Carla Pakistan Ambiente Malasanità Storia di un

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Carla Pakistan Ambiente Malasanità Storia di un
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Anno VII - Numero 7 - 4 aprile 2014
eporter
nu ovo
Malasanità
Quando l'ospedale
uccide
Ambiente
Geografia dei disastri
ambientali in Italia
Carla
Adolescenza
e autolesionismo
Pakistan
Vagoni
per sole donne
Aborto
e legge 194
Storia di un provvedimento non applicato
Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli
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Storia di un provvedimento non applicato
Il numero degli obiettori di coscienza cresce in
modo esponenziale di anno in anno, con percentuali altissime nel Lazio e nel Sud Italia.
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Quando l'ospedale uccide
Adolescenza e autolesionismo
Tra gli adolescenti sono oggi molto frequenti atti
di autolesionismo condivisi sulla rete attraverso vari
social. Una riflessione sul tema con alcuni esperti.
Quando a morire è un bambino, rimane solo il vuoto
incolmabile della disperazione: il sistema diventa un nemico,
la società viene vista con l’occhio della disillusione,
il dottore si trasforma in assassino.
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Per una geografia dei disastri ambientali in Italia
Porto Tolle, Bussi, Vado Ligure, Taranto, Terra dei fuochi: sono solo alcuni dei luoghi
che la cronaca ha fatto conoscere agli italiani come emergenze ambientali.
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Partecipazione via web e necessità di tutela
Internet, cittadini e democrazia: Stafano Rodotà parla
dell’evoluzione della politica moderna. Tra rischi e
bisogno di garanzie.
Bosnia: il vento di protesta tra speranza e rassegL’intervista a Francesco Quintano, corrispondente Ansa da
Belgrado, sulle proteste di febbraio in Bosnia, le più violente
dalla fine della guerra degli anni Novanta
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L'apartheid rosa del Pakistan: vagoni per sole donne
Le figlie di Benazir tra protezione e segregazione.
La condizione femminile resta inquietante in tanti paesi del mondo
SOMMARIO
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Aborto e legge 194
POLITICA
IL CASO
Storia di un provvedimento non applicato
Il numero degli obiettori di coscienza cresce in modo esponenziale di anno in
anno, con percentuali altissime nel Lazio e nel Sud Italia
Ludovica Liuni
Nell’Italia delle attese infinite e della burocrazia anche un momento delicato come quello di chi sceglie l’aborto deve sottoporsi a una lunghissima
trafila.
Come se non bastasse, a complicare
le cose di chi non sempre facilmente
affronta questo evento, interviene un
fattore determinante: l’obiezione di
coscienza. In Italia, infatti, il numero di
ginecologi che si rifiutano di praticare
l’interruzione volontaria di gravidanza
(IVG) è cresciuto negli ultimi 30 anni
del 17,3%.
Prima del 1978 l’aborto in Italia era
considerato un reato; anni di lotte e
manifestazioni hanno permesso di
vincere una battaglia importante nel
campo dei diritti civili. La legge 194
del 1978 consente a tutte le donne di
poter ricorrere all’IVG in una struttura
pubblica nei primi 90 giorni di gestazione. In caso di eventuali problemi di
natura terapeutica (pericolo di vita per
la donna o malformazione del feto), si
può intervenire anche una volta superato il termine dei tre mesi.
Questo risultato è stato salutato
come il primo passo verso una maggiore tutela delle donne. Eppure, a 36
anni di distanza da quel traguardo,
molti aspetti del provvedimento fanno
ancora discutere. Tra questi, appunto,
la possibilità da parte dei medici di essere obiettori di coscienza, rifiutandosi di praticare un’IVG; secondo le stime
del Ministero della Salute si tratta di
oltre il 70% dei ginecologi italiani.
Per garantire maggiore tutela alle
donne che hanno deciso di abortire,
nel 2008 è nata la Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’Applicazione della legge 194). La dottoressa Silvana Agatone, la presidente,
ha spiegato a Reporter Nuovo quali
sono le attività svolte, spesso tra mille
difficoltà:
“Noi monitoriamo la situazione e
cerchiamo di mantenere vivo il problema nell’opinione pubblica. Ma siamo
pochi e molti di noi stanno per andare
in pensione. Il rischio è che in futuro le
donne si troveranno nella condizione
di dover abortire senza più medici disposti ad aiutarle, quindi la legge 194
resterà soltanto un atto scritto”
I numeri del Ministero della Salute
parlano chiaro: nel Lazio, ad esempio,
soltanto 25 strutture praticano l’interruzione volontaria di gravidanza e
oltre l’80% dei medici sono obiettori.
Percentuali che salgono nel Sud Italia,
§
"C’è un fenomeno di sommersione.
In Italia non funziona né la contraccezione
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né l’educazione sessuale"
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IL CASO
con picchi che toccano quasi l’85% in
Sicilia e Molise, ma che chiamano in
causa anche il Veneto, unica eccezione di un Nord decisamente più evoluto. Eppure, secondo gli studi condotti dalla Laiga, le cose non stanno
proprio così:
“I nostri numeri ci dicono che nel
Lazio siamo al 91,3% di obiettori
nel 2012. Un altro dato poco chiaro
che arriva dal Ministero della Salute
è quello sulla diminuzione dell’IVG
(-5% rispetto al 2011), che però non
tiene in considerazione un possibile
aumento dell’aborto clandestino”.
Le donne che decidono di abortire, dunque, sono spesso costrette a
compiere veri e propri pellegrinaggi
alla ricerca di un presidio sanitario
idoneo, non senza ulteriori rischi per
la loro salute fisica e psicologica.
Ma quali sono i fattori alla base
dell’obiezione di coscienza? Lo abbiamo chiesto a Lea Fiorentini, attivista della rete Womenareurope, che
raccoglie più di cento associazioni
in tutta Italia per la tutela dei diritti
delle donne: “Secondo i dati nel 90%
dei casi si tratta di un’obiezione di
comodo. Purtroppo dove c’è un direttore sanitario o un primario obiettore questi episodi aumentano. Di fatto
sembra un modo per non avere problemi nel fare carriera”.
La ricerca di una struttura adeguata allunga i tempi di attesa, non
senza spiacevoli conseguenze: “Ovviamente ogni settimana che passa
aumentano i rischi per la donna, per
l’intervento stesso e per il recupero,
ma anche per le future gravidanze”.
Tutto questo costringe spesso le donne a riparare all’estero per accorciare
i tempi di attesa.
È notizia di pochi giorni fa la
possibilità di somministrare la pillola abor tiva RU486 in day hospital
anche nel Lazio, sull’esempio di To scana, Umbria ed Emilia Romagna.
Sollecitata dalle associazioni vicine
alle donne e ai loro diritti, la giunta di N icola Zingaretti ha deciso di
"Nel Lazio soltanto 25 strutture praticano
l’interruzione volontaria di gravidanza
e oltre l’80% dei medici"
dare l’oppor tunità di abor tire senza
sottoporsi al consueto ricovero di 3
giorni. Un notevole passo in avanti,
come ci ricorda la dottoressa Agatone: “Finora abbiamo avuto molte
difficoltà perché con il ricovero ob bligatorio l’ospedale era costretto
a bloccare un letto per 72 ore, con
il repar to spesso stracolmo. Adesso
con il day hospital le cose dovreb bero andare meglio, ma bisogna te nere conto che siamo in pochissimi
a fornire questo ser vizio” Intanto,
accogliendo il ricorso della Laiga e
dell’I ppf (I nternational Planned Parenthood Federation), il Consiglio
d’Europa ha riconosciuto che l’I talia non garantisce l’effettiva applicazione della Legge 194. E allora
che fare? Agire a livello normativo
o aumentare i controlli negli ospe dali? La dottoressa Agatone non ha
dubbi:“Basterebbe una corretta ap plicazione della legge, che nell’articolo 9 recita che tutti gli ospedali
devono garantire il ser vizio. Purtroppo non c ’è nessuno che controlli che questo av venga”, inoltre
“i ginecologi non obiettori vengo no spesso mandati da un ospeda-
le all’altro a fare gli inter venti, con
conseguente peggioramento della
qualità della vita e rimborsi spese
che spesso faticano ad arrivare”.
D’altronde il problema centrale
resta quello della formazione:
“A Roma due scuole di specializzazione in ginecologia non hanno
nemmeno il centro per l’interruzio ne volontaria di gravidanza, per cui
spesso i giovani medici terminano i
loro studi senza saper aver mai praticato un abor to”.
