’idea dei vagoni rosa piace a molti. Il primo ad averci pensato sembra essere stato il Giappone che, già nel 2000 riservava carrozze di treni e metropolitane alle donne che erano vittime di molestie sessuali da parte di uomini ubriachi. Secondo la polizia di Tokyo, oggi i due terzi delle passeggere tra i 20 e i 30 anni hanno subito una forma di molestia, ma la pratica di riservare carrozze per sole donne sembra avere una tradizione secolare in Giappone. I primi vagoni per donne furono introdotti nel lontano 1912 per separare le studentesse dai ragazzi sui treni affollati delle ore di punta. Anche la metro di Rio de Janeiro in Brasile, ha tinto di rosa acceso alcuni vagoni. Iniziativa che invece non è piaciuta a San Paolo, dove le denunce di alcune coppie sposate hanno fatto valere l’articolo 5 della costituzione brasiliana, che garantisce la parità di tutti i cittadini. La stessa politica dei vagoni rosa è stata attuata in Egitto, a Taiwan, in Indonesia e in India che oggi figura tra i paesi con il più alto tasso di stupri. Così, mentre la Gran Bretagna ritirava l’ultimo treno “ladies only” nel 1977, molti paesi oggi ritornano ad antiche tradizioni all’apparenza un po’ bigotte. Se sorridiamo quando, salendo sugli autobus passiamo affianco ai posti prioritari destinati ad anziane signore incipriate, dovremmo ricordarci dei vagoni al femminile della moderna Dubai o della futuristica Tokyo. Intervista a Luisa Betti, giornalista di “Pagina 99", esperta di diritti, violazioni e discriminazioni su donne e minori: "La politica dei vagoni rosa è stata attuata in Egitto, a Taiwan, in Indonesia" R ESTERI "In Pakistan si parla di 'Eve teasing' un eufemismo per intendere pubblica molestia sessuale che trova una giustificazione nella teoria cristiana del peccato originale" I vagoni al femminile sembrano i moderni ghetti di un apartheid rosa, nato nella notte dei tempi e, che trae forza dal maschilismo culturale e dal fanatismo religioso. In Pakistan si parla di “Eve teasing”, un eufemismo per intendere pubblica molestia sessuale che, trova una giustificazione nella teoria cristiana del peccato originale. Perché se le donne sono vittime di violenza, è colpa di una innata impurità e una natura tentatrice, che da Eva in poi sembra aver segnato il destino delle donne. L’espressione stessa di “Eve teasing” d’altronde, coniata dagli stessi uomini che la praticano, rivela lo scherno di una società maschilista che non ha alcuna intenzione di liberare Eva. Spesso le donne si ritrovano a denunciare abusi e violenze a poliziotti che rispondono con ulteriori violenze, perpetrando all’infinito il labirinto delle ingiustizie, che lascia le donne ammutolite nel silenzio dell’isolamento. Oggi la voce infantile ma sicura di Malala Yousafzai sembra diventare un grido d’aiuto. Su quegli stessi autobus che oggi si tingono di rosa, l’allora bambina di 15 anni fu ferita gravemente alla testa dai proiettili dei talebani pakistani saliti a bordo del pullman all’uscita di scuola. “Malala è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità”, dichiarava il leader dei terroristi, che voleva eliminare quella voce che ha raccontato al mondo l’arretratezza di un popolo assediato dalla barbarie del terrorismo. Oggi Fatima Bhutto, nipote dell’ex premier Benazir uccisa da terroristi islamici, 18 racconta in un romanzo, delle donne tenaci ma invisibili del suo Pakistan. Epure la lotta per un Pakistan democratico non sembra ancora portata a termine, se le moderne guerriere riescono a trovar pace solo in vagoni protetti. Alla voce di Alla voce di Malala fa eco quella della scrittrice italiana Dacia Maraini che, vede nell’educazione e nel rispetto dell’altro, la chiave di un cambiamento che parta dall’individuo. Intervista a Dacia Maraini Le donne subiscono ogni giorno e in tutto il mondo violenze di ogni tipo, dalle minacce psicologiche alle molestie fisiche, e sono sottoposte ai peggiori crimini, dall’infibulazione all’infanticidio. L’inferno delle “invisibili guerriere” non ha limiti. La violenza sembra essere l’arma dell’uomo che, afferma il suo potere sull’inferiorità della donna. Allora il punto è capire “quanto potere hanno le donne oggi?”, come spiega Luisa Betti. Potere è certamente sinonimo di emancipazione, ma è pur sempre difficile sradicare secolari tradizioni socio-culturali. Sia nelle società tribali di Paesi arretrati sia in società sviluppate di moderni stati democratici, la donna fa fatica a sfondare quel soffitto di vetro. E anche le donne ai vertici del potere, continuano a rimanere bersaglio di insulti e molestie che derivano da una presunta inferiorità di genere. Se il potere non apre la strada al vero cambiamento, probabilmente aveva ragione Malala che a soli 13 anni aveva compreso il valore dell’istruzione. “È nell’edu- cazione che risiede il potere delle donne”, affermava la più giovane candidata al Nobel per la Pace, che si batte per il diritto all’istruzione delle donne pakistane. Oggi Wadjda non ha ancora avuto la sua bicicletta verde, che sembra rimanere nelle periferie della Riyad del film di Al-Mansour. La lotta di Wadjda per la bicicletta verde rappresenta l’estenuante battaglia delle donne per sovvertire l’ordine di secolarismi e tradizioni, che le rilegano in un’incontrovertibile inferiorità. Eppure le voci delle figlie di Benazir si fanno ogni giorno sempre più forti. R Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Direttore responsabile Roberto Cotroneo Ufficio centrale Chiara Aranci, Emiliano Condò, Francesco Festuccia, Irene Pugliese Progettazione grafica e impaginazione Claudio Cavalensi Redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 06.85225358 - fax 06.85225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] - www.reporternuovo.it