Si tratta di un dato allarmante
che non lascia ben sperare nemmeno per il futuro. Come ricorda
Lea Fiorentini: “C ’è un fenomeno
di sommersione. In I talia non funziona né la contraccezione né l’e ducazione sessuale”. Alla base c ’è
una fondamentale mancanza di informazione anche tra i più giovani,
per cui sarebbe oppor tuno intervenire già negli anni della scuola
istituendo corsi di educazione sessuale, per prevenire scelte comunque difficili per chiunque e non
di meno per formare un’opinione
pubblica più consapevole e attenta
ai diritti civili.
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LE FERITE DI CARLA
Adolescenza
e autolesionismo
Tra gli adolescenti sono oggi molto frequenti atti di autolesionismo condivisi
sulla rete attraverso vari social. Una riflessione sul tema con alcuni esperti.
Eugenio Murrali
Sono due i tagli simmetrici sulla mano di
Carla notati da Nicola, che il pomeriggio le dà
lezioni di italiano. Carla è il nome di fantasia di
questa bambina di dodici anni e studentessa di
una scuola media romana, che alla domanda di
Nicola, “Come te li sei fatti?”, svia la risposta. Ma
è lei a incarnare un fenomeno sempre più in
crescita tra gli adolescenti, quello dell’autolesionismo.
Un primo esperimento di cutting - Carla ha
poi mostrato fiera al suo docente delle foto, trovate su internet, con adolescenti coperti di ferite
sulla schiena e sulle braccia.“Ma perché si tagliano?”, aveva chiesto lui, e qui Carla aveva risposto:
“Non lo sai che se soffri e ti tagli il dolore passa
dalla tua anima al tuo corpo”. Una riposta che ha
sorpreso l’insegnante e lo ha indotto a informare i genitori della ragazza di quelle ferite.
Carla è una “perdente”? - Certo che no, non
è una “perdente”, definizione brutta ma in voga.
No, nessuno oserebbe prenderla in giro o dirle
che è una “sfigata”. Carla è spavalda, ha l’attitudine della leader, è intelligente e bellissima, ha
due grandi occhi azzurri che accendono il suo
ovale latteo. La giovane apparentemente non
ha ragioni per volersi male, anzi, lei è una che
vince, ha vinto dei provini di cinema, ha vinto
gare, vive in una casa ricca con il frigorifero e la
dispensa pieni di cibi succulenti, i genitori sono
due eccellenti professionisti e la adorano, i nonni passano i loro pomeriggi a coccolarla e una
domestica è sempre a sua disposizione.
E allora perché? - Per Maria Grazia Fusacchia,
psicoanalista e psicoterapeuta dell’età evolutiva, consulente del Tribunale per i Minorenni
di Roma il problema dell’autolesionismo adolescenziale ha radici profonde: “Io penso che la
questione evidenzi problematiche relative alla
difficile costruzione dell’identità. La posta in gioco dell’adolescente è quella di appropriarsi del
"La posta in gioco dell’adolescente è quella di appropriarsi
del corpo sessuato e di emanciparsi dalla relazione
di dipendenza dai genitori"
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corpo sessuato e di emanciparsi dalla relazione
di dipendenza dai genitori”. La psicologa ci spiega che il corpo è un fondamento dell’identità,
perché, come diceva Freud, l’“io” è prima di tutto un “io corporeo”. Ma c’è un punto essenziale,
il bambino deve arrivare bene all’adolescenza,
con una personalità in grado di affrontare lo
sconvolgimento della pubertà: “Se il bambino non ha potuto gettare le fondamenta della
propria personalità, personalità che si va edificando a poco a poco nel corso dello sviluppo
mediante il fondamentale apporto della madre
e della coppia genitoriale, arriverà al momento
dell’adolescenza sprovvisto di strumenti adatti
ad affrontarla”. Continua la psicoterapeuta: “La
potenzialità orgasmica con cui l’adolescente
si confronta è del tutto nuova (i bambini non
hanno l’orgasmo) e lo espone, come nel caso
del neonato, all’impatto con una realtà (esterna ed interna) di cui non ha esperienza, questa
sarà tutta da costruire e da inventare sulla base
di una reciprocità di scambi tra l’adolescente e il
mondo esterno. Questa situazione ha in sé tutte
le potenzialità traumatiche, come pure di apertura e di scoperta”.
Conoscere i limiti, riconoscere i ruoli - Quindi molti bambini oggi arrivano all’adolescenza
senza aver costruito delle buone fondamenta
della loro personalità e uno degli esiti possibili
di queste carenze sarebbe l’autolesionismo. La
dottoressa Fusacchia ci spiega poi anche alcune
delle cause:“Un appiattimento o una negazione
delle differenze (generazionali, di ruolo e di sesso) può avere come conseguenza il fallimento
delle esperienze strutturanti primitive e renderà
oltremodo complessa e difficile la gestione dei
compiti evolutivi successivi, come la gestione
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LE FERITE DI CARLA
del corpo sessuato in adolescenza e dell’aggressività− precisa l’esperta −, o anche la possibilità
di riconoscere la differenza tra libido e aggressività. Sul corpo collassa il fallimento psichico”.
Come a dire che i genitori devono fare i genitori
e i figli i figli, la confusione dei ruoli, delle differenze e l’assenza di un’autorità, pur nel contrasto, non porterebbero a nulla di buono.
Cutting e erotismo - A proposito di cutting,
la Fusacchia ricorda poi che, secondo Freud, la
pelle è la zona erogena per eccellenza: “La pelle è quell’organo che definisce il nostro confine
corporeo e contemporaneamente è l’area di
contatto tra il soggetto e l’ambiente, in primis
la madre”. L’adolescente che si taglia può rientrare nella categoria degli ipocondriaci, afferma la psicologa: “Che cosa fa l’ipocondriaco?
Trasforma l’organo sofferente in zona erogena.
Quindi il dolore dell’ipocondriaco nasconde un
godimento. Freud si è molto interrogato circa
la natura e la qualità del dolore e una delle sue
ipotesi è che il dolore sia un eccesso di piacere”.
Edipo, di nuovo lui – “Nel momento in cui
l’adolescente diventa pubere, è in grado, come
Edipo, di uccidere il padre e di possedere la madre. Non siamo più sul piano della fantasia come
con il bambino, per l’adolescente c’è la possibilità che tali eventi si avverino, con tutta la paura
delle nuove capacità che sono intrinseche al
nuovo corpo sessuato”. L’adolescente autolesionista ha quindi, secondo la Fusacchia, “un doppio movimento psichico” da un lato questo corpo sessuato lo affascina, dall’altro lo terrorizza e
quindi “il taglio è anche espressione del rifiuto e
del diniego a compiere questo processo di integrazione psico-somatica”.
Un fenomeno in crescita? - I dati sull’autolesionismo sono ancora insufficienti per un’analisi
globale del fenomeno, ma il SIBRIC, un portale
interamente dedicato a questo comportamento, rende noti alcuni primi risultati scientifici:
Da alcuni anni, in Italia, così come già successo in altri paesi occidentali, sembra diffondersi
sempre più tra i giovani il ricorso a condotte
autolesive. Ciò si rende piuttosto evidente all’interno della virtualità di internet nelle sue diverse
manifestazioni (forum, blog, chat, gruppi di discussione, etc..), e trova un significativo riscontro
in recenti studi scientifici italiani che riportano
una storia di comportamenti autolesionistici nel
21% circa degli studenti universitari e nel 42%
degli adolescenti tra i 13 e i 22 anni.
Una voce istituzionale - Luigi Fadiga, già Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma
e oggi Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza
dell’Emilia Romagna spiega: “Il fenomeno non
è stato ancora posto alla nostra attenzione con
strumenti conoscitivi appositi. Non esistono
statistiche adeguate. Certamente il Garante se
ne deve preoccupare, ma va ricordato che non
ha poteri diretti e mancano i dati necessari a
focalizzare l’azione”. I minori vanno poi sensibilizzati, “difesi da se stessi” e questo si può fare
attraverso vari strumenti, tra cui il Presidente Fadiga ricorda, ad esempio,le campagne informative, l’azione educativa, i contatti con le scuole.
Il Garante aggiunge un elemento interessante
e sottolinea che la problematica non è nuova:
“Già in passato, parlo di una decina di anni fa,
avevamo incontrato questo fenomeno, ma limitato all’ambiente penitenziario minorile, dove
episodi autolesivi come tagli e bruciature non
erano rari. Di solito – ricorda Fadiga – servivano
a richiamare l’attenzione oppure questo autolesionismo era finalizzato alla richiesta di vantaggi
concreti, ad esempio un trasferimento, o ancora
voleva essere una forma di protesta. Al di fuori
delle carceri minorili il fenomeno non lo abbiamo rilevato in quegli anni”.
Autolesionismo e condivisione virtuale - La
dottoressa Fusacchia spiega che gli adolescenti, quando si tagliano, anche se lo fanno di nascosto dai genitori, poi spesso condividono le
loro foto sulle varie reti social cui sono collegati.
Questa condivisione da un lato espelle il dolore
psichico, dall’altro potrebbe essere una sorta
di rito di passaggio: “Ritengo che abbia un suo
peso la condivisione mediatica di tali tormenti
perché, nella misura in cui si esibiscono i corpi
tagliati, viene espulsa e denegata tutta la sofferenza psichica che li accompagna. Vero è che
questo potrebbe in certi casi avere una valenza
di rituale, sostitutivo del venir meno di altre for-
me di rito che segnano il passaggio adolescente”. Internet, di fatto, contribuisce alla diffusione
di questi comportamenti autolesivi. Su Youtube
si possono trovare dei tutorial veri e propri, che
offrono dimostrazioni pratiche di come ferirsi, e
numerosi sono i video in cui i ragazzi raccontano
la propria esperienza autolesiva.
Attirare l’attenzione? - In uno dei profili social
di Carla è comparsa questa frase:
“Tutti mi chiedono che hai? io niente e la
cosa è che loro ci credono. Non si accorgono
dei tagli sulle mani, degli occhi lucidi! …e tutto
questo per…”
Parole che inducono a pensare che nel cutting ci sia anche il desiderio degli adolescenti di
farsi notare. A questo proposito spiega la Fusacchia: “Il taglio rappresenta un atto e pertanto ha
una valenza comunicativa, malgrado talvolta sia
nascosto e quindi segnala il fallimento della possibilità di rivolgere la sfida all’esterno”, è come se
l’adolescente non sapesse esprimere una sofferenza che pure è lì.
Comunicare col corpo - Una scelta comunicativa che si esprime col corpo, come sottolinea il Presidente Fadiga: “Probabilmente è una
situazione dovuta a una maggior solitudine.
Inoltre anche la moda può influenzare la diffusione di questo fenomeno. Non è raro vedere
una ragazza normalissima con indosso oggetti
che possono richiamare in qualche maniera la
possibilità di aggredire il proprio corpo (bulloni,
chiodi, etc.)”. Ma la comunicazione e la protesta
non passano soltanto attraverso gesti di conclamata violenza, dice Fadiga: “Un altro elemento
da non sottovalutare è la diffusione dei piercing
e dei tatuaggi, tutti fenomeni che una volta erano ridottissimi e sarebbero stati letti come sintomi di devianza, tanto da poter essere perseguiti
legalmente se riscontrati in un minorenne. Molti
anni fa i genitori erano in contrasto con il figlio,
in alcuni casi, anche per la crescita dei capelli, c’erano i cosiddetti“capelloni”. Sia pure escludendo
che i capelloni siano autolesionistici, era una maniera anche quella di comunicare con il corpo”.
E Carla? - Carla ha avuto la fortuna di
avere intorno persone attente e capaci di
dialogo. I genitori si sono subito resi conto
del suo disagio nascosto, l’hanno ascoltata, indirizzata e le hanno evitato di cadere
in questo circolo vizioso che avrebbe fatto
della sua bella pelle bianca una carta geografica delle sofferenze inespresse.
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MINORI E MALASANITÀ
Quando l'ospedale
uccide
Quando a morire è un bambino, rimane solo il vuoto incolmabile della disperazione: il sistema diventa un nemico, la società viene vista
con l’occhio della disillusione, il dottore si trasforma in assassino.
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Gianmichele Laino
Le sirene dell’ambulanza, la corsia
di un ospedale, la ricerca di un aiuto,
la sicurezza di affidarsi a mani esperte. Per alcuni il sollievo di una guarigione. Per altri, troppi, la tragedia.
In Italia, secondo una rilevazione del
2011, le vittime della malasanità si
aggirano intorno ai 45mila all’anno; il
5,2% dei pazienti è a rischio, il 9,5% di
questi perde la vita. E il dramma aumenta le sue proporzioni se a morire
sono i bambini.
Roma, Villa Mafalda, la clinica privata che, qualche tempo fa, è diventata tristemente famosa per il decesso (avvenuto tra le polemiche) dello
scrittore e regista Alberto Bevilacqua.
Giovanna, una bambina di dieci anni
entra in sala operatoria alle otto di
mattina del 30 marzo per un banale
intervento chirurgico al timpano. La
serenità è quella dell’operazione di
routine, fatta e rifatta tantissime volte.
Zero possibilità d’errore per un’équipe medica che annovera tra le sue fila
alcuni tra i maggiori specialisti nel
campo dell’otorinolaringoiatria della
Capitale. E invece, qualcosa va storto.
Il cuore di Giovanna non batte più e
in poco tempo la bambina smette di
respirare. Nove persone, tra medici e
personale sanitario, sono iscritte nel
registro degli indagati; tra queste l’otorino Giuseppe Magliulo che si difende dicendo: “quel tipo d’intervento
non può dar luogo ad arresto cardiaco. Non sono un mostro”, mentre il primo risultato dell’autopsia mostra che
"Le vittime della malasanità si aggirano
intorno ai 45mila all’anno"
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la piccola paziente era sana.
Montalto di Castro, provincia di Viterbo. Leonardo ha la febbre altissima.
I genitori non perdono tempo e corrono al pronto soccorso dell’ospedale
di Tarquinia. Dopo nemmeno un’ora i
medici lo rimandano a casa con una
cura per faringite febbrile. Leonardo si
addormenta, si risveglia alle 3.30 per
bere un po’ di latte e si rimette a letto. Non aprirà più gli occhi. Il dottore
del 118, intervenuto a decesso avvenuto, ha detto che il bambino non si è
accorto di nulla, che non ha sofferto.
L’autopsia ha escluso qualsiasi forma
di meningite o encefalite. Anche questa volta, la piccola vittima non presentava particolari problemi di salute.
E ancora, Ostia, Caserta, Andria,
Cosenza, Foggia. Un intervento banale, un malessere improvviso su un
campo di calcio, un errore nella somministrazione di un farmaco: giovani
vittime strappate all’affetto dei cari,
private della gioia di vivere. I casi di
decessi tra i minori causati da errori
medici sono un fenomeno sempre più
preoccupante.
“Al momento – dice Francesca Piroso, direttrice dell’associazione Periplo
Familiare che, dal 1998, tutela su tutto
il territorio italiano le famiglie di chi è
vittima di malasanità - non è possibile stabilire quanti siano i minori che
sono colpiti da questa sciagura. Molto spesso si è convinti che la giovane
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MINORI E MALASANITÀ
"Creare spazio pubblico è il mio mantra"
"Malasanità e malpractice sono i due problemi di fondo
che colpiscono il sistema ospedaliero italiano"
età del paziente sia sinonimo di salute
piena e, per questo motivo, il problema per cui ci si rivolge alla struttura
ospedaliera viene sottovalutato. È un
mito che bisogna sfatare! Penso, ad
esempio, alle malattie cardiache che
sono molto difficili da diagnosticare:
a volte non basta un semplice elettrocardiogramma per far emergere delle
patologie lievi che, tuttavia, per alcuni interventi possono essere determinanti”.
Malasanità e malpractice sono
i due problemi di fondo che colpiscono il sistema ospedaliero italiano, da nord a sud, dalle strutture
pubbliche alle cliniche private. Non
solo, dunque, le carenze causate da
anni di tagli alla sanità, ma anche
le negligenze dei singoli. Secondo
l’avvocato Alessandro Maria Tirel-
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li, esistono tre dinamiche diverse
che determinano l’errore: quando
chi opera lo fa senza cognizione di
causa poiché non è in grado di far
fronte alle esigenze del paziente;
quando il medico ripone eccessiva
fiducia nelle proprie capacità e utilizza il paziente come cavia; quando
si sottovaluta il problema e si incorre in una diagnosi sbagliata.
Moltissimi casi si chiudono attraverso l’esercizio della mediazione,
grazie alla quale si può arrivare a
una conclusione anche in un tempo
ragionevole. Ma quando ci si imbatte in un processo civile, i tempi si
dilatano in maniera drammatica e si
può arrivare anche a 4-5 anni d’atte sa per ottenere la sentenza.
Un’attesa sner vante che rischia
di frustare ulteriormente una fami-
glia già devastata dalla perdita o
dal torto subito. Molto spesso, infatti, la richiesta di un risarcimento
per l’errore medico non è dettata da
un semplice desiderio di rivalsa o
di vendetta nei confronti di chi l’ha
commesso: a volte è indispensabile
per affrontare situazioni di grave invalidità (che possono essere superate soltanto a fronte di spese importanti) o di indigenza della famiglia
della vittima.
Ma quando a morire è un bambino, rimane solo il vuoto incolmabile
della disperazione: il sistema diventa
un nemico, la società viene vista con
l’occhio della disillusione, il dottore
- da ancora di salvezza che era - si
trasforma in assassino. Si spegne la
luce, insomma. E non c’è scusa, risarcimento o consolazione che tenga.
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AMBIENTE
Per una geografia
dei disastri ambientali in Italia
Porto Tolle, Bussi, Vado Ligure, Taranto, Terra dei fuochi: sono solo alcuni dei luoghi
che la cronaca ha fatto conoscere agli italiani come emergenze ambientali.
Camilla Romana Bruno
Porto Tolle, Bussi, Vado Ligure, Taranto, la
Terra dei fuochi. Dal Veneto, all’Abruzzo, passando per la Liguria e scendendo fino in Puglia
e in Campania, è questa la geografia dei disastri ambientali in Italia. Centrali tossiche, discariche abusive, terre inquinate, acque malsane.
E un controllo che stenta a essere efficace.
Di Terra dei fuochi si parla da tempo, con un
impegno dei politici che si è fatto, soprattutto
in questi ultimi anni, sempre più determinato.
Ma quei cumuli di rifiuti, quei roghi tossici, non
sembrano voler abbandonare quei 57 comuni
e quasi 2 milioni e mezzo di abitanti coinvolti,
tra il napoletano e il casertano. Decreti legge e
forze dell’esercito non hanno fermato queste
attività illegali e altamente nocive, e se si parla
di responsabili quasi tutti puntano il dito contro la Camorra. Il sequestro della Tirreno Power,
la centrale elettrica a carbone di Vado Ligure,
è, invece, una conquista dello scorso marzo.
Sono stati provati nessi di causalità tra emissioni tossiche, morti e patologie, troppo stringenti
per poter essere ignorati.
E la più grande acciaieria d’Europa, l’Ilva di
Taranto, è diventato argomento ricorrente, se
non altro per essere stato assunto a simbolo
di disastro ambientale in Italia. Stabilimenti
chiusi, posti di lavoro persi, proprietari indagati
e un tasso di mortalità per tumori sempre più
elevato. E poi, però, qualche passo in avanti si
riesce a fare. Arriva, infatti, dal tribunale di Rovigo una sentenza storica: gli ex amministratori delegati della Centrale termoelettrica Enel
di Porto Tolle sono stati condannati a tre anni
di reclusione e interdizione di cinque anni dai
pubblici uffici. L’accusa, disastro ambientale
doloso che ammonterebbe a 3,6 miliardi di
danni, come stimato da una ricerca dell’Ispra
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(Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale), depositata agli atti. Assolto,
invece, per mancanza di elemento soggettivo,
l’attuale amministratore e direttore generale
Fulvio Conti. È accertato che la Centrale di Porto Tolle è stata gestita senza adeguati meccanismi di contenimento delle emissioni di scarico,
che avrebbero messo in pericolo la pubblica
incolumità. Gli effetti sulla salute dei cittadini,
invece, non sono stati ancora verificati, come
conferma il Presidente di Legambiente Veneto,
Luigi Lazzaro. “Le carte del processo non sono
ancora pubblicate, quindi per avere in mano
gli studi fatti e le risposte delle due parti a questi stessi studi ci vorrà ancora un po’ di tempo.
Quello che posso dire, è quello che si è dimostrato a Porto Tolle come negli altri processi o
sequestri, vedi Vado Ligure o Taranto, che le
istituzioni dovrebbero cogliere l’occasione per
approfondire il monitoraggio sia sulle popolazioni che sul territorio, sulle coltivazioni, come
sulla fauna. Questo dovrebbe essere l’incipit di
una maggiore attenzione rispetto al controllo.”
Una notizia che non piace, né a Enel, che
a fine dicembre aveva esultato per una riduzione dell’indebitamento da 42 a 40 miliardi,
ora virtualmente gravato dal rischio di pesanti passività, né al governo, che di qui a breve
sarà chiamato a rinnovare le nomine degli alti
dirigenti. Ma gli ambientalisti sembrano soddisfatti. Continua Lazzaro: “Noi siamo soddisfatti,
ci aspettiamo ovviamente colpi di coda e ricorsi annunciati, vedremo cosa succederà. Finalmente questa sentenza dovrebbe provare che
non esiste carbone pulito, perché il carbone
è una delle fonti energetiche più inquinanti e
una centrale a carbone di quelle dimensioni incide sicuramente sulla salubrità dei cittadini e
del territorio. Il mondo ci dice che non è questa
la strada da percorrere, c’è spazio per le energie
rinnovabili, per le fonti energetiche alternative.
Per la questione dell’uscita dalle fonti fossili,
dell’emissioni di CO2, della salute dei cittadini,
della produzione energetica distribuita e non
della concentrazione in grandi centrali, quella
che noi abbiamo chiamato rivoluzione energetica dall’avvento delle fonti rinnovabili, noi
lottiamo da sempre.”
Non carbone, ma metano. È stata questa
la strada indicata da Legambiente nel processo di riconversione della centrale verso fonti
meno inquinanti. Strada, questa, sicuramente
facilitata dalla presenza del più grande terminale gasifero offshore al mondo, il rigassificatore di Porto Viro di proprietà dell’emiro del
Quatar, a soli 10 km di distanza.
“Proprio sulla riconversione al metano noi
sfidammo la Enel, come forma di transizione
energetica per arrivare al 100% rinnovabile.
Progetto non accolto dal colosso, che preferì
rilanciare il carbone in questo modo, chiamandolo carbone verde.”
"Già nel 1996 erano
state trovate tracce
di inquinamento"
R
AMBIENTE
"Mancano i fondi, spesso; manca la volontà, forse,
ma a pagarne le spese è sempre la salute del cittadino"
Sulla centrale pende comunque l’iter della
Valutazione d’impatto ambientale per il progetto di riconversione che vale, sulla carta, almeno 4mila posti di lavoro e 2 miliardi e mezzo
di investimento. Ma sembra proprio la paura
di essere licenziati ad aver creato i principali
attriti sul territorio. Lazzaro: “Noi abbiamo impiegato diverso tempo e risorse per attività di
informazione dei cittadini, proprio per migliorare la situazione e non peggiorarla. Anche
se questo ha creato sul territorio difficili situazioni sociali e lavorative, perché la dicotomia
ambiente-lavoro è stata più spesso rilanciata,
affidando responsabilità agli ambientalisti di
non volere lavoro e sviluppo. Noi abbiamo
solo cercato di tutelare l’interesse dei cittadini
e della loro salute. È vero che la gran parte dei
cittadini di Porto Tolle gravita intorno a questo
grande stabilimento, ma è dimostrato da studi
che basterebbe ricollocare il lavoro. Cosa che
Enel potrebbe fare, modificando la centrale o
paradossalmente anche smantellando la centrale stessa, e ci sarebbe lavoro garantito per
oltre dieci anni. Ma ciò prevede costi che difficilmente l’azienda vorrà sostenere.”
E se la sentenza di Porto Tolle ha scritto un
primo e storico successo per gli ambientalisti,
in Abruzzo la musica è ben diversa.
La storia della discarica di Bussi, in provincia
di Pescara, al confine tra il parco del Gran Sasso e quello della Maiella, comincia almeno nel
1972, quando l’assessore all’Igiene e alla Sanità
del comune di Pescara inviò una lettera ai dirigenti della Montedison, titolari dello stabilimento chimico. Chiedeva di rimuovere i rifiuti
tossici interrati, perché a rischio era l’inquina-
11
mento delle falde acquifere dell’acquedotto
Giardino, che serviva, e serve ancora oggi, tutta
la Val Pescara. Una denuncia tenuta dalle autorità sotto silenzio, nonostante le continue
battaglie del Wwf e degli ambientalisti. Poi il
processo in Corte d’assise di Chieti, e la perizia
shock presentata, a fine marzo, dall’Istituto Superiore di Sanità: fino al 2007 più di 700 mila
abitanti del luogo avrebbero bevuto acqua
contaminata. Queste le parole del Presidente
del Wwf Abruzzo, Luciano di Tizio.
“L’acqua che è stata servita nella Val Pescara
fin al 2007 era contaminata. Da quel momento
hanno scavato nuovi pozzi quindi non è stata più inquinata. E questo è quanto riportato
anche dal documento presentato dall’Istituto
Superiore di Sanità per il processo in corso a
Chieti. Il problema vero è che hanno fatto bere
a 700000 persone, dal 2004 ad oggi, e probabilmente da molto di più, acqua contaminata,
senza avvertire nessuno.”
E i sigilli ad una sola delle tante discariche, la
discarica Tre Monti, arriva solo nel 2007, e per
la svolta del processo in Corte d’assise di Chieti
bisognerà aspettare altri sette anni. 19 dirigenti
della Montedison, il colosso che possedeva le
centrali fino al 2002, devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque.
L’attuale ditta proprietaria, la Solvay, invece, ha
scelto, non senza polemiche, di costituirsi parte civile. Da una prima stima dell’Ispra il danno
ambientale ammonterebbe a 8,5 miliardi; le
conseguenze, invece, sulla salute dei cittadini
sono ad oggi non quantificate. Continua Di
Tizio: “Non sono mai state fatte analisi epidemiologiche, cosa che non è stata sottolineata
dal presidente della Regione Gianni Chiodi, e
l’Abruzzo è una delle poche regioni che non ha
il registro tumori; quindi non sappiamo che effetto ha fatto sulle persone che l’hanno bevuta,
quest’acqua contaminata.”
I dati, comunque, fotografano una situazione risalente non oltre il 2007, perché, come
precisa il Presidente, già dieci anni prima furono presi decisivi provvedimenti per mantenere
salva la salubrità dei pozzi.
“Già nel 1996 erano state trovate tracce di
inquinamento, ma ai limiti della tollerabilità
di legge, perché allora erano molto più alti.
Poi nel ‘97 si è scoperto il vero inquinamento,
grazie al Wwf, e si è provveduto con lo scavo
di nuovi pozzi e l’avvio dell’inchieste.”
Questo giustificherebbe le parole del presidente Chiodi, che ha rassicurato gli abitanti del luogo sulla bontà dell’acqua della Val
Pescara. Oggi, forse, ma gli abruzzesi non si
rassegnano all’idea di aver bevuto per anni
acqua contaminata senza essere avvertiti da
autorità alcuna. Ora resta da bonificare l’area,
un’area di quasi 25 ettari, il cui costo ammonterebbe a circa 600 milioni. Discariche che
sono state soprannominata “sarcofagi”, perché coperte da teloni impermeabili sovrastati da terrapieni di ghiaia. Per ora ne sono
stati stanziati solo 50, ma a Bussi non è ancora arrivato nulla, come conferma Di Tizio.“C’è
un finanziamento in ballo di 50 milioni, il cui
destino è ancora tutto da vedere, ed è sconosciuto l’uso che se ne farà.”
Mancano i fondi, spesso; manca la volontà, forse, ma a pagarne le spese è sempre la salute del cittadino.
R
POLITICA 2.0
Partecipazione via web
e necessità di tutela
Internet, cittadini e democrazia: Stafano Rodotà parla dell’evoluzione della
politica moderna. Tra rischi e bisogno di garanzie.
Valentina Berdozzi
Vigilare, garantire, tutelare. Mettere al sicuro gli utenti della rete, proteggendo i dati personali che derivano dalla navigazione online.
Alla conferenza del 4 aprile presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma, si è parlato
di Internet. E delle nuove esigenze/emergenze davanti a cui la navigazione al tempo del
web 2.0 ci pone: la difesa dei fruitori finali della rete e la tutela assoluta della libertà di utilizzo. Nell’epoca in cui, ricordano gli esperti e
le statistiche, sui cavi in fibra ottica viaggiano
non solo l’informazione, l’intrattenimento, la
conoscenza e l’apprendimento, ma passano
anche la partecipazione all’organizzazione
democratica del Paese.
E-partecipation: partecipazione di tutti e
tutela del singolo.
L’insieme delle pratiche di interazione informatica dei cittadini con le istituzioni democratiche di ogni livello, da quelle locali a
quelle sovranazionali, è questa l’E-partecipation garantita dalle moderne tecnologie di
comunicazione. Una partecipazione che si
esprime dietro a uno schermo o attraverso un
click.
Di fronte ad uno sviluppo tanto rapido
quanto consistente delle pratiche di espressione politica via web, studiosi ed osservatori
hanno lanciato un monito: vigilare sulla rete e
tutelare la partecipazione informatica dei cittadini alla vita politica del Paese tramite una
forma di protezione stabilita dalla Costituzione. E che sia in grado di ricondurre la difesa
del cittadino informatizzato nel seno della
norma fondante della Nazione.
A sottolineare la necessità del controllo è
il professor Stefano Rodotà, dal 1997 al 2005
12
Garante per la protezione dei dati personali,
che con un imperativo categorico ha aperto
l’intervento: “Lo sguardo democratico deve
vigilare sul web”.
Valutare “come i diritti intellettuali vengono integrati nella struttura
democratica di un sistema” diventa così la
cartina al tornasole con cui giudicare il cammino che ogni Paese e democrazia hanno
compiuto, dal punto di vista della tutela della
libertà di navigazione del singolo. Un cammino di protezione che ha una partenza obbligata: la difesa imprescindibile della proprietà
intellettuale, ovvero dei frutti del processo
creativo e dell’inventiva umana. Un assunto
fondamentale, questo, di cui ogni sistema
democratico dovrebbe farsi carico e garante
– ricordano gli esperti.
A tre giorni di distanza
dalla sentenza europea sulla regolamentazione del settore comunitario delle telecomunicazioni che, oltre all’abolizione delle tariffe di
roaming, prevede di tutelare la net neutrality,
ovvero l’uguale trattamento del fruitore del
web da parte degli operatori di ognuno dei
28 Paesi dell’Unione e la protezione del traffico internet senza discriminazioni di luogo e
provenienza.
È un web 2.0 sinonimo di protezione reale e non di pericolo per i dati della
navigazione personale, quello che auspicano
gli studiosi presenti alla conferenza.
E se per
raggiungere quest’obbiettivo, da un lato, si
deve guardare all’utente che immette i suoi
dati in rete, dall’altro l’attenzione va dedicata
anche ai colossi che quel traffico lo gestiscono: “Google è uno dei soggetti più presenti
tra i fruitori della rete e rappresenta un potere
enorme di raccolta e gestione dei dati”, sot-
tolinea Rodotà. Che poi chiarisce subito che
quei soggetti “over the top”, che esercitano
poteri democraticamente esagerati”, vanno
controllati; e ricondotti nel solco di un modus
operandi che sia quello di una legge costituzionale.
Per questo, ricorda il giurista, una Dichiarazione dei diritti fondamentali legati al web
appare ai nostri tempi un passo non solo
necessario ma, soprattutto, utile a livello globale: “garantire, ad un tempo solo, i singoli
soggetti produttori di dati e ancora, i soggetti
comunicativi che di questi dati, invece, sono i
raccoglitori”.
Ed è una garanzia resa ancora più urgente e necessaria dal fatto di vivere in un’epoca,
come la nostra, segnata da quella che gli studiosi individuano come la democratizzazione
delle conoscenze: l’apertura cioè a 360 gradi
"Lo sguardo democratico
deve vigilare sul web"
R
POLITICA 2.0
del dibattito e lo spalancarsi dell’agone politico a tutti i mezzi e a tutte le voci.
Per una vita civile che sia davvero partecipata e collettiva e che, nel rapporto democrazia-rete, implichi il coinvolgimento diretto
delle reti civiche, ovvero di quelle piattaforme
di interazione, collegamento tra i membri
di una società e partecipazione politica che,
derivate dalle reti sociali nate per ragioni di
profitto economico, rappresentano l’aspetto
più dirompente della democrazia del terzo
millennio. Ma che, avverte il professore, se
hanno rivoluzionato l’approccio moderno
alla gestione della cosa pubblica hanno però
anche aperto “questioni inedite con cui confrontarsi”.
Il problema dell’era 2.0: la tutela dei dati
personali. Un problema nuovo e attuale: nasce e si presenta così la questione del trattamento dei dati personali. Urgente e improrogabile, specie per una società che, sulla scia
dell’opera sociologica di Bauman, è quella
definita della “non sorveglianza”: della mancanza totale, cioè, di argini e di qualsiasi forma
di controllo nella gestione dei dati emessi dai
è stata infatti corposa la discussione aperta in
materia. E ad essere toccato non è stato solo
il fronte dell’operazione di acquisizione dei
dati, ma anche quello della profilazione della
persona, ovvero la creazione di un profilo in
rete.
Dati personali al centro della vita – mediatica, democratica e dei singoli cittadini – dunque.
In una fluidità totale tra la dimensione
reale e quella virtuale, dove il confine tra esistenza vera ed esistenza informatica si fa labile e sfumato. Il problema, allora, non è più
quello della violazione del dato, ma diventa,
ricorda Rodotà, quello della predizione: “Con
l’internet delle cose, con l’uso crescente degli
algoritmi, il problema non è più quello della
privacy o della violazione del dato così com’è
presso di noi. La questione vera diventa invece quella della predizione: di un’identità personale, cioè, non più costruita in maniera autonoma, ma derivata dai dati che emergono
dalla navigazione nel web. Sganciata da qualsiasi forma di contatto vivo con l’individuo e
da una conoscenza tangibile.”
Un mondo non più di persone ma di na-
"La questione vera diventa quella della predizione:
di un’identità personale non più costruita in maniera
autonoma, ma derivata dai dati della navigazione nel web"
fruitori del web.
E che la questione della tutela del traffico informatico sia sempre più al centro del
dibattito e della vita comunicativa attuale, lo
dimostra il riferimento che Rodotà fa alle ultime elezioni avvenute negli Stati Uniti, quelle
definite “dei dati personali”. Negli States, tra la
tornata presidenziale e quella amministrativa,
13
viganti; soggetti costruiti attraverso un algoritmo informatico che ci rende quell’uno su
un milione e 400 mila altri utenti della rete,
uguali e diversi da noi.
Con una precisazione
calzante: “il problema della costruzione dell’identità e quello della predizione rappresentano le grandi questioni della democrazia”.
“Perché incidono sull’autonomia delle
persone, sulle modalità di partecipazione alla
sfera pubblica, sulla profilazione dell’individuo nel mondo moderno. Sono temi che ci
impegnano a chiederci se dobbiamo considerare le persone come soggetti dotati di autonomia, anche in rete, oppure se gli individui
devono essere considerati esclusivamente
come parte di una colossale operazione di
data mining, cioè della raccolta di informazioni adoperata in un mondo concepito come
miniera a cielo aperto di dati ed elementi”.
Limiti, falle e iniziative positive.
In un universo solcato dal flusso ininterrotto di informazioni, dove la sicurezza del dato
personale appare labile, il richiamo all’attualità torna prepotente con il riferimento alla vicende di cui il fondatore del sito di pubblicazione di atti segreti WikiLeaks Julian Assange
e dell’informatico ex consulente della National Agency Security Edward Snowden sono i
protagonisti. Dimostrando come, nel mondo
del web 2.0
“la società della sorveglianza si rivolga su
sé stessa e la crescita del controllo delle informazioni si rovesci in una maggiore vulnerabilità”. ha commentato Rodotà.
Che ha poi
ricordato la strada in cui la società del controllo si è rovesciata: “Non c’è più la possibilità di
una reazione effettiva in termini sanzionatori.
E Snowden non è che l’ennesima prova della contraddizione interna della democrazia:
mentre infatti, per effetto delle rivelazioni di
atti, documenti, dati e informazioni coperte dal segreto, Obama è costretto a dettare
nuove regole per garantire la democrazia,
Snowden è invece considerato responsabile
di un reato. È qui che nasce l’aporia; il conflitto
tra un prima e un dopo lo sviluppo della rete
di cui non si può non tenere conto”.
Incapacità di gestione, assenza di garanzia
totale e impossibilità di regolare una materia
tanto sensibile in un universo così variegato: è
questo ciò che ha rappresentato i fatti di cronaca legati a questi due personaggi. Eventi
che traggono maggiore risalto nel paragone
con quanto di significativo, in tema di salvaguardia dei diritti di chi usa la rete, è stato e
viene invece ancora fatto.
Un esempio calzante è quello offerto dal
Brasile che, nei giorni scorsi, ha approvato il
“Marco Civil da Internet”: un provvedimento
comprensivo che si rifà all’idea dell’Internet
R
POLITICA 2.0
“Internet Democracy”: un diritto fondamentale
di accesso a Internet che sia equo, garantito, sicuro e protetto"
Bill, nella serie di diritti del cittadino in rete che
garantisce e tutela.
Un impegno forte, quello carioca. Che
richiama lo sforzo a cui è chiamata l’Italia
nell’imminente semestre di presidenza del
Consiglio Europeo. È questo uno dei pochi,
veri punti del semestre di conduzione italiana
dell’Unione, sottolinea Rodotà. Da contestualizzarsi in un clima che, in quanto al dibattito
sul tema, è incandescente.
Lo scopo: “Internet Democracy”.
Per Rodotà, il vero obbiettivo della marcia
di avvicinamento alla garanzia totale dei dati
informatici è quello che riprende le posizioni
del padre – inventore del web, l’informatico
Tim Berners-Lee. Il primo, per l’ex Garante, “a
rendersi conto che una serie di regole che riguardi il funzionamento di internet non può
essere efficace senza una serie di regole di
garanzia che riguardi il fruitore di internet e
che, soprattutto, si inscriva nella dimensione
della Costituzione. Perché l’idea, storicamente fondata e da sempre esistita – come dimostrano anche le ultime vicende turche relative
ai limiti, alla censura, alla chiusura dell’accesso
e dell’utilizzabilità della rete – vuole che le regole applicate alla navigazione siano soltanto
quelle censorie, quelle costrittive, siano insomma i divieti; mentre la dimensione costituzionale fatica ad entrare nella testa.”
È questo l’imperativo a cui i governi, le istituzioni e i cittadini devono guardare davvero;
calibrando su quella base un intervento disciplinante allo stesso tempo efficace ma non
asfissiante. Quello che, per dirla con BernersLee, è una vera “Internet Democracy”: un di-
14
ritto fondamentale di accesso a Internet che
sia equo, garantito, sicuro e protetto.
Le armi in nostro possesso per raggiungere questo scopo? I nostri strumenti di tutela
sono i passaggi costituzionali, in grado di far
sgorgare, dal ventre della legge più alta dello
Stato, i diritti/doveri di chi naviga in rete. Non
certo, ricorda il giurista, quei:
“Passaggi costituzionali che si costruiscano attraverso il modo tradizionale in cui le
Costituzioni classiche – Bill of Right sono state
scritte. Se non altro, perché siamo in un mondo globale dove non c’è un unico legislatore
costituzionale e un univoco potere costituente”, ma passaggi diversi, mutuati e modellati
sui tempi; espressione di una legislazione
morbida e attuale che possa disciplinare pur
senza schiacciare.
È questo il mondo della
rete e della partecipazione online agli istituti
della democrazia che oggi si cerca. E quando
a Rodotà chiediamo come sia la situazione
del nostro Paese in quanto a tutela della privacy, chiara è la sua lettura:
“C’è una copertura costituzionale forte,
nazionale ed europea; la legislazione è abbastanza efficiente, con un Codice per la Protezione dei Dati Personali e una serie di norme
particolari che, se ben utilizzate, ci danno
garanzie solide. Naturalmente bisogna saper
ben affrontare, anche a livello legislativo, i
mutamenti determinati dalle tecnologie della comunicazione e delle telecomunicazioni
e il doppio problema, interpretativo e di aggiornamento delle regole esistenti, che da
questo scaturisce”.
Ma nell’era dell’E-partecipation e della de-
mocrazia esercitata dal singolo via web, il cittadino si trova a svolgere un ruolo essenziale
e delicato: la collettività riscopre un margine
d’azione prima insperato. Che però non deve
trasformarsi, per l’individuo, in un rischio:
“Può esserci, talvolta, un’ambivalenza che
non può essere ammessa. Allargare le possibilità di partecipazione è inevitabile: le resistenze che l’idea di una maggiore vicinanza
del privato al pubblico suscita sono destinate
a cadere. Ciò che conta, comunque, è che i
dati pubblici raccolti dagli operatori dei dati
e dal settore pubblico attraverso l’attività politica dei singoli, siano adoperati in modo corretto”. Ma partecipazione diretta e maggiore
vicinanza tra sfera pubblica e ambito privato
sono sempre sinonimo di democrazia?
“La mia risposta – spiega il giurista – dovrebbe essere sempre positiva, ma va sottolineato il fatto che la maggior garanzia di democraticità, ovvero la partecipazione diretta
del cittadino alle sorti della cosa pubblica,
dipende dal modo in cui l’individuo è messo
in condizione di partecipare. La partecipazione infatti è un elemento condizionato e
condizionabile: se l’essere parte del destino
delle istituzioni democratiche si risolve soltanto nell’esprimere il proprio sì o il proprio
no comodamente seduti davanti lo schermo
di un pc, questa è una falsa partecipazione: è
una democrazia ingannevole. La vera partecipazione, invece, è quella che si costruisce e
si costituisce attraverso tutte le fasi del processo di conoscenza e di liberazione: accesso
ai dati, possibilità di utilizzazione e di discussione pubblica, possibilità di controproporre.
E poi, alla fine, anche quella di votare”.
Per lanciare, in conclusione, un messaggio di partecipazione e speranza, che passi
attraverso una presenza, che sia forte e sincera, nei processi di vicinanza ai meccanismi democratici: “L’obbligo delle strutture
democratiche di tenere in considerazione il
parere dei cittadini rappresenta l’apertura di
un canale di comunicazione tra società e istituzioni fondamentale, ma oggi gravemente
precluso. C’è questo ostacolo alla base di
quell’imperante atteggiamento di sfiducia
che è la cifra della politica italiana attuale.
E verso cui, però, va indirizzata la battaglia
moderna alla partecipazione allargata,
sincera e condivisa”.
R
ESTERI
Bosnia: il vento di protesta
tra speranza e rassegnazione
L’intervista a Francesco Quintano, corrispondente Ansa da Belgrado, sulle
proteste di febbraio in Bosnia, le più violente dalla fine della guerra degli
anni Novanta
Stefano Intreccialagli
Si è rotto il silenzio in Bosnia ed
Erzegovina. È successo il 5 febbraio
scorso.
Nel periodo in cui tutto il mondo
puntava gli occhi su Kiev e sulla crisi
ucraina, nelle principali città del Paese dell’ex Jugoslavia si sono sviluppate le proteste antigovernative più
violente dalla fine della guerra degli
anni Novanta.
Tutto è partito da Tuzla, importante polo industriale appartenente alla
Federazione di Bosnia ed Erzegovina,
una delle tre entità politico-amministrative del Paese insieme alla Repubblica Serba di Bosnia e il Distretto di
Brcko. Queste tre regioni, nate con l’
obiettivo di rispettare le minoranze
etniche presenti in questi territori,
sono frutto degli accordi di pace di
Dayton del 1995 che hanno siglato
la fine della sanguinosa guerra civile
che ha dilaniato i Balcani.
UN POPOLO STREMATO. Centinaia di disoccupati e operai sono scesi nelle piazze per protestare contro
le disastrose privatizzazioni di alcune importanti aziende nazionali
che sono fallite pochi mesi dopo, lasciando le famiglie senza stipendi e
senza lavoro. Nelle ore successive la
reazione a catena ha portato a un allargamento delle manifestazioni nelle città di Sarajevo, Zenica e Mostar,
appartenenti alla Federazione, per
poi estendersi anche a Banja Luka,
15
capoluogo della Repubblica Serba, e
persino oltre i confini del Paese, con
manifestazioni di solidarietà a Belgrado e Zagabria.
L’esasperazione è sfociata in poco
tempo nella violenza: i palazzi governativi di Tuzla, Zenica e Sarajevo
sono stati presi d’assalto e incendiati per chiedere con forza la fine della
corruzione ed elezioni anticipate.
CIT TADINI IN PIAZZA A ZENICA
“La Bosnia è il ventre molle, uno
degli anelli deboli di questa ex federazione, il Paese più povero e più arretrato sulla strada dell’integrazione
europea” spiega Francesco Quintano,
corrispondente Ansa da Belgrado.
“Gli accordi di Dayton hanno posto
fine alla guerra nel ’95 ma hanno
messo al Paese una forte camicia di
forza formata dalla divisione etnica
fra le tre componenti serba, croata e
musulmana della popolazione”.
TERREMOTO NELLA REGIONE. Di
fronte a queste importanti proteste
gli Stati vicini non sono rimasti indifferenti: “Croazia e Serbia hanno
espresso preoccupazione - continua
Quintano – soprattutto perché Belgrado ha un occhio particolarmente
attento alla Bosnia, essendo sostenitrice e difensore della comunità serba in Bosnia. La preoccupazione però
si accompagna alla volontà di aiutare
questo Paese a uscire dalla crisi, che
non fa bene alla regione”.
Qualcuno ha parlato di “primavera
bosniaca”, paragonando le proteste
di quei giorni alle rivoluzioni nei Paesi del Medio Oriente del 2010-2011.
"La Bosnia è il ventre molle, uno degli anelli deboli
di questa ex federazione"
R
ESTERI
"Preferiscono non alzare il coperchio di una pentola che potrebbe esplodere,
e questo è un errore perché anche la Bosnia ha diritto ad avere voce in capitolo”
“Qualcuno ci aveva anche creduto,
vedendo in fiamme i palazzi del potere a Sarajevo, Tuzla, Mostar e Zenica.
Poi tutto si è fermato. Probabilmente
alla gente è tornata in mente il dramma e le tragedie della guerra e psicologicamente ha temuto di sprofondare di nuovo in un inferno come quello
di 20 anni fa”.
VOGLIA DI PARTECIPARE. Un inizio di primavera spento in poco tempo, ma di certo le manifestazioni di
febbraio possono essere inserite nel
quadro del nuovo “vento dell’Est”
di proteste in Europa, con le dovute differenze. “Mentre in Ucraina c’è
stata una forte componente etnica
alla base delle proteste, in Bosnia la
gente è scesa in piazza non solo nella
Federazione croato-musulmana, ma
anche, seppure in modo più leggero,
nella Repubblica serba, per combattere contro lo strapotere di oligarchi
e corrotti che hanno portato crisi, povertà e disperazione”.
Il plenum riunito a Tuzla.
Tre giorni dopo l’inizio delle proteste nelle città sono nati i plenum,
assemblee formate dai cittadini per
prendere decisioni a maggioranza
e discutere dei problemi del Paese, sperimentando un meccanismo
di democrazia diretta. Ma finora
non sembrano esserci stati risulta-
16
ti concreti.“Si era parlato di elezioni
anticipate, ma i serbo-bosnaci hanno
bloccato questa proposta. Le elezioni
ci saranno, ma con la scadenza ordinaria a Ottobre”.
FERITE DI GUERRA. In Bosnia, oltre alla situazione di crisi economica,
è importante considerare l’aspetto politico delle tre componenti del
Paese che non sono intenzionate ad
aiutarsi a vicenda. “L’assetto istituzionale è un labirinto fatto di 5 presidenti, 3 parlamenti e altrettanti
governi che provoca inevitabilmente
l’immobilismo. Quello che decide Sarajevo non è accettato da Banja Luka,
quello che viene detto a Mostar non
è considerato a Zenica”.
Una situazione che sembra non
avere sbocchi, e c’è chi parla di una
possibile revisione degli accordi di
Dayton. Intanto l’Europa è sempre
più lontana col passare del tempo:
“La Bosnia è il fanalino di coda dell’ex
Jugoslavia, non ha lo status di candidato all’Unione e non riesce a fare
le riforme costituzionali chieste da
Bruxelles”. Nessun segnale positivo,
nemmeno dalle istituzioni. “Il Commissario europeo per l’allargamento
Stefan Fule si è detto sconfortato, e
ha annunciato nella sua ultima visita a Sarajevo che rinuncerà a fare
da mediatore, perché si è reso conto
che in Bosnia queste 7 forze politiche
principalli non hanno minimo comune denominatore per fare le riforme”.
Le regioni bosniache nate dagli
accordi di Dayton
SILENZIO INTERNAZIONALE.
Tante perplessità e poche speranze, mentre i potenti del mondo sembrano non volersene curare, se non
in maniera superficiale. “Credo che
in tanti sulla scena internazionale
non capiscano bene il disagio della
Bosnia e pensano solo a non creare
ulteriori divisioni” commenta il giornalista. “Preferiscono non alzare il coperchio di una pentola che potrebbe
esplodere, e questo è un errore perché anche la Bosnia ha diritto ad avere voce in capitolo”.
Una politica dell’attesa, dell’immobilità, a causa della paura di un possibile ritorno alle violenze etniche, il
grande spettro che aleggia in tutta la
regione. “Le proteste ricominceranno alla prima occasione soprattutto
di fronte allo scarso successo di queste manifestazioni” prevede Francesco
Quintano. E intanto si parla di cambiamenti, seppure con tantissime difficoltà. “Tante sono le voci di una Dayton 2,
per modificare gli accordi di pace. L’unico futuro è l’integrazione europea,
senza la quale la Bosnia resterebbe prigioniera del proprio tragico passato”.
R
ESTERI
L'apartheid rosa del Pakistan:
Vagoni per sole donne
Le figlie di Benazir tra protezione e segregazione. La condizione femminile
resta inquietante in tanti paesi del mondo
{
Francesca Ferri
Dallo sguardo indiscreto all’abuso sessuale. La violenza di cui le donne sono vittime ha tante sfumature. Molti paesi credono di risolvere il problema semplicemente
“eliminando” gli uomini. L’ultimo di questi è
il Pakistan.
“Special ladies” è la risposta. 12 pullman
rosa è il servizio riservato alle sole donne,
lanciato dall’azienda privata Zong per collegare Rawalpindi a Islamabad. Solo donne
saranno ammesse a bordo, donne saranno
le autiste al volante, e donne le hostess di
terra. “Un’iniziativa eccellente”, secondo il
ministro del Lavoro del Punjab, “che permetterà alle donne di viaggiare senza problemi di alcun tipo”. Il progetto pilota è stato pensato per le studentesse e lavoratrici
che dalla città del Punjab devono raggiungere la capitale nella massima funzionalità
e comodità.
Il progetto, applaudito da molti che
considerano i vagoni rosa un passo verso
l’emancipazione, stupisce chi invece, intravede una nuova forma di segregazione in
un Paese che ha ancora molta strada da
fare in materia di parità tra uomo e donna. Il
Pakistan di Benazir Bhutto non sembra aver
portato a termine quel processo di emancipazione della donna, che è la base di qualsiasi stato moderno.
Certamente i van rosa sembrano una
soluzione concreta, soprattutto in un paese che Reuters definisce il terzo più pericoloso del mondo per le donne, dopo l’Afghanistan e la Repubblica Democratica del
Congo. In realtà, i “women-only buses” non
sono un’invenzione del Pakistan, ma un’evi-
17
dente prova di una piaga sociale che raggiunge sempre nuovi orizzonti e sconvolge
sempre meno l’opinione pubblica.
Sfilata di modelle a Peshawar, Pakistan
La crescente violenza sulle donne minaccia la loro libertà, costringendole a una
reclusione in aree protette, come se fossero minoranze da proteggere. Le rotte dei
vagoni rosa si estendono dall’est all’ovest
del mondo, inglobando sempre più paesi
in questo viaggio della vergogna. I governi
annunciano, entusiasti, decisioni come trofei di una buona politica, ma le donne che
oggi si trovano costrette a isolarsi in vagoni
rosa la pensano allo stesso modo? Le donne indiane, afghane, pakistane, giapponesi
o italiane sono costrette a fuggire lo sguardo degli uomini, a nascondere il proprio
corpo, colpevole di fatali “provocazioni”.
Ma a volte il velo non basta. E l’idea dei
vagoni rosa piace a molti. Il primo ad averci pensato sembra essere stato il Giappone
che, già nel 2000 riservava carrozze di treni
e metropolitane alle donne che erano vittime di molestie sessuali da parte di uomini
ubriachi. Secondo la polizia di Tokyo, oggi
i due terzi delle passeggere tra i 20 e i 30
anni hanno subito una forma di molestia,
ma la pratica di riservare carrozze per sole
donne sembra avere una tradizione secolare in Giappone. I primi vagoni per donne
furono introdotti nel lontano 1912 per separare le studentesse dai ragazzi sui treni
affollati delle ore di punta.
Anche la metro di Rio de Janeiro in Brasile, ha tinto di rosa acceso alcuni vagoni.
Iniziativa che invece non è piaciuta a San
Paolo, dove le denunce di alcune coppie
sposate hanno fatto valere l’articolo 5 della costituzione brasiliana, che garantisce la
parità di tutti i cittadini. La stessa politica
dei vagoni rosa è stata attuata in Egitto, a
Taiwan, in Indonesia e in India che oggi figura tra i paesi con il più alto tasso di stupri.
Così, mentre la Gran Bretagna ritirava
l’ultimo treno “ladies only” nel 1977, molti
paesi oggi ritornano ad antiche tradizioni
all’apparenza un po’ bigotte. Se sorridiamo
quando, salendo sugli autobus passiamo
affianco ai posti prioritari destinati ad anziane signore incipriate, dovremmo ricordarci dei vagoni al femminile della moderna Dubai o della futuristica Tokyo.
Intervista a Luisa Betti, giornalista di “Pagina 99", esperta di diritti, violazioni e discriminazioni su donne e minori:
"La politica dei vagoni rosa
è stata attuata in Egitto,
a Taiwan, in Indonesia"
R
ESTERI
"In Pakistan si parla di 'Eve teasing' un eufemismo per intendere pubblica molestia
sessuale che trova una giustificazione nella teoria cristiana del peccato originale"
I vagoni al femminile sembrano i moderni ghetti di un apartheid rosa, nato
nella notte dei tempi e, che trae forza dal
maschilismo culturale e dal fanatismo religioso. In Pakistan si parla di “Eve teasing”,
un eufemismo per intendere pubblica
molestia sessuale che, trova una giustificazione nella teoria cristiana del peccato
originale. Perché se le donne sono vittime
di violenza, è colpa di una innata impurità
e una natura tentatrice, che da Eva in poi
sembra aver segnato il destino delle donne. L’espressione stessa di “Eve teasing”
d’altronde, coniata dagli stessi uomini che
la praticano, rivela lo scherno di una società
maschilista che non ha alcuna intenzione
di liberare Eva. Spesso le donne si ritrovano
a denunciare abusi e violenze a poliziotti
che rispondono con ulteriori violenze, perpetrando all’infinito il labirinto delle ingiustizie, che lascia le donne ammutolite nel
silenzio dell’isolamento.
Oggi la voce infantile ma sicura di Malala Yousafzai sembra diventare un grido
d’aiuto. Su quegli stessi autobus che oggi si
tingono di rosa, l’allora bambina di 15 anni
fu ferita gravemente alla testa dai proiettili
dei talebani pakistani saliti a bordo del pullman all’uscita di scuola. “Malala è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità”, dichiarava
il leader dei terroristi, che voleva eliminare
quella voce che ha raccontato al mondo
l’arretratezza di un popolo assediato dalla
barbarie del terrorismo.
Oggi Fatima Bhutto, nipote dell’ex premier Benazir uccisa da terroristi islamici,
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racconta in un romanzo, delle donne tenaci ma invisibili del suo Pakistan. Epure
la lotta per un Pakistan democratico non
sembra ancora portata a termine, se le moderne guerriere riescono a trovar pace solo
in vagoni protetti. Alla voce di Alla voce di
Malala fa eco quella della scrittrice italiana
Dacia Maraini che, vede nell’educazione e
nel rispetto dell’altro, la chiave di un cambiamento che parta dall’individuo.
Intervista a Dacia Maraini
Le donne subiscono ogni giorno e in
tutto il mondo violenze di ogni tipo, dalle
minacce psicologiche alle molestie fisiche, e sono sottoposte ai peggiori crimini,
dall’infibulazione all’infanticidio. L’inferno
delle “invisibili guerriere” non ha limiti.
La violenza sembra essere l’arma
dell’uomo che, afferma il suo potere sull’inferiorità della donna. Allora il punto è capire “quanto potere hanno le donne oggi?”,
come spiega Luisa Betti. Potere è certamente sinonimo di emancipazione, ma è
pur sempre difficile sradicare secolari tradizioni socio-culturali. Sia nelle società tribali
di Paesi arretrati sia in società sviluppate di
moderni stati democratici, la donna fa fatica a sfondare quel soffitto di vetro. E anche
le donne ai vertici del potere, continuano
a rimanere bersaglio di insulti e molestie
che derivano da una presunta inferiorità di
genere.
Se il potere non apre la strada al vero
cambiamento, probabilmente aveva ragione Malala che a soli 13 anni aveva compreso il valore dell’istruzione. “È nell’edu-
cazione che risiede il potere delle donne”,
affermava la più giovane candidata al Nobel per la Pace, che si batte per il diritto all’istruzione delle donne pakistane.
Oggi Wadjda non ha ancora avuto la sua
bicicletta verde, che sembra rimanere nelle
periferie della Riyad del film di Al-Mansour.
La lotta di Wadjda per la bicicletta verde
rappresenta l’estenuante battaglia delle
donne per sovvertire l’ordine di secolarismi
e tradizioni, che le rilegano in un’incontrovertibile inferiorità. Eppure le voci delle figlie di Benazir si fanno ogni giorno sempre
più forti.
R
Quindicinale della Scuola
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